ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

giovedì 3 agosto 2017

«Un’eterna bellezza», al Mart di Rovereto una mostra sull’arte italiana del primo Novecento

Dopo la devastazione della Prima guerra mondiale e le rivoluzioni avanguardiste di inizio secolo nell’arte europea emerge un’esigenza di equilibrio e stabilità che prende il nome di «ritorno all’ordine»: la ribellione futurista, espressionista e cubista cede il passo alla bellezza e all’armonia del periodo simbolista fino ad approdare alla riconquista della tradizione mediterranea anche attraverso linguaggi metafisici o richiami a una «moderna classicità».
L’«aspirazione verso il concreto, il semplice e il definitivo», per usare le parole di Margherita Sarfatti, è il fondamento che nutre la poetica di numerosi artisti a cavallo tra gli anni Venti e Trenta.
Generi tradizionali quali il ritratto, la figura, il paesaggio e la natura morta sono interpretati secondo un nuovo linguaggio che declina in chiave moderna i valori dell’arte antica e rinascimentale, a cominciare dal «ritorno al mestiere», alla maestria tecnica del fare artistico inteso come strumento di restituzione e trasfigurazione del reale alla ricerca di una dimensione trasognata e senza tempo.
A questa storia guarda la mostra «Un’eterna bellezza», a cura di Beatrice Avanzi e Daniela Ferrari, allestita fino al 5 novembre negli spazi del Mart di Rovereto, dove è in corso anche una grande retrospettiva dedicata ad Armando Testa e alle sue visionarie pubblicità.
Una selezione di circa cento opere di alcuni tra i più significativi protagonisti dell’arte italiana come Carrà, Casorati, de Chirico, de Pisis, Funi, Martini, Oppi, Savinio, Severini e Sironi, molti dei quali presenti anche nelle collezioni del museo trentino, propone un percorso espositivo in sette tappe che parla del recupero della tradizione, con un occhio rivolto alle lezione di Giotto, Masaccio e Piero della Francesca.
Ad aprire la mostra, della quale rimarrà documentazione in un catalogo di Electa Editore, è un omaggio alla Metafisica, che vede il suo principale esponente in Giorgio de Chirico, autore di una poetica di rarefazione formale, di visionaria percezione della realtà, di straniante relazione tra i luoghi e le cose, attenta recupero dell’arcaismo e della pittura giottesca e rinascimentale.
Il ritorno all’antico è centrale anche nel movimento Novecento, nato a Milano nel 1922 dal sodalizio di sette artisti -Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig, Oppi e Sironi- che fanno il proprio esordio l’anno seguente alla Galleria Pesaro di Milano, presentati da Margherita Sarfatti, e che espongono insieme alla Biennale di Venezia del 1924. Nei ritratti e nelle figure allegoriche dipinte da alcuni di questi autori, al centro della seconda sezione della mostra, l’antico è evocato dall’ambientazione ed è all’origine anche dello stile essenziale e solenne della rappresentazione, basato su un disegno accuratamente definito e su forme e volumi sintetici e maestosi.
Tra i temi al centro di questa stagione di ritorno all’ordine vi è la pittura di paesaggio con vedute urbane e luoghi della natura che affermano una piena riconquista dei valori pittorici fondati sulla tradizione.
Le architetture della periferia milanese «disegnate con il filo a piombo» da Sironi, proposte nella terza sezione della mostra, sono -si legge nella presentazione- «l’esempio più fulgido di questa capacità di rinnovare un genere pittorico, spogliandolo non solo di tutte le scomposizioni e frammentazioni avanguardiste ma anche dei residui del pittoricismo ottocentesco, approdando a una solida sintesi costruttiva».
L’esposizione roveretana permette di vedere anche le vedute di Milano e di Roma dipinte da Usellini e Donghi, oltre alle opere paesaggistiche di Carrà, nelle quali -afferma lo stesso artista- si ha una «trasformazione del paesaggio in poema pieno di spazio e di sogno».
Il percorso espositivo prosegue, quindi, con un focus sul genere della natura morta. A questo tema si dedicano con un’assiduità quasi esclusiva soprattutto de Pisis e Morandi, il primo dipingendo oggetti che paiono personaggi di una narrazione, il secondo trasformandoli, al contrario, in elementi quasi astratti. Anche Dudreville, Oppi, Donghi e Cagnaccio di San Pietro si confrontano con questo genere; nelle loro tele -si legge nella presentazione- «le cose sembrano osservate attraverso le lenti di un realismo talvolta esasperato, che per nettezza, luminosità, trasparenza e precisione nei dettagli ricorda la grande tradizione della natura morta fiamminga». Mentre le atmosfere evocate da Severini appaiono solenni e silenziose.
La mostra analizza, poi, il tema del ritratto. Un atteggiamento meditativo e malinconico, un distacco dalle cose del mondo che le circondano è ciò che si evidenzia principalmente nei soggetti raffigurati. In alcuni dipinti di Cagnaccio, Casorati, Donghi e Oppi lo «specifico tono di solitudine» delle figure, come lo definisce lo scrittore Giacomo Debenedetti, è trasposto in una dimensione incantata e sospesa, tipica del Realismo magico. In molti dei ritratti esposti si riconoscono, inoltre, scelte compositive e formali ispirate alla pittura rinascimentale, come la presenza di scorci paesaggistici inquadrati da finestre o balconi.
Anche il tema del nudo, ampiamente diffuso nella pittura italiana degli anni Venti, costituisce un’occasione di studio e di confronto con i modelli degli antichi maestri. A tal proposito le curatrici della mostra roveretana affermano: «nelle figure femminili dipinte da Casorati si legge l’eredità delle forme pure di Masaccio e Piero della Francesca; quelle di Marussig e di Celada da Virgilio discendono dalle Veneri rinascimentali di Giorgione e di Tiziano; mentre le forme opulente dei nudi di Malerba e Oppi condensano in forme sintetiche l’idea di bellezza della statuaria greca e romana».
Tra i grandi temi della tradizione riscoperti dalla pittura italiana del primo Novecento vi è, inoltre, quello della maternità, le cui radici affondano nell’arte sacra: la tela «Madre che si leva» di Virgilio Guidi, ricco di puntuali rimandi all’arte rinascimentale, e il quadro di Anselmo Bucci con una donna che allatta teneramente il suo bambino sono due esempi del genere esposti nella mostra trentina.
L’ultima sezione della rassegna, dall’atmosfera intima e introspettiva, guarda alla quotidianità e al susseguirsi delle varie età della vita esponendo ritratti di fanciulli in posa, bimbi che giocano, gruppi di famiglia e anziani genitori.
Classicità e modernità si incontrano, dunque, tra le sale del Mart per raccontare un momento storico nel quale gli artisti abbandonano le sperimentazioni avanguardiste per guardare al passato. Ma senza nostalgia, senza voglia di tornare indietro. Alla ricerca della perfezione, delle sue regole, delle armonie.

