«Se una star è quasi sempre garanzia di successo, due insieme promettono faville». Sembra essere questo, secondo l’agenzia Ansa, il fil rouge del nuovo anno teatrale in Italia, dove, tra grandi reunion e nuove affinità, «in locandina si punterà sempre più sul confronto a due».
Su una coppia scommette anche il cinema teatro Manzoni di Busto Arsizio per l’inizio della sua nuova stagione teatrale. Venerdì 27 ottobre a calcare le assi del palcoscenico di via Calatafimi saranno, infatti, Lorella Cuccarini e Giampiero Ingrassia, gli straordinari protagonisti del musical «Grease» che, dopo vent'anni, tornano nuovamente in scena insieme nella commedia «Non mi hai più detto ti amo», scritta e diretta da Gabriele Pignotta.
Si apre, dunque, in grande stile la programmazione della sala di via Calatafimi che, fino a venerdì 4 maggio 2018, vedrà succedersi sul suo palcoscenico otto spettacoli teatrali capaci di accontentare i gusti di un pubblico eterogeneo.
Commedia brillante, prosa classica e di impegno civile, one woman show comico e cabaret musicale sono solo alcuni dei generi scenici che compongono il cartellone, nel quale spiccano i nomi di conosciuti e apprezzati protagonisti del teatro e della cultura italiana come Geppi Cucciari, Sergio Assisi, Vanessa Gravina, Valentina Lodovini, Ivano Marescotti e Max Pisu.
Il ruolo della famiglia e della donna nella società contemporanea, le passioni civili, la parola come strumento comunicativo che segna la cronaca di un’epoca sono alcune delle tematiche al centro della nuova stagione, per la quale è stato scelto ancora una volta il titolo «Mettiamo in circolo la cultura».
«Non mi hai più detto ti amo», lo spettacolo che apre il cartellone, racconta, per esempio, «la storia di una famiglia italiana contemporanea, costretta -si legge nella sinossi- ad affrontare un cambiamento traumatico improvviso e che, alla fine di un percorso umano difficile e intenso, si ritroverà completamente trasformata e forse più preparata a sopravvivere». Lorella Cuccarini, al debutto in una commedia non musicale, interpreta Serena, una madre che, con grande coraggio, trova la forza di mettersi in discussione per riscoprire il suo essere donna. Giampiero Ingrassia è suo marito, Giulio, un uomo che reagirà al repentino cambiamento della moglie, riscoprendo, finalmente, il suo ruolo di padre.
I due attori romani passeranno il testimone a Sergio Sgrilli che, nella serata di venerdì 17 novembre, proporrà lo spettacolo interattivo «20 in poppa», uno show celebrativo di vent’anni di carriera o, meglio, una sorta di Bignami di quasi tutto quello che l’artista toscano ha fatto per «sbarcare il lunario al meglio che si può». Dalle origini in Maremma ai primi concerti come musicista-cantante «colorati» di battute e aneddoti, fino ad arrivare ai monologhi che lo hanno reso una delle star di «Zelig»: Sergio Sgrilli si racconterà a tutto tondo, tra risate a crepapelle e momenti introspettivi, in un appuntamento all’insegna della musica (con qualche canzone del nuovo cd «Dieci venti d’amore») e della comicità d’autore.
La stagione proseguirà nella serata di giovedì 25 gennaio 2018 con la commedia «Queste pazze donne» del viennese Gabriel Barylli, che vedrà salire sul palco tre note e apprezzate protagoniste del teatro italiano: Paola Quattrini, Vanessa Gravina ed Emanuela Grimalda. «Uno sguardo autentico, divertente, sensuale, brillante e disincantato sul mondo femminile» è ciò che offre al pubblico questo spettacolo, tra commedia e melodramma, la cui regia è firmata da Stefano Artissunch. Dalle confessioni delle protagoniste, tre donne diverse nel temperamento e nelle scelte di vita, emergeranno «storie di amori negati o vissuti, intrecci, gelosie, figli segreti, case, vestiti colorati, scenari quotidiani a tinte vagamente gialle».
Mercoledì 21 febbraio sarà, quindi, la volta dell’ironica e tagliente Geppy Cucciari che, sotto la regia di Matteo Torre (autore anche del testo), porterà in scena il suo nuovo one woman show: «Perfetta», «radiografia sociale ed emotiva, fisica, -si legge nella sinossi- di ventotto comici e disperati giorni della vita» di una donna, attraverso le quattro fasi del ciclo femminile.
Riflettori puntati, poi, su Sergio Assisi che venerdì 9 marzo calcherà il palcoscenico bustese, nella doppia veste di attore e regista, con la commedia «L’ispettore Drake e il delitto perfetto» del britannico David Tristram. In scena per questo frizzante spettacolo, dalla miscela esplosiva e irresistibilmente comica, ci saranno anche Luigi Di Fiore, Francesco Procopio, Fabrizio Sabatucci e Beatrice Gattai. Protagonista della storia è l’ispettore Drake, personaggio bizzarro al servizio di un thriller surreale, che racchiude in sé tutti i luoghi comuni del detective esasperati all’ennesima potenza. «La sua lampante incompetenza, malcelata da un atteggiamento serioso e goffamente beffardo, -si legge nella sinossi- è resa ancora più esilarante dall’accoppiata con il sergente Plod, il peggior assistente che un detective possa desiderare di avere a fianco, quando si sta indagando su un omicidio».
Giovedì 29 marzo il pubblico bustese potrà, quindi, ammirare un’altra coppia di attori, questa volta inedita per la scena italiana. Dopo Lorella Cuccarini e Giampiero Ingrassia sarà la volta di Ivano Marescotti e Valentina Lodovini con «I have a dream – Le parole che hanno cambiato la storia», spettacolo scritto da Ennio Speranza e Gabriele Guidi, autore anche della regia. Da Demostene a Martin Luther King, da Pericle a Robespierre, passando per Lady Astor, Gandhi, Kennedy, Churchill, Fidel Castro, Mandela, Umberto Eco e molti altri: l'atto unico propone un viaggio tra i discorsi di uomini che, con il loro pensiero e la loro azione, hanno scritto il nostro futuro. Democrazia, identità etnica, ruolo delle donne, eccidi, intolleranza religiosa, ma anche arte e letteratura come strumenti di protezione dell’essere umano sono solo alcune delle tematiche che il pubblico potrà approfondire.
Di tutt'altro genere lo spettacolo che venerdì 13 aprile vedrà salire sul palco bustese due volti noti del cabaret, il legnanese Max Pisu e Claudio Batta, insieme con gli attori Claudio Moneta, Stefania Pepe, Roberta Petrozzi e Giorgio Verduci. «Veloce, agile, divertente, e con un (falso) finale thriller» si presenta così lo spettacolo in scena: la commedia «Il rompiballe», uno dei capolavori di France Veber, il «Neil Simon francese», nella rilettura e per la regia di Marco Rampoldi. La trama promette risate a non finire: un killer deve uccidere un importante uomo politico attraverso la finestra di una camera d’albergo; a complicare la situazione, nella stanza accanto, c’è il classico «rompiballe», un maldestro fotografo con tendenze suicide che si porta dietro un assurdo viavai di mogli esasperate, amanti aggressivi, cameriere impiccione e poliziotti maldestri.
A chiudere la stagione sarà «Freddy Aggiustatutto» di Lorenzo Riopi e Tobia Rossi, testo vincitore della quinta edizione del concorso «Una commedia in cerca d'autori», con il quale il Manzoni di Busto Arsizio prosegue la propria collaborazione con «La Bilancia Produzioni» (società che gestisce i teatri Martinitt di Milano e de’ Servi di Roma) nella ricerca di talentuosi drammaturghi under 40 che diano nuovo vigore a un genere, quale quello del teatro brillante, che fa parte della nostra storia. Lo spettacolo, in programma per la serata di venerdì 4 maggio 2018, offre una fotografia spietata e cinica del mondo televisivo, emblema della superficialità e della manipolazione, raccontando la storia di Freddy, un ragazzo ipocondriaco e ingenuo, che, sul piccolo schermo, si trasforma in un macho palestrato disponibile ad aiutare casalinghe disperate. Sul palco, sotto la regia di Roberto Marafante, saliranno Giuseppe Cantore, Giulia Carpaneto, Alessia Punzo e Alessandra Schiavoni.
Un cartellone, dunque, nato con l’intento di divertire, ma anche di suscitare riflessioni e di offrire conoscenza quello che il cinema teatro Manzoni di Busto Arsizio propone per la nuova stagione con l’intento di avvicinare nuovo pubblico.
Informazioni utili
Stagione 2017-2018. Cinema teatro Manzoni, via Calatafimi, 5 - Busto Arsizio (Varese). tel. 0331.677961 Orari botteghino: dal lunedì al sabato, dalle 17.00 alle 19.00. Informazioni: tel. 0331.677961, info@cinemateatromanzoni.it. Sito internet: www.cinemateatromanzoni.it.
ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
venerdì 29 settembre 2017
mercoledì 27 settembre 2017
Milano, mounir fatmi inaugura la nuova sede della galleria Officine dell’Immagine
È tra i protagonisti della Biennale di Venezia, dove espone al Padiglione Tunisino e e al NSK State Pavilion e, questo autunno, sarà protagonista, a Milano, della sua prima personale in Italia. Stiamo parlando di mounir fatmi (Tangeri, Marocco, 1970), artista marocchino chiamato a esporre in prestigiosi musei come il Centre Georges Pompidou, il Victoria & Albert Museum e il Mori Art Museum di Tokyo, che dal 26 ottobre inaugurerà la nuova sede della galleria Officine dell’Immagine.
La mostra, dal titolo «Transition State», ripercorre i tratti distintivi della sua vasta sintesi poetica, ponendo l’accento sul concetto di ibridazione culturale, una combinazione di preconcetti e stereotipi svelati e poi screditati, che rafforzano una visione d’insieme costruita sul dialogo fra religione, scienza, le ambivalenze del linguaggio e quanto queste si trasformino nel corso della storia.
Un chiaro esempio del potere del linguaggio sulla verità è «Martyrs», un dittico realizzato su neri pannelli di legno, la cui superficie è tagliata da una moltitudine di linee che sembrano muoversi come ferite sulla pelle di un corpo. L’emblematico titolo gioca sulle varianti semantiche di questa parola che, nel corso della storia, hanno trasformato il suo significato. Dall’antico greco martus, testimone”ì, a colui che sacrifica se stesso in nome della fede, fino ad arrivare all’accezione di oggi, quando viene erroneamente affiancato al concetto di kamikaze.
Il tema del martirio torna anche nel video «The Silence of Saint Peter Martyr» (2011), con protagonista San Pietro Martire, anche noto come Pietro da Verona, un prete del XIII secolo appartenente all’Ordine dei Domenicani, che fu giustiziato atrocemente a causa della sua forte opposizione agli eretici. La quiete della scena, che vede il soggetto muovere lentamente il dito mimando il pacifico gesto del silenzio, si contrappone violentemente all’audio del video stesso, un sottofondo disturbante e aggressivo.
L’ispirazione di materia religiosa si riconferma nella serie fotografica «Blinding Light» (2013), un progetto che vede la manipolazione sia concettuale che visiva della cosiddetta «Guarigione del Diacono Giustiniano», un miracolo immortalato anche in un noto dipinto del Beato Angelico. La storia narra di due santi, Cosma e Damiano -celebri per le loro capacità mediche- che una notte entrarono nella stanza di Giustiniano e gli scambiarono la gamba malata con quella di un etiope appena deceduto. Al risveglio Giustiniano si accorse quindi di avere la gamba destra guarita, ma di colore. Giocata sulle sovrapposizioni fra il dipinto antico e scene di chirurgia odierna, mounir fatmi sorprende per l’abilità lessicale con la quale riesce ad affrontare temi di grande richiamo come l’identità etnica, l’ibridazione e la nozione di diversità con una sorprendete sensibilità culturale.
La visione sensoriale dello spettatore viene, poi, esortata nel video «Technologia» (2010), dove il susseguirsi convulso di dettagli geometrici e motivi calligrafici arabi di natura religiosa, danno vita a un processo dal forte carattere ipnotico. Lo sguardo dello spettatore a fatica riesce a resistere, così come anche il suo udito, messo alla prova da suoni stridenti.
La giustapposizione fra oggetto, il suo utilizzo e il suo significato culturale si conferma centrale nell’installazione «Civilization» (2013), realizzata semplicemente con un paio di scarpe nere da uomo poste sopra un libro; con questi due oggetti, spesso utilizzati come indicatori del livello di civilizzazione delle persone, l’artista marocchino s’interroga sulla seduzione della materialità e sul suo ingannevole potere nella cultura contemporanea.
La mostra milanese, che vede la curatela di Silvia Cirelli, permette, quindi, di approfondire alcuni temi di attualità che fanno parte da sempre della poetica di mounir fatmi come l’identità, la multiculturalità, le ambiguità del potere e della violenza. Negli anni l’artista marocchino è riuscito a rinnovarsi costantemente, esplorando una molteplice varietà di linguaggi stilistici che vanno dal video all’installazione, dalla fotografia alla performance. Il suo è un percorso narrativo che oltre a confermare una notevole abilità lessicale, miscela ingredienti personali a testimonianze del reale, tracciando importanti passaggi della storia contemporanea. Lo dimostrerà anche la performance inaugurale costruita attorno all’installazione «Constructing Illusions», un’opera partecipativa che gioca sugli equilibri fra immaginazione e realtà, concetti che spesso si mescolano fra loro, fino ad arrivare anche a scambiarsi completamente di significato.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] mounir fatmi, The Silence of Saint Peter Martyr, 2011. Video HD in bianco e nero con audio, 5'04" edizione di 5. Courtesy l’artista e Officine dell’Immagine, Milano; [fig. 2] mounir fatmi, Civilization, 2013. Artist’s shoes and book 30x43 cm edizione di 5. Courtesy l’artista e Officine dell’Immagine, Milano; [fig. 3] mounir fatmi, Technologia, 2010. Video HD in bianco e nero con audio, 15' edizione di 5. Courtesy l’artista e Officine dell’Immagine, Milano
Informazioni utili
mounir fatmi.Transition State. Officine dell’Immagine, via Carlo Vittadini, 11 – Milano. Orari: martedì – sabato, ore 11.00 – 19.00; lunedì e giorni festivi su appuntamento. Ingresso libero. Informazioni: tel. 02.91638758 o info@officinedellimmagine.com. Sito internet: www.officinedellimmagine.com. Dal 26 ottobre al 7 gennaio 2018.
La mostra, dal titolo «Transition State», ripercorre i tratti distintivi della sua vasta sintesi poetica, ponendo l’accento sul concetto di ibridazione culturale, una combinazione di preconcetti e stereotipi svelati e poi screditati, che rafforzano una visione d’insieme costruita sul dialogo fra religione, scienza, le ambivalenze del linguaggio e quanto queste si trasformino nel corso della storia.
Un chiaro esempio del potere del linguaggio sulla verità è «Martyrs», un dittico realizzato su neri pannelli di legno, la cui superficie è tagliata da una moltitudine di linee che sembrano muoversi come ferite sulla pelle di un corpo. L’emblematico titolo gioca sulle varianti semantiche di questa parola che, nel corso della storia, hanno trasformato il suo significato. Dall’antico greco martus, testimone”ì, a colui che sacrifica se stesso in nome della fede, fino ad arrivare all’accezione di oggi, quando viene erroneamente affiancato al concetto di kamikaze.
L’ispirazione di materia religiosa si riconferma nella serie fotografica «Blinding Light» (2013), un progetto che vede la manipolazione sia concettuale che visiva della cosiddetta «Guarigione del Diacono Giustiniano», un miracolo immortalato anche in un noto dipinto del Beato Angelico. La storia narra di due santi, Cosma e Damiano -celebri per le loro capacità mediche- che una notte entrarono nella stanza di Giustiniano e gli scambiarono la gamba malata con quella di un etiope appena deceduto. Al risveglio Giustiniano si accorse quindi di avere la gamba destra guarita, ma di colore. Giocata sulle sovrapposizioni fra il dipinto antico e scene di chirurgia odierna, mounir fatmi sorprende per l’abilità lessicale con la quale riesce ad affrontare temi di grande richiamo come l’identità etnica, l’ibridazione e la nozione di diversità con una sorprendete sensibilità culturale.
