ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

giovedì 21 giugno 2018

Ad Arezzo i cavalli di Gustavo Aceves

È una mostra itinerante quella che Gustavo Aceves (Città del Messico, 1957), artista messicano che oggi vive e lavora a Pietrasanta, propone ad Arezzo.
Oltre duecento opere distribuite in cinque sedi espositive compongono il percorso della mostra «Lapidarium: dalla parte dei vinti», una delle tappe fondamentali del suggestivo progetto a cui l’artista sta lavorando dal 2014. San Francesco, la sala Sant’Ignazio, il sagrato del Duomo, piazza Vasari e la fortezza Medicea sono le sedi scelte per questa riflessione sui concetti di viaggio e di migrazione. Con le sculture esposte realizzate con materiali tra i più vari come pietra, bronzo, resina e legno, solo per fare qualche esempio, Aceves intende ricreare idealmente le peregrinazioni della «Quadriga di San Marco», opera che l’artista messicano, appena ventenne ebbe modo di ammirare nella sua Città del Messico, restandone folgorato. Erano gli anni ’70 e prima di essere musealizzati, quegli antichissimi cavalli bronzei provenienti da Costantinopoli, percorrevano un ultimo giro attorno al mondo, che avrebbe messo fine alla serie di migrazioni delle quali, sin dal XIII secolo, erano stati protagonisti.
Da lì è nata l’idea di dare vita a un’opera che potesse ripercorrere lo stesso itinerario fatto dalla «Quadriga di San Marco»: il Lapidarium di Aceves propone così statue dedicate al cavallo, simbolo che evoca il movimento, lo spostamento.

Come nei classici lapidari museali, dove sono conservati frammenti di opere antiche con cui ricostruire la storia, anche l’opera dell’artista messicano è caratterizzata dal «frammento», elemento attraverso il quale ciascuno può recuperare le radici della propria storia.
Il viaggio dei cavalli di Aceves è il viaggio dei popoli migranti, una tema di grande attualità, ma che in assoluto caratterizza ciclicamente l’intera storia dell’umanità. I suoi cavalli itineranti sono mutilati, scheletrici, sopravvissuti: una sorta di monumento equestre inverso, dedicato non ai vincitori ma ai vinti, agli antieroi di ieri, di oggi, di sempre.
Non mancano, poi, i motivi per i quali la mostra «Lapidarium: dalla parte dei vinti» trova una sede privilegiata nella città di Arezzo, il cui simbolo araldico è un cavallo e che ai cavalli affida la celebrazione della sua festa più importante: la Giostra del Saracino. Inoltre alla «Quadriga di San Marco» si legano due episodi importanti: nel 1364, fu l’aretino Francesco Petrarca, ospite d’onore ai festeggiamenti per la sottomissione di Candia alla Repubblica di Venezia, a dare annuncio dell’avvenuto trasferimento del gruppo equestre alla corte dei dogi veneziani. Infine la quadriga ha un rimando immediato a Costantino, figura importante per il percorso umano e intellettuale dello scultore messicano, la cui storia trova nella città toscana la propria consacrazione nel racconto affrescato da Piero della Francesca.
Arezzo offre, dunque, un motivo in più in questi giorni per perdersi tra le sue strade del centro storico: andare alla ricerca dei cavalli mutilati di Aceves, artista che ha già portato il suo progetto in città come Berlino, Roma, Istanbul, Parigi e Venezia con l’intento di evocare, con i suoi scheletri di galeoni spagnoli, il viaggio dei barconi naufragati nelle acque del Mar Mediterraneo, raccontando così gli antieroi di ieri, di oggi, di sempre.

Informazioni utili 
«Lapidarium: dalla parte dei vinti» ad Arezzo. Sedi espositive: San Francesco | Sala Sant’Ignazio | Sagrato del Duomo | Piazza Vasari | Fortezza Medicea . Orari: dalle ore 10.00 alle ore 19.00; giorno di chiusura: lunedì. Ingresso: € 3,00; accesso gratuito per i minori di 12 anni; i biglietti sono acquistabili presso le sedi espositive di Sant’Ignazio e Fortezza Medicea oppure presso l’Info Point di Piazza della Libertà, 1. Informazioni: tel. 0575.356203. Sito internet: www.arezzoaceves.wordpress.com. Dal 16 giugno al 14 ottobre 2018.

