ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

martedì 14 marzo 2017

Art for kids: «Il barbiere di Siviglia», Gioachino Rossini e la Commedia dell’arte

Un’eccellente medicina contro le preoccupazioni e le difficoltà della vita di tutti i giorni: si presenta così «Il barbiere di Siviglia», opera buffa in due atti che il compositore Gioacchino Rossini scrisse all’inizio del 1816, in poco meno di tre settimane (ma qualcuno parla addirittura di solo nove giorni), per le celebrazioni carnevalesche del teatro Argentina di Roma, allora di proprietà del duca Francesco Cesarini Sforza.
Il componimento, su libretto di Cesare Sterbini, trae la propria trama della commedia settecentesca «Le barbier de Séville ou La précaution inutile» del drammaturgo francese Pierre-Augustin-Caron de Beaumarchais, già oggetto di varie versioni musicali, tra le quali quella, molto applaudita, di Giovanni Paisiello, i cui sostenitori -secondo i pettegolezzi del tempo- fischiarono lungamente il debutto della versione rossiniana.
Ma alla «prima» dell’opera non accadde solo questo episodio sfortunato; pare addirittura che, durante lo spettacolo, un gatto sia passato quatto quatto sul palcoscenico.
Nonostante l’insuccesso della prima rappresentazione, andata in scena il 20 febbraio 1816 con il titolo «Almaviva ossia l’inutile precauzione» (l’attuale nome sarà utilizzato solo a partire dalla ripresa bolognese dello stesso anno), il capolavoro del musicista marchigiano, con il suo meccanismo teatrale perfetto e le sue frizzanti e giocose invenzioni musicali, era destinato a diventare uno dei più grandi successi del teatro musicale italiano.

Non a caso un altro importante compositore ottocentesco, Giuseppe Verdi, ebbe a dire: «Non posso che credere il Barbiere di Siviglia, per abbondanza d'idee, per verve comica e per verità di declamazione, la più bella opera buffa che esista».
Definito oggi dalla critica come «il più grande poema musicale, comico, satirico e umoristico dell’umanità», «Il barbiere di Siviglia» ambienta la propria vicenda nel tardo Settecento ed ha come scenario la calda e solare Spagna.
Qui il maturo don Bartolo tiene segregata in casa la pupilla Rosina, che egli desidererebbe sposare. Il barbiere Figaro, fantasioso e pieno di risorse, aiuta l’innamorato conte di Almaviva a conquistare la giovane, che ricambia i suoi sentimenti. Dopo arditi travestimenti, scambi di biglietti, colpi di scena e la corruzione di don Basilio, maestro di musica della fanciulla, Figaro e il conte di Almaviva riescono a compiere il loro progetto: i due giovani innamorati si sposano, don Bartolo non può che rassegnarsi alla situazione e l’opera si chiude nell’allegria generale.
Sembra abbastanza evidente, come ha scritto il regista Luis Jouvet, che nell’opera «Il barbiere di Siviglia» si trova tutta la tradizione della commedia dell’arte: Arlecchino, Scaramuccia e Scapino sono stati tramutati in Figaro, Pantalone in Bartolo, Lelio e Leandro nel conte d’Almaviva.
Tra i brani entrati nell’immaginario collettivo, per quella che il critico Giuseppe Radiciotti ha definito la loro «giocondità serena e benefica», si ricordano l’ ouverture iniziale, la cavatina «Largo al factotum» e l’ aria «La calunnia è un venticello».
Per l’ouverture Gioachino Rossini si autocopiò; la sinfonia esisteva già, era quella dell’«Aureliano in Palmira», opera composta tre anni prima de «Il barbiere di Siviglia». Questo ci mostra un’altra caratteristica del teatro d’opera all’epoca di Gioachino Rossini: l’ouverture era, infatti, sì il momento musicale che annunciava i toni e i temi dell’opera, ma era anche un vero e proprio segnale sonoro che avvisava gli spettatori dell’inizio dello spettacolo ed era, dunque, spesso eseguita tra chiassi e schiamazzi che si calmavano successivamente.

