ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

mercoledì 2 agosto 2017

Dai Maya agli Inca, a Napoli «il mondo che non c’era»

«Queste cose son più belle che delle meraviglie […] Nella mia vita non ho mai visto cose che mi riempissero di gioia come questi oggetti». Così scriveva, nel 1520, Albrecht Dürer di fronte ai regali di Montezuma a Cortés, giunti a Bruxelles dall’America del Sud, terra sconosciuta fino a pochi decenni prima. La scoperta di questo continente, avvenuta tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, scardina la visione culturale del tradizionale asse Roma – Grecia – Oriente e, secondo l’antropologo Claude Lévi- Strauss, è l’evento forse più importante nella storia dell’umanità.
Fu il grande esploratore Amerigo Vespucci a comprendere per primo che le terre incontrate da Cristoforo Colombo nel 1492 non erano isole indiane al largo del Cipango (Giappone) e neppure le ricercate porte dell’Eden, ma un Mundus Novus, un nuovo continente che pochi anni dopo alcuni geografi che lavoravano a Saint-Denis des Voges vollero chiamare, in suo onore, America.
Alle principali culture di questo territorio -quelle degli Olmechi, dei Maya, degli Aztechi e degli Inca- è dedicata la mostra «Il mondo che non c’era», allestita fino al 30 ottobre al Mann – Museo archeologico nazionale di Napoli. Al centro dell’esposizione -curata da Jacques Blazy, specialista delle arti pre-ispaniche della Mesoamerica e dell’America del Sud- c’è una delle principali raccolte italiane dedicate a quest’ambito di indagine: quella di Giancarlo Ligabue (1931- 2015), imprenditore ma anche paleontologo, studioso di archeologia e antropologia, esploratore e appassionato collezionista che partecipò ad oltre centotrenta spedizioni.
La mostra -realizzata anche grazie alla collaborazione di Inti Ligabue- racconta le antiche culture della cosiddetta Mesoamerica (gran parte del Messico, Guatemala, Belize, una parte dell’Honduras e del Salvador), il territorio di Panama, le Ande (Colombia, Ecuador, Perù e Bolivia, fno al Cile e Argentina), dalla cultura Chavin a Tiahuanaco e Moche, fno agli Inca.
Dalle rarissime maschere in pietra di Teotihucan, la più grande città della Mesoamerica, primo vero centro urbano del Messico Centrale, ai vasi Maya d’epoca classica, preziose fonti d’informazione, con le loro decorazioni e iscrizioni: è articolato il viaggio proposto dalla mostra napoletana, che vede nel comitato scientifico personalità del calibro dello studioso André Delpuech, direttore del Musée de l’Homme – Muséum d’Histoire Nationale Naturelle di Parigi, e dell’archeologo peruviano Federico Kauffmann Doig, entrambi anche componenti del comitato scientifico della Fondazione Giancarlo Ligabue di Venezia.
Tra i pezzi esposti sarà possibile ammirare delle statuette antropomorfe della cultura Olmeca, che tanto affascinarono anche il pittore Diego Rivera e la moglie Frida Kahlo, e le sculture Mezcala, tanto enigmatiche nella loro semplicità quanto misteriose nelle origini, al punto che ne restarono profondamente suggestionati divenendone collezionisti anche André Breton, Paul Eluard e lo scultore Henry Moore.
Sempre dal Messico arrivano delle statuette policrome di ceramica cava della cultura di Chupicuaro, il cui apogeo si situa tra il 400 e il 100 a.C., e urne cinerarie (dal 200 a.C. al 200 d.C.) della cultura Zapoteca, databili tra il 200 a.C. e il 200 d.C.. Sono, poi, esposte sculture azteche, esempi pregevoli delle Veneri ecuadoriane di Valdivia, oggetti Inca, tessuti e vasi della regione di Nazca, manufatti dell’affascinante cultura Moche, straordinari oggetti in oro.
Purtroppo proprio l’oro, che spingerà nelle Ande spagnoli ed avventurieri alla ricerca del mitico El Dorado, segnò la fine delle culture degli Aztechi e degli Inca, schiacciati con le armi e con la schiavitù dai conquistatori. Milioni di indio moriranno anche a causa delle malattie arrivate dal Vecchio Mondo. Dovranno passare almeno quattro secoli, prima che l’Europa prenda nuovamente coscienza della grandezza dell’arte dell’America antica e ancora oggi sfuggono molti aspetti di queste culture.
La mostra al Museo archeologico nazionale di Napoli permette, dunque, di approfondire alcuni aspetti di queste civiltà, ma anche di ricordare gli storici legami della città campana non solo con la Spagna tra XVI e XVIII secolo, ma anche con l’immenso impero spagnolo cresciuto a dismisura all’epoca dei Conquistadores e portatore di ricchezze a scapito, appunto, dei popoli meso e sudamericani. E i debiti in termini di progresso economico e di ampliamenti culturali nei confronti del Nuovo Mondo sono evidenti: pensiamo ad alcuni alimenti (cacao, pomodori o patate) che sono arrivati per mediazione delle cucine della Corte spagnola nella tradizione alimentare del regno di Napoli e che oggi costituiscono la base di piatti considerati della tradizione locale. Ma ricordiamo anche il gioco con il pallone “di gomma” che scopriremo, grazie alle raffigurazioni in mostra sul tema, essere profondamente e anticamente radicato nella civiltà e nella ritualità mesoamericana.
Va del resto ricordato che lo stesso Carlo III di Borbone diede un contributo importante alla riscoperta dell’archeologia precolombiana, in particolare del sito maya di Palenque. Il complesso, definito la Pompei dei Maya, fu esplorato da una spedizione alla quale parteciparono Antonio Bernasconi, allievo di Luigi Vanvitelli, e alcuni studiosi che parteciparono ai primi scavi di Pompei ed Ercolano. Un’occasione, dunque, quella della mostra di Napoli per conoscere attraverso duecento opere vite, costumi e cosmogonie di un mondo entrato nella Storia.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Tessuto e copricapo. Cultura Nazca, 200. A. C.. Piume di uccelli amazzonici e corda. Altezza: 46 cm. Altezza banda: 12 cm Larghezza: 38 cm. Venezia, Collezione Ligabue; [fig. 2] Vaso o tazza votiva, Cultura Nazca - Perù, I-II secolo d.C. Ceramica con decorazioni di esseri mitologici. Altezza: 10,5 cm, diametro: 13 cm. Venezia, Collezione Ligabue; [fig. 3] Maschera. Cultura Chimù-Lambayeque, 1300 d.C.. Maschera funebre in rame ricoperto da lamina d’oro. Altezza 26 cm. Venezia, Collezione Ligabue