martedì 19 giugno 2018

Caserta, Marco Lodola e Giovanna Fra dialogano con la Reggia e la sua storia

Passato e presente si incontrano nelle sale della Reggia di Caserta grazie al progetto espositivo «Marco Lodola – Giovanna Fra. Tempus – Time», che vede la curatela di Luca Beatrice e l’organizzazione di Mary Farina e Augusto Ozzella, con la collaborazione della galleria Deodato Arte.
«La mostra -sottolinea Mauro Felicori, direttore dell’istituzione napoletana- si inserisce nell’importante storia del rapporto che il museo ha avuto con l’arte contemporanea e con la variegata polifonia dei suoi linguaggi, un dialogo lungo e intenso che si è rinnovato costantemente nel corso degli anni nel confronto continuo e forte, sentito tra epoche e stili, che rende sempre attiva e feconda la vita di uno spazio museale così significativo».
Il titolo della mostra, allestita fino al prossimo 15 settembre, è un voluto riferimento al trait d’union che Marco Lodola e Giovanna Fra, grazie alle loro opere, creano fra il Tempus, la dimensione temporale legata all’antichità, al classico, alla storica sede espositiva, e il Time, sintesi del mondo contemporaneo.
Il percorso espositivo -del quale rimarrà documentazione in un catalogo di Skira editore, con testi, tra gli altri, di Renzo Arbore, Jovannotti e Piero Chiambretti, ma anche di critici quali Achille Bonito Oliva, Philippe Daverio, Gillo Dorfles, Martina Corgnati e Vittorio Sgarbi- si compone di una selezione di opere dei due artisti, che dall’ingresso si snoda negli spazi interni, nel parco reale, fino ad arrivare agli appartamenti del piano nobile.
L’immenso parco della sontuosa villa, nel raggio di un chilometro, è punteggiato da oltre venti monumentali sculture luminose di Marco Lodola, che rappresentano alcuni dei suoi soggetti tipici, uomini e donne, ballerini, danzatrici, animali, figure reali e immaginarie, che metaforicamente partecipano a una festa di corte.
Questi lavori, oltre al forte impatto creato grazie alla loro imponenza e alla vivacità dei colori, si caratterizzano per la loro peculiarità: l’emanare luce, che genera dinamismo, potenza, vitalità; qualità che non riguardano solamente le opere in sé, ma che vengono trasmesse anche all’ambiente circostante.
Le installazioni di Lodola appaiono in grande sintonia con le tele di Giovanna Fra che accolgono il visitatore negli appartamenti reali e, con il loro forte cromatismo, incarnano perfettamente quell’arte contemporanea in cui la contaminazione di tecniche e la sperimentazione sono elementi imprescindibili. L’artista si misura con lo spazio interno e l’architettura vanvitelliana, reinterpretando nelle sue opere i motivi decorativi settecenteschi, arazzi, carte da parati, arredi barocchi e neoclassici, attraverso il linguaggio segnico, costituito da tracce di colore dalle forme imprevedibili e uniche, da textures astratte che si intrecciano con le trame del supporto digitale.
I suoi lavori di matrice informale abbandonano, infatti, i mezzi tradizionali e, partendo da frame fotografici stampati su tela, Giovanna Fra arriva al risultato finale, percorrendo un cammino a ritroso, che la conduce a terminare l’opera con delle pennellate tradizionali, un’ulteriore dimostrazione del legame fra tempus e time e nel caso specifico del «passaggio da time a tempus».
Seppure provenienti da formazioni diverse i lavori di Marco Lodola e Giovanna Fra creano un profondo dialogo e si completano vicendevolmente, ma soprattutto instaurano un forte legame con il luogo che li ospita, come afferma Luca Beatrice nel testo dedicato alla mostra: «Dialogare con stucchi, decorazioni, pitture di genere e, soprattutto, con un’architettura di inestimabile pregio può costituire infatti una sfida ardua eppure affascinante per gli artisti contemporanei, a partire dall’utilizzo di materiali anomali che solo da poco sono entrati nel novero appunto dell’artisticità. Senza contare volumi, cubature e l’immensità di un parco che farebbe spaventare chiunque. […] Realizzare un cortocircuito visivo tra il tempus e il time, ovvero il passato e il presente, è rischio che l’arte di oggi sente di correre con sempre maggior frequenza. Ora, in particolare, tra pittura, elaborazione digitale, plastica e luce».