La cavatina «Largo al factotum», grande classico che ogni baritono ha nel proprio repertorio, è così famosa per le sue note gioiose e spavalde che se ne conosce addirittura un’interpretazione del gatto Tom, della celebre coppia Tom e Gerry, nel cartone animato «The Cat Above and the Mouse Below» (1964).
L’ aria «La calunnia è un venticello» è utile per comprendere il cosiddetto «crescendo rossiniano», una tecnica compositiva molto utilizzata da Gioachino Rossini che consiste nel ripetere in maniera ossessiva determinate battute inserendo gradualmente nuovi strumenti a ogni ripetizione.

Per saperne di più
Fiorella Colombo e Laura Di Biase, «Il barbiere si Siviglia – Un percorso di sensibilizzazione e avvicinamento all’opera di Gioachino Rossini», Erga edizioni, Genova 2012;
Fiorella Colombo e Laura Di Biase, «Figaro qua, Figaro là», Vallardi, Milano 2014 (le immagini pubblicate sono tratte da questo libro);
Cecilia Gobbi e Nunzia Nigro, «Alla scoperta del melodramma – Il barbiere di Siviglia», Curci, Milano 2010;
Isabella Vasilotta (a cura di), «Rossini. Ascoltando Il barbiere di Siviglia, La Cenerentola e Guglielmo Tell», Sillabe, Livorno 2015

lunedì 13 marzo 2017

Art For Kids, l'opera lirica: ma che cos'è?