Didascalie delle immagini
[Fig.1]Felice Casorati, Ritratto di Renato Gualino, 1923-1924. Istituto Matteucci, Viareggio; [fig. 2] Giorgio de Chirico, Enigma della partenza, 1914. Fondazione Magnani Rocca, Mamiano di Traversetolo (PR); [fig. 3]Filippo de Pisis, Natura morta, 1924. Mart, Collezione L.F.; [fig. 4] Achille Funi, Saffo, 1924. Collezione privata. Courtesy Studio d’arte Nicoletta Colombo, Milano

Informazioni utili
«Un’eterna bellezza – Il canone classico nell’arte italiana del primo Novecento». Mart, Corso Bettini, 43 – Rovereto. Orari: martedì-domenica, ore 10.00–18.00; venerdì, ore 10.00-21.00; lunedì chiuso. Ingresso: intero € 11,00; ridotto gruppi, giovani dai 15 ai 26 anni e over 65 anni € 7,00, biglietto famiglia € 22,00. Informazioni e prenotazioni: numero verde 800.397760, info@mart.trento.it. Sito internet: www.mart.trento.it. Fino al 5 novembre 2017.

mercoledì 2 agosto 2017

Dai Maya agli Inca, a Napoli «il mondo che non c’era»

«Queste cose son più belle che delle meraviglie […] Nella mia vita non ho mai visto cose che mi riempissero di gioia come questi oggetti». Così scriveva, nel 1520, Albrecht Dürer di fronte ai regali di Montezuma a Cortés, giunti a Bruxelles dall’America del Sud, terra sconosciuta fino a pochi decenni prima. La scoperta di questo continente, avvenuta tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, scardina la visione culturale del tradizionale asse Roma – Grecia – Oriente e, secondo l’antropologo Claude Lévi- Strauss, è l’evento forse più importante nella storia dell’umanità.
Fu il grande esploratore Amerigo Vespucci a comprendere per primo che le terre incontrate da Cristoforo Colombo nel 1492 non erano isole indiane al largo del Cipango (Giappone) e neppure le ricercate porte dell’Eden, ma un Mundus Novus, un nuovo continente che pochi anni dopo alcuni geografi che lavoravano a Saint-Denis des Voges vollero chiamare, in suo onore, America.
Alle principali culture di questo territorio -quelle degli Olmechi, dei Maya, degli Aztechi e degli Inca- è dedicata la mostra «Il mondo che non c’era», allestita fino al 30 ottobre al Mann – Museo archeologico nazionale di Napoli. Al centro dell’esposizione -curata da Jacques Blazy, specialista delle arti pre-ispaniche della Mesoamerica e dell’America del Sud- c’è una delle principali raccolte italiane dedicate a quest’ambito di indagine: quella di Giancarlo Ligabue (1931- 2015), imprenditore ma anche paleontologo, studioso di archeologia e antropologia, esploratore e appassionato collezionista che partecipò ad oltre centotrenta spedizioni.
La mostra -realizzata anche grazie alla collaborazione di Inti Ligabue- racconta le antiche culture della cosiddetta Mesoamerica (gran parte del Messico, Guatemala, Belize, una parte dell’Honduras e del Salvador), il territorio di Panama, le Ande (Colombia, Ecuador, Perù e Bolivia, fno al Cile e Argentina), dalla cultura Chavin a Tiahuanaco e Moche, fno agli Inca.
Dalle rarissime maschere in pietra di Teotihucan, la più grande città della Mesoamerica, primo vero centro urbano del Messico Centrale, ai vasi Maya d’epoca classica, preziose fonti d’informazione, con le loro decorazioni e iscrizioni: è articolato il viaggio proposto dalla mostra napoletana, che vede nel comitato scientifico personalità del calibro dello studioso André Delpuech, direttore del Musée de l’Homme – Muséum d’Histoire Nationale Naturelle di Parigi, e dell’archeologo peruviano Federico Kauffmann Doig, entrambi anche componenti del comitato scientifico della Fondazione Giancarlo Ligabue di Venezia.