Informazioni utili 
Marco Lodola – Giovanna Fra. Tempus – Time. Reggia di Caserta, via Douhet, 2/A – Caserta. Orari: Appartamenti storici - tutti i giorni dalle  ore 8.30 alle ore 19.30 (ultimo ingresso ore 19 - uscita dal museo 19.25) | Parco, dalle 8.30 alle 19 (ultimo ingresso ore 18) | Giardino Inglese - dalle 8.30 alle 18 (ultimo ingresso ore 17); martedì chiusura settimanale; aperture serali straordinarie dalle 19.30 alle 22.30 nelle giornate dal 23, 30 giugno; 4, 7, 14, 21 luglio; 10 agosto; 9, 15 settembre con biglietto di ingresso a € 3,00. Ingresso: mostra compreso nel biglietto della Reggia | Appartamenti storici, Parco e Giardino Inglese € 12,00 intero, € 6,00 ridotto | Solo Appartamenti Storici (acquistabile quando il parco è chiuso) € 9,00 intero, € 4,50 ridotto; la prima domenica di ogni mese: Appartamenti storici gratuito - Parco della Reggia € 5,00 intero, € 2,50 ridotto, gratis fino a 18 anni. Informazioni al pubblico: www.tempustime.com - info@tempustime.com. Fino al 15 settembre 2018. 

domenica 17 giugno 2018

«Resistere»: con il crowdfunding un viaggio fotografico nel cuore terremotato del Centro Italia

Si intitola «Resistere. Nel cuore terremotato del Centro Italia» ed è un libro fotografico alla cui realizzazione potranno contribuire tutti. Il volume, realizzato da Alessio Pagani e Francesco Fiorello per le edizioni Seipersei di Stefano Vigni, è, infatti, da poco sbarcato su Ulule, la principale piattaforma di reward-based crowdfunding d’Europa.
Chiunque potrà sostenere il progetto e ricevere a casa il volume che, attraverso decine di fotografie in bianco e nero riunite sotto il nome Genziana Project, racconta i venti mesi successivi al sisma che, il 24 agosto 2016, ha cambiato il Centro Italia.
Amatrice, Accumoli, Arquata del Tronto, Visso, Ussita, Castelsantangelo sul Nera, Pescara del Tronto, Camerino, Norcia, Castelluccio sono alcuni dei paesi al centro del racconto, che permette di conoscere più da vicino la quotidianità delle zone terremotate sin dai primissimi momenti, la sua evoluzione e le situazioni di difficoltà in cui le persone sono costrette a vivere tutt'oggi.
Si tratta di un progetto importante che ha un solo obiettivo: portare in tutta Italia le immagini e le storie di chi, nonostante tutto, ha scelto di resistere e restare in piedi.
Lo raccontano bene le parole dei due fotoreporter autori delle immagini raccolte nel volume: «Ho un’immagine impressa del 24 agosto 2016 -spiega Alessio Pagani-. A Pescara del Tronto c’è distruzione totale, ma una porta è lì ferma che rimane in piedi. In quel momento ho pensato che non tutto fosse perduto, né per le persone né per noi fotografi: potevamo raccontare non soltanto il dramma, ma anche la grande voglia di riscatto».
«Il cuore del libro fotografico ‘Resistere’ -aggiunge Francesco Fiorello- è la gente dell’Appennino ferito: per questo con il nostro lavoro abbiamo cercato di essere più obiettivi possibile senza però dimenticare mai di stare dalla parte delle popolazioni e della loro resistenza».
«Nelle nostre foto -spiegano entrambi- ci sono le macerie ancora per le strade, la non ricostruzione, le difficoltà. Ma ci sono anche la forza di volontà delle persone che abbiamo conosciuto e fotografato, la loro voglia di restare o ritornare appena possibile, i loro sforzi per andare avanti nonostante tutto, le loro proteste, manifestazioni e marce sempre troppo poco prese sul serio».
Dall’attesa per le soluzioni abitative d’emergenza alla riapertura di una strada, passando per le piccole meraviglie quotidiane come la semina a Castelluccio e ogni tentativo di rinascita che, nonostante tutto, si prova a mettere in campo nei luoghi del terremoto: «Resistere» è la realtà del Centro Italia, «è la fotografia di un popolo indomito che nonostante tutto continua a camminare a testa alta. Chinandosi – chiosano i due autori- solo «per cogliere la genziana», come ci hanno insegnato gli abitanti di quelle terre».
Il lavoro di Alessio Pagani e Francesco Fiorello ha i ritmi lenti di chi ha continuato a scattare anche quando è terminata l’emergenza della quotidianità che si fa cronaca. La loro è una narrazione che non si è mai sottomessa alla pressione di qualche testata dai modi troppo frettolosi per far le cose come si deve, «per seguire – scrive Davide Burchiellaro, vice direttore di «Marie Claire»- l’avventura di una lenticchia che deve germogliare lì, proprio lì, nella Piana di Castelluccio a dispetto delle strade dissestate». Perché la vita vince sempre.