Informazioni utili 
«Il mondo che non c’era». Museo archeologico nazionale di Napoli, piazza Museo, 19 - Napoli. Orari: ore 09.00 – 19.30; chiuso il martedì. Ingresso: intero € 12,00, ridotto € 6,00, per altre tariffe si consiglia di consultare il sito www.museoarcheologiconapoli.it. Informazioni: tel. 081.4422149. Sito internet: www.ilmondochenoncera.it. Fino al 30 ottobre 2017. 

martedì 1 agosto 2017

«Bestiale!», quando il cane e il gatto diventano star del cinema

Ci sono proprio tutti alla Mole Antonelliana di Torino: Rin Tin Tin e Lassie, l'orca Keiko del film «Free Willy» e «Furia il cavallo del West», il gatto di «Colazione da Tiffany» e gli «Uccelli» di Hitchcock, ma anche il maialino Babe, il gufo di Harry Potter, «Francis il mulo parlante», la scimmia Cita di Tarzan e non solo. Gli animali resi famosi dal grande schermo sono i protagonisti della mostra «Bestiale! Animal Film Stars», a cura di Davide Ferrario e Donata Pesenti Campagnoni, con la collaborazione di Tamara Sillo e Nicoletta Pacini, che il Museo del cinema di Torino accoglie fino al prossimo 8 gennaio.
Animatronics, oggetti di scena, costumi, storyboard, bozzetti, disegni, sceneggiature, libri, fotografie, manifesti e materiali pubblicitari, brochure e programmi di sala, per un totale di oltre quattrocento opere, compongono il percorso espositivo che documenta l'esistenza di oltre duecentosettanta animali-attori, tra cui quarantuno stelle del cinema, e più di duecentottanta film dedicati all'argomento.
Tra i prestatori ci sono l'Academy of Motion Picture -quella degli Oscar- la Cinémathèque française, il Bafta di Londra e collezionisti privati come il premio Oscar per gli effetti speciali John Cox e gli storyboard artists Giacomo Ghiazza, Davis Russell e Jason Mayah.
Due i filoni di indagine della mostra, di cui rimarrà documentazione in un catalogo di Silvana editoriale. «Il primo -spiegano gli organizzatori- racconta cos’è un animale star e, in particolare, qual è la relazione tra icona popolare e animale in carne e ossa (spesso non un singolo, ma più di uno, che lo interpretano sullo schermo). Il secondo indaga il ruolo dell’animale-attore, interrogandosi se esista una recitazione animale, soprattutto oggi, quando animatronics ed effetti speciali digitali spingono verso personaggi di animali che sembrano sempre più esseri umani, mutandone la natura stessa».
Ad aprire il percorso espositivo sono gli esperimenti pre-cinematografici di Eadweard Muybridge, che nel 1878 cercò di documentare la corsa di un cavallo, e un fotogramma di «Adieu au langage» («Addio al linguaggio», 2014), l’ultimo film di Jean-Luc Godard, che ha per co-protagonista il suo cane.