La visione sensoriale dello spettatore viene, poi, esortata nel video «Technologia» (2010), dove il susseguirsi convulso di dettagli geometrici e motivi calligrafici arabi di natura religiosa, danno vita a un processo dal forte carattere ipnotico. Lo sguardo dello spettatore a fatica riesce a resistere, così come anche il suo udito, messo alla prova da suoni stridenti.
La giustapposizione fra oggetto, il suo utilizzo e il suo significato culturale si conferma centrale nell’installazione «Civilization» (2013), realizzata semplicemente con un paio di scarpe nere da uomo poste sopra un libro; con questi due oggetti, spesso utilizzati come indicatori del livello di civilizzazione delle persone, l’artista marocchino s’interroga sulla seduzione della materialità e sul suo ingannevole potere nella cultura contemporanea.
La mostra milanese, che vede la curatela di Silvia Cirelli, permette, quindi, di approfondire alcuni temi di attualità che fanno parte da sempre della poetica di mounir fatmi come l’identità, la multiculturalità, le ambiguità del potere e della violenza. Negli anni l’artista marocchino è riuscito a rinnovarsi costantemente, esplorando una molteplice varietà di linguaggi stilistici che vanno dal video all’installazione, dalla fotografia alla performance. Il suo è un percorso narrativo che oltre a confermare una notevole abilità lessicale, miscela ingredienti personali a testimonianze del reale, tracciando importanti passaggi della storia contemporanea. Lo dimostrerà anche la performance inaugurale costruita attorno all’installazione «Constructing Illusions», un’opera partecipativa che gioca sugli equilibri fra immaginazione e realtà, concetti che spesso si mescolano fra loro, fino ad arrivare anche a scambiarsi completamente di significato.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] mounir fatmi, The Silence of Saint Peter Martyr, 2011. Video HD in bianco e nero con audio, 5'04" edizione di 5. Courtesy l’artista e Officine dell’Immagine, Milano; [fig. 2] mounir fatmi, Civilization, 2013. Artist’s shoes and book 30x43 cm edizione di 5. Courtesy l’artista e Officine dell’Immagine, Milano; [fig. 3] mounir fatmi, Technologia, 2010. Video HD in bianco e nero con audio, 15' edizione di 5. Courtesy l’artista e Officine dell’Immagine, Milano
Informazioni utili
mounir fatmi.Transition State. Officine dell’Immagine, via Carlo Vittadini, 11 – Milano. Orari: martedì – sabato, ore 11.00 – 19.00; lunedì e giorni festivi su appuntamento. Ingresso libero. Informazioni: tel. 02.91638758 o info@officinedellimmagine.com. Sito internet: www.officinedellimmagine.com. Dal 26 ottobre al 7 gennaio 2018.
lunedì 25 settembre 2017
Giacomo Grosso, un artista ottocentesco tra pittura e Accademia
Si articola in tre sedi espositive l’omaggio che la città di Torino fa a Giacomo Grosso (Cambiano 1860 - Torino 1938), uno dei pittori piemontesi più conosciuti e amati nel periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento, che fu per oltre quarant’anni docente di pittura all’Accademia Albertina. Il Museo di arti decorative Accorsi-Ometto, la Pinacoteca dell’Accademia di Belle arti e Palazzo Madama, insieme con il Comune di Cambiano, sono i luoghi selezionati per ospitare l’esposizione curata da Angelo Mistrangelo, con l’intento di raccontare l’ultima stagione pittorica dell’artista caratterizzata da una ritrattistica di sicura fascinazione come mostrano i dipinti dedicati ai Duchi d’Aosta, Lorenzo Delleani, Arturo Toscanini e Giuseppe Verdi.
La storia e il percorso del pittore piemontese comincia idealmente nella Sala del Consiglio del Palazzo comunale di Cambiano. Il corpus di opere e di documenti esposti in questa sede concorre a delineare la vita e la storia artistica di Giacomo Grosso: si va dagli studi giovanili alla formazione presso l’Accademia Albertina, dove fu allievo di Andrea Gastaldi, dai ritratti dei genitori a quelli dei figli e della moglie Carolina. Questa sezione, nella quale si trova esposto un capolavoro come l’imponente e suggestiva tela «Il Pater Noster», permette di conoscere i momenti salienti di un percorso che nel 1895 raggiunse l’importante palcoscenico della Biennale internazionale di Venezia, dove il quadro «Il supremo convegno» -che raffigura un gruppo di donne nude intorno alla bara aperta di Don Giovanni, collocata all’interno di una chiesa- fece così tanto scalpore da essere condannato dal Patriarca Giuseppe Sarto, il futuro Pio X.
L’artista legò il suo nome alla Biennale altre tredici volte con un corpus di oltre cento opere esposte, ma fu protagonista anche alla Quadriennale di Torino, alle sociali della «Promotrice» e del Circolo degli artisti, oltre a varie esposizioni a Parigi, Vienna, Dresda, Buenos Aires e in diverse rassegne internazionali.
Questa storia viene raccontata quasi in toto alla Pinacoteca dell’Accademia Albertina di Belle arti. Attorno all’autoritratto dell’artista, si possono scoprire paesaggi e vedute urbane, bozzetti inediti, nature morte, composizioni floreali, ritratti e nudi femminili, tutte opere di assoluto rilievo. Tra i capolavori allestiti in Pinacoteca spiccano «La nuda» del 1896, proveniente dalla Gam di Torino, e i sontuosi ritratti di Umberto I, della Regina Elena e di Vittorio Emanuele III di Savoia, oltre al dipinto su cui Giacomo Grosso diede l’ultima pennellata poco prima di morire, nel 1938.
Particolarmente affascinante è la sezione «Studium», curata dal direttore Salvo Bitonti e da alcuni docenti dell’Albertina, che propone la ricostruzione dello studio di Giacomo Grosso all'interno dell’accademia attraverso le sorprendenti fotografie autocrome stereoscopiche scattate all’inizio del Novecento da Ferdinando Fino, mentre un video racconta, con una tecnica raffinata e innovativa (picture motion), il mondo pittorico dell'artista.
Al Museo Accorsi-Ometto si possono, invece, ammirare i grandi ritratti: personalità della cultura, affascinanti signore dell’aristocrazia e dell’alta borghesia, tutti raffigurati con sorprendente capacità compositiva ed espressiva.
«Lidia Bass Kuster» (1903), «Luisa Chessa» (1903), «Daisy de Robilant Francesetti di Malgrà» (1897), «La Contessa Gallo» (1918), «Eleonora Guglielminetti Vigliardi Paravia» (1919), «L’ingegner Vittorio Tedeschi» (1925) sono solo alcuni dei personaggi che con i loro volti signorili, gli sguardi profondi e i sontuosi vestiti esprimono il senso della ricerca visiva di Grosso e la straordinaria definizione degli interni, con le figure che quasi emergono dallo spazio della tela e che creano un intrigante rapporto con gli ambienti e l’arredamento del museo.
In mostra, i dipinti sono affiancati da una serie di accessori, quali raffinati cappelli, ventagli di piume di struzzo, scarpe da sera in raso e guanti in camoscio, oltre a due abiti che occhieggiano e ricreano la suggestione delle toilettes delle dame ritratte da Grosso.
Alla Corte medievale di Palazzo Madama sarà, infine, possibile vedere, all'interno dell’imponente «Cornice d’alcova», una significativa tela dell’artista, la «Ninfea», esposta nel 1907 alla Biennale Internazionale di Venezia.
Un viaggio, dunque, completo attraverso l’opera di Giacomo Grosso quello proposto a partire dal 28 settembre dalla città di Torino, a ventisette anni dalla mostra ospitata alla Promotrice delle Belle arti, che permette di mettere in risalto il talento, caratterizzato da un altissimo valore tecnico-artistico, del maestro piemontese, ma anche numerose testimonianze della sua vita, alcune delle quali inedite.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Giacomo Grosso, Autoritratto, 1931. Olio su tela, cm 86 x 66. Pinacoteca dell’Accademia Albertina, Torino (inv. 396); [fig. 2] Giacomo Grosso, Il Pater Noster (Sacra Famiglia), 1934. Olio su tela, cm 198 x 271,5. Palazzo Comunale, Cambiano; [fig. 3] Giacomo Grosso, Ninfea, 1907. Olio su tela, cm 230 x 100. Collezione privata; [fig.4] Giacomo Grosso, Nudo di donna. Olio su tela, cm 200 x 69. Pinacoteca dell’Accademia Albertina, Torino (inv. 418)
Informazioni utili
«Giacomo Grosso. Una stagione tra pittura e accademia». Museo di Arti Decorative Accorsi - Ometto, via Po, 55 – Torino; Pinacoteca Accademia Albertina, via Accademia Albertina 8 – Torino; Palazzo Madama, piazza Castello – Torino; Palazzo del Comune di Cambiano, piazza Vittorio Veneto - Cambiano. Informazioni: comunicazione@accademialbertina.torino.it, tel. 011.0897370 | info@fondazioneaccorsi-ometto.it, tel. 011.837688 (int. 3). Dal 28 settembre 2017 al 7 gennaio 2018
La storia e il percorso del pittore piemontese comincia idealmente nella Sala del Consiglio del Palazzo comunale di Cambiano. Il corpus di opere e di documenti esposti in questa sede concorre a delineare la vita e la storia artistica di Giacomo Grosso: si va dagli studi giovanili alla formazione presso l’Accademia Albertina, dove fu allievo di Andrea Gastaldi, dai ritratti dei genitori a quelli dei figli e della moglie Carolina. Questa sezione, nella quale si trova esposto un capolavoro come l’imponente e suggestiva tela «Il Pater Noster», permette di conoscere i momenti salienti di un percorso che nel 1895 raggiunse l’importante palcoscenico della Biennale internazionale di Venezia, dove il quadro «Il supremo convegno» -che raffigura un gruppo di donne nude intorno alla bara aperta di Don Giovanni, collocata all’interno di una chiesa- fece così tanto scalpore da essere condannato dal Patriarca Giuseppe Sarto, il futuro Pio X.
L’artista legò il suo nome alla Biennale altre tredici volte con un corpus di oltre cento opere esposte, ma fu protagonista anche alla Quadriennale di Torino, alle sociali della «Promotrice» e del Circolo degli artisti, oltre a varie esposizioni a Parigi, Vienna, Dresda, Buenos Aires e in diverse rassegne internazionali.
Questa storia viene raccontata quasi in toto alla Pinacoteca dell’Accademia Albertina di Belle arti. Attorno all’autoritratto dell’artista, si possono scoprire paesaggi e vedute urbane, bozzetti inediti, nature morte, composizioni floreali, ritratti e nudi femminili, tutte opere di assoluto rilievo. Tra i capolavori allestiti in Pinacoteca spiccano «La nuda» del 1896, proveniente dalla Gam di Torino, e i sontuosi ritratti di Umberto I, della Regina Elena e di Vittorio Emanuele III di Savoia, oltre al dipinto su cui Giacomo Grosso diede l’ultima pennellata poco prima di morire, nel 1938.
Particolarmente affascinante è la sezione «Studium», curata dal direttore Salvo Bitonti e da alcuni docenti dell’Albertina, che propone la ricostruzione dello studio di Giacomo Grosso all'interno dell’accademia attraverso le sorprendenti fotografie autocrome stereoscopiche scattate all’inizio del Novecento da Ferdinando Fino, mentre un video racconta, con una tecnica raffinata e innovativa (picture motion), il mondo pittorico dell'artista.
Al Museo Accorsi-Ometto si possono, invece, ammirare i grandi ritratti: personalità della cultura, affascinanti signore dell’aristocrazia e dell’alta borghesia, tutti raffigurati con sorprendente capacità compositiva ed espressiva.
«Lidia Bass Kuster» (1903), «Luisa Chessa» (1903), «Daisy de Robilant Francesetti di Malgrà» (1897), «La Contessa Gallo» (1918), «Eleonora Guglielminetti Vigliardi Paravia» (1919), «L’ingegner Vittorio Tedeschi» (1925) sono solo alcuni dei personaggi che con i loro volti signorili, gli sguardi profondi e i sontuosi vestiti esprimono il senso della ricerca visiva di Grosso e la straordinaria definizione degli interni, con le figure che quasi emergono dallo spazio della tela e che creano un intrigante rapporto con gli ambienti e l’arredamento del museo.
In mostra, i dipinti sono affiancati da una serie di accessori, quali raffinati cappelli, ventagli di piume di struzzo, scarpe da sera in raso e guanti in camoscio, oltre a due abiti che occhieggiano e ricreano la suggestione delle toilettes delle dame ritratte da Grosso.
Alla Corte medievale di Palazzo Madama sarà, infine, possibile vedere, all'interno dell’imponente «Cornice d’alcova», una significativa tela dell’artista, la «Ninfea», esposta nel 1907 alla Biennale Internazionale di Venezia.
Un viaggio, dunque, completo attraverso l’opera di Giacomo Grosso quello proposto a partire dal 28 settembre dalla città di Torino, a ventisette anni dalla mostra ospitata alla Promotrice delle Belle arti, che permette di mettere in risalto il talento, caratterizzato da un altissimo valore tecnico-artistico, del maestro piemontese, ma anche numerose testimonianze della sua vita, alcune delle quali inedite.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Giacomo Grosso, Autoritratto, 1931. Olio su tela, cm 86 x 66. Pinacoteca dell’Accademia Albertina, Torino (inv. 396); [fig. 2] Giacomo Grosso, Il Pater Noster (Sacra Famiglia), 1934. Olio su tela, cm 198 x 271,5. Palazzo Comunale, Cambiano; [fig. 3] Giacomo Grosso, Ninfea, 1907. Olio su tela, cm 230 x 100. Collezione privata; [fig.4] Giacomo Grosso, Nudo di donna. Olio su tela, cm 200 x 69. Pinacoteca dell’Accademia Albertina, Torino (inv. 418)
Informazioni utili
«Giacomo Grosso. Una stagione tra pittura e accademia». Museo di Arti Decorative Accorsi - Ometto, via Po, 55 – Torino; Pinacoteca Accademia Albertina, via Accademia Albertina 8 – Torino; Palazzo Madama, piazza Castello – Torino; Palazzo del Comune di Cambiano, piazza Vittorio Veneto - Cambiano. Informazioni: comunicazione@accademialbertina.torino.it, tel. 011.0897370 | info@fondazioneaccorsi-ometto.it, tel. 011.837688 (int. 3). Dal 28 settembre 2017 al 7 gennaio 2018
sabato 23 settembre 2017
A Prato una mostra sulla Sacra cintola di Maria
È il 1141 quando a Prato, grazie al mercante e pellegrino Michele Dagomari, giunge da Gerusalemme la Sacra cintola, reliquia che la tradizione, mutuata da un testo apocrifo del V-VI secolo, ritiene essere stata donata dalla Vergine Maria a San Tommaso nel momento in cui veniva assunta in cielo. Dal Duecento questa preziosa cintura, donata nel 1172 alla pieve pratese e oggi custodita nella cattedrale di Santo Stefano, è oggetto di venerazione ed è considerata, sia dal punto di vista spirituale che civile, il tesoro più prezioso della città, contribuendo a rafforzarne il prestigio e l’identità in un avvincente intreccio di devozione, arte e tradizione.
Alla Sacra cintola -una striscia di ottantasette centimetri di lana finissima dalle tonalità verdoline, broccata in filo d'oro con ai capi due cordicelle per legarla- è dedicata la mostra allestita fino al 14 gennaio al Museo di Palazzo Pretorio, negli spazi espositivi recuperati dell’ex Monte dei Pegni.
L’esposizione, a cura di Andrea De Marchi e Cristina Gnoni Mavarelli, prende spunto da questo prezioso simbolo dalla storia pratese per intrecciare i fili di un racconto che parla della città toscana e del suo ricco patrimonio di cultura e bellezza custodito sul territorio e riconoscibile anche al di fuori dei confini locali.
