ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

domenica 1 maggio 2022

#notizieinpillole, le mostre da vedere a Venezia durante la Biennale d'arte # 1

La città di Venezia si veste a festa per la cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte. Mentre all’Arsenale e ai Giardini vanno in scena oltre quattromila opere di duecento e tredici artisti provenienti da cinquantotto Paesi di tutto il mondo, la città regala, per la primavera e l’estate, un ricco cartellone di eventi collaterali o di appuntamenti ideati per l’occasione da musei e gallerie. Oltre alle mostre imperdibili - Anish Kapoor alle Gallerie dell’Accademia, Anselm Kiefer a Palazzo Ducale, Marlene Dumas a Palazzo Grassi, Joseph Beuys a Palazzo Cini a San Vio e i Surrealisti alla Peggy Guggenheim Collection – Venezia offre ai visitatori internazionali tanti altri progetti espositivi che meritano una visita. Da Hermann Nischt a Louise Nevelson, da Mary Weatherford a Danh Vo, vi proponiamo qualche suggerimento per un itinerario lagunare all’insegna dell’arte contemporanea. 

In mostra a Venezia la «20. malaktion» di Hermann Nitsch
«Volevo mostrare come le colature, gli spruzzi, le sbavature e gli schizzi di liquido di colore rosso possono evocare un’eccitazione intensa nello spettatore, portandolo a provare sensazioni molto forti». Così Hermann Nitsch (Vienna, 29 agosto 1938 – Mistelbach, 18 aprile 2022), padre dell’Azionismo viennese, protagonista di performance acclamate e discusse, con corpi nudi, animali sgozzati, sangue e interiora, parlava di «20. malaktion», la ventesima azione pittorica originariamente creata e presentata al Wiener Secession di Vienna nel 1987. Il lavoro è in mostra fino al 20 luglio a Venezia, negli spazi delle Oficine 800, sull'isola della Giudecca, in occasione della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte.
Presentata da Zuecca Projects e promossa dalla Helmut Essl’s Private Collection, in collaborazione con la Galerie Kandlhofer, l’esposizione, per la curatela di Roman Grabner, si articola in un’opera di grande formato (5x20 metri) realizzata con la tecnica del pouring (colatura), collocata sulla parete frontale, un grande quadro splatter (10x10 metri), steso sul pavimento, e numerosi quadri più piccoli, per un totale di cinquantadue lavori dalla pittura gestuale e immediata.
Le opere della «20. malaktion», che fanno tutte parte della medesima collezione, quella di Hulumt Essl, rivelano come la loro genesi abbia avuto luogo tra «scoppi di furia scatenata e gesti delicati». Le tele sono allestite negli spazi delle Oficine 800 con l’intento di ricreare quella disposizione sacra, rituale, che l’artista organizzò più di trenta anni fa. L’installazione, che pervade l’intero spazio espositivo, è, infatti, completata da vesti imbrattate, fiori e un altare a significare come questo progetto estremo e cruento, dall’alta valenza teatrale, volesse condurre il pubblico a una riflessione sulla sua vita e a una conseguente catarsi e purificazione, liberandolo da tabù religiosi, morali e sessuali. Un’energia mistica e un’ebbrezza visionaria colgono, in effetti, chiunque entri nello spazio espositivo della Giudecca per vedere quella che è a oggi la più grande retrospettiva mai realizzata in Italia sul padre dell’Azionismo viennese.
Per maggiori informazioni: http://www.zueccaprojects.org/.

Nelle immagini: «Hermann Nitsch - 20. malaktion». Venezia, Oficine Ottocento. Fino al 20 luglio 2022. Vista della mostra. Foto di Marcin Gierat 


«Vivere nel vetro»: a Venezia quattro designer del XX secolo e le loro creazioni per FontanaArte
Ci sono alcuni elementi d’arredo iconici come i vasi «Cartoccio» degli anni Trenta, il lampadario a sospensione «Dahlia», che riproduce un grande fiore con i petali di cristallo colorato sorretti da una struttura in ottone zapponato e nichelato, o la lampada da tavolo «Giova», che all’occorrenza si trasforma in un portafiori, nella mostra «FontanaArte. Vivere nel vetro», allestita fino al 31 luglio a Venezia, sull’isola di San Giorgio Maggiore.
Ottantacinque pezzi tra i più significativi della produzione centenaria dell’azienda milanese sono esposti ne «Le stanze del vetro», progetto culturale nato nel 2012 dalla collaborazione tra la Fondazione Giorgio Cini e la Pentagram Stiftung, che si avvale per l’occasione della curatela di Christian Larsen e dell’allestimento di Massimiliano Locatelli. Si tratta di vasi, lampade, portaritratti, scatole, posacenere e set da tavolo dall’eleganza raffinata e lineare, oltre a rari tavoli in cristallo con sostegni in legno, realizzati tra il 1932 e il 1996, sotto la guida di quattro affermati designer del XX secolo: Gio Ponti (1932-1933), Pietro Chiesa (1933-1948), Max Ingrand (1954-1967) e Gae Aulenti (1979-1996).
La mostra veneziana si concentra, dunque, sulle possibilità poetiche del vetro in lastre, un materiale industriale che la FontanaArte porta nel mondo del design d’autore, facendolo incontrare ora con la logica razionale del Modernismo ora la giocosità del Postmodernismo.
Il percorso espositivo, nel quale è presente una sala per ognuno dei quattro designer che furono a capo della direzione creativa dell’azienda milanese, culmina in una suite arredata con l’intento di rievocare una dimora fatta di interni in vetro, dando così forma al sogno degli architetti modernisti diventato realtà per la prima volta con Gio Ponti e Luigi Fontana.
Sull’isola di San Giorgio Maggiore, dove fino al primo maggio, è stata visitabile anche la seconda edizione di «Homo Faber», maestoso evento dedicato ai mestieri dell’alto artigianato artistico internazionale, che propone anche un focus sui maestri del Giappone e il loro ancestrale savoir-faire.
Fino al 24 luglio la Fondazione Cini presenta, inoltre, due mostre di arte contemporanea. In collaborazione con la galleria Tornabuoni, si tiene la rassegna «On Fire», a cura di Bruno Corà, con ventisei opere elaborate mediante il fuoco da artistiche delle Avanguardie novecentesche come Alberto Burri, Yves Klein, Arman, Pier Paolo Calzolari, Jannis Kounellis e Claudio Parmiggiani. Mentre, con la galleria Templon di Parigi, viene proposta una personale dell’americano Kehinde Wiley, a cura di Christophe Leribault, presidente del Musée d'Orsay e del Musée de l'Orangerie. «An Archaeology of Silence», questo il titolo dell’esposizione, include una serie di dipinti e sculture monumentali inediti, nei quali l’artista mette in luce la brutalità del passato coloniale, americano e globale, usando il linguaggio figurativo dell'eroe caduto. I nuovi ritratti mostrano giovani uomini e donne neri in posizioni di vulnerabilità che raccontano una storia di sopravvivenza e resilienza.
Per maggiori informazioni: www.cini.it

Didascalie delle immagini:FontanaArte. Vivere nel vetro, installation view, ph. Enrico Fiorese


Emilio Vedova e Arnulf Rainer, due artisti e i mali del mondo

«Un artista non può accettare la guerra. Non può accettare la sopraffazione. Voi direte: cosa centra questo con la pittura? Io vi dico: questa è la mia pittura». Suonano attuali le parole del partigiano e pittore Emilio Vedova (Venezia, 1919-2016), diffuse attraverso un video, all’interno della mostra allestita fino al 30 ottobre a Venezia, nello studio dell’artista alle Zattere, oggi spazio espositivo.
Curata da Fabrizio Gazzarri, la rassegna allinea una selezione di ventiquattro lavori, realizzati tra il 1949 e il 1993, che documentano come la pratica artistica del pittore veneziano, uno degli esponenti di spicco dell’Informale italiano, abbia tratto linfa vitale dalle vicende politiche e sociali del suo tempo e abbia sempre costruito una relazione responsabile con l’altro e con il mondo.
Con la sua pittura viscerale, fisica e violenta, Emilio Vedova, figlio di una stagione definita dal potenziale di malvagità e spargimento di sangue della Seconda guerra mondiale e dai rischi della passività di fronte al totalitarismo, ha dato, per esempio, voce al dolore per il bombardamento della biblioteca di Sarajevo («Chi brucia un libro, brucia un uomo», 1993) o per la rivoluzione in Romania dell’89 («Per uno spazio», 1989), ma ha anche raccontato la Berlino del muro («Plurimo», 1964 e «Berlin ’64», 1964).
A dare conferma di questo interesse dell’artista per le criticità del nostro tempo e la fragilità della nostra esistenza sono i titoli delle varie sezioni espositive che compongono la mostra, parole ricorrenti nei suoi scritti e discorsi: «Contro», «No», «Venezia muore», «Allarme», «Umano», «Confine», «Plurimo», «Per».
La rassegna veneziana, intitolata «Ora», si completa nel vicino Magazzino del sale con una sezione dedicata ad Arnulf Rainer (Baden bei Wien, 1929), amico dell’artista, mosso da un comune interesse per le vicende dell’uomo.
Del pittore tedesco, influenzato principalmente dal Surrealismo e dall’Espressionismo astratto americano, sono esposte una ventina di opere, scelte tra le «Croci» degli anni ’80 e i «Kosmos» dei primi anni ’90. Questi ultimi lavori, dalla forma circolare, rappresentano l’universo e sono metafora dell’infinito. Mentre le Croci, che per l’artista sono «abbreviazioni» del volto umano, rimandano inevitabilmente al tema della sofferenza, che, nel confronto con le pareti in mattone impregnate di sale dello spazio espositivo, «difficilmente – racconta il curatore Helmut Friedel - potrebbe essere percepita in modo più straziante».
Per maggiori informazioni: www.fondazionevedova.org.