L’opera lirica, detta anche melodramma, è una forma di teatro speciale, nata tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento nella città di Firenze, a casa del conte Giovanni Bardi, per iniziativa di Vincenzo Galilei. Si parlò di recitar cantando per indicare questa invenzione, una speciale tecnica artistica che unisce il canto alla parola e alla gestualità tipica dell’attore.
Gli interpreti, detti cantanti lirici, indossano costumi, trucco e parrucche bellissimi e si muovono sullo sfondo di una scenografia che rappresenta i luoghi in cui si svolge la storia. I loro discorsi canori sono accompagnati dalla musica eseguita da una grande orchestra; a volte è presente in scena anche un corpo di ballo, con le sue étoiles (o primi ballerini).
La storia di un’opera può prendere spunto da una leggenda, da una favola, da un romanzo o da un lavoro teatrale, ma può anche essere completamente inventata. In base all’argomento narrato, l’opera lirica in Italia può essere definita a grandi linee seria o buffa: nel primo caso la trama ha prevalentemente un soggetto storico o mitologico; nel secondo l’ambientazione è contemporanea e la storia è ricca di equivoci, imbrogli e malintesi divertenti, quasi sempre con il lieto fine.
Nel corso dei secoli, in vari Paesi europei, si sono diffusi anche altri generi operistici: il Singspiel tedesco («canto e recitazione», che prevede l’alternanza tra dialoghi e parti cantate), la tragédie-lyrique (opera di corte francese con cori e danze), l’operetta (leggera e spiritosa nei contenuti), l’opéra-ballet, la grand-opéra (fastoso spettacolo musicale in cinque atti con balli, scene sontuose, cori e un gran numero di cantanti).
Uno scrittore, detto librettista, scrive i dialoghi dei personaggi, nella maggior parte dei casi in versi, e le didascalie, con le quali vengono descritte l’epoca e i luoghi in cui si svolge la vicenda. Il risultato finale è il libretto d’opera. Questo è composto da sezioni chiamate atti, a loro volte suddivise in scene; tra uno e l’altro ci sono gli intervalli, durante i quali si cambiano le scenografie e gli spettatori si intrattengono nel foyer.
Seguendo il testo del libretto, il compositore mette in musica i versi, creando l’atmosfera della storia e sottolineando i sentimenti e le emozioni dei personaggi. Se, per esempio, arriva in scena un personaggio cattivo la musica sarà cupa o minacciosa, mentre se due innamorati si dividono l’orchestra accompagnerà il loro addio con melodie dolci.
I protagonisti indiscussi di un’opera lirica sono i cantanti, che si distinguono in solisti e coro e si classificano in base al loro registro di voce, ovvero all’estensione vocale. Partendo dalla più grave per giungere alla più acuta, le tre voci maschili sono basso, baritono e tenore; le tre femminili contralto, mezzosoprano e soprano.
Il basso di solito interpreta il ruolo di un anziano o di un saggio; mentre nelle opere buffe caratterizza un personaggio un po’ ridicolo, vittima degli scherzi degli altri. La voce del baritono è quella di un uomo adulto; mentre il tenore, al quale è affidato il ruolo del giovane innamorato o dell’eroe romantico, ha il registro vocale più acuto ed è capace di raggiungere il famoso Do di petto che fa tremare i vetri.
Tra le voci femminili quella del contralto è la più scura e profonda ed è legata a personaggi anziani, drammatici e misteriosi. Il mezzosoprano è la voce intermedia; mentre il soprano è generalmente la protagonista femminile dell’opera.
In scena si trovano anche gli orchestrali, tutti vestiti rigorosamente di scuro, con il loro direttore. L’orchestra d’opera è composta da quattro grandi famiglie di strumenti: gli archi (violino, viola, violoncello e contrabbasso), i legni (flauto, clarinetto, oboe, fagotto, corno), gli ottoni (tromba, trombone, corno e tuba) e le percussioni (timpani, grancassa, piatti); talvolta può, però, includere altri strumenti come l’arpa e il pianoforte. A dare il segnale che l’opera lirica sta per incominciare è l’orchestra, con il La d’intonazione del primo violino.
Ci sono, poi, tante altre persone ugualmente importanti per determinare il successo di un’opera lirica: il regista, che decide e coordina le azioni dei cantanti e del coro in palcoscenico; il coreografo, che decide i movimenti dei ballerini; lo scenografo e il costumista, che disegnano rispettivamente le scene e i costumi.
Maestri collaboratori come il direttore di coro, il direttore di palcoscenico e il suggeritore, truccatori, parrucchieri, sarte, datori luci, macchinisti (tecnici addetti al montaggio e smontaggio delle scene e al funzionamento dei dispositivi meccanici), attrezzisti (tecnici che procurano gli elementi di arredo e gli oggetti necessari alla messa in scena) sono le tante altre figure che lavorano «dietro le quinte» per rendere magico lo spettacolo.
Ad aprire un’opera lirica è l’ouverture (in italiano «apertura»), ovvero la sinfonia iniziale suonata dall’orchestra a sipario chiuso. Questa musica è il biglietto da visita dell’opera stessa: ne annuncia il carattere e l’argomento trattato.
Le arie sono, invece, i brani melodici che esprimono un sentimento e che commentano un episodio; sono di solito arricchite da virtuosismi che permettono al cantante di fare sfoggio delle proprie qualità canore. La più nota è la cavatina o aria di sortita, che viene cantata dal personaggio principale alla sua prima entrata in scena per presentare se stesso.
Accanto all’aria e ad altre forme solistiche affini come la cabaletta e la romanza (l’una dall’intonazione vivace, l’altra dallo stile più sentimentale), nell’opera lirica ci sono pezzi di insieme quali il duetto, il terzetto, il quartetto e il quintetto, così detti a seconda del numero di personaggi che cantano contemporaneamente.
Un’altra parte importante dell’opera lirica è il concertato, ovvero la parte di una scena o di un atto, caratterizzata dalla presenza di due o più personaggi che si trovano a cantare contemporaneamente, spesso anche con il coro, senza seguire la medesima linea melodica. Il concertato si usa per far capire che ogni personaggio si è smarrito nei propri pensieri.
Ad unire le varie parti di un’opera lirica è il recitativo, uno stile di canto che si avvicina alla lingua parlata, imitandone il ritmo e l’intonazione.