Informazioni utili 
https://it.ulule.com/resistere/

venerdì 15 giugno 2018

Francesco Tricarico in mostra a Bologna: quando le note diventano arte

L’arte sposa le sette note al Museo internazionale e biblioteca della musica di Bologna. Fino al 24 giugno le sale del cinquecentesco Palazzo Sanguinetti, che si affaccia su Strada Maggiore, aprono le porte a Francesco Tricarico, cantautore italiano, immaginifico e naif, che ha debuttato nel mondo del pop, all’inizio del millennio, con il singolo «Io sono Francesco» e che, da allora, ha regalato agli amanti della musica leggera italiana album dal sapore poetico, capaci di metterci davanti a tutta la felicità e la malinconia del mondo facendoti stare bene, come «Drago», «La pesca» e «Frescobaldo nel recinto».
Dal 2015 Francesco Tricarico si dedica anche alle arti visite e da questa sua nuova passione prende spunto il progetto espositivo «Quando la musica si mostra. Una nota al museo», curato da Olivia Spatola e organizzato con la galleria Fabbrica Eos di Milano.
L’esposizione, che si avvale anche della collaborazione di Musiche Metropolitane e Vittorio Corbisiero Management, ben si sposa con la storia di Palazzo Sanguinetti, al cui interno sono conservate le prestigiose collezioni di beni musicali della città di Bologna, in un percorso di visita che si snoda attraverso nove sale a ripercorrere sei secoli di storia della musica europea, con oltre un centinaio di dipinti, più di ottanta strumenti musicali antichi ed un'ampia selezione di documenti storici di grande pregio.
L’intento della mostra di Francesco Tricarico è quello di far dialogare l’arte con la musica all’interno di uno stesso spazio che è al contempo sia fisico che metaforico: il concetto della musica in quanto segno espresso - scritto, di contenitore di significanti e di significati che suonano anche quando gli strumenti non sono sfiorati dalle dita del musicista.
In questo spazio che potremmo definire del «silenzio cageano», in cui lo spettatore ha la sensazione di ascoltare qualcosa anche se tutto tace, le opere di Francesco Tricarico svelano in quale modo è possibile controllare e organizzare le nostre percezioni.
I lavori selezionati sono sette come il numero delle note musicali e le sale del museo in cui il percorso artistico si dispiega. Ed è così che le stanze abbandonano temporaneamente la loro consueta numerazione per diventare contrassegnate -attraverso i dipinti dell’artista- dai nomi delle note musicali: la «Stanza del Do», la «Stanza del Re», la «Stanza del Mi», la «Stanza del Fa», la «Stanza del Sol», la «Stanza del La» e la «Stanza del Si». Ma non solo.