Didascalie delle immagini: Particolare di allestimento della mostra “Rainer - Vedova: Ora.”, Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, Venezia, 23 aprile 2022 - 30 ottobre 2022. © Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, Venezia © photo Ela Bialkowska, OKNOstudio, Siena

#Guarda la galleria fotografica sulla nostra pagina Facebook 

Danh Vo, Isamu Noguchi e Park Seo-Bo: sperimentazioni contemporanee alla Querini Stampalia di Venezia
Come si può infondere nuova vita a un palazzo storico che racchiude in sé storie differenti? Cosa si può aggiungere a un percorso espositivo già completo, che spazia tra stili ed epoche differenti, dal Cinquecento veneto al Modernismo novecentesco, in un raffinato collage di decorazioni, arredi, libri, oggetti pregiati e opere d’arte di Bellini, Tiepolo, Longhi e Credi? Sono queste le domande che si è posto il danese-vietnamita Danh Vo (Bà Rịa – Vietnam, 1975) per la mostra che la Fondazione Querini Stampalia ospita, in collaborazione con White Cube, nei giorni della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte di Venezia.
L’artista - che cura anche il progetto espositivo con Chiara Bertola, responsabile del programma pluriennale «Conservare il futuro» - espone insieme all’architetto e scultore statunitense di origini giapponesi Isamu Noguchi (Los Angeles, 1904 – New York, 1988), e al pittore coreano Park Seo-Bo (Yecheon – Gyeongbuk, 1931), riconosciuto come il padre del movimento Dansaekhwa.
Le opere dei tre artisti, appartenenti a generazioni differenti e con stili narrativi dissimili, instaurano un dialogo raffinato con il palazzo veneziano, la cui struttura è stata rivisitata, per l’occasione, con luci e pareti temporanee, agili configurazioni che indicano una strada e al contempo mostrano l’evoluzione dello spazio.
A segnare il percorso sono una serie di ritratti fotografici, dedicati al tema del giardinaggio e scattati con lo smartphone, che raffigurano i fiori del giardino di Danh Vo a Güldenhof - il suo studio e fattoria a nord di Berlino – e nei parchi di Pantelleria, della Danimarca, del Friuli e di Siviglia. Le immagini sono stampate a colori con i nomi latini scritti in bella calligrafia a matita dal padre dell'artista, Phung Vo.
Di Park Seo-Bo è, invece, esposto un insieme di dipinti monocromi della serie «Écriture», che si legano profondamente alle nozioni di tempo, spazio e materia. Mentre di Isamu Noguchi sono visibili le iconiche lampade «Akari» (ovvero «luce»), strutture in carta, ricavate dall’albero di gelso, concepite nel 1951 nel corso di un viaggio a Hiroshima, che richiamano le lanterne chochin giapponesi e sono influenzate dall’estetica del design americano.
«Ospiti e intrusi» del palazzo veneziano, Vo, Noguchi e Park Seo-Bo alterano così la nostra percezione di oggetti e opere, portando una nuova luce nel percorso espositivo. Il tutto all’insegna di una vitale sperimentazione.
Per maggiori informazioni: https://www.querinistampalia.org

Didascalie delle immagini: 1.Danh Vo, Isamu Noguchi, Park Seo-Bo. Fondazione Querini Stampalia, Venezia. 20 aprile – 27 novembre 2022 © the artist. Photo © White Cube (Francesco Allegretto); 2 . e 3. Danh Vo, Isamu Noguchi, Park Seo-Bo. Fondazione Querini Stampalia, Venezia. 20 aprile – 27 novembre 2022 © the artist. Photo © White Cube (Ollie Hammick) 

#Guarda la galleria fotografica sulla nostra pagina Facebook 

Venezia, a Palazzo Grimani Mary Weatherford reinterpreta Tiziano
È una delle opere più potenti, crude e sconvolgenti di Tiziano (Pieve di Cadore, 1488/1490 – Venezia, 27 agosto 1576) la fonte di ispirazione del ciclo pittorico che Mary Weatherford (Ojai, 1963) presenta a Venezia, nei giorni della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte, all’interno di uno dei più incantevoli scrigni rinascimentali della città: il Museo di Palazzo Grimani a Santa Maria Formosa.
«La punizione di Marsia», un’opera di soggetto mitologico dipinta dal maestro veneto in tarda età, tra il 1570 e il 1576, e oggi conservata al Museo arcivescovile di Kroměříž nella Repubblica Ceca, è, infatti, lo spunto che ha dato vita a una dozzina di lavori, realizzati dall’artista californiana tra il gennaio e il marzo 2021 e riuniti sotto il titolo «The Flaying of Marsyas».
Ispirandosi alla tavolozza del pittore rinascimentale e rendendo omaggio alla caratteristica luce di Venezia, Mary Weatherford ha utilizzato la vernice Flashe e luci al neon - materiali che fanno parte della sua pratica artistica dal 2012 - per restituire l’effetto della tela antica. Macchie di colore dalle tonalità cupe e terrose danno così forma alla violenza della scena tizianesca, che raffigura il dio Apollo mentre scuoia il satiro Marsia, dopo aver vinto una sfida di canto e musica. Mentre i neon, con i loro tubi e cavi dell’alimentazione, simili a tante linee disegnate a mano, feriscono e illuminano le tele, con cui l’artista vuole proporre una riflessione sul destino, l'alterigia e il rapporto tra l'umano e il divino.
La mostra completa l’attuale programma espositivo del museo veneziano, che in questi giorni ospita anche le rassegne «Domus Grimani», sulla statuaria classica che faceva parte della collezione del patriarca Giovanni Grimani, e «Archinto», con dodici tele di Georg Baselitz, realizzate appositamente per la Sala del Portego e collocate in cornici settecentesche a stucco, dove fino alla fine del XIX secolo campeggiavano i ritratti della famiglia Grimani.
Per maggiori informazioni: https://polomusealeveneto.beniculturali.it/musei/museo-di-palazzo-grimani

Didascalie delle immagini: Mary Weatherford, The Flaying of Marsyas – 4500 Triphosphor, 2021-22. Flashe e neon su lino, 236,2 x 200,7 cm. © Mary Weatherford. Foto: Frederik Nilsen Studio. Courtesy: Gagosian

Al Fondaco dei Tedeschi le «Storie invisibili» di Leila Alaoui
«Era un’artista che brillava. E lottava per i dimenticati della società, i senzatetto, i migranti. Usando una sola arma, la fotografia». Così il 19 gennaio 2016, sulle pagine del «New York Times», Dan Bilefsky ricordava Leila Alaoui (Parigi, 10 luglio 1982- Ouagadougou, 18 gennaio 2016), giovane fotografa e videoartista franco-marocchina, morta in seguito a un attentato di terroristi jihadisti a Ouagadougou, mentre lavorava per una commissione di Amnesty International sui diritti delle donne in Burkina Faso.
Il suo impegno umanitario, che l’ha portata più volte a raccontare le diversità culturali e le migrazioni nell’area del Mediterraneo, ha dato vita a una fondazione, che, nei giorni della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte, porta a Venezia, con la complicità della Galleria Continua, la mostra «Storie invisibili/Unseen stories».
Al Fondaco dei Tedeschi, centro dello shopping deluxe nei pressi del ponte di Rialto, sono esposti, fino al 27 novembre, due progetti documentari della fotografa.
La corte interna dell’edificio è abitata una serie di gigantografie, di grande impatto visivo e in parte inedite, tratte da «Les Marocains», un ritratto corale del Paese d’origine di Leila Alaoui, realizzato con uno studio fotografico portatile, che documenta le popolazioni marocchine e le loro tradizioni, a rischio di estinzione.
Al quarto piano si trova, invece, un estratto di «Crossing», racconto attraverso immagini e video del viaggio intrapreso dai migranti subsahariani per raggiungere il Marocco e le coste dell’Europa. Frammenti di realtà si uniscono a immagini fittizie e a effetti sonori derivati dalla registrazione di narrazioni vere per un percorso di grande impatto emotivo.
Per maggiori informazioni: https://www.dfs.com/it/venice/art-and-culture/leila-alaoui-unseen-stories.