È ad esempio attorno alla Sacra cintola, disputata per secoli fra chiesa e comune, che crebbe per gradi la fabbrica gotica dell’allora prepositura di Santo Stefano, nella quale fu realizzata una cappella apposita per il manufatto, affrescata da Agnolo Gaddi tra 1392 e 1395 e arricchita da una statua di Giovanni Pisano, e per la quale Donatello e Michelozzo realizzarono tra il 1428 e il 1438 il pulpito per l’ostensione periodica, sull’angolo della nuova facciata. Quest’ultimo manufatto, definito da Gabriele D’Annunzio «il grande nido», è stato recentemente sottoposto a restauro e «riconsegnato alla città -raccontano gli organizzatori della rassegna- nel pieno della sua bellezza d’insieme, un fascino generato dal perfetto, equilibrato rapporto fra le parti: il ricco basamento retto dal capitello bronzeo, il parapetto coi putti danzanti, fino all’elegante baldacchino che lo protegge».
Il percorso espositivo della mostra pratese, il cui allestimento è stato curato da Francesco Procopio, si apre con una delle prime attestazioni in Occidente della Madonna assunta che dona la Cintola, con il rilievo eponimo del Maestro di Cabestany, scultore romanico attivo nel Roussillon e in Toscana che lavorò anche a Prato, nei capitelli del chiostro dell’antica prepositura di Santo Stefano.
Cuore pulsante della rassegna è, però, la ricomposizione della pala dell’«Assunta» di Bernardo Daddi, uno dei più eleganti allievi di Giotto. L’opera fu realizzata tra il 1337 e 1338 in seguito al nuovo allestimento della Sacra cintola, posizionata in una cappella a lato della maggiore, dopo il furto del 1312 ad opera del pistoiese Musciattino. Nel tempo è stata smembrata e la mostra pratese permette di tornare ad ammirarla nel suo complesso, riunendo tutti i suoi componenti che originariamente comprendevano una doppia predella con la storia del viaggio della cintola e del suo approdo a Prato (questa custodita nel museo toscano) e la parallela migrazione del corpo di Santo Stefano da Gerusalemme a Roma, oltre a una tavola con San Lorenzo (custodita nei Musei Vaticani) e a una terminazione con la «Madonna assunta che cede la Cintola a San Tommaso» (conservata al Metropolitan Museum di New York).
Il percorso espositivo continua con un nucleo scelto di cintole profane del XIV secolo, preziosamente decorate, che fanno capire la carica simbolica di un simile oggetto, esibito anche dall’elegantissima Santa Caterina dipinta da Giovanni da Milano nel polittico per lo Spedale della Misericordia, uno dei capolavori del museo di Palazzo Pretorio.
Segue in mostra una rassegna esemplificativa delle diverse elaborazioni nell'arte toscana del Trecento dell'iconografia dedicata alla morte della Vergine e alla sua Assunzione: dipinti, miniature, sculture che consentono di apprezzare la diversa interpretazione del tema in area fiorentina, dove San Tommaso afferra la cintola, e in area senese, dove la cintola è lasciata cadere dalla Madonna in volo.
Chiudono il percorso espositivo testimonianze documentarie e visive che accompagnarono, nel corso dei secoli, il culto della stessa cintola e la sua ostensione: preziose custodie, suppellettili e arredi della cappella in cattedrale.
Ma la mostra esce in realtà anche fuori dalle mura di Palazzo Pretorio, forziere delle memorie e delle vicende storiche della città che conserva al suo interno opere, tra gli altri, di Luca Signorelli, Andrea Della Robbia, Mattia Preti e Ardengo Soffici. Il Duomo di Prato è, infatti, parte integrante di un percorso che permette ai visitatori di entrare nella Cappella della Cintola, abitualmente preclusa alla visita e di ammirare da vicino il ciclo di affreschi realizzati da Agnolo Gaddi. Qui il visitatore può vedere anche le «Storie di Santo Stefano e San Giovanni Battista», una delle più alte espressioni della produzione di Filippo Lippi per qualità e complessità della pittura. Il lavoro, eseguito dal 1452 al 1465, fu caratterizzato da lunghe pause legate agli altri impegni della bottega e alle umanissime vicende sentimentali dell’artista. Data, infatti, intorno al 1456 il «rapimento», dal vicino convento di Santa Margherita, della monaca Lucrezia Buti, dalla cui unione nacque Filippino, il più grande dei pittori pratesi. Il maestro fiorentino rimase così incantato dalla «bellissima gratia et aria» della donna, per usare le parole di Giorgio Vasari, da usarla come modella per dipingere la Santa Margherita raffigurata nella pala d’altare «La Madonna della Cintola», oggi conservata a Palazzo Pretorio. Una storia, dunque, interessante che intreccia i fili di storia e devozione, arte e tradizione quella in mostra a Prato.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Giovanni Pisano, Madonna col Bambino, parata con dalmatica e mantellino del 1775, Diocesi di Prato; [fig. 2] Bernardo Daddi, L'Assunzione della Vergine, 1337-39, The Metropolitan Museum of Art, Robert Lehman Collection, 1975 (1975.1.58); [fig. 3] Bernardo Daddi, Storie della sacra Cintola, 1337-39, tempera e oro su tavola, Prato, Museo di Palazzo Pretorio; [fig. 4] Filippo Lippi-Fra' Diamante, La Madonna de la Cintola a S.Tommaso, 1456-65. Prato, Museo di Palazzo Pretorio
Informazioni utili
Legati da una cintola. L’Assunta di Bernardo Daddi e l’identità di una città. Palazzo Pretorio, piazza del Comune – Prato. Orari: tutti i giorni, dalle ore 10.30 alle ore 18.30; chiuso il martedì; la biglietteria chiude alle ore 18.00. Ingresso: intero € 12,00, ridotto € 10,00. Informazioni e prenotazioni : tel. 0574.19349961 (dal lunedì al venerdì, ore 9.00-18.00, il sabato, ore 9.00-14.00) o museo.palazzopretorio@comune.prato.it. Sito internet: www.palazzopretorio.prato.it. Fino al 14 gennaio 2018.
Alla Sacra cintola -una striscia di ottantasette centimetri di lana finissima dalle tonalità verdoline, broccata in filo d'oro con ai capi due cordicelle per legarla- è dedicata la mostra allestita fino al 14 gennaio al Museo di Palazzo Pretorio, negli spazi espositivi recuperati dell’ex Monte dei Pegni.
L’esposizione, a cura di Andrea De Marchi e Cristina Gnoni Mavarelli, prende spunto da questo prezioso simbolo dalla storia pratese per intrecciare i fili di un racconto che parla della città toscana e del suo ricco patrimonio di cultura e bellezza custodito sul territorio e riconoscibile anche al di fuori dei confini locali.
È ad esempio attorno alla Sacra cintola, disputata per secoli fra chiesa e comune, che crebbe per gradi la fabbrica gotica dell’allora prepositura di Santo Stefano, nella quale fu realizzata una cappella apposita per il manufatto, affrescata da Agnolo Gaddi tra 1392 e 1395 e arricchita da una statua di Giovanni Pisano, e per la quale Donatello e Michelozzo realizzarono tra il 1428 e il 1438 il pulpito per l’ostensione periodica, sull’angolo della nuova facciata. Quest’ultimo manufatto, definito da Gabriele D’Annunzio «il grande nido», è stato recentemente sottoposto a restauro e «riconsegnato alla città -raccontano gli organizzatori della rassegna- nel pieno della sua bellezza d’insieme, un fascino generato dal perfetto, equilibrato rapporto fra le parti: il ricco basamento retto dal capitello bronzeo, il parapetto coi putti danzanti, fino all’elegante baldacchino che lo protegge».
Il percorso espositivo della mostra pratese, il cui allestimento è stato curato da Francesco Procopio, si apre con una delle prime attestazioni in Occidente della Madonna assunta che dona la Cintola, con il rilievo eponimo del Maestro di Cabestany, scultore romanico attivo nel Roussillon e in Toscana che lavorò anche a Prato, nei capitelli del chiostro dell’antica prepositura di Santo Stefano.
Cuore pulsante della rassegna è, però, la ricomposizione della pala dell’«Assunta» di Bernardo Daddi, uno dei più eleganti allievi di Giotto. L’opera fu realizzata tra il 1337 e 1338 in seguito al nuovo allestimento della Sacra cintola, posizionata in una cappella a lato della maggiore, dopo il furto del 1312 ad opera del pistoiese Musciattino. Nel tempo è stata smembrata e la mostra pratese permette di tornare ad ammirarla nel suo complesso, riunendo tutti i suoi componenti che originariamente comprendevano una doppia predella con la storia del viaggio della cintola e del suo approdo a Prato (questa custodita nel museo toscano) e la parallela migrazione del corpo di Santo Stefano da Gerusalemme a Roma, oltre a una tavola con San Lorenzo (custodita nei Musei Vaticani) e a una terminazione con la «Madonna assunta che cede la Cintola a San Tommaso» (conservata al Metropolitan Museum di New York).
Il percorso espositivo continua con un nucleo scelto di cintole profane del XIV secolo, preziosamente decorate, che fanno capire la carica simbolica di un simile oggetto, esibito anche dall’elegantissima Santa Caterina dipinta da Giovanni da Milano nel polittico per lo Spedale della Misericordia, uno dei capolavori del museo di Palazzo Pretorio.
Segue in mostra una rassegna esemplificativa delle diverse elaborazioni nell'arte toscana del Trecento dell'iconografia dedicata alla morte della Vergine e alla sua Assunzione: dipinti, miniature, sculture che consentono di apprezzare la diversa interpretazione del tema in area fiorentina, dove San Tommaso afferra la cintola, e in area senese, dove la cintola è lasciata cadere dalla Madonna in volo.
Chiudono il percorso espositivo testimonianze documentarie e visive che accompagnarono, nel corso dei secoli, il culto della stessa cintola e la sua ostensione: preziose custodie, suppellettili e arredi della cappella in cattedrale.
Ma la mostra esce in realtà anche fuori dalle mura di Palazzo Pretorio, forziere delle memorie e delle vicende storiche della città che conserva al suo interno opere, tra gli altri, di Luca Signorelli, Andrea Della Robbia, Mattia Preti e Ardengo Soffici. Il Duomo di Prato è, infatti, parte integrante di un percorso che permette ai visitatori di entrare nella Cappella della Cintola, abitualmente preclusa alla visita e di ammirare da vicino il ciclo di affreschi realizzati da Agnolo Gaddi. Qui il visitatore può vedere anche le «Storie di Santo Stefano e San Giovanni Battista», una delle più alte espressioni della produzione di Filippo Lippi per qualità e complessità della pittura. Il lavoro, eseguito dal 1452 al 1465, fu caratterizzato da lunghe pause legate agli altri impegni della bottega e alle umanissime vicende sentimentali dell’artista. Data, infatti, intorno al 1456 il «rapimento», dal vicino convento di Santa Margherita, della monaca Lucrezia Buti, dalla cui unione nacque Filippino, il più grande dei pittori pratesi. Il maestro fiorentino rimase così incantato dalla «bellissima gratia et aria» della donna, per usare le parole di Giorgio Vasari, da usarla come modella per dipingere la Santa Margherita raffigurata nella pala d’altare «La Madonna della Cintola», oggi conservata a Palazzo Pretorio. Una storia, dunque, interessante che intreccia i fili di storia e devozione, arte e tradizione quella in mostra a Prato.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Giovanni Pisano, Madonna col Bambino, parata con dalmatica e mantellino del 1775, Diocesi di Prato; [fig. 2] Bernardo Daddi, L'Assunzione della Vergine, 1337-39, The Metropolitan Museum of Art, Robert Lehman Collection, 1975 (1975.1.58); [fig. 3] Bernardo Daddi, Storie della sacra Cintola, 1337-39, tempera e oro su tavola, Prato, Museo di Palazzo Pretorio; [fig. 4] Filippo Lippi-Fra' Diamante, La Madonna de la Cintola a S.Tommaso, 1456-65. Prato, Museo di Palazzo Pretorio
Informazioni utili
Legati da una cintola. L’Assunta di Bernardo Daddi e l’identità di una città. Palazzo Pretorio, piazza del Comune – Prato. Orari: tutti i giorni, dalle ore 10.30 alle ore 18.30; chiuso il martedì; la biglietteria chiude alle ore 18.00. Ingresso: intero € 12,00, ridotto € 10,00. Informazioni e prenotazioni : tel. 0574.19349961 (dal lunedì al venerdì, ore 9.00-18.00, il sabato, ore 9.00-14.00) o museo.palazzopretorio@comune.prato.it. Sito internet: www.palazzopretorio.prato.it. Fino al 14 gennaio 2018.
giovedì 21 settembre 2017
A Venezia i tesori indiani della collezione Al Thani
Gemme splendenti, pietre preziose, antichi e leggendari gioielli, ma anche creazioni contemporanee: duecentosettanta manufatti e cinque secoli di indiscussa maestria artigiana e di design di estrema raffinatezza, specchio della gloriosa tradizione indiana, sono al centro della mostra che la Fondazione Musei civici di Venezia organizza, negli spazi di Palazzo Ducale, grazie alla collaborazione dello sceicco Hamad bin Abdullah Al Thani, membro della famiglia reale del Qatar, e alla sua raccolta di preziosi. «Tesori dei Moghul e dei maharaja: la collezione Al Thani», questo il titolo della rassegna, presenta circa trecento pezzi selezionati da Amin Jaffer e Gian Carlo Calza, sotto la direzione scientifica di Gabriella Belli, che permettono al visitatore un viaggio dai discendenti di Gengis Khan e Tamerlano ai grandi maharaja.
«Fin dall’antichità -raccontano gli organizzatori- l’India è stata una terra ricca di pietre preziose e patria di una tradizione orafa di estrema raffinatezza. Qui gemme e gioielli sono parte integrante dell’abbigliamento e dello stile di vita quotidiano. L’impareggiabile qualità dei diamanti di Golconda, gli spinelli -pietre preziose simili a rubini- del Badakhshan, le spettacolari tonalità degli zaffiri del Kashmir resero celebre l’Asia meridionale, dove confluivano anche i rubini di Ceylon (l’attuale Sri Lanka) e della Birmania (l’attuale Myanmar), e le perle del Golfo persico. Così quando i Moghul assursero al potere, nel XVI secolo, i loro maestri gioiellieri elevarono l’oreficeria a vera e propria forma d’arte».
In India i gioielli sono molto di più di un semplice ornamento: hanno spesso un carattere propiziatorio e riflettono il rango, la casta, la terra d’origine, lo stato civile o la ricchezza di chi li indossa.
Il punto di partenza storico della mostra, della quale rimarrà documentazione in un catalogo di Skira, è lo stile di corte dei Moghul (1526-1858), la dinastia timuride fondata all’indomani della conquista di gran parte dell’India settentrionale per mano di Babur (1526), che divenne da subito epicentro di uno stile peculiare e che raggiunse il suo massimo splendore durante i regni del quarto e del quinto imperatore Moghul. Il visitatore è condotto ad ammirare, attraverso i tesori della Collezione Al Thani, l’incredibile assortimento di gemme dinastiche a partire da due diamanti universalmente noti: l’Idol’s Eye (Occhio dell’idolo), il più grande diamante blu tagliato del mondo, e l’Arcot II, uno dei due diamanti donati alla regina Charlotte, moglie del re Giorgio III (1738-1820), da Muhammad ‘Ali Wallajah, nawab di Arcot (1717-1795).
Questi due pezzi unici sono esposti insieme a smeraldi e spinelli in parte incisi con i nomi e i titoli dei sovrani che li possedettero.
Punti focali dell’esposizione sono il gusto artistico Moghul e il suo dialogo con la cultura europea, instauratosi a partire dal Rinascimento e incentrato sul reciproco scambio di stili e tecniche. La profondità del legame tra Europa e India è attestata dall’uso frequente nella gioielleria indiana della smaltatura, una tecnica ispirata proprio all’arte delle corti rinascimentali.
La seconda sezione della mostra è dedicata ad alcuni suggestivi esemplari in giada e cristallo di rocca, due materiali molto apprezzati alla corte Moghul. Nella cultura islamica, la giada era considerata una pietra propiziatrice di vittoria e si credeva perfino rivelasse la presenza del veleno e ne contrastasse gli effetti. Tra i pezzi esposti meritano una segnalazione la Coppa per il vino dell’imperatore Jahangir, contenente un’iscrizione in versi in lingua persiana e la titolatura del monarca e il pugnale di Shah Jahan (1620-1625), un capolavoro dell’arte di corte Moghul, che riporta iscritti sulla lama i titoli dell’imperatore.