La rassegna documenta, poi, come la storia del cinema abbia spesso creato intorno a molti cani e gatti, ma anche cavalli, topi o pinguini una storia da umani, dotandoli di personalità e – talvolta – di linguaggio. Sono nati così dei premi che danno riconoscimento al talento cinematografico degli animali-attori come lo storico PATSY Award (acronimo di Picture Animal Top Star of the Year e di Performing Animal Television Star of the Year), creato nel 1951 dall’American Humane e assegnato ininterrottamente fino al 1896, o il Palm Dog Award, istituito nel 2001 dal giornalista Toby Rose e assegnato nei giorni del Festival di Cannes. A dire il vero c’è anche chi pensò di candidare un animale all’Oscar con tanto di campagna mediatica. Il fortunato fu il cagnolino Uggie del film «The Artist», che letteralmente rubò la scena (e l'affetto del pubblico) al protagonista Jean Dujardin. Pure Donald O'Connor, protagonista della serie «Francis», si ritrovò a competere per la notorietà con il famoso mulo parlante ed esasperato dal successo del suo collega-animale lasciò la serie -dicono i ben informati- con le parole «Quando giri sei film e il mulo riceve più posta dai fan di te, qualcosa non va...».
Gli animali, in effetti, hanno sempre suscitato un grande interesse nel pubblico sin dagli esordi del cinema. Basti pensare che la prima pellicola con un quadrupede fu girata nel 1897 dai fratelli Lumière, che dedicarono al pranzo di un gattino uno dei loro primissimi film: «Le déjeuner du chat». Ecco così scorrere lungo le pareti del museo torinese le storie di animali che hanno fatto sognare, sorridere, spaventare ed emozionare svariate generazioni di grandi e piccoli spettatori: da Zanna Gialla a King Kong, dallo squalo di Spielberg al vero e proprio zoo che fu messo in piedi per girare il kolossal «La Bibbia», diretto nel 1966 da John Huston. A completamento della mostra sono stati ideati numerosi eventi: da laboratori per i più piccoli a incontri con gli insegnanti, da visite guidate a feste di compleanno a tema, fino all’attesa rassegna cinematografica in programma dall’11 ottobre al 1° novembre al cinema Massimo. Un’occasione per vedere quanto sia stato determinante l’apporto degli animali per la storia della settima arte.

Didascalie delle immagini 
[Fig. 1] King Kong, John Guillermin, USA, 1976  Jessica Lange (Dwan) e il braccio meccanico di King Kong. King Kong di John Guillermin, USA, 1976.  ©Angelo Frontoni/Cineteca Nazionale-Museo Nazionale del Cinema; [fig. 2] L’orca assassina di Michael Anderson, USA, 1977. Disegno di progettazione dello scenografo Mario Garbuglia per la costruzione delle orche. Collezione Museo Nazionale del Cinema; [fig. 3] 102 Dalmatians di Kevin Lima, USA, 2000. Animatronic di un cucciolo di dalmata; [fig. 4]Fumetti degli anni ’60 - ’70 tratti dalla serie televisiva Lassie. Collezione Museo Nazionale del Cinema 

Informazioni utili 
«Bestiale! Animal Film Stars». Museo Nazionale del Cinema – Mole Antonelliana, via Montebello, 20 – Torino. Orari: dalla domenica al venerdì, ore 9.00-20.00; sabato, ore 9.00-23.00; chiuso il martedì; aperture straordinarie nei giorni del 1° ottobre (Halloween), 1° novembre (Ognissanti), 8 dicembre (Immacolata), 24 dicembre (Vigilia di Natale), 25 dicembre (Natale), 26 dicembre (S. Stefano), 31 dicembre (Vigilia di Capodanno), 1° gennaio 2018 (Capodanno), 2 gennaio 2018 e 6 gennaio 2018 (Epifania).Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8,00, ridotto speciale € 3,00. Informazioni: tel. 011.8138.560 / 561 o info@museocinema.it. Sito internet: www.museocinema.it. Fino all’8 gennaio 2018.