Per saperne di più 
Cecilia Gobbi e Nunzia Nigro, «Alla scoperta del melodramma. Il teatro e le sue storie», Edizioni Curci, Milano 2009 
Fiorella Colombo e Laura Di Biase, «Recitar cantando ovvero come accostare i bambini all’opera lirica attraverso il teatro», Erga edizioni, Genova 2006 
Giorgio Paganone, «Insegnare il melodramma. Saperi essenziali, proposte didattiche», Pensa MultiMedia, Lecce –Iseo 2010

venerdì 10 marzo 2017

«Discovering Tiziano»: al Forte di Bard la storia di un'attribuzione

Come dipingeva Tiziano? Quale forza creativa ispirava il suo pennello? Perché l’artista tornava a distanza di tempo sullo stesso soggetto? Quale differenza c’è tra una replica e una copia? La mostra «Discovering Tiziano», allestita al Forte di Bard, nella Cappella della fortezza, tenta di rispondere a queste domande essenziali, presentando la «Deposizione di Gesù Cristo al Sepolcro» (olio su tela, 138 x 177 cm, collezione privata), oltre ai risultati dello studio iconografico e storico-artistico svolti sull’opera.
La rassegna, che sarà inaugurata nel pomeriggio di sabato 11 marzo da Antonio Paolucci, già Ministro per i beni e le attività culturali e direttore dei Musei Vaticani, include la proiezione del filmato «Scoprire Tiziano. Indagine sulla pittura», per la regia di Antonio Pintus (2016), la cui ideazione è firmata da Andrea Donati e che vede tra i collaboratori alla realizzazione il Seminario patriarcale di Venezia, la Pinacoteca Manfrediana e la Basilica di Santa Maria della Salute.
Il film, che illustra la vicenda attributiva della tela e le caratteristiche del grande olio tizianesco, contiene al suo interno interventi dello stesso Andrea Donati, a cui si deve la scoperta, oltre che di Ileana Chiappini di Sorio e Silvia Marchiori.
Tiziano dipinse almeno quattro dipinti della «Deposizione»: il primo e più antico (risalente al 1526-1527) è al Louvre, il secondo è andato perduto, il terzo e il quarto si trovano al Prado, il quinto alla Pinacoteca Ambrosiana.
Una sesta versione dell’opera, cronologicamente anteriore a quella dell’Ambrosiana e unanimemente considerata l’ultima e incompiuta, è stata riscoperta da Andrea Donati e viene ora esposta al Forte di Bard.
L’opera proviene dalla collezione italo-spagnola de la Riva-Agüero e Francesca Basso della Rovere. Dopo tre anni di indagini sulla pittura, si è potuto stabilire che il dipinto corrisponde verosimilmente a quello posseduto da Jeronimo Sanchez Coello, fratello del pittore di corte di Filippo II. Costui lo comprò nello studio di Tiziano nel 1576 e, in seguito, lo portò prima a Madrid, poi a Siviglia, dove è attestato la prima volta nel 1586, la seconda agli inizi del Seicento. Infine nel 1725 l’opera risulta essere nella collezione di Manuel de la Riva-Agüero e Francesca Basso della Rovere, discendenti di due illustri famiglie che si trasferirono a Lima, dando origine al ramo di famiglia del primo presidente del Perù.
La «Deposizione» de la Riva-Agüero, trasmessa in linea diretta fino agli ultimi eredi, è rimasta a lungo sconosciuta agli storici dell’arte finché non è stata oggetto di uno studio approfondito, curato da Andrea Donati. Hanno espresso parere favorevole all’attribuzione illustri storici dell’arte specialisti di Tiziano e di pittura veneziana del Cinquecento: Antonio Paolucci, Paul Joannides (Emerito dell’Università di Cambridge), Ileana Chiappini di Sorio (Università Ca’ Foscari), Giorgio Tagliaferro (Università di Warwick) e Fabrizio Biferali (Scuola Normale di Pisa).
Un’occasione, dunque, preziosa quella offerta da Forte di Bard per scoprire non solo una nuova opera tizianesca, ma anche le modalità con cui si procede all’attribuzione di una tela.