L’esposizione continua con alcuni oggetti caratterizzati da una raffinata decorazione a smalto policromo e dall’uso del kundan una tecnica che consente di montare le gemme con l’oro senza il ricorso a griffe ma semplicemente avvolgendo il castone con lamine malleabili di oro puro che sviluppano un legame molecolare intorno alla pietra. Tra questi spiccano lo splendido set da scrittoio con portapenne e calamaio (Deccan o India settentrionale, 1575- 1600), realizzato in oro massiccio tempestato di pietre preziose, e la superba collezione di oggetti a smalto verde con gemme incastonate, datati al XVIII secolo, opera delle botteghe di Hyderabad.
Altra meraviglia di questa sezione è l’ornamento del trono di Tipu Sultan a forma di testa di tigre, realizzato in occasione della sua ascesa al potere. In oro tempestato di gemme, il trono fu smembrato dopo l’uccisione di Tipu e la conquista di Seringapatam da parte delle forze britanniche nel 1799. Alcune parti del trono entrarono nella collezione della famiglia reale britannica, mentre altre, tra cui questo oggetto, sono state ritrovate solo di recente.
Incentrata su ornamenti e simboli del potere, la quarta sezione propone un repertorio di manufatti straordinari che copre un arco cronologico che spazia dal XVII al XX secolo. Tra di essi è possibile ammirare una splendida collezione di collier di diamanti e altri oggetti preziosi come la spada del nizam di Hyderabad e il favoloso baldacchino che faceva parte del tappeto di perle di Baroda, commissionato dal maharaja Khanderao Gaekwad tra il 1865 e il 1870. Quest’ultimo oggetto era stato confezionato con l’idea di collocarlo all’interno della tomba del profeta Maometto a Medina, ma il dono non partì mai per la sua destinazione. La seta che riveste la pelle di cervo è riccamente decorata in argento, oro, vetro colorato, diamanti, rubini, zaffiri, smeraldi e circa 950.000 perle.
La mostra presenta, quindi, una sezione dedicata all’Europa con gioielli realizzati da prestigiose maison occidentali su richiesta dei principi indiani.
Tra tutte spicca Cartier, autrice di un girocollo di rubini disegnato per una delle mogli del maharaja Bhupinder di Patiala, oltre che di due opere per il maharaja Digvijaysinhji, successore del maharaja Ranjitsinhji di Nawanagar: il meraviglioso Occhio della tigre, un diamante color oro montato a ornamento per turbante, e una splendida collana déco impreziosita dai rubini. In questa sezione incanterà i visitatori anche la sublime piuma di pavone in smalto creata da Mellerio detto Meller (Parigi 1905) e acquistata dal maharaja Jagatjit Singh di Kapurthala.
La mostra getta, infine, un occhio alla creatività contemporanea presentando i lavori che Viren Bhagat crea nel suo laboratorio di Bombay, coniugando materiali e tecniche moderne con forme e motivi decorativi antichissimi. Un viaggio, dunque, da mille e una notte attraverso cinquecento anni di maestria artigiana e di rara bellezza attende il visitatore della mostra veneziana, che permetterà di immergersi tra i colori e le suggestioni di un Paese che ha regalato al mondo della gioielleria inestimabili tesori.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Collana di rubini di Nawanagar Cartier, 1937. Platino, rubini, diamanti, h. 20,5 cm, largh. 19,5 cm. The Al Thani Collection, [fig. 2] Aigrette Mellerio dits Meller, Parigi, 1905. Oro, platino, diamanti, fondo a smalto, h. 15,5 cm, largh. 6 cm. The Al Thani Collection; [fig. 3] Diffusore per l’acqua di rose India settentrionale, 1675-1725. Oro, rubini, smeraldi, perle, h. 25,5 cm, diam. 10,3 cm. Iscrizione in persiano sulla base: 64 tola 4 masha / 64 tola 2 masha. The Al Thani Collection; [fig. 4] Elemento decorativo dal trono di Tipu Sultan Mysore, 1787-1793 circa; plinto 1800 c.. Oro, diamanti, rubini, smeraldi, lacca. Plinto: marmo nero, metallo dorato, h. 17,1 cm /Elemento decorativo h. 6,8 cm, largh. 5,4 cm, sp. 5,5 cm. Plinto h. 10,3 cm, largh. 10 cm, sp. 10 cm. The Al Thani Collection
Informazioni utili
«Tesori dei Moghul e dei maharaja: la collezione Al Thani». Palazzo Ducale, San Marco, 1 - Venezia. Orari: fino al 31 ottobre 2017, dalle ore 8.30 alle ore 19.00; dal 1° novembre, dalle ore 8.30 alle ore 17.30 (la biglietteria chiude un’ora prima). Ingresso: intero € 20,00, ridotto € 13,00 (ragazzi da 6 a 14 anni; studenti dai 15 ai 25 anni; accompagnatori (max. 2) di gruppi di almeno 15 ragazzi o studenti; visitatori oltre 65 anni; personale del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo (MiBACT); titolari di Carta Rolling Venice; Soci Fai. Informazioni:call center 848082000 (dall’Italia); +3904142730892 (dall’estero); info@fmcvenezia.it. Sito internet: palazzoducale.visitmuve.it. Fino al 3 gennaio 2018.
«Fin dall’antichità -raccontano gli organizzatori- l’India è stata una terra ricca di pietre preziose e patria di una tradizione orafa di estrema raffinatezza. Qui gemme e gioielli sono parte integrante dell’abbigliamento e dello stile di vita quotidiano. L’impareggiabile qualità dei diamanti di Golconda, gli spinelli -pietre preziose simili a rubini- del Badakhshan, le spettacolari tonalità degli zaffiri del Kashmir resero celebre l’Asia meridionale, dove confluivano anche i rubini di Ceylon (l’attuale Sri Lanka) e della Birmania (l’attuale Myanmar), e le perle del Golfo persico. Così quando i Moghul assursero al potere, nel XVI secolo, i loro maestri gioiellieri elevarono l’oreficeria a vera e propria forma d’arte».
In India i gioielli sono molto di più di un semplice ornamento: hanno spesso un carattere propiziatorio e riflettono il rango, la casta, la terra d’origine, lo stato civile o la ricchezza di chi li indossa.
Il punto di partenza storico della mostra, della quale rimarrà documentazione in un catalogo di Skira, è lo stile di corte dei Moghul (1526-1858), la dinastia timuride fondata all’indomani della conquista di gran parte dell’India settentrionale per mano di Babur (1526), che divenne da subito epicentro di uno stile peculiare e che raggiunse il suo massimo splendore durante i regni del quarto e del quinto imperatore Moghul. Il visitatore è condotto ad ammirare, attraverso i tesori della Collezione Al Thani, l’incredibile assortimento di gemme dinastiche a partire da due diamanti universalmente noti: l’Idol’s Eye (Occhio dell’idolo), il più grande diamante blu tagliato del mondo, e l’Arcot II, uno dei due diamanti donati alla regina Charlotte, moglie del re Giorgio III (1738-1820), da Muhammad ‘Ali Wallajah, nawab di Arcot (1717-1795).
Questi due pezzi unici sono esposti insieme a smeraldi e spinelli in parte incisi con i nomi e i titoli dei sovrani che li possedettero.
Punti focali dell’esposizione sono il gusto artistico Moghul e il suo dialogo con la cultura europea, instauratosi a partire dal Rinascimento e incentrato sul reciproco scambio di stili e tecniche. La profondità del legame tra Europa e India è attestata dall’uso frequente nella gioielleria indiana della smaltatura, una tecnica ispirata proprio all’arte delle corti rinascimentali.
La seconda sezione della mostra è dedicata ad alcuni suggestivi esemplari in giada e cristallo di rocca, due materiali molto apprezzati alla corte Moghul. Nella cultura islamica, la giada era considerata una pietra propiziatrice di vittoria e si credeva perfino rivelasse la presenza del veleno e ne contrastasse gli effetti. Tra i pezzi esposti meritano una segnalazione la Coppa per il vino dell’imperatore Jahangir, contenente un’iscrizione in versi in lingua persiana e la titolatura del monarca e il pugnale di Shah Jahan (1620-1625), un capolavoro dell’arte di corte Moghul, che riporta iscritti sulla lama i titoli dell’imperatore.
L’esposizione continua con alcuni oggetti caratterizzati da una raffinata decorazione a smalto policromo e dall’uso del kundan una tecnica che consente di montare le gemme con l’oro senza il ricorso a griffe ma semplicemente avvolgendo il castone con lamine malleabili di oro puro che sviluppano un legame molecolare intorno alla pietra. Tra questi spiccano lo splendido set da scrittoio con portapenne e calamaio (Deccan o India settentrionale, 1575- 1600), realizzato in oro massiccio tempestato di pietre preziose, e la superba collezione di oggetti a smalto verde con gemme incastonate, datati al XVIII secolo, opera delle botteghe di Hyderabad.
Altra meraviglia di questa sezione è l’ornamento del trono di Tipu Sultan a forma di testa di tigre, realizzato in occasione della sua ascesa al potere. In oro tempestato di gemme, il trono fu smembrato dopo l’uccisione di Tipu e la conquista di Seringapatam da parte delle forze britanniche nel 1799. Alcune parti del trono entrarono nella collezione della famiglia reale britannica, mentre altre, tra cui questo oggetto, sono state ritrovate solo di recente.
Incentrata su ornamenti e simboli del potere, la quarta sezione propone un repertorio di manufatti straordinari che copre un arco cronologico che spazia dal XVII al XX secolo. Tra di essi è possibile ammirare una splendida collezione di collier di diamanti e altri oggetti preziosi come la spada del nizam di Hyderabad e il favoloso baldacchino che faceva parte del tappeto di perle di Baroda, commissionato dal maharaja Khanderao Gaekwad tra il 1865 e il 1870. Quest’ultimo oggetto era stato confezionato con l’idea di collocarlo all’interno della tomba del profeta Maometto a Medina, ma il dono non partì mai per la sua destinazione. La seta che riveste la pelle di cervo è riccamente decorata in argento, oro, vetro colorato, diamanti, rubini, zaffiri, smeraldi e circa 950.000 perle.
La mostra presenta, quindi, una sezione dedicata all’Europa con gioielli realizzati da prestigiose maison occidentali su richiesta dei principi indiani.
Tra tutte spicca Cartier, autrice di un girocollo di rubini disegnato per una delle mogli del maharaja Bhupinder di Patiala, oltre che di due opere per il maharaja Digvijaysinhji, successore del maharaja Ranjitsinhji di Nawanagar: il meraviglioso Occhio della tigre, un diamante color oro montato a ornamento per turbante, e una splendida collana déco impreziosita dai rubini. In questa sezione incanterà i visitatori anche la sublime piuma di pavone in smalto creata da Mellerio detto Meller (Parigi 1905) e acquistata dal maharaja Jagatjit Singh di Kapurthala.
La mostra getta, infine, un occhio alla creatività contemporanea presentando i lavori che Viren Bhagat crea nel suo laboratorio di Bombay, coniugando materiali e tecniche moderne con forme e motivi decorativi antichissimi. Un viaggio, dunque, da mille e una notte attraverso cinquecento anni di maestria artigiana e di rara bellezza attende il visitatore della mostra veneziana, che permetterà di immergersi tra i colori e le suggestioni di un Paese che ha regalato al mondo della gioielleria inestimabili tesori.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Collana di rubini di Nawanagar Cartier, 1937. Platino, rubini, diamanti, h. 20,5 cm, largh. 19,5 cm. The Al Thani Collection, [fig. 2] Aigrette Mellerio dits Meller, Parigi, 1905. Oro, platino, diamanti, fondo a smalto, h. 15,5 cm, largh. 6 cm. The Al Thani Collection; [fig. 3] Diffusore per l’acqua di rose India settentrionale, 1675-1725. Oro, rubini, smeraldi, perle, h. 25,5 cm, diam. 10,3 cm. Iscrizione in persiano sulla base: 64 tola 4 masha / 64 tola 2 masha. The Al Thani Collection; [fig. 4] Elemento decorativo dal trono di Tipu Sultan Mysore, 1787-1793 circa; plinto 1800 c.. Oro, diamanti, rubini, smeraldi, lacca. Plinto: marmo nero, metallo dorato, h. 17,1 cm /Elemento decorativo h. 6,8 cm, largh. 5,4 cm, sp. 5,5 cm. Plinto h. 10,3 cm, largh. 10 cm, sp. 10 cm. The Al Thani Collection
Informazioni utili
«Tesori dei Moghul e dei maharaja: la collezione Al Thani». Palazzo Ducale, San Marco, 1 - Venezia. Orari: fino al 31 ottobre 2017, dalle ore 8.30 alle ore 19.00; dal 1° novembre, dalle ore 8.30 alle ore 17.30 (la biglietteria chiude un’ora prima). Ingresso: intero € 20,00, ridotto € 13,00 (ragazzi da 6 a 14 anni; studenti dai 15 ai 25 anni; accompagnatori (max. 2) di gruppi di almeno 15 ragazzi o studenti; visitatori oltre 65 anni; personale del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo (MiBACT); titolari di Carta Rolling Venice; Soci Fai. Informazioni:call center 848082000 (dall’Italia); +3904142730892 (dall’estero); info@fmcvenezia.it. Sito internet: palazzoducale.visitmuve.it. Fino al 3 gennaio 2018.
martedì 19 settembre 2017
«Il cantiere delle arti», non solo teatro e dizione nella 'nuova' scuola di «Culturando»
«Il teatro? Un gioco importante per crescere»: così «Culturando», realtà associativa che ha tra le proprie finalità l’educazione e la formazione dei giovani nell’ambito delle attività connesse al mondo dello spettacolo, presenta la scuola multidisciplinare di teatro «Il cantiere delle arti», che venerdì 22 settembre inizierà, con il primo di quattro Open Day conoscitivi, il suo secondo anno di attività al Manzoni di Busto Arsizio.
Sono tre i progetti che l’associazione olgiatese ha in programma per gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado: «I piccoli attori» per i bambini dai 5 ai 10 anni, «Attori in erba» per i ragazzi dagli 11 ai 15 anni, e «I giovani artisti» per le persone dai 16 ai 23 anni.
A questi corsi di educazione allo spettacolo e alla teatralità, che rinnovano nei nomi e nelle fasce d’età la proposta formativa presentata nella passata stagione, si aggiungerà dal prossimo novembre «Con precise parole», un corso di dizione e public speaking finalizzato non tanto alla formazione attoriale quanto all’acquisizione di una maggiore sicurezza nel parlare in pubblico e di un modo più efficace di gestire la propria comunicazione verbale.
Si completa così, con un progetto riservato agli over 18, l’offerta della scuola «Il cantiere delle arti», nata con l’intento di far sperimentare ai più giovani un linguaggio immediato e coinvolgente quale il teatro praticato, straordinario strumento per la crescita personale, ma anche modo divertente ed efficace per comunicare cultura e tradizioni o per veicolare messaggi importanti, formando così lo spettatore di domani, un futuro uomo o donna che sia curioso, propositivo e mentalmente aperto.
L'esperienza teatrale aiuta, infatti, i bambini, i ragazzi e i giovani nel loro sviluppo psico-fisico: li facilita a esprimere le proprie emozioni, accresce l'autostima, insegna il senso di condivisione con gli altri, stimola la fantasia e la creatività, migliora la percezione dello spazio e acuisce il senso estetico.
Dopo il fortunato progetto dedicato alla vita e alla musica di Gioachino Rossini, due sono i temi che l’associazione «Culturando» ha scelto di approfondire in questa nuova stagione: legalità, cittadinanza attiva e memoria, con particolare riferimento alle figure di Aldo Moro e Peppino Impastato, e la Commedia dell’arte, una pagina appassionante della storia teatrale italiana a cui devono molto autori come Molière, Shakespeare e Goldoni.
I nuovi progetti della scuola «Il cantiere delle arti» nascono dal lavoro di un affiatato gruppo di professionisti specializzati in differenti discipline dello spettacolo, formato da Davide De Mercato (recitazione, animazione e dizione), Gerry Franceschini (regia e recitazione), Stefano Montani (animazione e recitazione) e Annamaria Sigalotti (scrittura creativa e analisi del testo). Da questa stagione «Culturando» potrà, inoltre, vantare la collaborazione di due nuove docenti, fresche di studi all’«MTS – Musical! The School», accademia professionale di spettacolo con sede a Milano: Anna De Bernardi e Serena Biagi, che insegneranno rispettivamente uso della voce e canto e movimento corporeo e danza.