Nella fotografia: Leila Alaoui, Souk de Boumia - Moyen-Atlas (Les Marocains), 2011. Stampa Lambda, 180 x 120 cm Courtesy: Galleria Continua & Fondation Leila Alaoui


Venezia: Heinz Mack, Lucio Fontana, Antony Gormley e Huong Dodinh, quattro artisti in piazza San Marco
È «Der Garten Eden (Il giardino dell'Eden)», travolgente, multicolore e monumentale (6 x 3,5 metri) quadro a campi di colore, dall'indiscusso effetto ipnotico, l’opera più simbolica della mostra «Vibration of Light / Vibrazione della luce», in programma fino al 17 luglio alla Biblioteca nazionale marciana di Venezia, nello storico Salone monumentale del Sansovino. Curata da Manfred Möller, l’esposizione presenta una selezione di dipinti di grande formato di Heinz Mack (Lollar, Germania, 1931), uno dei più importanti esponenti dell'arte cinetica a livello mondiale, accanto a un insieme di stele di luce parzialmente rotanti e a una scultura a specchio alta quattro metri, creata appositamente per l’occasione ed esposta nel cortile interno di Palazzo reale.
I lavori proposti – tra cui spiccano delle tele nei toni del nero, grigio e bianco, in cui centrale è il tema della struttura - sono collocati in un dialogo di grande effetto storico-artistico con i dipinti a parete e i tondi del soffitto che ornano il Salone monumentale del Sansovino, opere che portano la firma dei più importanti artisti rinascimentali, dal Tintoretto a Tiziano.
Si accede alla mostra, che fa parte degli Eventi collaterali della cinquantanovesima Biennale d’arte, attraverso il Museo Correr, dove espone, nell’ambito di «Muve contemporaneo», l’artista franco-vietnamita Huong Dodinh (Soc Trang, 1935). «Ascension» è il titolo della sua esposizione, pensata appositamente per la Sala delle Quattro Porte.
L’installazione comprende quattordici dipinti, ciascuno alto tre metri, sostenuti da altrettanti pannelli alti e affusolati, collocati secondo uno schema triangolare attorno alla scultura lignea della «Madonna della Misericordia», che risale al XV secolo. Su una superficie pittorica dai colori neutri, ogni tela presenta sottili e quasi impercettibili linee curve e verticali, dipinte dell’artista durante la sua pratica meditativa. Il tutto crea un’atmosfera mistica e spirituale, scandita da una sorta di ascensione verso la luce.
Chiude il percorso tra le proposte espositive visitabili in piazza San Marco, dove è aperta anche «Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce» di Anselm Kiefer, la mostra «Lucio Fontana/Antony Gormley», a cura di Luca Massimo Barbero, che presenta opere su carta, disegni e sculture dei due artisti. Scenario dell’esposizione, aperta fino al 27 novembre, è il Negozio Olivetti, gioiello architettonico progettato da Carlo Scarpa e affidato in gestione al Fai – Fondo per l’ambiente italiano. Per informazioni: https://bibliotecanazionalemarciana.cultura.gov.it/ | https://www.visitmuve.it/ | https://fondoambiente.it.

Didascalie delle immagini: 1. The Garden of Eden (Chromatic Constellation), 2011, photo: Weiss-Henseler Werbefotografie / courtesy Archive Studio Mack; 2. Mostra «Lucio Fontana/Antony Gormley» al Negozio Olivetti di Venezia. ©photo: Ela Bialkowska OKNO studio; 3. The Garden of Eden (Chromatic Constellation), 2011, photo: Weiss-Henseler Werbefotografie / courtesy Archive Studio Mack

Biennale Arte 2022, una mostra di Louise Nevelson per la riapertura della Procuratie Vecchie
Cinquanta archi e cento finestre affacciate sulla piazza più bella del mondo: si presentano così le Procuratie Vecchie, uno dei monumenti più iconici di Venezia, antica sede dei Procuratori della Serenissima Repubblica, collocata sul lato sinistro di piazza San Marco, dalla Torre dell'Orologio al Museo Correr.
Dopo cinquecento anni, il prestigioso edificio lagunare - progettato all’inizio del XVI secolo dall’architetto Bartolomeo Bon e completato una ventina di anni dopo, nel 1538, da Jacopo Sansovino - ha riaperto al pubblico per iniziativa delle Agenzie Generali, che ne hanno fatto la casa della Fondazione «The Uman Safety Net», un hub dedicato alle iniziative sociali, per il sostegno e la valorizzazione delle potenzialità delle persone più fragili e più vulnerabili, a cominciare dai bambini e dai rifugiati.
Il restauro, durato cinque anni, è stato affidato allo studio David Chipperfield Architects Milan, che ha restituito al pubblico i 12.400 metri quadrati dei tre piani dell’edificio creando un ambiente moderno, ma fedele alla sua originaria struttura.
Nell’ambito degli eventi collaterali della cinquantanovesima Biennale d’arte, le Procuratie Vecchie ospitano, fino all’11 settembre, una monografica di Louise Nevelson (vicino a Kiev, Ucraina, 1899 – New York, 1988), figura rivoluzionaria dell’astrazione americana, in mostra anche all’Arsenale con il potente assemblage «Homage to the Huniverse» (1968).
«Persistence», questo il titolo della rassegna in piazza San Marco, riunisce, per la curatela di Julia Bryan-Wilson, una sessantina di lavori realizzati tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta del Novecento.
Articolato in nove sale del secondo piano, il percorso espositivo presenta, nello specifico, collage e assemblage scultorei, insieme ad alcuni pezzi iconici come le sculture di grandi dimensioni in legno dipinto, le sculture bianche, tra le quali l’installazione multipla a colonna «Dawn’s Presence – Three» (1975), e rari lavori dalle tonalità color oro come «The Golden Pearl» (1962).
Il pubblico potrà così approfondire i tratti salienti del processo creativo dell’artista, oltre al suo interesse per materiali non convenzionali come legno grezzo, metallo, cartone, carta vetrata e pellicola di alluminio.
Per maggiori informazioni: louisenevelsonvenice.com.

Didascalie delle immagini: «Persistence», mostra di Louise Nevelson alle Procuratie di Venezia per la 59esima Biennale d'arte. Foto di Lorenzo Palmieri. Courtesy: Louise Nevelson Foundation


A Venezia un capolavoro di Giorgione: il «Ritratto di giovane» del Museo di belle arti di Budapest
Arriva dal Museo di belle arti di Budapest il nuovo ospite speciale delle Gallerie dell’Accademia di Venezia: il «Ritratto di giovane» di Giorgione, al suo ritorno nella città lagunare dopo più di duecento anni. Il museo sul Canal Grande, dove è in corso la grande mostra del contemporaneo Anish Kapoor (ne abbiamo parlato al link https://foglidarte.blogspot.com/2022/04/anish-kapoor-venezia-gallerie-accademia-.html, ndr) offre, dunque, un'occasione in più ai turisti della Biennale per attraversare le sue porte e lasciarsi avvolgere dalla bellezza. 
Il prestito, che rientra in un progetto di scambi internazionali che la realtà diretta da Giulio Manieri Elia sta portando avanti negli ultimi anni, rappresenta un’occasione importante per ammirare un’opera di straordinaria qualità accanto ad altri capolavori del pittore veneto presenti nel museo veneziano: la «Sacra Conversazione», la «Vecchia», la «Tempesta», il «Concerto» e la «Nuda». Il ritratto è collocato, a partire dal 31 marzo, proprio in sala VIII, al primo piano, dove sono esposti gli altri lavori del maestro di Castelfranco in collezione.
Il dipinto, realizzato intorno al 1503, è «una delle poche opere superstiti di Giorgione - sottolinea László Baán, direttore generale del museo di Budapest-, proviene dalla collezione dell'unico patriarca veneziano di origine non italiana, l'ungherese Giovanni Ladislao Pyrker, vissuto nel XIX secolo, e grazie alla sua generosa donazione è entrato a far parte del patrimonio nazionale ungherese». Vi è raffigurato un uomo giovane, vestito di un'ampia casacca scura trapuntata e ricamata, sopra la camicia bianca. La folta capigliatura castana, con scriminatura al centro, ricade a caschetto lasciando scoperte le orecchie. Il volto ovale è girato di tre quarti verso sinistra e leggermente piegato in giù. Gli occhi sono grandi ed espressivi, le sopracciglia folte, il naso robusto, la bocca carnosa, il mento appuntito.
Sotto il profilo compositivo e stilistico il lavoro si ricollega strettamente alla «Vecchia». Dunque, l’esposizione dei due dipinti affiancati sulla stessa parete innescherà probabilmente ulteriori riflessioni in merito alla ipotesi, avanzata da parte della critica, che la tela oggi a Budapest costituisse «il coperto […] depento con un’homo con una veste de pelle negra» che accompagnava la «Vecchia», secondo quanto indicato nell’inventario Vendramin del 1601.
Roberta Battaglia, curatrice delle collezioni del Quattrocento e Cinquecento alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, afferma, inoltre, che «la proposta di interpretare il ritratto come esempio di contemplazione e ascesi neoplatonica si addice alla dimensione interiore del personaggio cui concorre anche la qualità astratta e ideale della luce. L’incarnato del volto risalta sulla massa compatta della chioma scura, contraddistinta da una insolita bicromia, che ha fatto supporre la presenza di una reticella oppure l’utilizzo di una tintura per schiarire le bande laterali dei capelli, secondo la moda per lo più femminile del tempo».
Dóra Sallay, curatrice della Pittura italiana (1250-1500) al museo di Budapest, sottolinea, infine, che il dipinto «si distingue tra i ritratti rinascimentali anche per il suo soggetto enigmatico: l'espressione assorta del giovane sconosciuto, il gesto che indica un sentimento profondo e la serie di emblemi difficilmente decifrabili dipinti sul parapetto hanno dato origine a innumerevoli interpretazioni e colpiscono tutti noi con la forza del loro mistero».
Per maggiori informazioni: gallerieaccademia.it.