In questo caso, il segno - ovvero la relazione tra significante e significato - rappresentato dalla denominazione delle stanze, diventa anche simbolo: vale a dire una realtà altra, che va oltre e da ricomporre; l’espressione dell’inconscio collettivo da cui emergono processi di trasformazione tra ciò che è noto e ciò che non lo è, coinvolgendo lo spettatore.
La «Stanza del Do», dunque, -in questo gioco fra segno e simbolo- non è soltanto la sala in cui Tricarico omaggia la prima nota musicale, ma anche del Do-minus; la «Stanza del Re» del Re-gnare; la «Stanza del Mi» del Mi-stero; la «Stanza del Fa» del Fa-re; la «Stanza del Sol» del Sol-o; la «Stanza del La» del La-voro e la «Stanza del Si» del Si-lenzio, che chiude concretamente e allegoricamente la mostra.
Cos'è l’arte per Francesco Tricarico? È un modo di tornare alla vita, un riscatto, una rivincita, una grande occasione di scoperta e di de-costruzione di tutti i sistemi dell’essere umano. La passione per la pittura nasce fra i banchi di scuola e precisamente durante le lezioni di educazione tecnico-artistiche alle scuole medie: «Ho un grande ricordo di quel periodo -racconta l’artista-. Mentre disegnavo linee diagonali e curve per poi riempirle di colore, mi trovavo a partorire pensieri enormi che forse avrei dovuto affrontare un po’ più avanti. Ma siccome già li affrontavo, la ritualità di quei disegni mi dava la giustificazione di assentarmi e allontanarmi momentaneamente da tutti i miei amici perché mi sentivo in difetto: avevo argomenti che non potevo condividere con loro, c’era la morte, la morte di mio padre, pensieri troppo difficili da gestire. Riempire gli spazi di colore era un modo per riflettere sulla mia solitudine. Per cui -l’arte come la musica- giustificava me stesso e la mia esigenza di prendermi del tempo. Quel mondo dava una sensazione di protezione che poi con il tempo ho rielaborato».
I suoi quadri sono frutto di una ricerca interiore unita alla necessità di produrre contenuti dal valore universale, che lo uniscano agli altri nel concetto di bellezza condivisa. Per Tricarico dipingere non è un tentativo di fuga dalla realtà ma un modo di esserci: «è un modo di essere nella realtà interpretandola. Osservandola in altri modi, osservandola su una tela, innesca un un modo diverso di pensare e l’atto creativo rappresenta un momento che altrimenti non si fermerebbe ed invece si ferma. Tutto ciò mi suscita stupore».
L’arte di Tricarico è un grande caos ordinato, come afferma l’artista stesso. I soggetti delle sue opere cambiano, non sono mai gli stessi. La sua è una ricerca continua, legata a tutti i sensi, alla vista e soprattutto a ciò che non si vede: Tricarico è affascinato dalle cose che non sono visibili ma che allo stesso tempo possiamo intuire, percepire.
I suoi quadri sono delle chiavi d’accesso, piccole magie che aprono altre porte: «la tela mi svela qualcosa che prima non c’era, aiuta a farmi capire cose che probabilmente ancora non so».

Informazioni utili
Mostra personale di Francesco Tricarico. Museo internazionale e biblioteca della musica, Strada Maggiore, 34 – Bologna Orari di apertura: da martedì a domenica (festivi compresi), ore 10.00 – 18.30; lunedì chiuso. Ingresso (comprende l'accesso al museo): intero € 5,00, ridotto € 3,00, gratuito per possessori Card Musei Metropolitani Bologna e ogni prima domenica del mese. Informazioni: Museo internazionale e biblioteca della musica, Strada Maggiore, 34 – Bologna, tel. +39 051 2757711 o museomusica@comune.bologna.it. Sito internet: www.museibologna.it/musica. Fino al 24 giugno 2018. 

mercoledì 13 giugno 2018

Venezia, in mostra a Palazzo Fortuny la «stanza di Zoran»