Bambini e adolescenti alla scoperta della Commedia dell'arte
Ad avviare le attività sarà, nel pomeriggio di venerdì 22 settembre, alle ore 16.45, il corso «Attori in erba», laboratorio per ragazzi dagli 11 ai 15 anni, le cui lezioni si terranno una volta a settimana, in orario non scolastico, negli spazi del cinema teatro Manzoni di Busto Arsizio e del vicino oratorio «San Filippo Neri»: il venerdì, dalle ore 17.00 alle ore 19.00, con ingresso a partire dalle ore 16.45 e uscita entro le ore 19.15.
«Tra maschere, lazzi e canovacci» è il tema scelto per questa edizione del corso che si propone di avvicinare i più giovani al teatro e alla sua storia attraverso lo studio della Commedia dell’arte, approfondendo argomenti quali la maschera e il suo uso, le tecniche di improvvisazione e quelle per la costruzione di un canovaccio, i tipi fissi del teatro (vecchi, zanni, innamorati e capitani), i loro caratteri e i loro linguaggi.
Arlecchino, Pulcinella e i tanti altri protagonisti della Commedia dell’arte, con le loro storie, saranno al centro anche dal corso «I piccoli attori», riservato ai bambini dai 5 ai 10 anni, il cui progetto si intitola «Ti conosco, mascherina!». Le lezioni si terranno negli stessi orari del corso «Attori in erba»; mentre l’Open Day è in cartellone per la giornata di venerdì 29 settembre, dalle ore 16.45. Durante i due laboratori, che prevedono entrambi trenta moduli didattici di due ore e trenta ciascuno, i bambini saranno inizialmente protagonisti di giochi di relazione e di fiducia, improvvisazioni corali e individuali e, poi, impareranno l’ABC del mondo della scena, cimentandosi anche nella stesura del testo drammaturgico e nella costruzione delle maschere, in vista del saggio-spettacolo di fine anno, in cartellone indicativamente nella giornata di sabato 19 maggio 2018.
9 maggio 1978, un progetto de «I giovani artisti» per riflettere
Ai ragazzi dai 16 ai 23 anni è, invece, dedicato il corso «I giovani artisti», che approfondirà le varie discipline del teatro e, contemporaneamente, tratterà dei temi della legalità, della cittadinanza attiva e della memoria storica, a partire dalla storia di Peppino Impastato.
«Se si insegnasse la bellezza…» è la frase scelta come filo rosso del percorso che prevede ventisette moduli didattici di due ore ciascuno, in programma con cadenza settimanale e in orario non scolastico: il lunedì, dalle ore 17 alle ore 19. L’Open Day è fissato per il pomeriggio del 23 ottobre, alle ore 17; mentre lo spettacolo di fine anno si terrà mercoledì 9 maggio 2018, Giornata per la memoria delle vittime del terrorismo.
Nella stessa serata si chiuderà anche il corso di dizione e public speaking «Con precise parole», il cui Open Day si terrà nella mattinata di sabato 4 novembre, alle ore 10.30.
Il laboratorio prevede venti moduli didattici di un’ora e trenta ciascuno, in programma il venerdì sera, dalle ore 21.00 alle ore 22.30, o il sabato mattina, dalle 10.30 alle 12.00. I testi scelti per le esercitazioni in aula, le improvvisazioni individuali e di gruppo mediate dal teatro e il saggio finale, dedicato al ricordo della figura di Aldo Moro, avranno come filo conduttore il tema «1978, un anno su cui riflettere». Un argomento, questo, che sarà al centro di un progetto che «Culturando» sta ideando per la primavera e l’estate 2018, teso ad affrontare la storia e il pensiero di Aldo Moro, Peppino Impastato, Sandro Pertini e i papi Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II.
Didascalie delle immagini
[Figg. 1, 2, 3] Una scena dello spettacolo «C'era una volta...Gioachino Rossini», con gli «Attori in erba». Foto: Valentina Eleonora Colombo; [fig. 4] Un momento delle lezioni con I piccoli attori e gli «Attori in erba» al teatro Manzoni di Busto Arsizio. Foto: Valentina Eleonora Colombo; [fig.5] Una scena dello spettacolo «Se fosse per me, farei la pace» con gli «Attori in erba». Foto: Moscatelli
Informazioni utili
«Il cantiere delle arti» - scuola multidisciplinare di teatro | II anno. Cinema teatro Manzoni, via Calatafimi, 5 - Busto Arsizio (Varese). Informazioni: associazione «Culturando», tel. 347.5776656 o info@associazioneculturando.com. La scheda di iscrizione ai corsi, con le informazioni dettagliate sui calendari e sui costi, sono scaricabili al link https://goo.gl/E3ZByW.
A questi corsi di educazione allo spettacolo e alla teatralità, che rinnovano nei nomi e nelle fasce d’età la proposta formativa presentata nella passata stagione, si aggiungerà dal prossimo novembre «Con precise parole», un corso di dizione e public speaking finalizzato non tanto alla formazione attoriale quanto all’acquisizione di una maggiore sicurezza nel parlare in pubblico e di un modo più efficace di gestire la propria comunicazione verbale.
Si completa così, con un progetto riservato agli over 18, l’offerta della scuola «Il cantiere delle arti», nata con l’intento di far sperimentare ai più giovani un linguaggio immediato e coinvolgente quale il teatro praticato, straordinario strumento per la crescita personale, ma anche modo divertente ed efficace per comunicare cultura e tradizioni o per veicolare messaggi importanti, formando così lo spettatore di domani, un futuro uomo o donna che sia curioso, propositivo e mentalmente aperto.
L'esperienza teatrale aiuta, infatti, i bambini, i ragazzi e i giovani nel loro sviluppo psico-fisico: li facilita a esprimere le proprie emozioni, accresce l'autostima, insegna il senso di condivisione con gli altri, stimola la fantasia e la creatività, migliora la percezione dello spazio e acuisce il senso estetico.
Dopo il fortunato progetto dedicato alla vita e alla musica di Gioachino Rossini, due sono i temi che l’associazione «Culturando» ha scelto di approfondire in questa nuova stagione: legalità, cittadinanza attiva e memoria, con particolare riferimento alle figure di Aldo Moro e Peppino Impastato, e la Commedia dell’arte, una pagina appassionante della storia teatrale italiana a cui devono molto autori come Molière, Shakespeare e Goldoni.
I nuovi progetti della scuola «Il cantiere delle arti» nascono dal lavoro di un affiatato gruppo di professionisti specializzati in differenti discipline dello spettacolo, formato da Davide De Mercato (recitazione, animazione e dizione), Gerry Franceschini (regia e recitazione), Stefano Montani (animazione e recitazione) e Annamaria Sigalotti (scrittura creativa e analisi del testo). Da questa stagione «Culturando» potrà, inoltre, vantare la collaborazione di due nuove docenti, fresche di studi all’«MTS – Musical! The School», accademia professionale di spettacolo con sede a Milano: Anna De Bernardi e Serena Biagi, che insegneranno rispettivamente uso della voce e canto e movimento corporeo e danza.
Bambini e adolescenti alla scoperta della Commedia dell'arte
Ad avviare le attività sarà, nel pomeriggio di venerdì 22 settembre, alle ore 16.45, il corso «Attori in erba», laboratorio per ragazzi dagli 11 ai 15 anni, le cui lezioni si terranno una volta a settimana, in orario non scolastico, negli spazi del cinema teatro Manzoni di Busto Arsizio e del vicino oratorio «San Filippo Neri»: il venerdì, dalle ore 17.00 alle ore 19.00, con ingresso a partire dalle ore 16.45 e uscita entro le ore 19.15.
«Tra maschere, lazzi e canovacci» è il tema scelto per questa edizione del corso che si propone di avvicinare i più giovani al teatro e alla sua storia attraverso lo studio della Commedia dell’arte, approfondendo argomenti quali la maschera e il suo uso, le tecniche di improvvisazione e quelle per la costruzione di un canovaccio, i tipi fissi del teatro (vecchi, zanni, innamorati e capitani), i loro caratteri e i loro linguaggi.
Arlecchino, Pulcinella e i tanti altri protagonisti della Commedia dell’arte, con le loro storie, saranno al centro anche dal corso «I piccoli attori», riservato ai bambini dai 5 ai 10 anni, il cui progetto si intitola «Ti conosco, mascherina!». Le lezioni si terranno negli stessi orari del corso «Attori in erba»; mentre l’Open Day è in cartellone per la giornata di venerdì 29 settembre, dalle ore 16.45. Durante i due laboratori, che prevedono entrambi trenta moduli didattici di due ore e trenta ciascuno, i bambini saranno inizialmente protagonisti di giochi di relazione e di fiducia, improvvisazioni corali e individuali e, poi, impareranno l’ABC del mondo della scena, cimentandosi anche nella stesura del testo drammaturgico e nella costruzione delle maschere, in vista del saggio-spettacolo di fine anno, in cartellone indicativamente nella giornata di sabato 19 maggio 2018.
9 maggio 1978, un progetto de «I giovani artisti» per riflettere
Ai ragazzi dai 16 ai 23 anni è, invece, dedicato il corso «I giovani artisti», che approfondirà le varie discipline del teatro e, contemporaneamente, tratterà dei temi della legalità, della cittadinanza attiva e della memoria storica, a partire dalla storia di Peppino Impastato.
«Se si insegnasse la bellezza…» è la frase scelta come filo rosso del percorso che prevede ventisette moduli didattici di due ore ciascuno, in programma con cadenza settimanale e in orario non scolastico: il lunedì, dalle ore 17 alle ore 19. L’Open Day è fissato per il pomeriggio del 23 ottobre, alle ore 17; mentre lo spettacolo di fine anno si terrà mercoledì 9 maggio 2018, Giornata per la memoria delle vittime del terrorismo.
Nella stessa serata si chiuderà anche il corso di dizione e public speaking «Con precise parole», il cui Open Day si terrà nella mattinata di sabato 4 novembre, alle ore 10.30.
Il laboratorio prevede venti moduli didattici di un’ora e trenta ciascuno, in programma il venerdì sera, dalle ore 21.00 alle ore 22.30, o il sabato mattina, dalle 10.30 alle 12.00. I testi scelti per le esercitazioni in aula, le improvvisazioni individuali e di gruppo mediate dal teatro e il saggio finale, dedicato al ricordo della figura di Aldo Moro, avranno come filo conduttore il tema «1978, un anno su cui riflettere». Un argomento, questo, che sarà al centro di un progetto che «Culturando» sta ideando per la primavera e l’estate 2018, teso ad affrontare la storia e il pensiero di Aldo Moro, Peppino Impastato, Sandro Pertini e i papi Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II.
Didascalie delle immagini
[Figg. 1, 2, 3] Una scena dello spettacolo «C'era una volta...Gioachino Rossini», con gli «Attori in erba». Foto: Valentina Eleonora Colombo; [fig. 4] Un momento delle lezioni con I piccoli attori e gli «Attori in erba» al teatro Manzoni di Busto Arsizio. Foto: Valentina Eleonora Colombo; [fig.5] Una scena dello spettacolo «Se fosse per me, farei la pace» con gli «Attori in erba». Foto: Moscatelli
Informazioni utili
«Il cantiere delle arti» - scuola multidisciplinare di teatro | II anno. Cinema teatro Manzoni, via Calatafimi, 5 - Busto Arsizio (Varese). Informazioni: associazione «Culturando», tel. 347.5776656 o info@associazioneculturando.com. La scheda di iscrizione ai corsi, con le informazioni dettagliate sui calendari e sui costi, sono scaricabili al link https://goo.gl/E3ZByW.
domenica 17 settembre 2017
Lyda Borelli, una primadonna del teatro italiano
Fu la prima moglie di Vittorio Cini, ma fu soprattutto una delle più affascinanti interpreti italiane del primo Novecento, oltre che una vera e propria icona liberty e una donna d’avanguardia. Stiamo parlando dell’attrice Lyda Borelli (La Spezia, 1887 – Roma, 1959), scelta dalla Fondazione Cini di Venezia, prestigiosa istituzione culturale ubicata sull’Isola di San Giorgio, per festeggiare i dieci anni del suo Istituto per il teatro e il melodramma.
All’artista ligure, che si divise tra i più grandi palcoscenici mondiali e i primi set del cinematografo, è dedicata la mostra in programma fino al prossimo 15 novembre a Palazzo Cini a San Vio, frutto dell’ampio lavoro di ricerca condotto da Maria Ida Biggi, con Marianna Zannoni, recentemente pubblicato dalla Fratelli Alinari di Firenze.
Nata figlia d’arte nel 1887, la Borelli cominciò giovanissima la propria carriera debuttando nel 1901, a soli quattordici anni, nella Drammatica compagnia italiana di Francesco Pasta e Virginia Reiter. Si esibì, quindi, sotto la regia di Virgilio Talli, e nel 1905 ottenne il ruolo di prima attrice giovane, recitando al fianco di Eleonora Duse. Intorno agli anni Dieci l’artista firmò un vantaggioso contratto con la nuova Compagnia drammatica italiana diretta da Ruggero Ruggeri, arrivando a portare in scena fino a settanta titoli in un anno. Nel 1912 divenne capocomica della Compagnia italiana Gandusio-Borelli-Piperno, diretta da Flavio Andò, mentre nel 1915 entrò a far parte della nuova Compagnia diretta da Ermete Novelli, con la quale portò in scena, in prima assoluta al teatro Carignano di Torino, «Le nozze dei Centauri» di Sem Benelli. Nel 1918 l’attrice sposò il conte Vittorio Cini e abbandonò le scene per dedicarsi alla vita familiare.
Questa storia rivive nella mostra veneziana grazie a rari documenti d’archivio, alcuni dei quali inediti, e a una straordinaria galleria di fotografie che gettano luce su una importante interprete del primo Novecento, musa ispiratrice dei più grandi fotografi e artisti del periodo.
Mario Nunes Vais, Arturo Varischi e Giovanni Artico, Emilio Sommariva e Attilio Badodi sono alcuni dei maestri dell’obiettivo per i quali la Borelli posò sia in abiti di scena sia dando sfoggio delle sue celebri toilettes.
Per l’occasione la sartoria veneziana Atelier Nicolao ha realizzato tre abiti di scena dell’attrice: il costume di Favetta in occasione della prima rappresentazione assoluta dell’opera «La Figlia di Iorio» di Gabriele D’Annunzio, quello della protagonista di «Salomè» di Oscar Wilde, indossato durante la «danza dei setti veli», e un abito borghese che documenta l’eleganza dell’artista nella vita quotidiana.
La mostra fornisce anche un quadro generale sulla personalità dell’attrice, la cui immagine di donna emancipata, costruita attraverso il carattere dei personaggi che interpretava, ma anche alla forza del suo carattere nella vita reale, contribuì a farne un modello di modernità. Madrina della jupe-culotte, la prima forma di pantalone femminile, Lyda Borelli fu anche una delle prime donne a sperimentare l’ebbrezza del volo, affiancata dai maggiori aviatori dell’epoca, e a comparire al volante di un’automobile.
In mostra vi sono anche le rare e inedite stereoscopie su lastre di vetro, realizzate da un apparecchio fotografico appartenuto alla stessa Borelli, e diversi album con preziosi ritagli stampa che documentano i suoi successi a livello nazionale e internazionale.
Una sezione della mostra veneziana è dedicata all’immagine pittorica dell’attrice. Tra i ritratti di noti esponenti della pittura italiana della Belle Époque, assume un ruolo particolare il dipinto del pittore Ettore de Maria Bergler, uno dei maggiori rappresentanti del liberty siciliano, e quello della pittrice Maria Vinca, che mostra Lyda Borelli in una dimensione familiare insieme ai due figli Giorgio e Mynna.