Tra i pezzi esposti sarà possibile ammirare delle statuette antropomorfe della cultura Olmeca, che tanto affascinarono anche il pittore Diego Rivera e la moglie Frida Kahlo, e le sculture Mezcala, tanto enigmatiche nella loro semplicità quanto misteriose nelle origini, al punto che ne restarono profondamente suggestionati divenendone collezionisti anche André Breton, Paul Eluard e lo scultore Henry Moore.
Sempre dal Messico arrivano delle statuette policrome di ceramica cava della cultura di Chupicuaro, il cui apogeo si situa tra il 400 e il 100 a.C., e urne cinerarie (dal 200 a.C. al 200 d.C.) della cultura Zapoteca, databili tra il 200 a.C. e il 200 d.C.. Sono, poi, esposte sculture azteche, esempi pregevoli delle Veneri ecuadoriane di Valdivia, oggetti Inca, tessuti e vasi della regione di Nazca, manufatti dell’affascinante cultura Moche, straordinari oggetti in oro.
Purtroppo proprio l’oro, che spingerà nelle Ande spagnoli ed avventurieri alla ricerca del mitico El Dorado, segnò la fine delle culture degli Aztechi e degli Inca, schiacciati con le armi e con la schiavitù dai conquistatori. Milioni di indio moriranno anche a causa delle malattie arrivate dal Vecchio Mondo. Dovranno passare almeno quattro secoli, prima che l’Europa prenda nuovamente coscienza della grandezza dell’arte dell’America antica e ancora oggi sfuggono molti aspetti di queste culture.
La mostra al Museo archeologico nazionale di Napoli permette, dunque, di approfondire alcuni aspetti di queste civiltà, ma anche di ricordare gli storici legami della città campana non solo con la Spagna tra XVI e XVIII secolo, ma anche con l’immenso impero spagnolo cresciuto a dismisura all’epoca dei Conquistadores e portatore di ricchezze a scapito, appunto, dei popoli meso e sudamericani. E i debiti in termini di progresso economico e di ampliamenti culturali nei confronti del Nuovo Mondo sono evidenti: pensiamo ad alcuni alimenti (cacao, pomodori o patate) che sono arrivati per mediazione delle cucine della Corte spagnola nella tradizione alimentare del regno di Napoli e che oggi costituiscono la base di piatti considerati della tradizione locale. Ma ricordiamo anche il gioco con il pallone “di gomma” che scopriremo, grazie alle raffigurazioni in mostra sul tema, essere profondamente e anticamente radicato nella civiltà e nella ritualità mesoamericana.
Va del resto ricordato che lo stesso Carlo III di Borbone diede un contributo importante alla riscoperta dell’archeologia precolombiana, in particolare del sito maya di Palenque. Il complesso, definito la Pompei dei Maya, fu esplorato da una spedizione alla quale parteciparono Antonio Bernasconi, allievo di Luigi Vanvitelli, e alcuni studiosi che parteciparono ai primi scavi di Pompei ed Ercolano. Un’occasione, dunque, quella della mostra di Napoli per conoscere attraverso duecento opere vite, costumi e cosmogonie di un mondo entrato nella Storia.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Tessuto e copricapo. Cultura Nazca, 200. A. C.. Piume di uccelli amazzonici e corda. Altezza: 46 cm. Altezza banda: 12 cm Larghezza: 38 cm. Venezia, Collezione Ligabue; [fig. 2] Vaso o tazza votiva, Cultura Nazca - Perù, I-II secolo d.C. Ceramica con decorazioni di esseri mitologici. Altezza: 10,5 cm, diametro: 13 cm. Venezia, Collezione Ligabue; [fig. 3] Maschera. Cultura Chimù-Lambayeque, 1300 d.C.. Maschera funebre in rame ricoperto da lamina d’oro. Altezza 26 cm. Venezia, Collezione Ligabue