Nel 1950 Zoran Music (Bocavizza, 1909 - Venezia, 2005) ricevette, da parte delle sorelle Charlotte e Nelly Dornacher, l’incarico di decorare il seminterrato della loro villa a Zollikon, nei pressi di Zurigo.
L’insieme doveva costituire un esempio di opera d’arte totale: oltre alle pitture su intonaco, tela di lino e juta, l’artista disegnò i motivi decorativi ricamati sulle tende e sulla tovaglia che ornavano la sala. Alcuni mobili, seppure non progettati da lui, furono scelti con il suo accordo a completamento dello spazio destinato a riunioni conviviali.
La maggior parte dei dipinti furono eseguiti direttamente sull’intonaco murario, cinque composizioni erano su tela di lino tesa su supporti fissati al muro, mentre per la decorazione della porta d’entrata fu utilizzata la tela di iuta: lo stesso tessuto delle tende e di una tovaglia ricamata su disegno dell’artista, che ne scelse i colori e i differenti punti di ricamo.
Dopo anni di incuria e abbandono la stanza è stata recuperata grazie all’intervento di Paolo Cadorin, cognato di Music, direttore del dipartimento di restauro del Kunstmuseum di Basilea, che ha supervisionato lo stacco degli intonaci, il loro trasferimento su pannelli alveolari in alluminio e il recupero delle tele e degli arredi.
Un complesso lavoro portato a termine dai suoi allievi, restituisce finalmente al pubblico la «stanza di Zoran», ricomposta ora a Palazzo Fortuny come elemento centrale di una mostra omaggio al suo autore, curata da Daniela Ferretti e promossa dalla Fondazione Musei civici di Venezia con il sostegno di Charlotte und Nelly Dornacher Stiftung.
L'esposizione presenta, inoltre, un’ampia e accurata selezione di opere realizzate tra il 1947 e il 1953, provenienti da collezioni private e dall’archivio dell’artista.
Sono gli anni del ritorno alla vita dopo le sofferenze dell’esilio e del campo di concentramento; gli anni dell’approdo, tanto agognato, nella solare Venezia. Ed è allora che accetterà di dipingere per le amiche di Paolo Cadorin -come aveva fatto nel suo studio, a quel tempo all’ultimo piano di Palazzo Pisani- le pareti e il soffitto di una cantina, come si usava nel dopoguerra nelle caves di Parigi, per rifugiarsi a ballare o a scaldarsi.
Ne farà un inno alla vita, ricoprendo la cantina di pitture a fresco con quella stessa tecnica usata prima della guerra per decorare le chiese distrutte del Friuli. Un inno in cui egli inserisce tutto il suo universo.
I motivi profusi da Music in questa sala -di una ricchezza quasi vertiginosa– costituiscono, infatti, nel loro complesso, una sorta di summa iconografica della produzione artistica di quegli anni: dai motivi dalmati di donne a cavallo, col parasole, agli asinelli e cavallini nel paesaggio roccioso o danzanti nel vuoto; dai traghetti affollati di cavalli o bovini alle fasce decorative a losanghe, righe, tondi o scandole; dai volti incorniciati e ieratici che ricordano Campigli a un ritratto iconico di Ida allo specchio e al proprio autoritratto.
E poi le vedute di Venezia: le cupole e la facciata della Basilica, Palazzo Ducale, balaustre, archi, i portici della piazza, il Bacino di San Marco, San Giorgio, la Dogana, i bragozzi.
Soni gli stessi temi che ricorrono nelle altre opere in mostra: acquerelli, tempere su carta, oli su tela, pastelli in una pittura dominata da colori minerali e polverosi, che richiama Bisanzio e il mondo ingenuo dell’infanzia; ma anche incisioni e opere realizzate a puntasecca.
Di grande interesse, provenienti dall’Archivio Cadorin Barbarigo Music, sono anche gli studi preliminari per un arazzo intitolato «Storia di Marco Polo», di dimensioni notevoli (2,5 m di altezza su una base di 8 circa, formato al centro in basso «Music 1951») destinato in origine al soggiorno di prima classe del transatlantico Augustus. È una narrazione, una sorta di fregio, diviso in nove episodi. Disegni ricchi di particolari che in realtà si perderanno nella tessitura in un processo di rarefazione delle forme.

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Zoran Mušicˇ, Veduta di San Giorgio Maggiore e bragozzi. Dettaglio del soffitto, Olio su intonaco. Collezione privata; [fig. 2] Zoran Mušicˇ, Veduta di Venezia: Bacino di San Marco con l’Isola di San Giorgio Maggiore. Dettaglio di parete. Olio su tela di lino. Collezione privata; [fig. 3] Zoran Mušicˇ,Motivo dalmata, 1947 Tempera su cartone Collezione privata Foto Claudio Franzini,  Venezia, Archivio Cadorin Barbarigo Mušic

Informazioni utili 
Primavera a Palazzo Fortuny. Museo di Palazzo Fortuny, San Marco - San Beneto - 30124 Venezia. Orari: 10.00-18.00; chiuso il martedì. Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8.00. Informazioni: www.fortuny.visitmuve.it | info@fmcvenezia.it | 848082000 (dall’Italia) | +3904142730892 (dall’estero). Fino al 23 luglio 2018.