Completa il percorso espositivo un montaggio video realizzato dalla Fondazione cineteca italiana di Milano: un excursus sulle interpretazioni cinematografiche della Borelli, fondamentali nella costruzione della sua immagine d’artista. A tal proposito durante i mesi di apertura della mostra si terrà, fino al prossimo 8 novembre, la rassegna «Lyda Borelli diva cinematografica», articolata negli spazi del teatro La Fenice, della Casa del cinema – Videoteca Pasinetti e della stessa Fondazione Giorgio Cini.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Lyda Borelli, 1910. Fotografia Varischi e Artico. Collezione privata; [fig. 2] Lyda Borelli con un'automobile Isotta Fraschini, 1914. Fotografia di Attilio Badodi. Collezione privata; [fig. 3] Lyda Borelli con la jupe-culotte, 1911 circa. Fotografia di Mario Nunes Vais. Istituto centrale per il catalogo e la documentazione – Gabinetto Fotografico nazionale, Archivio Nunes Vais, Roma
Informazioni utili
«Lyda Borelli, una primadonna del Novecento». Palazzo Cini, San Vio, Dorsoduro 864 – Venezia. Orari: ore 11.00 – 19.00 (ultimo ingresso ore 18.15), chiuso il martedì (ultimo ingresso ore 18.15). Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8,00. Informazioni: Istituto per il teatro e il melodramma, tel. 041.2710236 o teatromelodramma@cini.it. Fino al 15 novembre 2017
All’artista ligure, che si divise tra i più grandi palcoscenici mondiali e i primi set del cinematografo, è dedicata la mostra in programma fino al prossimo 15 novembre a Palazzo Cini a San Vio, frutto dell’ampio lavoro di ricerca condotto da Maria Ida Biggi, con Marianna Zannoni, recentemente pubblicato dalla Fratelli Alinari di Firenze.
Nata figlia d’arte nel 1887, la Borelli cominciò giovanissima la propria carriera debuttando nel 1901, a soli quattordici anni, nella Drammatica compagnia italiana di Francesco Pasta e Virginia Reiter. Si esibì, quindi, sotto la regia di Virgilio Talli, e nel 1905 ottenne il ruolo di prima attrice giovane, recitando al fianco di Eleonora Duse. Intorno agli anni Dieci l’artista firmò un vantaggioso contratto con la nuova Compagnia drammatica italiana diretta da Ruggero Ruggeri, arrivando a portare in scena fino a settanta titoli in un anno. Nel 1912 divenne capocomica della Compagnia italiana Gandusio-Borelli-Piperno, diretta da Flavio Andò, mentre nel 1915 entrò a far parte della nuova Compagnia diretta da Ermete Novelli, con la quale portò in scena, in prima assoluta al teatro Carignano di Torino, «Le nozze dei Centauri» di Sem Benelli. Nel 1918 l’attrice sposò il conte Vittorio Cini e abbandonò le scene per dedicarsi alla vita familiare.
Questa storia rivive nella mostra veneziana grazie a rari documenti d’archivio, alcuni dei quali inediti, e a una straordinaria galleria di fotografie che gettano luce su una importante interprete del primo Novecento, musa ispiratrice dei più grandi fotografi e artisti del periodo.
Mario Nunes Vais, Arturo Varischi e Giovanni Artico, Emilio Sommariva e Attilio Badodi sono alcuni dei maestri dell’obiettivo per i quali la Borelli posò sia in abiti di scena sia dando sfoggio delle sue celebri toilettes.
Per l’occasione la sartoria veneziana Atelier Nicolao ha realizzato tre abiti di scena dell’attrice: il costume di Favetta in occasione della prima rappresentazione assoluta dell’opera «La Figlia di Iorio» di Gabriele D’Annunzio, quello della protagonista di «Salomè» di Oscar Wilde, indossato durante la «danza dei setti veli», e un abito borghese che documenta l’eleganza dell’artista nella vita quotidiana.
La mostra fornisce anche un quadro generale sulla personalità dell’attrice, la cui immagine di donna emancipata, costruita attraverso il carattere dei personaggi che interpretava, ma anche alla forza del suo carattere nella vita reale, contribuì a farne un modello di modernità. Madrina della jupe-culotte, la prima forma di pantalone femminile, Lyda Borelli fu anche una delle prime donne a sperimentare l’ebbrezza del volo, affiancata dai maggiori aviatori dell’epoca, e a comparire al volante di un’automobile.
In mostra vi sono anche le rare e inedite stereoscopie su lastre di vetro, realizzate da un apparecchio fotografico appartenuto alla stessa Borelli, e diversi album con preziosi ritagli stampa che documentano i suoi successi a livello nazionale e internazionale.
Una sezione della mostra veneziana è dedicata all’immagine pittorica dell’attrice. Tra i ritratti di noti esponenti della pittura italiana della Belle Époque, assume un ruolo particolare il dipinto del pittore Ettore de Maria Bergler, uno dei maggiori rappresentanti del liberty siciliano, e quello della pittrice Maria Vinca, che mostra Lyda Borelli in una dimensione familiare insieme ai due figli Giorgio e Mynna.
Completa il percorso espositivo un montaggio video realizzato dalla Fondazione cineteca italiana di Milano: un excursus sulle interpretazioni cinematografiche della Borelli, fondamentali nella costruzione della sua immagine d’artista. A tal proposito durante i mesi di apertura della mostra si terrà, fino al prossimo 8 novembre, la rassegna «Lyda Borelli diva cinematografica», articolata negli spazi del teatro La Fenice, della Casa del cinema – Videoteca Pasinetti e della stessa Fondazione Giorgio Cini.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Lyda Borelli, 1910. Fotografia Varischi e Artico. Collezione privata; [fig. 2] Lyda Borelli con un'automobile Isotta Fraschini, 1914. Fotografia di Attilio Badodi. Collezione privata; [fig. 3] Lyda Borelli con la jupe-culotte, 1911 circa. Fotografia di Mario Nunes Vais. Istituto centrale per il catalogo e la documentazione – Gabinetto Fotografico nazionale, Archivio Nunes Vais, Roma
Informazioni utili
«Lyda Borelli, una primadonna del Novecento». Palazzo Cini, San Vio, Dorsoduro 864 – Venezia. Orari: ore 11.00 – 19.00 (ultimo ingresso ore 18.15), chiuso il martedì (ultimo ingresso ore 18.15). Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8,00. Informazioni: Istituto per il teatro e il melodramma, tel. 041.2710236 o teatromelodramma@cini.it. Fino al 15 novembre 2017
venerdì 15 settembre 2017
Vittorio Zecchin e i suoi vetri trasparenti per Cappellin e Venini
Sono circa duecentocinquanta vetri eterei soffiati a comporre il percorso espositivo della mostra che la Fondazione Giorgio Cini di Venezia dedica, negli spazi «Le stanze del vetro», a Vittorio Zecchin (1878-1947), artista e pittore muranese che ha contribuito in modo determinante, anche grazie all’appoggio di due imprenditori illuminati quali Giacomo Cappellin e Paolo Venini, a modernizzare negli anni Venti la storia della produzione vetraria veneziana.
La rassegna, curata da Marino Barovier, vuole porre l’accento su quella raffinatissima produzione di soffiati monocromi di ispirazione classica che segnò una svolta decisiva nel panorama muranese del XX secolo, contribuendo in maniera decisiva alla rinascita di questo settore che, salvo rare eccezioni, era fermo sulla sterile ripetizione di modelli ormai sorpassati.
In particolare la rassegna alle Stanze del vetro, visitabile fino al prossimo 7 gennaio, documenta la produzione di Vittorio Zecchin a partire dal 1921, quando venne chiamato, in qualità di direttore artistico, alla V.S.M. Cappellin Venini & C., vetreria fondata quell’anno dall’antiquario veneziano Giacomo Cappellin e dal neoavvocato milanese Paolo Venini, con l’intento di realizzare una nuova produzione rivolta a una clientela alto borghese.
In parte ispirati alla storia della vetreria cinquecentesca, in parte ai vetri raffigurati sulle tele di pittori veneziani del XVI secolo, i manufatti dell’artista si distinsero subito rispetto alle coeve realizzazioni muranesi, connotate da eccessivi virtuosismi, sia per le proporzioni classiche e le linee di notevole essenzialità, sia per le notevoli cromie in prevalenza dai toni delicati, ma anche dalle tonalità intense e brillanti giocate nei toni del giallo, del verde, del blu e dell’ametista.
«Evasione dagli schemi tradizionali, apertura verso le avanguardie artistiche, padronanza delle tecniche di lavorazione», per usare le parole degli organizzatori, caratterizzano, infatti, questa nuova stagione del vetro a Murano, che scrive un’importante pagina del made in Italy. L’esposizione permette di ammirare coppe e vasi di grande rigore, a volte dotati di basi piatte, talvolta segnati da pieghe o strozzature sul corpo o sul collo. Tra i vetri dalle linee classiche si distingue il celebre vaso detto «Veronese», che trae origine da un modello presente nella grande tela cinquecentesca de «L’annunciazione», dipinta dall’omonimo pittore e conservata alle Gallerie dell’Accademia a Venezia.
Il riferimento alla pittura e ai manufatti di quel periodo si possono apprezzare anche nella piccola rassegna di servizi da tavola, che sembrano tratti dalle mense di Tintoretto e che documentano a titolo esemplificativo le numerose realizzazioni della vetreria in questo ambito.
Allo stesso modo, la produzione di carattere più utilitaristico viene documentata da una piccola selezione di compostiere, per la maggior parte impreziosite sul coperchio da delicati frutti d’ispirazione settecentesca.
Il lavoro di Vittorio Zecchin, avviato in sinergia con i due soci Cappellin e Venini, rispondeva appieno al nuovo gusto che andava affermandosi, come dimostrò il notevole consenso che la vetreria riscosse fin dal suo esordio, sia in ambito nazionale che internazionale, anche grazie alla sua partecipazione a importanti esposizioni di arte decorativa come la prima Biennale di Monza e la celebre Exposition Internationale des Arts Décoratifs di Parigi. Da qui -era il 1925- le strade di Cappellin e Venini si divisero; ognuno proseguì per conto proprio:ì, il primo con la M.V.M. Cappellin & C. e il secondo con la V.S.M. Venini & C., dove il ruolo di Zecchin passò allo scultore Napoleone Martinuzzi.
L’artista muranese scelse di rimanere con Giacomo Cappellin e operò come direttore artistico della nuova fornace, dove rimase fino all’ottobre 1926, continuando a progettare nuovi modelli caratterizzati da un sobrio classicismo e da una signorile essenzialità, che niente hanno da invidiare al miglior design europeo coevo.
Informazioni utili
Vittorio Zecchin: i vetri trasparenti per Cappellin e Venini. Fondazione Giorgio Cini - Le stanze del vetro, Isola di San Giorgio Maggiore - Venezia. Orari: ore 10.00–19.00, chiuso il mercoledì. Ingresso: libero. Informazioni: info@lestanzedelvetro.org, info@cini.it. Sito internet: www.lestanzedelvetro.org o www.cini.it. Dall'11 settembre 2017 al 7 gennaio 2018.
La rassegna, curata da Marino Barovier, vuole porre l’accento su quella raffinatissima produzione di soffiati monocromi di ispirazione classica che segnò una svolta decisiva nel panorama muranese del XX secolo, contribuendo in maniera decisiva alla rinascita di questo settore che, salvo rare eccezioni, era fermo sulla sterile ripetizione di modelli ormai sorpassati.
In particolare la rassegna alle Stanze del vetro, visitabile fino al prossimo 7 gennaio, documenta la produzione di Vittorio Zecchin a partire dal 1921, quando venne chiamato, in qualità di direttore artistico, alla V.S.M. Cappellin Venini & C., vetreria fondata quell’anno dall’antiquario veneziano Giacomo Cappellin e dal neoavvocato milanese Paolo Venini, con l’intento di realizzare una nuova produzione rivolta a una clientela alto borghese.
In parte ispirati alla storia della vetreria cinquecentesca, in parte ai vetri raffigurati sulle tele di pittori veneziani del XVI secolo, i manufatti dell’artista si distinsero subito rispetto alle coeve realizzazioni muranesi, connotate da eccessivi virtuosismi, sia per le proporzioni classiche e le linee di notevole essenzialità, sia per le notevoli cromie in prevalenza dai toni delicati, ma anche dalle tonalità intense e brillanti giocate nei toni del giallo, del verde, del blu e dell’ametista.
«Evasione dagli schemi tradizionali, apertura verso le avanguardie artistiche, padronanza delle tecniche di lavorazione», per usare le parole degli organizzatori, caratterizzano, infatti, questa nuova stagione del vetro a Murano, che scrive un’importante pagina del made in Italy. L’esposizione permette di ammirare coppe e vasi di grande rigore, a volte dotati di basi piatte, talvolta segnati da pieghe o strozzature sul corpo o sul collo. Tra i vetri dalle linee classiche si distingue il celebre vaso detto «Veronese», che trae origine da un modello presente nella grande tela cinquecentesca de «L’annunciazione», dipinta dall’omonimo pittore e conservata alle Gallerie dell’Accademia a Venezia.
Il riferimento alla pittura e ai manufatti di quel periodo si possono apprezzare anche nella piccola rassegna di servizi da tavola, che sembrano tratti dalle mense di Tintoretto e che documentano a titolo esemplificativo le numerose realizzazioni della vetreria in questo ambito.
Allo stesso modo, la produzione di carattere più utilitaristico viene documentata da una piccola selezione di compostiere, per la maggior parte impreziosite sul coperchio da delicati frutti d’ispirazione settecentesca.
Il lavoro di Vittorio Zecchin, avviato in sinergia con i due soci Cappellin e Venini, rispondeva appieno al nuovo gusto che andava affermandosi, come dimostrò il notevole consenso che la vetreria riscosse fin dal suo esordio, sia in ambito nazionale che internazionale, anche grazie alla sua partecipazione a importanti esposizioni di arte decorativa come la prima Biennale di Monza e la celebre Exposition Internationale des Arts Décoratifs di Parigi. Da qui -era il 1925- le strade di Cappellin e Venini si divisero; ognuno proseguì per conto proprio:ì, il primo con la M.V.M. Cappellin & C. e il secondo con la V.S.M. Venini & C., dove il ruolo di Zecchin passò allo scultore Napoleone Martinuzzi.
L’artista muranese scelse di rimanere con Giacomo Cappellin e operò come direttore artistico della nuova fornace, dove rimase fino all’ottobre 1926, continuando a progettare nuovi modelli caratterizzati da un sobrio classicismo e da una signorile essenzialità, che niente hanno da invidiare al miglior design europeo coevo.
Informazioni utili
Vittorio Zecchin: i vetri trasparenti per Cappellin e Venini. Fondazione Giorgio Cini - Le stanze del vetro, Isola di San Giorgio Maggiore - Venezia. Orari: ore 10.00–19.00, chiuso il mercoledì. Ingresso: libero. Informazioni: info@lestanzedelvetro.org, info@cini.it. Sito internet: www.lestanzedelvetro.org o www.cini.it. Dall'11 settembre 2017 al 7 gennaio 2018.
mercoledì 13 settembre 2017
Un’inedita Frida Kahlo in mostra a Milano
Donna dalla personalità molto forte, indipendente e passionale, riluttante nei confronti delle convenzioni sociali, Frida Kahlo è una di quelle figure femminili che ha lasciato un contributo significato nella storia dell’arte del secolo scorso. La sua notorietà tra il grande pubblico è, però, dovuta soprattutto ad alcune sfumature della sua vita, dall’amore tormentato con il pittore muralista Diego Rivera alla sofferenza fisica causata da un terribile incidente occorsole all’età di 17 anni, fino al desiderio mai realizzato di essere madre.
Ma che cosa si nasconde «oltre il mito»? Che cosa c’è al di là della «Fridomania» che ha trasformato una talentuosa artista in un’icona pop da poster e calendari? A rispondere a questa domanda prova la mostra-evento ospitata dal Mudec – Museo delle culture di Milano a partire dal prossimo 1° febbraio, che vede la curatela di Diego Sileo, storico specializzato nell’arte contemporanea sudamericana che ha fatto parte, come unico membro europeo, del progetto di ricerca sul nuovo archivio di Frida Kahlo e Diego Rivera del Museo Frida Kahlo di Città del Messico.
La rassegna, frutto di un lavoro di ricerca durato sei anni, riunirà per la prima volta in Italia tutte le opere provenienti dal Museo Dolores Olmedo e dalla Jacques and Natasha Gelman Collection, le due più importanti e ampie raccolte dedicate all’artista sudamericana.