...E poi...
A Venezia il rosso e il nero di Anish Kapoor- Da Tony Cragg a Vera Molnár: vetro e arte contemporanea sull’isola di Murano - «Open-end», Marlene Dumas tra corpi ed emozioni 

sabato 30 aprile 2022

«On fire», alla Fondazione Cini di Venezia il fuoco dialoga con l’arte contemporanea

Non ha forma, peso e densità. È immateriale e naturalmente fuggevole, eppure scalda, brucia, scoppia, illumina, risplende, distrugge e crea. È un elemento vivo. È, per usare le parole del saggista e giornalista James Henry Leigh Hunt (Southgate, Middlesex, 1784 - Putney 1859), «il più tangibile dei misteri visibili». Il fuoco è, tra i quattro elementi naturali, quello che più ha affascinato il mondo dell’arte, dove ha assunto le funzioni e i significati più diversi, ora di accessorio narrativo, ora di  medium  creativo, ora di presenza sacrale, simbolo di purificazione, rigenerazione e nuovi inizi.
Dal fuoco della redenzione che scalda il Bambino in tante Adorazioni dei pastori alle eruzioni vulcaniche che caratterizzano molti dipinti di area napoletana, dall’immancabile candela che rischiara i notturni di George de La Tour al falò della convivialità presente nel quadro «Upa, upa» di Paul Gauguin, pittori e scultori hanno traghettato il fuoco, quale elemento figurativo, nel Novecento, il secolo delle sperimentazioni e delle performance.
Le Avanguardie del secondo Dopoguerra hanno, quindi, scritto un nuovo capitolo di questa storia millenaria: dagli anni Cinquanta in poi, gli artisti sono, infatti, riusciti ad appropriarsi degli effetti sia distruttivi che generatori del fuoco, impiegandolo su diversi materiali, e hanno usato questo elemento naturale come medium per innovare il loro stesso linguaggio pittorico e plastico.
A questa storia guarda la mostra «On Fire», a cura di Bruno Corà, allestita fino al 24 luglio a Venezia, sull’isola di San Giorgio Maggiore, negli spazi della Fondazione Giorgio Cini, e promossa con la galleria Tornabuoni in occasione della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte.
Ventisei opere, tra cui diversi capolavori inediti o raramente mostrati al pubblico, suddivise in sei sezioni, documentano l’uso del fuoco come strumento di combustione dei materiali o come presenza viva con i propri effetti sensoriali, talvolta spettacolari, o, infine, come traccia pittorica attraverso il fumo della combustione.
Ad aprire il percorso espositivo, studiato per exempla, è Yves Klein, artista che fu attratto dall'aspetto dialettico del fuoco, simbolo di distruzione e rigenerazione, vita e morte, bene e di male. «Il fuoco – affermava - è per me il futuro senza dimenticare il passato. È la memoria della natura. È dolcezza, il fuoco ‘è dolcezza e tortura’. È il focolare e l'apocalisse. È un piacere per il bambino sapientemente sedutosi vicino al camino; punisce, tuttavia, ogni disobbedienza quando si vuole giocare troppo da vicino con le sue fiamme. È benessere e rispetto. È un dio tutelare e terribile, buono e cattivo». Nacquero da queste considerazioni le quattro «Peinture de feu» esposte, ovvero le «Antropometrie» degli anni Sessanta, ultima fase della ricerca dell'artista.
Ispirazione creativa e formazione scientifica si sposano, invece, nell’uso del fuoco fatto da Alberto Burri. «Per molto tempo ho voluto – annotava, a tal proposito, l’artista - approfondire il modo in cui il fuoco consuma, comprendere la natura della combustione e come tutto possa vivere e morire nella combustione per formare un'unità perfetta». La fiamma ossidrica dava all’artista umbro la possibilità di imprimere buchi, grinze e strappi, proprio come una cicatrice, alle materie che trattava – inizialmente carta, poi legno e plastica – anche grazie al lavoro manuale. «Nulla - raccontava Alberto Burri - è lasciato al caso. Quello che faccio qui è il tipo di pittura più controllato e controllabile...Bisogna controllare il materiale e questo si ottiene padroneggiando la tecnica».
Mentre per Armand Pierre Fernandez, in arte Arman, punto di partenza per l’uso del fuoco nella sua pratica artistica fu l’opera «Fauteuil d'Ulysse», realizzata negli anni Sessanta, con l'aiuto di Martial Raysse, per una mostra al Museo Stedeljik di Amsterdam. L'idea di questo lavoro, presente nella rassegna veneziana, venne all'artista durante una visita a una discarica, dove vide una poltrona stile Luigi XV che stava bruciando in cima a un mucchio di spazzatura. Da quest’opera principia una serie di combustioni con mobili eleganti e strumenti musicali che venivano consumati dal fuoco prima di essere stabilizzati dall'introduzione di resina. Distruggere un oggetto e farlo rivivere in forma nuova è, dunque, lo scopo del lavoro di Arman con il fuoco.
Dal Noveau Réalisme si passa, quindi, all’Arte povera con Pier Paolo Calzolari, le cui opere sono realizzate fin dall’inizio con materiali in costante conversazione tra loro, umili e provenienti dai contesti semi-industriali urbani o elementi naturali. Tra questi ci sono il fuoco, il legno, ma anche rottami, oggetti quotidiani e tubi al neon. In «Mangiafuoco» la pittura dialoga con la vitalità mutevole della materia, ovvero il fuoco soffiato sulla tela. «Il mio scopo - affermava l’artista - era stato fare in modo che la fiamma viva non rendesse in alcun modo secondario il rosso dipinto sulla tela».
Due lavori caratterizzano, poi, la presenza di Jannis Kounellis in mostra: «Margherita del fuoco» (1967), prima sua opera che fa uso della fiamma ossidrica e della bombola del gas, e «Senza titolo», una doppia lastra di ferro solcata da sette cannelli di rame, dai quali fuoriescono altrettante fiamme alimentate a gas, incorniciata da una sequela di grossi coltelli conficcati su panetti di piombo.
A chiudere il percorso espositivo è un’enorme biblioteca senza libri di Claudio Parmiggiani, realizzata in situ con il fumo e la fuliggine della combustione. L’opera, che pone al centro il tema della memoria, fa parte del ciclo delle «Delocazioni», «uno spazio vuoto di percezioni fisiche – si legge nella nota stampa -, dove però lo spettatore ha la sensazione di penetrare in un luogo abitato. L'assenza di oggetti esposti in precedenza rende i muri ancora più chiari; non c'è più che la loro traccia fuligginosa da vedere».
L’intero percorso espositivo dà sostanza alle parole di Gaston Bachelard: «l'alta dignità delle arti del fuoco deriva dal fatto che le loro opere portano il segno più profondamente umano, il segno dell'amore primitivo. (…) Le forme create dal fuoco sono modellate, più di ogni altra, come bene suggerisce Paul Valéry: 'a forza di carezze'».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Alberto Burri, Rosso Plastica M3, 1961, Plastica, combustione su tela, 121,5 x 182,5 cm. ©Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri; [Fig. 2] Yves Klein, Peinture de feu sans titre, ca. 1961, burned cardboard on pannel, 250 x 130 cm. © Succession Yves Klein c_o ADAGP, Paris, 2022.Reproduction Fee(s) ADAGP, Paris; [fig. 3] ves Klein, Peinture de feu sans titre, ca. 1961, burned cardboard on pannel, 142 x 303 cm.© Succession Yves Klein c_o ADAGP, Paris, 2022.Reproduction Fee(s) ADAGP, Paris; [ig. 4] Jannis Kounellis, Margherita di Fuoco, 1967, Stella di ferro con fiamma ossidrica. diam. 150 cm. ©Claudio Abate, Roma; [fig. 5] Claudio Parmiggiani, Solo la terra oscura, 2020. Fumo e fuliggine su tavola, 240x1824cm. Foto Agostino Osio-Alto Piano. Courtesy Fondazione MAXXI