Informazioni utili 
«Il mondo che non c’era». Museo archeologico nazionale di Napoli, piazza Museo, 19 - Napoli. Orari: ore 09.00 – 19.30; chiuso il martedì. Ingresso: intero € 12,00, ridotto € 6,00, per altre tariffe si consiglia di consultare il sito www.museoarcheologiconapoli.it. Informazioni: tel. 081.4422149. Sito internet: www.ilmondochenoncera.it. Fino al 30 ottobre 2017. 

martedì 1 agosto 2017

«Bestiale!», quando il cane e il gatto diventano star del cinema

Ci sono proprio tutti alla Mole Antonelliana di Torino: Rin Tin Tin e Lassie, l'orca Keiko del film «Free Willy» e «Furia il cavallo del West», il gatto di «Colazione da Tiffany» e gli «Uccelli» di Hitchcock, ma anche il maialino Babe, il gufo di Harry Potter, «Francis il mulo parlante», la scimmia Cita di Tarzan e non solo. Gli animali resi famosi dal grande schermo sono i protagonisti della mostra «Bestiale! Animal Film Stars», a cura di Davide Ferrario e Donata Pesenti Campagnoni, con la collaborazione di Tamara Sillo e Nicoletta Pacini, che il Museo del cinema di Torino accoglie fino al prossimo 8 gennaio.
Animatronics, oggetti di scena, costumi, storyboard, bozzetti, disegni, sceneggiature, libri, fotografie, manifesti e materiali pubblicitari, brochure e programmi di sala, per un totale di oltre quattrocento opere, compongono il percorso espositivo che documenta l'esistenza di oltre duecentosettanta animali-attori, tra cui quarantuno stelle del cinema, e più di duecentottanta film dedicati all'argomento.
Tra i prestatori ci sono l'Academy of Motion Picture -quella degli Oscar- la Cinémathèque française, il Bafta di Londra e collezionisti privati come il premio Oscar per gli effetti speciali John Cox e gli storyboard artists Giacomo Ghiazza, Davis Russell e Jason Mayah.
Due i filoni di indagine della mostra, di cui rimarrà documentazione in un catalogo di Silvana editoriale. «Il primo -spiegano gli organizzatori- racconta cos’è un animale star e, in particolare, qual è la relazione tra icona popolare e animale in carne e ossa (spesso non un singolo, ma più di uno, che lo interpretano sullo schermo). Il secondo indaga il ruolo dell’animale-attore, interrogandosi se esista una recitazione animale, soprattutto oggi, quando animatronics ed effetti speciali digitali spingono verso personaggi di animali che sembrano sempre più esseri umani, mutandone la natura stessa».
Ad aprire il percorso espositivo sono gli esperimenti pre-cinematografici di Eadweard Muybridge, che nel 1878 cercò di documentare la corsa di un cavallo, e un fotogramma di «Adieu au langage» («Addio al linguaggio», 2014), l’ultimo film di Jean-Luc Godard, che ha per co-protagonista il suo cane.