Sarà, inoltre, possibile vedere tra le cento opere esposte (una cinquantina di dipinti, oltre a disegni e fotografie) altri capolavori di Frida Kahlo inediti per il nostro Paese, che vedono tra i prestatori il Phoenix Art Museum, il Madison Museum of Contemporary Art e la Buffalo Albright-Knox Art Gallery.
Diego Sileo, coordinato nel suo lavoro da Hayden Herrera e Juan Rafael Coronel Rivera, proverà ad andare oltre gli stereotipi che hanno visto interpretare l’opera dell’artista latina «come un semplice riflesso delle sue vicissitudini personali o, nell’ambito di una sorta di psicoanalisi amatoriale, come un sintomo dei suoi conflitti e disequilibri interni».
Per un’analisi seria e approfondita della poetica di Frida Kahlo è, infatti, necessario spingersi al di là degli angusti limiti di una biografia spesso analizzata con una certa morbosità.
In questo lavoro il curatore della mostra milanese è stato facilitato dallo studio delle fonti e dei documenti ritrovati nell’archivio di Casa Azul, la dimora dell’artista a Città del Messico, che consta di 22.105 documenti, 5.387 fotografie, 3.874 pubblicazioni, 124 grafiche che comprendono disegni, bozzetti, progetti, mappe, e una ventina di oggetti personali tra cui vestiti, protesi e busti ortopedici.
La leggenda di Frida -racconta Diego Sileo- «affonda le sue radici nel mito romantico dell’artista tormentato, ma, soprattutto, riproduce tutti gli stilemi associati alla figura della donna artista: malata e ipersensibile, instabile emotivamente, formatasi all’ombra di un maestro con cui instaurò una storia d’amore tragica e passionale, ribelle, e poco rispettosa delle convenzioni della sua epoca».
Ma dalle indagine realizzate in Messico «la donna dagli occhi di velluto e dalle acconciature sofisticamente etniche» -due caratteristiche, queste, che hanno contribuito a crearne il mito- ha il volto di un’artista a tutto tondo, che ha saputo superare gli steccati del Surrealismo per raccontare in maniera originale il suo tempo, la storia politica e sociale del suo Paese, e non solo il suo privato.
Il percorso espositivo non seguirà una progressione cronologica, perché fatalmente riporterebbe alla solita lettura della sua vita, ma analizzerà tematiche che hanno contraddistinto tutto il suo esistere e operare. L’espressione della sofferenza vitale, la ricerca cosciente dell’Io, l’affermazione della «messicanità», la sua leggendaria forma di resilienza sono alcuni dei temi principali che permeano la sua vita e la sua opere. Gli stessi argomenti si rifletteranno nel progetto d’allestimento della mostra, che si svilupperà attraverso cinque sezioni: «Politica», «Donna», «Violenza», «Natura» e «Morte». Ovviamente non mancheranno lungo il percorso espositivo i tanti autoritratti di Frida Kahlo, «una bomba avvolta in nastri di seta», così come venne definita dal poeta e critico d’arte francese André Breton, che non ebbe di certo una vita facile, ma che fu sempre capace di dire «Viva la vida».
Didascalie delle immagini
[Fig.1 ] Frida Kahlo, Autorretrato, 1940. Olio su alluminio, 63,5 x 49,5 cm. Harry Ransom Center - The University of Texas, Austin. Crediti: ©Banco de México Diego Rivera Frida Kahlo Museums Trust, México; [fig. 2] Frida Kahlo, La columna rota, 1944 . Olio su tela, 39.8 x 30.5 cm. Museo Dolores Olmedo Crediti: ©Archivio Museo Dolores Olmedo/Foto Erik Meza - Xavier Otada ©Banco de México Diego Rivera Frida Kahlo Museums Trust, México; [fig. 3] Frida Kahlo, Mi nana y yo, 1937. Olio su lamina, 30.5 x 35 cm. Museo Dolores Olmedo. Crediti: ©Archivio Museo Dolores Olmedo/Foto Erik Meza - Xavier Otada
Informazioni utili
Frida Kahlo. Oltre il mito. Museo delle culture di Milano, via Tortona, 56 – Milano. Orari: lunedì, ore 14.30‐19.30; martedì, mercoledì, venerdì e domenica, ore 9.30-19.30; giovedì, ore 9.30-22-30; il servizio di biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso: intero € 12,00, ridotto € 10,00. Informazioni e prenotazioni: tel. 0254917. Sito internet: www.ticket24ore.it.Dal 1 febbraio al 3 giugno 2018.
Ma che cosa si nasconde «oltre il mito»? Che cosa c’è al di là della «Fridomania» che ha trasformato una talentuosa artista in un’icona pop da poster e calendari? A rispondere a questa domanda prova la mostra-evento ospitata dal Mudec – Museo delle culture di Milano a partire dal prossimo 1° febbraio, che vede la curatela di Diego Sileo, storico specializzato nell’arte contemporanea sudamericana che ha fatto parte, come unico membro europeo, del progetto di ricerca sul nuovo archivio di Frida Kahlo e Diego Rivera del Museo Frida Kahlo di Città del Messico.
La rassegna, frutto di un lavoro di ricerca durato sei anni, riunirà per la prima volta in Italia tutte le opere provenienti dal Museo Dolores Olmedo e dalla Jacques and Natasha Gelman Collection, le due più importanti e ampie raccolte dedicate all’artista sudamericana.
Sarà, inoltre, possibile vedere tra le cento opere esposte (una cinquantina di dipinti, oltre a disegni e fotografie) altri capolavori di Frida Kahlo inediti per il nostro Paese, che vedono tra i prestatori il Phoenix Art Museum, il Madison Museum of Contemporary Art e la Buffalo Albright-Knox Art Gallery.
Diego Sileo, coordinato nel suo lavoro da Hayden Herrera e Juan Rafael Coronel Rivera, proverà ad andare oltre gli stereotipi che hanno visto interpretare l’opera dell’artista latina «come un semplice riflesso delle sue vicissitudini personali o, nell’ambito di una sorta di psicoanalisi amatoriale, come un sintomo dei suoi conflitti e disequilibri interni».
Per un’analisi seria e approfondita della poetica di Frida Kahlo è, infatti, necessario spingersi al di là degli angusti limiti di una biografia spesso analizzata con una certa morbosità.
In questo lavoro il curatore della mostra milanese è stato facilitato dallo studio delle fonti e dei documenti ritrovati nell’archivio di Casa Azul, la dimora dell’artista a Città del Messico, che consta di 22.105 documenti, 5.387 fotografie, 3.874 pubblicazioni, 124 grafiche che comprendono disegni, bozzetti, progetti, mappe, e una ventina di oggetti personali tra cui vestiti, protesi e busti ortopedici.
La leggenda di Frida -racconta Diego Sileo- «affonda le sue radici nel mito romantico dell’artista tormentato, ma, soprattutto, riproduce tutti gli stilemi associati alla figura della donna artista: malata e ipersensibile, instabile emotivamente, formatasi all’ombra di un maestro con cui instaurò una storia d’amore tragica e passionale, ribelle, e poco rispettosa delle convenzioni della sua epoca».
Ma dalle indagine realizzate in Messico «la donna dagli occhi di velluto e dalle acconciature sofisticamente etniche» -due caratteristiche, queste, che hanno contribuito a crearne il mito- ha il volto di un’artista a tutto tondo, che ha saputo superare gli steccati del Surrealismo per raccontare in maniera originale il suo tempo, la storia politica e sociale del suo Paese, e non solo il suo privato.
Il percorso espositivo non seguirà una progressione cronologica, perché fatalmente riporterebbe alla solita lettura della sua vita, ma analizzerà tematiche che hanno contraddistinto tutto il suo esistere e operare. L’espressione della sofferenza vitale, la ricerca cosciente dell’Io, l’affermazione della «messicanità», la sua leggendaria forma di resilienza sono alcuni dei temi principali che permeano la sua vita e la sua opere. Gli stessi argomenti si rifletteranno nel progetto d’allestimento della mostra, che si svilupperà attraverso cinque sezioni: «Politica», «Donna», «Violenza», «Natura» e «Morte». Ovviamente non mancheranno lungo il percorso espositivo i tanti autoritratti di Frida Kahlo, «una bomba avvolta in nastri di seta», così come venne definita dal poeta e critico d’arte francese André Breton, che non ebbe di certo una vita facile, ma che fu sempre capace di dire «Viva la vida».
Didascalie delle immagini
[Fig.1 ] Frida Kahlo, Autorretrato, 1940. Olio su alluminio, 63,5 x 49,5 cm. Harry Ransom Center - The University of Texas, Austin. Crediti: ©Banco de México Diego Rivera Frida Kahlo Museums Trust, México; [fig. 2] Frida Kahlo, La columna rota, 1944 . Olio su tela, 39.8 x 30.5 cm. Museo Dolores Olmedo Crediti: ©Archivio Museo Dolores Olmedo/Foto Erik Meza - Xavier Otada ©Banco de México Diego Rivera Frida Kahlo Museums Trust, México; [fig. 3] Frida Kahlo, Mi nana y yo, 1937. Olio su lamina, 30.5 x 35 cm. Museo Dolores Olmedo. Crediti: ©Archivio Museo Dolores Olmedo/Foto Erik Meza - Xavier Otada
Informazioni utili
Frida Kahlo. Oltre il mito. Museo delle culture di Milano, via Tortona, 56 – Milano. Orari: lunedì, ore 14.30‐19.30; martedì, mercoledì, venerdì e domenica, ore 9.30-19.30; giovedì, ore 9.30-22-30; il servizio di biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso: intero € 12,00, ridotto € 10,00. Informazioni e prenotazioni: tel. 0254917. Sito internet: www.ticket24ore.it.Dal 1 febbraio al 3 giugno 2018.
lunedì 11 settembre 2017
A Milano alla scoperta dell’Egitto e del faraone Amenofi II
È dedicata alla figura del faraone Amenofi II, sovrano vissuto tra il 1427 e il 1401 a.C. durante la cosiddetta XVIII dinastia (1550 – 1295 a.C.), la mostra con cui il Museo delle culture di Milano rende omaggio all’antico Egitto e alla sua affascinante storia. L’esposizione -curata da Patrizia Piacentini e Christian Orsenigo, con il coordinamento scientifico dell’egittologa Massimiliana Pozzi Battaglia- espone reperti provenienti da musei europei ed extra-europei e da collezioni private, tra cui statue, armi, stele commemorative, oggetti della vita quotidiana a corte, documenti di scavo e mummie delle famiglie reali. Importanza fondamentale ha, inoltre, lungo il percorso espositivo l’apparato multimediale e scenografico presente in varie sale, con vere e proprie esperienze immersive che evocano le calde e antiche atmosfere nilotiche dei paesaggi egiziani del II millennio a.C.. Sia la tematica che i reperti esposti permettono, infatti, un approccio emozionale che predilige l’attrattiva sul grande pubblico e offrono contemporaneamente spunti di ricerca e possibilità di approfondimento agli studiosi così come ai molti appassionati della materia.
Sebbene sia stato un sovrano importante, Amenofi II non è mai stato oggetto di una mostra monografica ed è poco noto al grande pubblico, sia perché messo in ombra dal celebre padre Tutmosi III sia, e forse soprattutto, perché i documenti relativi alla scoperta della sua tomba nella Valle dei Re da parte dell’archeologo Victor Loret, nel 1898, erano sconosciuti fino a una quindicina di anni fa.
Oggi questi documenti originali -di proprietà dell’Università degli studi di Milano, che collabora con 24 Ore Cultura all’organizzazione della rassegna- vengono per la prima volta esposti al pubblico in un allestimento dal suggestivo impatto teatrale. I preziosi materiali d’archivio sono, infatti, presentati facendo letteralmente vivere l’emozione della scoperta al visitatore grazie a una ricostruzione in scala 1:1 della sala a pilastri della tomba reale di Amenofi II. Il visitatore è, dunque, invitato ad entrare, attraverso un focus sulle credenze funerarie e la mummificazione, nella sala sepolcrale per ammirare i tesori che accompagnavano il faraone nel suo viaggio verso l’Aldilà. «Fra i reperti conservati nella tomba -raccontano gli organizzatori della rassegna milanese- l’archeologo Loret portò alla luce non solo la mummia del faraone, ma anche quelle di alcuni celebri sovrani del Nuovo Regno, che erano state nascoste all’interno delle sale sepolcrali, con lo scopo di sottrarle alle offese dei profanatori di tombe, che esistevano evidentemente anche a quei tempi. Tra questi corpi, anche quelli della madre e della nonna di Tutankhamon».
L’antica civiltà del Nilo all’epoca del II millennio a.C. viene presa in esame nelle altre sezioni della rassegna.
La vita quotidiana, con gli usi e i costumi delle classi sociali più vicine alla corte di Amenofi II, è illustrata attraverso gioielli e armi, oggetti legati alla moda e alla cura del corpo, che mostrano il livello tecnologico e sociale raggiunto in questo periodo della storia egizia.
Il tema delle credenze funerarie fornisce spunti di riflessione in merito alla lunga e complessa durata di questa straordinaria civiltà antica.
La mostra permette, dunque, di conoscere la figura di Amenofi II, spesso ingiustamente oscurata dalla fama del padre Tutmosi III, e contemporaneamente di rivivere le fasi di riscoperta di un’area archeologica che documenta la storia di un’epoca d’oro per l’antico Egitto.
Prosegue, dunque, il viaggio del Mudec per ricordare i popoli antichi e le civiltà native, le emigrazioni e gli scambi culturali, i viaggi dei grandi esploratori e le scoperte archeologiche, con un occhio attento alla contemporaneità e ai nuovi strumenti multimediali di racconto.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Victor Loret copia le iscrizioni dalle bende della mummia di Amenofi III, 1898 (© Università degli Studi di Milano, Biblioteca e Archivi di Egittologia) [Nr archiv.: 221]; [fig. 2] Statua di Amenofi II in forma di sfinge, dal Tempio di Karnak (© The Egyptian Museum, Il Cairo) [Nr archiv.: 68]; [Fig. 3] Pettine. (© Stichting Rijksmuseum van Oudheden, Leida) [Nr archiv. NAH 147b]
Informazioni utili
Egitto. La straordinaria scoperta del Faraone Amenofi II. Mudec – Museo delle culture di Milano, via Tortona, 56 – Milano. Orari: lunedì, ore 14.30‐19.30; martedì, mercoledì, venerdì e domenica, ore 9.30-19.30; giovedì, ore 9.30-22-30; il servizio di biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso: intero € 12,00, ridotto € 10,00. Informazioni e prenotazioni: tel. 0254917. Sito internet: www.ticket24ore.it. Dal 13 settembre 2017 al 7 gennaio 2018.
Sebbene sia stato un sovrano importante, Amenofi II non è mai stato oggetto di una mostra monografica ed è poco noto al grande pubblico, sia perché messo in ombra dal celebre padre Tutmosi III sia, e forse soprattutto, perché i documenti relativi alla scoperta della sua tomba nella Valle dei Re da parte dell’archeologo Victor Loret, nel 1898, erano sconosciuti fino a una quindicina di anni fa.
Oggi questi documenti originali -di proprietà dell’Università degli studi di Milano, che collabora con 24 Ore Cultura all’organizzazione della rassegna- vengono per la prima volta esposti al pubblico in un allestimento dal suggestivo impatto teatrale. I preziosi materiali d’archivio sono, infatti, presentati facendo letteralmente vivere l’emozione della scoperta al visitatore grazie a una ricostruzione in scala 1:1 della sala a pilastri della tomba reale di Amenofi II. Il visitatore è, dunque, invitato ad entrare, attraverso un focus sulle credenze funerarie e la mummificazione, nella sala sepolcrale per ammirare i tesori che accompagnavano il faraone nel suo viaggio verso l’Aldilà. «Fra i reperti conservati nella tomba -raccontano gli organizzatori della rassegna milanese- l’archeologo Loret portò alla luce non solo la mummia del faraone, ma anche quelle di alcuni celebri sovrani del Nuovo Regno, che erano state nascoste all’interno delle sale sepolcrali, con lo scopo di sottrarle alle offese dei profanatori di tombe, che esistevano evidentemente anche a quei tempi. Tra questi corpi, anche quelli della madre e della nonna di Tutankhamon».