Informazioni utili
On Fire. Isola di San Giorgio Maggiore, Sala Carnelutti e Piccolo Teatro -  Venezia, Italia. Orari: aperto tutti i giorni (tranne il mercoledì), dalle 11 alle 19. Ingresso gratuito. Sito web: www.cini.it. Fino al 24 luglio 2022

mercoledì 27 aprile 2022

«Open-end», Marlene Dumas tra corpi ed emozioni

«È un’esposizione sulle storie d’amore e i loro diversi tipi di coppie, giovani e vecchie, sull’erotismo, il tradimento, l’alienazione, l’inizio e la fine, il lutto, le tensioni tra lo spirito e il corpo, le parole (titoli e testi) e le immagini». Così Marlene Dumas (Città del Capo, Sudafrica, 1953) racconta la mostra «Open-end», la sua prima «grande personale» in Italia, allestita fino all’8 gennaio negli spazi di Palazzo Grassi, una delle sedi della collezione Pinault a Venezia
È la stessa artista a spiegare il titolo della rassegna, maturata durante i mesi di confinamento e di chiusura dei luoghi di cultura a causa della pandemia per il Covid-19, in un clima di malinconia per i tanti lutti che hanno caratterizzato gli ultimi due anni.
«Ci ho riflettuto molto – racconta Marlene Dumas - prima di trovare un titolo che riflettesse il mio stato d’animo e la mia percezione del mondo. Ho pensato al fatto di essere bloccata a casa, ai musei chiusi al pubblico e a Palazzo Grassi che dovrà essere aperto per accogliere questa mostra. Poi ho pensato alla parola ‘open’, aperto, e al modo in cui i miei dipinti siano aperti a diverse interpretazioni. Nelle mie opere lo spettatore vede immediatamente ciò che ho dipinto, ma non ne conosce ancora il significato. Dove comincia l’opera non è dove termina. La parola ‘end’, fine, che nel contesto della pandemia ha le proprie implicazioni, è al contempo fluida e melanconica».
Un centinaio di opere, selezionate da Caroline Bourgeois, raccontano la produzione più recente dell’artista, attraverso una selezione di dipinti e disegni che vanno dal 1984 a oggi, compreso un nucleo di opere realizzate proprio per la rassegna veneziana. Lavori di piccole dimensioni, come l’inchiostro e pastello su carta «About Heaven» (2001), «Mamma Roma» (2012) o «The Gate» (2001), si alternano ad altri di grande formato, da «Figure in a landscape» (2010) a «The making» of (2020), in un allestimento dal ritmo poetico, ora serrato, ora arioso, che occupa tutti e due i piani espositivi di Palazzo Grassi.
La maggior parte della produzione di Marlene Dumas è costituita da ritratti e figure umane che rappresentano l’intero spettro delle nostre emozioni: la sofferenza, l’estasi, la paura, la disperazione, la tenerezza, l’amore. Volti, corpi, e in alcuni casi organi sessuali, vengono resi sulla tela con una pennellata veloce, fluida ed essenziale, che negli ultimi anni si è fatta più pastosa, visibilmente materica, e con colori non naturalistici, tipici dello stile neoespressionista, che virano verso i toni del blu, del grigio, del rosso scuro e del giallo. Marlene Dumas spiega questa sua scelta figurativa così, con parole poetiche e simboliche: «La pittura è la traccia del tocco umano, è la pelle di una superficie. Un dipinto non è una cartolina».
Non mancano lungo il percorso espositivo - insieme potente ed enigmatico, intimo e provocatorio - autoritratti e opere che ritraggono personalità di spicco della nostra storia più recente, rivisitati in una chiave intima e inedita, da Pier Paolo Pasolini ad Anna Magnani, da Oscar Wilde a Marilyn Monroe, da Charles Baudelaire a «Dora Maar che ha visto piangere Picasso».
Un aspetto cruciale del lavoro di Marlene Dumas è l’uso di immagini provenienti da giornali, cartoline postali, libri, riviste di moda o film, ricombinate in una narrazione pittorica che mette insieme istanze socio-politiche, fatti di cronaca e storia dell’arte. A tal proposito, con una vena ironica, la stessa pittrice afferma: «sono un’artista che usa immagini di seconda mano ed esperienze di prim’ordine».
L’amore e la morte, le questioni di genere e razziali, la situazione di quelli che l’artista chiama i «dannati di questa terra», ovvero tutti coloro che sono stati privati dei propri diritti, l’innocenza e la colpa sono alcuni temi al centro del corpus di opere esposte, realizzate con un fare artistico molto corporeo, quasi erotico. «Dipingere per me è un’attività molto fisica – spiega, a tal proposito, Marlene Dumas – c’è qualcosa di primitivo. Uso il mio corpo e il corpo crea il dipinto, è il gesto che decide. Io penso molto, ma questo non necessariamente porta a un buon dipinto. Conta la tensione del momento nel quale sono fisicamente con i materiali, e anche questi devono trovare la loro strada nel dipinto. Vorrei che il quadro fosse come una danza». Una danza o una poesia, «una scrittura – conclude l’artista - che respira e fa dei balzi, e che lascia spazi aperti per consentirci di leggere tra le righe».

La proposta espositiva della collezione Pinault, per i giorni della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte, si completa con la mostra «Bruce Nauman: Contrapposto Studies», a cura di Carlos Basualdo e Caroline Bourgeois, allestita fino al 27 novembre a Punta Dogana
Attraverso un percorso espositivo inedito, che affianca lavori storici a opere più recenti, alcune delle quali inedite o presentate per la prima volta in Europa, la rassegna si concentra su tre direttrici fondamentali della produzione dell’autore americano, vincitore del Leone d’Oro per la miglior partecipazione nazionale alla Biennale di Venezia nel 2009: lo studio d’artista come spazio di lavoro e creazione, l’uso performativo del corpo e la sperimentazione sonora. . 
Centrale nel percorso espositivo è una serie di installazioni video realizzate negli ultimi anni a partire dal celebre «Walk with Contrapposto» del 1968, che ritraeva Bruce Nauman avanzare lungo un corridoio di legno allestito nel suo studio mentre si sforzava di mantenere la posa chiastica: «Contrapposto Studies, I through VII» (2015/16), «Walks In Walks Out» (2015), «Contrapposto Split» (2017) e «Walking a Line» (2019). Si trovano, poi, esposti lavori storici come, per esempio, «Bouncing in the Corner No.1» (1968) , «Lip Sync» (1969) e «For Children »(2010).  Il risultato è un’esperienza immersiva per il visitatore, invitato a mettersi in gioco con il proprio corpo, i sensi e l’intelletto.

Didascalie delle immagini
[Figg. 1-5] Vista dell'allestimento della mostra «Open-end» di Marlene Dumas. Courtesy: Palazzo Grassi, Venezia; [fig. 6]  Vista dell'allestimento della mostra «Bruce Nauman: Contrapposto Studies». Courtesy: Punta Dogana, Venezia;

Informazioni utili 
Marlene Dumas. open-end- Palazzo Grassi, San Samuele 3231 – Venezia. Orari: tutti i giorni, tranne il martedì, dalle ore 10 alle ore 19. Biglietti: intero € 15,00, ridotto € 12,00. Maggiori informazioni sugli orari, le tariffe, le attività e le modalità di accesso sul sito: www.palazzograssi.it. Fino all’8 gennaio 2023