lunedì 31 luglio 2017

Botero, una carriera lunga cinquant’anni

È la grande scultura in bronzo «Cavallo con briglie», di oltre una tonnellata e mezzo di peso e alta più di tre metri, ad aprire il percorso espositivo della retrospettiva che Roma dedica, fino al prossimo 27 agosto, a Fernando Botero (Medellín - Colombia, 19 aprile 1932), in occasione del suo ottantacinquesimo compleanno. Come una sorta di cavallo di Troia l’opera è posta all’ingresso del Complesso del Vittoriano con l’intento di incuriosire i turisti e i romani, così da invitarli a entrare in un mondo dai colori brillanti e dalle forme opulente, ammantato di una dimensione fiabesca e senza tempo, che fonde le suggestioni dell’arte latino-americana con quelle dei grandi maestri del passato, soprattutto dell’epoca rinascimentale.
Sono cinquanta le opere che il curatore Rudy Chiappini ha selezionato per questa mostra, già attesa per il prossimo autunno a Verona, dove sarà allestita, a partire dal 21 ottobre e fino al 29 aprile 2018, negli spazi di Palazzo Forti. Si tratta di dipinti e sculture, realizzati tra il 1958 e il 2016, che raccontano di una straordinaria carriera non ascrivibile a nessuna corrente pittorica, seppur spesso accostata al Surrealismo, il cui linguaggio -giocato su un’esasperata dilatazione delle forme, nonché su un colore smagliante steso in grandi campiture piatte e uniformi, senza contorni e ombreggiature- è facilmente riconoscibile, e anche molto amato, dal grande pubblico.
Nudi immersi in una sorta di Eden primordiale che non contempla la malizia, nature morte dai canoni classici, ritratti austeri di vescovi e matador, scampoli di vita circense, scene di quotidianità delle popolazioni andine, della amata Antioquia, con uomini e donne che sembrano privati dei propri sentimenti: questo e molto altro anima l’arte di Fernando Botero e scorre lungo le pareti dell’Ala Brasini del Complesso del Vittoriano.
Giotto, Piero della Francesca, Leonardo, Mantegna, Velázquez e Goya sono punti di riferimento imprescindibili per l’artista sudamericano. Gli offrono un’inesauribile fonte di ispirazione, che spesso lo ha portato a dare vita a una propria personale re-interpretazione dell’opera di questi maestri, scoperti durante un suo viaggio in Italia e in Spagna nei primi anni Cinquanta. Sono nati così lavori come «La Fornarina» (2008), rilettura del sinuoso e sensuale capolavoro di Raffaello, o il celebre «Dittico di Piero della Francesca» (1998), «L’infanta Margherita Teresa» (2006), ironico omaggio a Velasquez, o ancora il ritratto di «Rubens e sua moglie» (2005) che mantiene inalterata l’atmosfera intimista, corroborata dalla sinuosa impronta boteriana.
Anche le nature morte dell’artista guardano alla lezione del passato. Lo si può notare in «Natura morta con frutta e bottiglia» (2000), il cui particolare clima di complicità discende dalle equivalenti composizioni concepite nel Seicento dallo spagnolo Francisco de Zurbarán per arrivare quindi a Paul Cézanne, capace di infondere una spiccata personalità, se così si può dire, anche a una mela che conquista la scena.
Non meno forte è l’attaccamento di Fernando Botero alla sua terra natale. Nel linguaggio espressivo dell’artista colombiano si respira, infatti, una radicata dimensione popolare, un profondo attaccamento alla propria cultura, alla memoria mai venuta meno della quotidianità di Medellín. Egli stesso lo racconta con queste parole: «si ritrova nella mia pittura un mondo che ho conosciuto quando ero molto giovane, nella mia terra. Si tratta di una specie di nostalgia e io ne ho fatto l’aspetto centrale del mio lavoro. […] Io ho vissuto quindici anni a New York e molti anni in Europa, ma questo non ha cambiato nulla nella mia disposizione, nella mia natura e nel mio spirito latino-americano. La comunione con il mio Paese è totale».
Sono figlie di questo attaccamento alle proprie origini opere come «Le sorelle» (1969-2005), «Il club del giardinaggio» (1997), «Atelier di sartoria» (2000) e «Picnic» (2001) con i suoi placidi innamorati. Queste caratteristiche si ravvisano anche nelle tante opere dedicate al circo, «un soggetto bellissimo e senza tempo» -per usare le parole dell’artista-, del quale ci viene consegnata una carrellata di ritratti di grande bellezza, da Pierrot ad Arlecchino, dalla cavallerizza impegnata nel suo numero ai clown sui loro improbabili trampoli, dall’elefante ai cavalli.

Didascalie delle immagini
[Figg. 1, 2, 3] Allestimento della mostra che Roma dedica, negli spazi del Complesso del Vittoriano, a Fernando Botero. Foto di Iskra Coronelli

Informazioni utili
Fernando Botero. Complesso del Vittoriano - Roma. Orari: dal lunedì al giovedì, ore 9.30-19.30; venerdì e sabato, ore 9.30-22.00; domenica, ore 9.30 - 20.30; la biglietteria chiude un'ora prima. Ingresso: intero € 12,00 (audioguida inclusa), ridotto € 10,00 (audioguida inclusa) o € 8,00, ridotto scuole €  5,00. Informazioni: tel. 06.8715111. Sito internet: www.ilvittoriano.com. Fino al 27 agosto 2017.