La rassegna documenta, poi, come la storia del cinema abbia spesso creato intorno a molti cani e gatti, ma anche cavalli, topi o pinguini una storia da umani, dotandoli di personalità e – talvolta – di linguaggio. Sono nati così dei premi che danno riconoscimento al talento cinematografico degli animali-attori come lo storico PATSY Award (acronimo di Picture Animal Top Star of the Year e di Performing Animal Television Star of the Year), creato nel 1951 dall’American Humane e assegnato ininterrottamente fino al 1896, o il Palm Dog Award, istituito nel 2001 dal giornalista Toby Rose e assegnato nei giorni del Festival di Cannes. A dire il vero c’è anche chi pensò di candidare un animale all’Oscar con tanto di campagna mediatica. Il fortunato fu il cagnolino Uggie del film «The Artist», che letteralmente rubò la scena (e l'affetto del pubblico) al protagonista Jean Dujardin. Pure Donald O'Connor, protagonista della serie «Francis», si ritrovò a competere per la notorietà con il famoso mulo parlante ed esasperato dal successo del suo collega-animale lasciò la serie -dicono i ben informati- con le parole «Quando giri sei film e il mulo riceve più posta dai fan di te, qualcosa non va...».
Gli animali, in effetti, hanno sempre suscitato un grande interesse nel pubblico sin dagli esordi del cinema. Basti pensare che la prima pellicola con un quadrupede fu girata nel 1897 dai fratelli Lumière, che dedicarono al pranzo di un gattino uno dei loro primissimi film: «Le déjeuner du chat». Ecco così scorrere lungo le pareti del museo torinese le storie di animali che hanno fatto sognare, sorridere, spaventare ed emozionare svariate generazioni di grandi e piccoli spettatori: da Zanna Gialla a King Kong, dallo squalo di Spielberg al vero e proprio zoo che fu messo in piedi per girare il kolossal «La Bibbia», diretto nel 1966 da John Huston. A completamento della mostra sono stati ideati numerosi eventi: da laboratori per i più piccoli a incontri con gli insegnanti, da visite guidate a feste di compleanno a tema, fino all’attesa rassegna cinematografica in programma dall’11 ottobre al 1° novembre al cinema Massimo. Un’occasione per vedere quanto sia stato determinante l’apporto degli animali per la storia della settima arte.

Didascalie delle immagini 
[Fig. 1] King Kong, John Guillermin, USA, 1976  Jessica Lange (Dwan) e il braccio meccanico di King Kong. King Kong di John Guillermin, USA, 1976.  ©Angelo Frontoni/Cineteca Nazionale-Museo Nazionale del Cinema; [fig. 2] L’orca assassina di Michael Anderson, USA, 1977. Disegno di progettazione dello scenografo Mario Garbuglia per la costruzione delle orche. Collezione Museo Nazionale del Cinema; [fig. 3] 102 Dalmatians di Kevin Lima, USA, 2000. Animatronic di un cucciolo di dalmata; [fig. 4]Fumetti degli anni ’60 - ’70 tratti dalla serie televisiva Lassie. Collezione Museo Nazionale del Cinema 

Informazioni utili 
«Bestiale! Animal Film Stars». Museo Nazionale del Cinema – Mole Antonelliana, via Montebello, 20 – Torino. Orari: dalla domenica al venerdì, ore 9.00-20.00; sabato, ore 9.00-23.00; chiuso il martedì; aperture straordinarie nei giorni del 1° ottobre (Halloween), 1° novembre (Ognissanti), 8 dicembre (Immacolata), 24 dicembre (Vigilia di Natale), 25 dicembre (Natale), 26 dicembre (S. Stefano), 31 dicembre (Vigilia di Capodanno), 1° gennaio 2018 (Capodanno), 2 gennaio 2018 e 6 gennaio 2018 (Epifania).Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8,00, ridotto speciale € 3,00. Informazioni: tel. 011.8138.560 / 561 o info@museocinema.it. Sito internet: www.museocinema.it. Fino all’8 gennaio 2018.