martedì 26 aprile 2022

Da Donatello ad Alessandro Vittoria, centocinquanta anni di scultura a Venezia

Nel 1450 Venezia è all’apice della sua potenza, grazie al ruolo di cerniera tra l’Oriente e il nord Europa. In questo scenario il gotico viene gradualmente abbandonato per lasciare spazio a uno stile nuovo e, allo stesso tempo, eterno che parte dal ritorno all’antico per dare vita al Rinascimento. È in questo periodo che Donatello (Firenze, 1386 – Firenze, 13 dicembre 1466), fa tappa a Padova, dove soggiornerà per dieci anni, dal 1443 al 1453. Il suo arrivo sancisce il sopraggiungere di influenze esterne al panorama artistico veneto, ancora tardo gotico, e contribuisce alla formazione di una nuova generazione di artisti che si specializzano nella fusione del bronzo e nelle sculture in terracotta. Simbolo di questa nuova plasticità è il «San Lorenzo», un busto in terracotta del 1440, scelto per aprire il percorso espositivo della mostra «Da Donatello a Alessandro Vittoria, 1450 - 1600. 150 anni di scultura nella Repubblica di Venezia», allestita negli spazi della Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro, per la curatela di Toto Bergamo Rossi e Claudia Cremonini.
Originariamente nella lunetta del portale della Pieve di San Lorenzo a Firenze, il busto di «San Lorenzo» fu acquistato da Giovanni II, principe del Liechtenstein, nel 1889, e fino al 1938 esposto nella residenza estiva della famiglia a Vienna. Solo studi recenti di Francesco Caglioti, condotti tra il 2013 e il 2014 con l’ingresso del lavoro nella collezione di Peter Silverman e Kathleen Onorato, hanno dimostrato l’autografia donatelliana.
L’iconografia della scultura è quella tradizionale, presente in tanti busti reliquari del Medioevo: il santo levita, in eleganti fattezze giovanili, è raffigurato con la dalmatica diaconale, mentre nella mano destra tiene la palma del martirio e in quella sinistra il libro sacro (il Vangelo). Innovativa, invece, è la resa plastica di questa scultura che la mostra veneziana mette a confronto con una «Madonna in trono», sempre in terracotta, di Andrea Briosco detto il Riccio (fine XV secolo) e due raffigurazioni di San Sebastiano, un rilievo della bottega dei Lombardo, proveniente dalla sacrestia della chiesa veneziana dei Santi Apostoli, e un dipinto di Andrea Mantegna (Isola di Carturo, 1431 – Mantova, 1506), tra i simboli della collezione di Giorgio Franchetti esposta alla Ca’ d’Oro.
L’esposizione, la prima dedicata alla scultura del Rinascimento e della Tarda Maniera a Venezia, dedica, quindi, una sala al «Ritorno all’antico». La caduta di Costantinopoli prima (1453) e il ritrovamento del gruppo scultoreo del Laocoonte poi (1506) stimolano, infatti, negli scultori del tempo un nuovo modo di intendere l’estetica, fortemente ispirato alla classicità e allo stesso tempo aperto a nuove idee e tecniche. A rappresentare pienamente questo nuovo corso della storia della scultura è stato scelto il rilievo in marmo «La morte di Lucrezia», recentemente attribuito ad Antonio Lombardo e mai esposto fino a ora in un contesto museale. Realizzato probabilmente nel periodo ferrarese dell’artista, in cui fu eseguito anche il Camerino di alabastro per il duca Alfonso I, quest’opera è esemplificativa della volontà dell’epoca di rappresentare esempi di moralità e virtù patrizie. In questa seconda sala, è possibile ammirare anche l’«Apollo» di Antonio Minello e la «Cleopatra» di Giammaria Mosca, due opere esposte fino insieme, fino al 1624, nella collezione del marchese Costanzo Patrizi a Roma e per la prima volta riunite dopo quasi quattro secoli.
I rimandi alla classicità si notano anche nella rappresentazione dei soggetti sacri: le statue del «Cristo risorto» di Giovanni Battista Bregno rimandano rispettivamente al Doriforo di Policleto e all’Apollo del Belvedere, mentre il Cristo di Lorenzo Bregno, proveniente dalla Scuola Grande di San Rocco a Venezia, si ispira ai ritratti romani sia nel formato che nella veste del soggetto, simile a una toga. Ha abiti di ispirazione classica anche la «Figura allegorica» di Antonio Rizzo, appartenente alle collezioni della Ca’ d’Oro, che indossa un peplo con un diploide stretto in vito da una cinta come una Nike ellenistica.
L’ultima sala del piano nobile del museo veneziano, sede dell’esposizione, è dedicata, invece, alla «Renovatio Urbis», quel momento in cui Venezia diventa rifugio per artisti e architetti in fuga dalla Roma pontificia, dopo il sacco del 1527. Tra di loro c’è Jacopo Sansovino, architetto e scultore che giunge nella città lagunare sostenuto dal grande collezionista e mecenate Domenico Grimani, che lo presenta al doge Andrea Gritti assicurandogli una rapida ascesa nel contesto culturale della Serenissima. Il suo stile influenza il gusto della città unendo scultura e architettura, come si può notare nella sua «Madonna del Bacio» o nei rilievi bronzei con episodi della vita di San Marco, realizzati per il pulpito della Basilica ed eccezionalmente esposti a Ca d’Oro grazie all’ottimo lavoro della Fondazione Venetian Heritage, organizzatrice dell’evento espositivo con la Direzione regionale musei veneto
Conclude il percorso una serie di busti patrizi, esempi di un modo nuovo di intendere il ritratto commemorativo in una società, quella veneziana, profondamente oligarchica e repubblicana, in cui l’esaltazione del singolo non era ben vista. Si deve ad Alessandro Vittoria lo sdoganamento definitivo di questa raffigurazione, espressamente ispirata agli ideali romani del patriziato in Età repubblicana. Fondendo fantasia antiquaria e verosimiglianza – come si evince dai busti in mostra che ritraggono Marino Grimani, Tommaso Rangone e Francesco Duodo – queste opere esaltano e rendono immortale una classe dirigente dedita a proiettare l’immagine di un governo saggio e sereno, animato dalla linfa vitale della Serenissima.
La rassegna, visitabile fino al 30 ottobre, ha il pregio di restituire ai visitatori, grazie all’esposizione di opere note e di lavori mai visti in contesti museali, la varietà interpretativa della tecnica scultorea, sottolineandone la ricchezza di materiali, le potenzialità espressive e le declinazioni estetiche all’interno di un contesto storico-artistico che troppo spesso predilige, nel discorso su Venezia, la pittura.
Altro punto di forza della mostra è la scelta della cornice espositiva, la Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro, forte di una raccolta museale tra le più importanti in città per la qualità delle opere di diverse epoche e tipologie, da sempre uno dei capisaldi del collezionismo privato confluito in raccolte pubbliche e il luogo per eccellenza di concentrazione di capolavori scultorei provenienti da contesti monumentali dispersi, in larga parte concepiti per complessi ecclesiastici smembrati o non più̀ esistenti del territorio lagunare. Per questo motivo assume grande interesse anche la notizia che, al termine dell’esposizione, Venetian Heritage sottoporrà il palazzo a «un generale intervento di restyling e update espositivo».
La mostra «Da Donatello a Alessandro Vittoria, 1450 – 1600. 150 anni di scultura nella Repubblica di Venezia» si prefigge, inoltre, di accompagnare il visitatore in un itinerario diffuso per calli e campielli veneziani: è stata, infatti, progettata un’apposita segnaletica che indica la presenza di capolavori scolpiti conservati all’interno delle chiese e dei musei cittadini per creare un dialogo integrato e diffuso tra diversi punti di interesse. Un’occasione, questa, per visitare Venezia con occhi nuovi. 

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Donato di Niccolò di Betto Bardi, detto Donatello (Firenze, 1386 ca. - Firenze, 1466) San Lorenzo, 1440 ca. Terracotta. Londra, Collezione privata. Curtesy Colnaghi Gallery; [fig.2] Tullio Lombardo (Venezia 1455 - 1532), Doppio ritratto. Marmo di Carrara, 47 x 50 cm. Venezia, Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro - Direzione regionale Musei Veneto, su concessione del Ministero della Cultura; [fig. 3] Da Donatello a Alessandro Vittoria, 1450 - 1600, a cura di Toto Bergamo Rossi e Claudia Cremonini. Galleria Giorgio Franchetti alla Ca' d'Oro, dal 22 aprile al 30 ottobre 2022. Installation view. Foto: Matteo De Fina; [fig. 4] Da Donatello a Alessandro Vittoria, 1450 - 1600, a cura di Toto Bergamo Rossi e Claudia Cremonini. Galleria Giorgio Franchetti alla Ca' d'Oro, dal 22 aprile al 30 ottobre 2022. Installation view. Foto: Matteo De Fina; [fig. 5] Antonio Lombardo (Venezia, 1458 ca. - Ferrara, 1516) Morte di Lucrezia, 1508 - 1516 ca. Marmo di Carrara. Londra, Collezione privata. Courtesy of Colnaghi Gallery; [fig. 6] Gianmaria Mosca (Padova 1495/99 – Cracovia 1573), Porzia. Marmo, 45,5 x 33 cm. Venezia, Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro - Direzione regionale Musei Veneto, su concessione del Ministero della Cultura

Informazioni utili 
«Da Donatello a Alessandro Vittoria, 1450 – 1600. 150 anni di scultura nella Repubblica di Venezia». Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro, Calle Ca' d'Oro, 3934 – Venezia. Orari: martedì-domenica, ore 10-19; la biglietteria chiude alle ore 18:30.Ingresso: intero € 13,00, ridotto € 9,00, ridotto per cittadini UE dai 18 ai 25 anni € 2,00. Sito internet: https://www.cadoro.org/. Fino al 30 ottobre 2022

lunedì 25 aprile 2022

Da Tony Cragg a Vera Molnár: vetro e arte contemporanea sull’isola di Murano

«Solve et coagula», «Sciogli e condensa», dicevano i romani. È racchiusa in queste parole la magia del vetro, materiale figlio di un processo alchemico che, nel passaggio di dissoluzione e ricomposizione di un pugno di sabbia e silicio, arso dal fuoco e «coreografato» dal soffio e dalla sapienza manuale dell’uomo, genera forme trasparenti e opache, fragili e resistenti, colorate o bianche, meraviglie che fanno – giustamente - definire l’alto artigianato un’arte.
Questa tecnica dalle origini antiche ha in Italia un importante centro creativo, l’isola di Murano, dove nel 1291 furono trasferite, in seguito a un editto del doge Tiepolo, tutte le fornaci attive a Venezia al fine di preservare la città, allora centro di scambi commerciali con l’Oriente lungo le vie della seta e delle spezie, dai frequenti incendi che, purtroppo, si sviluppavano frequentemente all’interno delle botteghe compromettendo la vita degli edifici vicini, costruiti in legno.
La concentrazione delle vetrerie a Murano permise alla Serenissima anche di controllarne l’attività, impedendo che i segreti di quest’arte venissero esportati all'estero e facendo così fiorire il commercio del vetro veneziano, le cui fornaci erano sempre foriere di nuove invenzioni. Sulla piccola isola lagunare vide, infatti, la luce, verso la metà del XV secolo, il cristallino o «cristallo veneziano», un vetro estremamente chiaro e trasparente, nato dalla fantasia e dalla perizia creativa di Angelo Barovier (1405-1460 circa), che garantì a Venezia il predominio artistico per oltre due secoli, fino alla comparsa sul mercato del vetro boemo.
Murano fu anche la patria del vetro placcato, che permetteva di far risaltare colori e decorazioni, del vetro ghiaccio, una lavorazione estremamente complessa per ottenere un effetto rugoso con piccole crepe, del lattimo, bianco come la porcellana, del vetro smaltato, del vetro calcedonio, della filigrana, dell’avventurina, del millefiori o vetro colorato, delle conterie e delle murrine.
Di secolo in secolo, l’isola lagunare ha saputo, dunque, mantenere viva la sua peculiare tradizione traghettandola nel Novecento, epoca che ha visto l’affermarsi di tanti importanti marchi come, per esempio, Barovier & Toso, Seguso, Venini, Avem e Vistosi, interessati a far incontrare l’artigianalità dei maestri «fiolari» con il mondo del design e dell’arte.