Informazioni utili
«Deposizione di Gesù Cristo al Sepolcro». Forte di Bard – Valle d’Aosta. Orari: martedì-domenica, ore 10.00-18.00; sabato, domenica e festivi, ore 10.00–19.00; chiuso il lunedì. Ingresso libero. Informazioni: Associazione Forte di Bard, tel. 0125.833811 | info@fortedibard.it. Sito web: www.fortedibard.it. Dall’11 marzo al 4 giugno 2017. 


giovedì 9 marzo 2017

Trento, Matteo Boato racconta le sue piazze al Muse

Fondamento della socialità e spazio pubblico aperto al dialogo e al confronto, la piazza è protagonista di molti lavori pittorici Matteo Boato. Venezia, Trento, Mantova, Cremona, Siena, Roma, Padova, Pisa, Gubbio, Milano, Firenze, Feltre e Peschiera sono le città che l’artista trentino ha impresso nelle sue tele, grazie a un sapiente uso del colore. Una quarantina di questi lavori sono in mostra, fino al 26 marzo, al Muse – Museo delle scienze di Trento.
«La piazza – racconta Boato - è un luogo dove chiunque passi lascia un frammento di vita, uno sguardo, un pensiero, un'idea. La piazza è il luogo dove la città si incontra perché ne è il cuore. Benché le persone non si conoscano e non ci sia alcuna relazione tra di loro, esiste questo punto di comune contatto, di scambio. Infatti chi passa, chi vi accede, coglie un vissuto altrui e lascia a sua volta un pezzo di sé. La piazza simboleggia il mondo fisico, reale, la terra dove siamo ed esistiamo».
Le opere esposte rappresentano i momenti salienti di una ricerca iniziata nel 1999 sui nuclei antichi, che ha dato origine alle serie pittoriche «Le case danzanti» e «Cielo di tetti». L'intento del percorso espositivo è quello di portare il visitatore a riscoprire l'anima della città, indagata attraverso case, facciate, porte e finestre. Impregnati degli umani umori, questi edifici conservano impresse nella loro materia costruttiva le storie delle persone che le hanno abitate e il senso del loro agire. L'aggettivo «danzanti» relativo alla prima serie, non ha solo connotazione gioiosa, ma si può collegare al tema delle danze macabre, affascinanti affreschi gotici nei quali l'apparire della morte nei festini di donne e cavalieri richiama alla precarietà dell'umano.
I lavori, originariamente molto colorati, hanno, con gli anni, abbracciato la bi-tri cromia, intraprendendo un racconto pittorico più intimo, attraverso l’accostamento di grafite e colore a olio materico. Il racconto grafico/pittorico si avvale di schizzi e appunti presi dal vero, in piazza, appunto. La vera fase realizzativa, però, avviene in studio e si arricchisce di un punto di vista nuovo e non sperimentato, cioè a volo d'uccello.
Il punto di vista «non visto», fantastico, dal cielo, risulta quello dominante. In molti lavori, la matericità e la conseguente presenza di ombre suggerisce questo incontro tra realtà e sogno, come se ci si trovasse in una «terra di mezzo» non ben collocabile. Colature copiose, inoltre, che solcano la superficie pittorica suggeriscono la sovrapposizione di tempi diversi, passato e presente insieme, suggeriscono il fluire inevitabile della vita e della morte, il succedersi di generazioni che una sull’altra e, nello spazio pittorico, una accanto all’altra, dialogano.
Per tutto il periodo di apertura, all’esposizione si affianca anche il progetto partecipativo «La voce della città». Come in un vero spazio cittadino, dove dal chiacchiericcio dei passanti emergono stralci di conversazioni, confronti e istantanee di vita, il Muse metterà a disposizione il proprio spazio non solo alle opere pittoriche, ma anche a quanti avranno voglia di condividere in pubblico un racconto, un messaggio, un ricordo, un tema a loro caro. Il risultato sarà una sorta di racconto corale, una miscela di esperienze ed emozioni che renderanno il museo un luogo ancora più inclusivo e coinvolgente. Al termine del progetto, tutte le narrazioni verranno registrate e pubblicate sul canale YouTube e sui social del Muse.