L’antica civiltà del Nilo all’epoca del II millennio a.C. viene presa in esame nelle altre sezioni della rassegna.
La vita quotidiana, con gli usi e i costumi delle classi sociali più vicine alla corte di Amenofi II, è illustrata attraverso gioielli e armi, oggetti legati alla moda e alla cura del corpo, che mostrano il livello tecnologico e sociale raggiunto in questo periodo della storia egizia.
Il tema delle credenze funerarie fornisce spunti di riflessione in merito alla lunga e complessa durata di questa straordinaria civiltà antica.
La mostra permette, dunque, di conoscere la figura di Amenofi II, spesso ingiustamente oscurata dalla fama del padre Tutmosi III, e contemporaneamente di rivivere le fasi di riscoperta di un’area archeologica che documenta la storia di un’epoca d’oro per l’antico Egitto.
Prosegue, dunque, il viaggio del Mudec per ricordare i popoli antichi e le civiltà native, le emigrazioni e gli scambi culturali, i viaggi dei grandi esploratori e le scoperte archeologiche, con un occhio attento alla contemporaneità e ai nuovi strumenti multimediali di racconto.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Victor Loret copia le iscrizioni dalle bende della mummia di Amenofi III, 1898 (© Università degli Studi di Milano, Biblioteca e Archivi di Egittologia) [Nr archiv.: 221]; [fig. 2] Statua di Amenofi II in forma di sfinge, dal Tempio di Karnak (© The Egyptian Museum, Il Cairo) [Nr archiv.: 68]; [Fig. 3] Pettine. (© Stichting Rijksmuseum van Oudheden, Leida) [Nr archiv. NAH 147b]
Informazioni utili
Egitto. La straordinaria scoperta del Faraone Amenofi II. Mudec – Museo delle culture di Milano, via Tortona, 56 – Milano. Orari: lunedì, ore 14.30‐19.30; martedì, mercoledì, venerdì e domenica, ore 9.30-19.30; giovedì, ore 9.30-22-30; il servizio di biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso: intero € 12,00, ridotto € 10,00. Informazioni e prenotazioni: tel. 0254917. Sito internet: www.ticket24ore.it. Dal 13 settembre 2017 al 7 gennaio 2018.
sabato 5 agosto 2017
A Venezia «Sulla spiaggia» con Pablo Picasso
Pablo Picasso e il Mediterraneo: è questo il tema al centro della nuova mostra che la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia ospita, dal 26 agosto al 7 gennaio, nelle sue nuove Project Rooms, due stanze inaugurate lo scorso febbraio e destinate a ospitare progetti espositivi raccolti e mirati, finalizzati ad approfondire il lavoro di un artista o specifiche tematiche legate alla sua produzione artistica.
Attraverso tre dipinti, una scultura e dieci disegni realizzati dall’artista spagnolo tra il febbraio e il dicembre del 1937, esposti insieme per la prima volta, Luca Massimo Barbero cerca di gettare nuova luce sul lavoro di Pablo Picasso, evidenziando i suoi collegamenti con quel Mediterraneo che ha avuto un ruolo così importante nella sua carriera artistica: dalle radici in Spagna alla vita in Francia, passando per le relazioni con artisti e forme d’arte che avevano in questo mare un punto di riferimento. Nata dalla collaborazione con il Musée Picasso di Parigi, la mostra, raccolta e mirata, si snoda attorno a una delle tele più amate da Peggy Guggenheim, il dipinto picassiano «Sulla spiaggia» («La Baignade»), appartenente oggi al museo veneziano.
L’esposizione rientra nell’intenso programma di seminari, pubblicazioni, studi ed esposizioni legato al progetto triennale «Picasso-Méditerranée», promosso dal Musée national Picasso-Paris, che coinvolge oltre sessanta istituzioni.
Nel corso dei primi mesi del 1937 Pablo Picasso rispondeva con forza alla guerra civile spagnola con le incisioni «Il sogno e la menzogna di Franco» («Sueño y mentira de Franco»), di cui un esempio è conservato oggi alla Collezione Peggy Guggenheim. Questo lavoro sarà in mostra a Venezia insieme con i disegni preparatori per «Guernica», cittadina basca distrutta il 26 aprile dello stesso anno dalle forze falangiste nazi-fasciste con lo scopo di appoggiare il generale Francisco Franco e rovesciare il governo legittimo della Repubblica Spagnola. La celebre opera, una tra le più conosciute immagini iconiche del Novecento, veniva ultimata nel giugno dello stesso anno per il padiglione spagnolo dell'Esposizione internazionale di Parigi. Tuttavia, in questo stesso periodo, l’artista spagnolo eseguiva lavori che non rivelavano, almeno apparentemente, la sua preoccupazione per gli eventi politici che si stavano consumando in Spagna. È il caso del dipinto «Sulla spiaggia», firmato e datato 12 febbraio 1937, che richiama in maniera specifica alcune opere degli anni Venti, una delle quali -«Tre bagnanti»- conservata al museo Solomon R. Guggenheim di New York.
Dipinta a Le Trem-blay-sur-Mauldre, una cittadina poco distante da Versailles, la tela ricorda le figure antropomorfe dai volumi esageratamente accentuati, dalla consistenza quasi scultorea e inserite in paesaggi marini, tipiche di alcune sue opere eseguite fra la fine degli anni ‘20 e gli inizi degli anni ‘30. Le due bagnanti, la cui attenzione è rivolta principalmente al gioco con la barchetta, sono figure aggraziate e allo stesso tempo mostruose, e la composizione si offre da un lato calma e rilassata, sospesa nel suo sottile lirismo, dall’altro trasmette un velato senso di minaccia per la sinistra presenza della figura che si staglia all’orizzonte. Un senso di impotente voyerismo, suggerito dall’uomo che osserva le ragazze dalle forme floride, richiama alla mente certi miti classici come il bagno di Diana e alcuni episodi biblici come Susanna e i vecchioni.
Il disegno preparatorio del dipinto «Sulla spiaggia», proveniente dal Musée Picasso e apparentemente eseguito lo stesso giorno dell’opera, sarà esposto a Venezia per la prima volta insieme a un altro disegno preparatorio, che risulta essere a oggi quasi del tutto inedito. Donata da Picasso a Dora Maar, quest’ultima opera su carta è legata sia alla prima fase di creazione del dipinto «Sulla spiaggia» che alla figura di «Femme assise sur la plage», capolavoro appartenente alle collezioni del Musée des Beaux Arts de Lyon, datato 10 febbraio 1937, anch’esso in mostra.
Con un sottile gioco di approfondimenti e rimandi, la ricostruzione del processo creativo che portò Picasso a dipingere Sulla spiaggia, prosegue appunto attraverso «Femme assise sur la plage». Di qualche giorno antecedente al dipinto veneziano, questo splendido olio su tela a tecnica mista può essere considerato come il primo vero risultato dell’incessante ricerca formale che Pablo Picasso stava sperimentando e che avrebbe concretizzato pochi giorni più tardi, compiutamente, in «Sulla spiaggia». La tela raffigura una bagnante nuda, su una spiaggia, sorpresa in un gesto banale. La curva del corpo proteso nello spazio, il trattamento plastico-volumetrico delle forme esageratamente prosperose e anatomicamente semplificate, uniti ad un’atmosfera di silenzioso lirismo, ci riportano in maniera quasi esplicita alla bagnante di destra del grande dipinto della Collezione Peggy Guggenheim.
Il percorso espositivo si conclude con una terza altissima prova offerta da Pablo Picasso nel febbraio di quello stesso anno, la «Grande Baigneuse au livre», conservata a Parigi sempre negli spazi del Museé Picasso. Si tratta di un’opera dipinta una settimana più tardi rispetto a «Sulla spiaggia», più precisamente il 18 febbraio 1937, a Le-Tremblay sur Mauldre, dove l’artista aveva acquistato una vecchia casa di campagna.
«La Grande Baigneuse» si trasforma qui in una grande scultura, di colore bianco-grigiastro, dalle gambe incrociate, dalla testa china sul libro e sorretta dai gomiti. Ancora una volta è una figura imperturbabile, immersa in un ambiente fatto di quiete e silenzi, dal volto enigmatico e poco connotato; qualcosa tuttavia sembra cambiare nell’inarrestabile ricerca dell’artista spagnolo: con la terza «Grande Bagneuse» Picasso sembra abbandonare, almeno in parte, la delicatezza formale delle precedenti bagnanti in favore di una costruzione delle forme per piani più statica e di uno stile ostinatamente spigoloso, quasi cubista.
Con le sue numerosissime rappresentazioni di spiagge e bagnanti, l’artista spagnolo non ha certamente scoperto un nuovo soggetto ma ha identificato e rivelato l’unico vero «scenario esterno» dell’intera sua opera.
Come la maggior parte dei suoi temi, il concetto di spiaggia viene affrontato in maniera sia tradizionale che più propriamente moderna. Giorgione, Tiziano, Ingres, Puvis de Chavannes, Manet, Cezanne, Matisse, Renoir sono tutti artisti ai quali Picasso mostra di aver guardato come fonte di ispirazione per le sue figurazioni e strutture compositive; il tema del nudo in movimento è tema ricorrente e di primaria importanza per tutti quegli artisti interessati alla pittura figurativa. Il passo in avanti fatto dall’artista non è dato tuttavia dal soggetto quanto invece dal modo in cui il genio spagnolo, collegando l’esperienza individuale alle forme della tradizione, creò non solo qualcosa di nuovo ma di assolutamente rivoluzionario.
Informazioni utili
«Sulla spiaggia». Collezione Peggy Guggenheim - Palazzo Venier dei Leoni, Dorsoduro 701 - Venezia. Orari: 10.00-18.00; chiuso il martedì. Ingresso: intero € 10.00; ridotto € 8.00; studenti € 5.00; gratuito 0-10 anni. Informazioni: tel. 041.2405411, fax 041.5206885, e-mail: info@guggenheim-venice.it. Sito web: www.guggenheim-venice.it. Dal 26 agosto al 7 gennaio 2018.
Attraverso tre dipinti, una scultura e dieci disegni realizzati dall’artista spagnolo tra il febbraio e il dicembre del 1937, esposti insieme per la prima volta, Luca Massimo Barbero cerca di gettare nuova luce sul lavoro di Pablo Picasso, evidenziando i suoi collegamenti con quel Mediterraneo che ha avuto un ruolo così importante nella sua carriera artistica: dalle radici in Spagna alla vita in Francia, passando per le relazioni con artisti e forme d’arte che avevano in questo mare un punto di riferimento. Nata dalla collaborazione con il Musée Picasso di Parigi, la mostra, raccolta e mirata, si snoda attorno a una delle tele più amate da Peggy Guggenheim, il dipinto picassiano «Sulla spiaggia» («La Baignade»), appartenente oggi al museo veneziano.
L’esposizione rientra nell’intenso programma di seminari, pubblicazioni, studi ed esposizioni legato al progetto triennale «Picasso-Méditerranée», promosso dal Musée national Picasso-Paris, che coinvolge oltre sessanta istituzioni.
Nel corso dei primi mesi del 1937 Pablo Picasso rispondeva con forza alla guerra civile spagnola con le incisioni «Il sogno e la menzogna di Franco» («Sueño y mentira de Franco»), di cui un esempio è conservato oggi alla Collezione Peggy Guggenheim. Questo lavoro sarà in mostra a Venezia insieme con i disegni preparatori per «Guernica», cittadina basca distrutta il 26 aprile dello stesso anno dalle forze falangiste nazi-fasciste con lo scopo di appoggiare il generale Francisco Franco e rovesciare il governo legittimo della Repubblica Spagnola. La celebre opera, una tra le più conosciute immagini iconiche del Novecento, veniva ultimata nel giugno dello stesso anno per il padiglione spagnolo dell'Esposizione internazionale di Parigi. Tuttavia, in questo stesso periodo, l’artista spagnolo eseguiva lavori che non rivelavano, almeno apparentemente, la sua preoccupazione per gli eventi politici che si stavano consumando in Spagna. È il caso del dipinto «Sulla spiaggia», firmato e datato 12 febbraio 1937, che richiama in maniera specifica alcune opere degli anni Venti, una delle quali -«Tre bagnanti»- conservata al museo Solomon R. Guggenheim di New York.
Dipinta a Le Trem-blay-sur-Mauldre, una cittadina poco distante da Versailles, la tela ricorda le figure antropomorfe dai volumi esageratamente accentuati, dalla consistenza quasi scultorea e inserite in paesaggi marini, tipiche di alcune sue opere eseguite fra la fine degli anni ‘20 e gli inizi degli anni ‘30. Le due bagnanti, la cui attenzione è rivolta principalmente al gioco con la barchetta, sono figure aggraziate e allo stesso tempo mostruose, e la composizione si offre da un lato calma e rilassata, sospesa nel suo sottile lirismo, dall’altro trasmette un velato senso di minaccia per la sinistra presenza della figura che si staglia all’orizzonte. Un senso di impotente voyerismo, suggerito dall’uomo che osserva le ragazze dalle forme floride, richiama alla mente certi miti classici come il bagno di Diana e alcuni episodi biblici come Susanna e i vecchioni.
Il disegno preparatorio del dipinto «Sulla spiaggia», proveniente dal Musée Picasso e apparentemente eseguito lo stesso giorno dell’opera, sarà esposto a Venezia per la prima volta insieme a un altro disegno preparatorio, che risulta essere a oggi quasi del tutto inedito. Donata da Picasso a Dora Maar, quest’ultima opera su carta è legata sia alla prima fase di creazione del dipinto «Sulla spiaggia» che alla figura di «Femme assise sur la plage», capolavoro appartenente alle collezioni del Musée des Beaux Arts de Lyon, datato 10 febbraio 1937, anch’esso in mostra.
Il percorso espositivo si conclude con una terza altissima prova offerta da Pablo Picasso nel febbraio di quello stesso anno, la «Grande Baigneuse au livre», conservata a Parigi sempre negli spazi del Museé Picasso. Si tratta di un’opera dipinta una settimana più tardi rispetto a «Sulla spiaggia», più precisamente il 18 febbraio 1937, a Le-Tremblay sur Mauldre, dove l’artista aveva acquistato una vecchia casa di campagna.
«La Grande Baigneuse» si trasforma qui in una grande scultura, di colore bianco-grigiastro, dalle gambe incrociate, dalla testa china sul libro e sorretta dai gomiti. Ancora una volta è una figura imperturbabile, immersa in un ambiente fatto di quiete e silenzi, dal volto enigmatico e poco connotato; qualcosa tuttavia sembra cambiare nell’inarrestabile ricerca dell’artista spagnolo: con la terza «Grande Bagneuse» Picasso sembra abbandonare, almeno in parte, la delicatezza formale delle precedenti bagnanti in favore di una costruzione delle forme per piani più statica e di uno stile ostinatamente spigoloso, quasi cubista.
Con le sue numerosissime rappresentazioni di spiagge e bagnanti, l’artista spagnolo non ha certamente scoperto un nuovo soggetto ma ha identificato e rivelato l’unico vero «scenario esterno» dell’intera sua opera.
Come la maggior parte dei suoi temi, il concetto di spiaggia viene affrontato in maniera sia tradizionale che più propriamente moderna. Giorgione, Tiziano, Ingres, Puvis de Chavannes, Manet, Cezanne, Matisse, Renoir sono tutti artisti ai quali Picasso mostra di aver guardato come fonte di ispirazione per le sue figurazioni e strutture compositive; il tema del nudo in movimento è tema ricorrente e di primaria importanza per tutti quegli artisti interessati alla pittura figurativa. Il passo in avanti fatto dall’artista non è dato tuttavia dal soggetto quanto invece dal modo in cui il genio spagnolo, collegando l’esperienza individuale alle forme della tradizione, creò non solo qualcosa di nuovo ma di assolutamente rivoluzionario.
Informazioni utili
«Sulla spiaggia». Collezione Peggy Guggenheim - Palazzo Venier dei Leoni, Dorsoduro 701 - Venezia. Orari: 10.00-18.00; chiuso il martedì. Ingresso: intero € 10.00; ridotto € 8.00; studenti € 5.00; gratuito 0-10 anni. Informazioni: tel. 041.2405411, fax 041.5206885, e-mail: info@guggenheim-venice.it. Sito web: www.guggenheim-venice.it. Dal 26 agosto al 7 gennaio 2018.
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