Questa storia, millenaria, rivive tra le sale del Museo del vetro, «uno dei simboli della venezianità nel mondo», fondato nel 1861 all’interno del gotico Palazzo Giustinian, che attualmente ospita uno dei progetti di «Muve contemporaneo», l’offerta dei Musei civici veneziani per la cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte: «Silicon Dioxide».
Curata da Berengo Studio, la mostra, che trae il suo titolo dal materiale all’origine del vetro (il diossido di silicio, appunto), ripercorre - attraverso una quarantina di opere, alcune totalmente inedite, e un gruppo disegni, acqueforti e acquerelli - le tappe più significative della carriera di Tony Cragg (Liverpool, 9 aprile 1949), esponente di rilievo della scultura britannica (premio Tuner nel 1988) che ha incentrato la sua ricerca sull’uomo e sull’ambiente, naturale e artefatto.
Accanto agli storici assemblage, lavori di grandi dimensioni che accostano e sovrappongono gruppi di oggetti, sono esposte opere più recenti, alcune appena ultimate, che manifestano la curiosità dell’artista inglese per i vari effetti del vetro colorato, per la sua duttilità alchemica e la sua energia dinamica. Si tratta di lavori realizzati a partire dal 2009, quando Tony Cragg inizia la sua collaborazione con la fornace muranese di Berengo Studio. In mostra sono, dunque, affiancate installazioni su larga scala come «Bromide Figures» (1992), «Blood Sugar» (1992), «Cistern» (1999), collage di bottiglie in vetro satinato, e «Larder» (1999), colorato insieme di vasetti di conserve, a opere più intime come «Curl» (2000), «Spindles» (2021), «Bi» (2021) e la giocosa scultura «Climate» (2021). Tutti questi lavori, visibili fino al 21 agosto, riflettono sulla complessità della physis (il principio e la causa di tutte le cose), «conciliando la totale comprensione della natura organica della realtà con l’accettazione delle sue caratteristiche meno intelligibili», e, nello stesso, raccontano quello che Tony Cragg definisce il «potenziale infinito» del diossido di silicio.

In questi giorni, la piccola isola lagunare è anche sede di uno degli eventi collaterali della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte: «Icône 2020». La mostra - ideata, prodotta e curata da Francesca Franco per l’Atelier muranese - esplora, attraverso schizzi preparatori, dipinti e materiale di documentazione, il processo di creazione della prima scultura in vetro realizzata da Vera Molnár, artista ungherese di nascita e parigina d’adozione, classe 1924, pioniera della computer art con oltre ottant’anni di carriera alle spalle, le cui opere fanno parte delle collezioni del Museum of Modern Art di New York, del Victoriam and Albert Museum di Londra e del Centre Pompidou di Parigi. Partendo dalla prima opera d’arte digitale dell’artista, creata su tela nel 1975 («Computer-Icône/2») a partire da una serie di disegni realizzati al computer nel 1974 («Trapèzes»), la scultura «Icône 2020» esplora il concetto di dicotomia, dando forma all’equilibrio, difficile, tra ordine e disordine.

L’isola lagunare ospita, in concomitanza con la cinquantanovesima Biennale d’arte, anche la collettiva «Le forme del bere», che Elisa Testori ha curato per le sale di «InGalleria», l’art gallery di Punta Conterie, l’hub dall’anima poliedrica dove il design, le arti visive e l’enogastronomia contemporanea si compenetrano stimolando percorsi culturali e del gusto inusuali. La mostra, aperta fino al 31 dicembre, rende omaggio al bicchiere in vetro, oggetto della quotidianità e manufatto che, lungo la sua evoluzione, ha stimolato la creatività dei designer. Accanto a pezzi storici, vere e proprie icone ancora oggi sulle tavole di tutto il mondo, come l’elegante «Ovio» (1983) di Achille Castiglioni, i leggeri calici «Plume» (2000) di Aldo Cibic, i colorati «Goti de fornasa» (1992) di Barovier e Toso, lo scenografico «Esimio» (1993) di Alessandro Mendini, la «Corolla d’autore» (2000) di Vico Magistretti e le «Ballerine fortunate» (1986) di Matteo Thun, ma non solo, sono esposti i lavori di nove designer contemporanei
Lorenzo Damiani
, Giulio Iacchetti, Astrid Luglio, lo Studio Martinelli Venezia, mischer'traxler studio, Luca Nichetto, Philippe Nigro, Ionna Vautrin e Zaven sono stati invitati – racconta la curatrice - a progettare ognuno «una diversa tipologia di bicchiere: il set acqua-vino-digestivo, un bicchiere dedicato all’acqua, un bicchiere per il vino «della casa», la coppia acqua e vino, il boccale da birra, la coppetta da cocktail, la coppa da champagne, il bicchiere da whisky e il tipetto, ovvero il calice veneziano». Ecco così lavori che stupiscono per i loro nuovi codici formali e per le variazioni su forme archetipiche, come il «Filo di Zaven», con una sottile canna di vetro colorato che si fa stelo, i sette bevanti di «Amurius», omaggio alle sette isole muranesi (San Pietro, San Stefano, San Donato, dei Conventi, Sacca San Mattia, Navagero, Sacca Serenella), la coppa in vetro a bolle «Champagne!», «Tulipe», con la sua forma basculante ispirata alle forme femminili, o «Access», un set di sei pezzi che propone una riflessione sulla disponibilità e sull’accesso all’acqua potabile in alcune aree geografiche del mondo.
I processi produttivi sono diversi e i linguaggi artistici aprono nuove frontiere di ricerca, mettendo sotto i riflettori la contemporaneità di un materiale dalla storia antica: il vetro. Ma non un vetro qualunque. Il vetro di Murano, sinonimo di bellezza e pregio nel mondo .

Vedi anche 

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Tony Cragg, Larder, 1999. Preserve jars, 100 x 90 x 65 cm. Photo credit Lasse Koivunen; [fig. 2] Tony Cragg, Blood Sugar, 1992. Glass. Photo credit Michael Richter;  [fig. 3 e fig. 4] Tony Cragg: Silicon Dioxide. Exhibition view. Photo credit Michael Richter; [fig. 5] Vera Molnár, Icône 2020 (detail), 2021, Murano glass and 24K gold leaf, 60 x 60 cm, photo by Cristiano Corte ©, Courtesy New Murano Gallery; [figg. 6, 7 e 8] Mostra Forme del bere. Photo: Roberta Orio

Notizie utili 
Tony Cragg. Museo del vetro - Fondamenta Giustinian 8, 30121 Murano. Orari: Aperto tutti i giorni, dalle 10:00 alle 17:00; ultimo ingresso ore 16:00. Ingresso: intero € 10,00, ridotto (Ragazzi da 6 a 14 anni; studenti dai 15 ai 25anni; visitatori over 65 anni; personale del Ministero della Cultura (MiC); titolari di Carta Rolling Venice; titolari di ISIC – International Student Identity Card) € 7,50; gratuito per esidenti e nati nel Comune di Venezia; bambini da 0 a 5 anni; persone con disabilità e accompagnatore e altre categorie aventi diritto per legge. Informazioni: https://museovetro.visitmuve.it. Fino al 21 agosto 2022

Vera Molnár: Icône 2020. New Murano Gallery, spazi Atelier Muranese, Calle Alvise Vivarini, 6 - Murano (Venezia). Orari: tutti i giorni, dalle 10:00 alle 16:00. Ingresso libero. Informazioni: info@ateliermuranese.com. Sito dell'evento: www.ateliermuranese.com/icone2020. Fino al 27 novembre 2022 