Informazioni utili
«Piazza» – personale di Matteo Boato. Muse – Museo delle scienze, corso del Lavoro e della Scienza, 3 – Trento. Orari: da martedì a venerdì, dalle ore 10.00 alle ore 18.00; sabato, domenica e festivi, dalle ore 10.00 alle ore 19.00; lunedì chiuso. Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8,00. Informazioni: tel. 0461.270311. Sito internet: www.muse.it. Fino al 26 marzo 2017.

mercoledì 8 marzo 2017

A Torino una mostra sulla calligrafia giapponese

È un viaggio alla scoperta di un’arte antica come la calligrafia quello che propone il Mao – Museo d’arte orientale di Torino con la mostra «Shodo – L’incanto del segno», realizzata con il patrocinio del Consolato generale del Giappone a Milano.
L’esposizione, allestita fino al 19 marzo, espone per la prima volta in Italia novantacinque opere di altrettanti artisti calligrafi giapponesi, oltre a sessantadue sho (calligrafie vere e proprie), a ventuno ventagli, undici opere intagliate su legno e un grande lavoro di sette metri raccolto a libro.
Il percorso di visita, realizzato in collaborazione con ViaggioinGiappone by J&W Travel, costituisce un’occasione rara per apprezzare diverse tipologie di lavori dei più autorevoli artisti giapponesi di calligrafia contemporanea.
Spicca tra i maestri in mostra Usuda Tosen insignito del premio più importante in questa forma d’arte, il «Mainichi Shodo Kensho», e considerato un luminare soprattutto per la tecnica dell’intaglio sul legno.
Accanto a lui, lungo il percorso espositivo si trovano Yanagisawa Kaishu, ideatore e disegnatore del logo del campionato mondiale di calcio Corea/Giappone del 2002, Nagai Oshu, maestro di calligrafia, di cerimonia del tè e di ikebana, e Inoue Kyoen, importante maestra di calligrafia e tra le poche donne ad aver avuto riconoscimenti a livello nazionale, nota soprattutto per la sua opera ispirata al Monte Fuji.
In Oriente come in Occidente, viviamo ormai in società dove le parole non si scrivono quasi più: si digitano. E se disgrafia o agrafia di ritorno sono in agguato per le poche lettere del nostro alfabeto, possiamo solo immaginare la dimensione del problema per lingue come il cinese e il giapponese, che richiedono di memorizzare migliaia di caratteri e di saperli scrivere tratto dopo tratto. Parlare di calligrafia nel XXI secolo assume, quindi, il valore inedito di una riscoperta, la riscoperta del piacere del segno scritto in un mondo che –se le tendenze degli ultimi decenni continueranno– rischia in un futuro non troppo distante di non saper più scrivere a mano.
In Oriente la calligrafia -shodō, via della scrittura- è considerata una forma d’arte vera e propria; anzi, è arte per eccellenza insieme a pittura e poesia, in quanto le tre forme espressive non possono essere completamente disgiunte l’una dalle altre. Tradizionalmente esse sono i mezzi attraverso cui l’artista (letterato, colto, elitario) dà voce al proprio sentire o –in maniera contraddittoria solo per le nostre menti occidentali– annulla il proprio io e lascia che la Natura trovi espressione sulla carta o sulla seta attraverso il suo cuore e la sua mano, il pennello e l’inchiostro. Il carattere viene usato in numerose occasioni per contraddistinguere la pratica di un’arte che richiede un impegno costante e che in diversi modi può assumere le caratteristiche di un percorso che conduce, tramite un perfezionamento tecnico, a un affinamento interiore dell’individuo.
Il Mao ha avviato da tempo un programma di mostre temporanee per approfondire tematiche che non sono presenti nelle esposizioni permanenti e per presentare al pubblico altri aspetti della straordinaria ricchezza e originalità delle culture orientali. In questo programma non poteva mancare un’esposizione sulla calligrafia giapponese, nella quale si dimostra come questa via della scrittura sia ancora viva e vitale in Giappone, rivisitando la tradizione in senso contemporaneo e quindi più accessibile anche a un pubblico occidentale.

Informazioni utili 
 «Shodo – L’incanto del segno». Mao - Museo d’arte orientale, via San Domenico, 11 – Torino. Orari: martedì-venerdì, ore 10.00-18.00; sabato-domenica, ore 11.00–19.00; chiuso lunedì | la biglietteria chiude un'ora prima. Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8,00. Informazioni: tel. 011.4436927, e-mail mao@fondazionetorinomusei.it. Sito internet: www.maotorino.it. Fino al 19 marzo 2017.