Forme del bere. Punta Conterie, Fondamenta Giustinian, 1 - Murano (Venezia).Orari: da martedì a domenica, dalle 10:00 alle 18:00. Ingresso gratuito. Informazioni: tel. 041.5275174. Sito web:https://puntaconterie.com. Fino al 31 dicembre 2022

venerdì 22 aprile 2022

Venezia, a Palazzo Cini i disegni di Joseph Beuys

Con la sua poetica e la sua inconfondibile pratica artistica ha affrontato tematiche che, molti anni dopo, appaiono ancora urgenti e attuali: il problema ecologico, la spiritualità come strumento per imprimere una svolta nella Storia, l’istanza pacifista, il rapporto tra l’uomo e la natura, la volontà di stabilire una connessione profonda tra la pratica artistica e l’impegno sociale, la manipolazione dell’informazione e la partecipazione democratica alle scelte della politica.
Difficilmente etichettabile e inserito dalla critica ora tra i maestri del Minimalismo, ora tra i padri dell’Arte povera o tra i Concettuali, Joseph Beuys (Krefeld, 12 maggio 1921 – Düsseldorf, 23 gennaio 1986) è stato uno tra gli artisti più emblematici, profetici, anticonformisti e rivoluzionari del Novecento e uno tra i pochi realmente capaci di fare della propria vita un’opera d’arte.
Le performance degli anni Sessanta e Settanta, con i gesti ieratici, il silenzio colloquiante e il carisma dell’azione che vede in scena animali e materiali dalla forte valenza simbolica, gli valgono l’appellativo di «sciamano dell’arte». È lo stesso Joseph Beuys, in realtà, a suggerire il soprannome con il suo racconto, per molti fittizio e leggendario, di ciò che trasforma un aspirante medico in un utopista con il sogno di migliorare il mondo grazie all’arte. L’evento apocrifo accade nel marzo del 1944, durante la Seconda guerra mondiale: il ventitreenne, arruolato con la Luftwaffe (l’aviazione militare tedesca), nel ruolo di sergente radio-mitragliere, partecipa a una missione sul Fronte orientale. Il suo aereo precipita in una foresta della Crimea ed è lì, secondo la leggenda, che avviene la svolta. Joseph Beuys, in fin di vita, viene «magicamente» salvato da un gruppo di nomadi tartari che guariscono le sue gravi ferite con antiche pratiche della loro medicina tradizionale, facendo ricorso a grasso animale e fogli di feltro, materiali che, negli anni a venire, sarebbero tornati in continuazione nella pratica dell’artista, diventando simboli di salvezza e di connessione con la parte più pura e incontaminata dell’umanità.
Forte è anche il legame di Joseph Beuys con l’Italia, in particolare con Napoli, dove diventa amico del gallerista Lucio Amelio, e con il borgo abruzzese di Bolognano, dove, invitato da Lucrezia De Domizio e Buby Durini, porta avanti una serie di attività incentrate sull’agricoltura e sulla sostenibilità ambientale, a partire dalla creazione della «Piantagione Paradise» (1982) con la messa a dimora di settemila piante per il ripristino della biodiversità.
Moderno, anzi modernissimo, anche con questa azione, che dava forma all’idea di un’Italia idilliaca, bucolica e legata alle tradizioni, l’artista non è stato celebrato dal nostro Paese, in occasione del centenario della nascita (1921-2021), come meritava. A risarcire in parte il debito ci pensa la Fondazione Giorgio Cini di Venezia che, nei giorni della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte, presenta la mostra-dossier «Joseph Beuys. Finamente Articolato», curata da Luca Massimo Barbero e realizzata in collaborazione con la galleria Thaddaeus Ropac
Scenario dell’evento, in cartellone fino al 21 novembre, è Palazzo Cini a San Vio, raffinata casa-museo, nel sestiere di Dorsoduro, che custodisce al suo interno capolavori di Giotto, Guariento, Botticelli, Filippo Lippi, Piero di Cosimo e Dosso Dossi, raccolti dal mecenate Vittorio Cini nel corso della sua vita. La riapertura dello spazio veneziano, realizzata come consuetudine grazie al supporto di Assicurazioni Generali, offre anche l’occasione per tornare ad ammirare due capolavori recentemente restaurati: il trittico devozionale ad ante mobili con al centro la Crocifissione del Maestro del Polittico della Cappella Medici (anni venti del XIV secolo) e la «Madonna con il Bambino» dell’artista ferrarese Lorenzo Costa.
La mostra «Finamente Articolato» si propone di restituire un’immagine di Joseph Beuys specifica e distinta da quella maggiormente nota, legata alle celeberrime «azioni politiche e concettuali» e alle «performance sciamaniche», presentando una quarantina di opere, tra cui lavori su carta e disegni, molti dei quali eseguiti già alla fine degli anni Quaranta e nei primi anni Cinquanta. Il pubblico viene, dunque, condotto agli esordi dell’esperienza creativa del maestro tedesco, dominata da due temi chiave: la figura umana, spesso femminile, e quella animale, associate dalla terra, dai cicli stagionali e dalla fertilità.
Il percorso espositivo principia dalla scultura «Supporto per la schiena di un essere umano finamente articolato (tipo lepre) del XX secolo d.C.», fusa in ferro da un'originale forma in gesso che serviva come schienale terapeutico per sostenere un corpo ferito, nella quale c’è tutto l’immaginario beuysiano, «laddove si unisce il corpo, la protesi, l'uomo, l'animale, uniti in un'unica creatura, dai risvolti magici e mitologici». Tutto intorno ci sono opere come «Bleifrau (Lead Woman)», moderna Venere paleolitica di distillata eleganza, creata nel 1949 quando l’artista era ancora uno studente alla Staatliche Kunstakademie Düsseldorf, la scheggia di felce «Hirschkuh mit Jungem» (1948), la scultura in legno e cemento «Ofen mit Torso» (1948-1850), l’acquerello «Hirsch (Stag)» (1956) e il calco in cera di «Junges Pferdchen» (1955–86), ispirato al «Cavaliere polacco» di Rembrandt (1655).
Dai fogli selezionati «affiorano – si legge nella presentazione - l’interesse per le forme ancestrali delle culture arcaiche, l’attenzione alla febbricitante linea nordica di gotico-espressionista tedesca, l’evocativo richiamo alle pitture rupestri, tra le prime rappresentazioni umane che rimandano all’origine del pensiero mitico e simbolico».

Didascalie delle immagini 
1. Joseph Beuys, Zwei Frauen, 1955. Pencil, watercolour, gouache and iron chloride on paper. Image 21 x 29,5 cm Frame 41 x 50 x 3 cm (JB 1146). Photo: Ulrich Ghezzi; 2. Joseph Beuys, Weibliche Figur, 1954. Iron chloride on brown paper. Image 24 x 16 cm Frame 45,5 x 36,5 x 3,5 cm (JB 1154).Photo: Ulrich Ghezzi; 3. Joseph Beuys, Hirschkuh mit Jungem (Doe with Calf), 1948. Bronze 17,2 x 56,8 x 1,2 cm (JB 1208). Photo: Jessyka Beuys; 4. Joseph Beuys,  Backrest for a fine-limbed person (Hare-type) of the 20th Century AD, 1972; 5. Joseph Beuys, Bleifrau (Lead Woman), 1949. Lead cast 6 x 22,6 x 6 cm (JB 1202). Photo: Tom Carter; 6.  Joseph Beuys, Junges Pferdchen (Young Horse), 1955 - 1986. Wax cast 120 x 81,5 x 28,5 cm (47,24 x 32,09 x 11,22 in) (JB 1209). Photo: Tom Carter 

Informazioni utili 
«Finamente Articolato». Palazzo Cini, Campo San Vio, Dorsoduro 864 - Venezia. Orari: ore 11 – 19, chiuso il martedì (ultimo ingresso ore 18:15) | aperture straordinarie nelle giornate del 25 aprile 2022 (ingresso gratuito per i residente nel Comune di Venezia) 1° maggio e 18 giugno 2022 – Art Night (ingresso gratuito dalle ore 18-24: ultimo ingresso ore  23:15). Ingresso: intero 10,00 €; ridotto 8,00 € (gruppi superiori a 8 persone/ragazzi 15–25 anni/over 65/Soci Touring Club Italiano/Soci Coop/Soci ALI/Possessori biglietti Casa Tre Oci); Ridotto Dorsoduro Museum Mile 7,00€ (per possessori di biglietti Peggy Guggenheim Collection, Palazzo Grassi – Punta della Dogana, Gallerie dell’Accademia/possessori di voucher Generali e Visite guidate Fondazione Giorgio Cini); Ridotto 5,00 € (Residenti Comune di Venezia/Soci Guggenheim/studenti e docenti universitari U.E. delle facoltà di architettura, conservazione dei beni culturali, scienze della formazione, iscritti ai corsi di laurea in lettere o materie letterarie con indirizzo archeologico, storico artistico delle facoltà di lettere e filosofia, iscritti alle Accademie delle Belle Arti/ Aderenti alla convenzione Su e Zo per i Ponti); gratuito: minori di 15 anni (i minori devono essere accompagnati)/ membri ICOM (International Council of Museums)/diversamente abili accompagnati da un familiare o da un assistente socio-sanitario/giornalisti accreditati con tesserino/dipendenti Assicurazioni Generali/guide turistiche accreditate/ Amici San Giorgio. Sito web: www.palazzocini.it, www.cini.it. Fino al 21 novembre 2022