ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

martedì 26 marzo 2019

«San Giorgio Cafè», La Mantia cucina per Venezia e gli art addicted

In primo piano le barche mollemente adagiate sulle acque della Laguna veneta e sullo sfondo la magnificenza del campanile di San Marco. È una location da sogno quella del nuovo ristorante di Filippo La Mantia, «oste e cuoco» palermitano -per sua stessa definizione- famoso per una cucina ricca di sapori genuini, profumi che rimangono impressi nella memoria e amore per materie prime come agrumi, finocchietto e pistacchi, fiore all’occhiello della sua Sicilia. Da sabato 6 aprile l’isola di San Giorgio Maggiore a Venezia avrà, infatti, un nuovo spazio dedicato all’arte della cucina e alla cultura gastronomica italiana: il San Giorgio Café.
Il progetto, voluto dalla Fondazione Giorgio Cini nell’ambito delle attività di valorizzazione dell’isola lagunare, è stato progettato da D’Uva con Filippo la Mantia e sarà l’unico luogo di ristoro pubblico sull’isola. Una tappa, dunque, quasi obbligata per gli appassionati d’arte, soprattutto in vista dell’ormai vicina cinquantottesima edizione della Biennale.
Bar, café, bistrot e ristorante: sarà tutto questo il nuovo locale, collocato a fianco del complesso monumentale dell’isola benedettina, tra i principali promotori della vita culturale veneziana con il suo ricco calendario di iniziative, che spaziano dalla stagione concertistica dell’affascinante auditorium «Lo Squero» a importanti convegni e giornate di studio (tra cui si segnala per il 2019, dal 29 al 31 maggio, l’appuntamento internazionale «How Europe discovered the music of the World after World War II. Cold war, Unesco and ethomusicological debate»), senza dimenticare il sempre raffinato calendario espositivo.
Quest’anno, tra le mostre annunciate dalla Fondazione Cini per l’apertura della Biennale di Venezia, merita una segnalazione l’importante retrospettiva dedicata ad Alberto Burri (10 maggio - 28 luglio), realizzata con la collaborazione della Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri di Città di Castello.
La mostra, a cura di Bruno Corà, nasce dalla volontà di riportare a Venezia le opere più significative dell’artista, uno dei più grandi protagonisti dell'arte italiana ed europea del XX secolo, la cui ultima antologica risale al 1987.
L’esposizione, allestita negli spazi dell’Ala napoleonica, ripercorrerà così cronologicamente le più significative tappe del percorso del «maestro della materia» attraverso molti dei suoi più importanti capolavori: circa cinquanta opere, provenienti dalla Fondazione Burri, da musei italiani e stranieri e da collezioni private.
In primavera sull’isola di San Giorgio Maggiore sarà possibile vedere anche la nuova esposizione del progetto «Le stanze del vetro», iniziativa per lo studio e la valorizzazione dell’arte vetraria veneziana del Novecento nata dalla collaborazione tra Fondazione Cini e Pentagram Stiftung: «Maurice Marinot. The Glass, 1911-1934» (25 marzo - 28 luglio), a cura di Jean-Luc Olivié e Cristina Beltrami.
L’esposizione, organizzata insieme al Museo delle arti decorative di Parigi, sarà il primo tributo internazionale a questo grande artigiano, protagonista di una rivoluzione, nella tecnica quanto nel gusto, ancora non pienamente conosciuta dal grande pubblico, che lo ha visto letteralmente inventare un nuovo tipo di vetro, spesso, pesante e come egli stesso lo definì «carnoso».

Dopo una formazione parigina, la carriera di Marinot prende avvio come pittore fauve, ma è col vetro, al quale si avvicina quasi casualmente nel 1911, che l'artista trova la via dell'unicità.
Le prime prove con questo materiale sono decorazioni a smalto di oggetti prodotti dalla vetreria industriale di alcuni amici a Bar-sur-Seine, nella regione dell’Aube.
Il rapporto col vetro diviene, negli anni, sempre più fisico, quasi una lotta a due con la materia. Marinot arriva a padroneggiare la tecnica e, a partire dal 1922-1923, soffia egli stesso creando pezzi unici dalle forme originali e dalle colorazioni raffinatissime. Passa da forme pulite dalle superficie lisce, che giocano con le bolle d’aria sospese nello spessore, a flaconi e vasi che incide con tagli profondi, o corrode con lunghi passaggi nell’acido.
Questa storia, che termina nel 1934, verrà raccontata attraverso duecento pezzi unici e centoquindici disegni, tra schizzi e progetti per oggetti e per allestimenti, provenienti da differenti musei francesi.
In autunno «Le stanze del vetro» proporranno, invece, la mostra «Thomas Stearns alla Venini» (9 settembre 2019 - 6 gennaio 2020), dedicata all’esperienza muranese dell’artista americano che giunse a Murano nel 1960. La mostra, e il relativo catalogo, metteranno insieme per la prima volta tutte le opere che si sono conservate e che in gran parte possono essere considerate pezzi unici.
Mentre l’Ala napoleonica della Fondazione Giorgio Cini vedrà un omaggio a Emilio Isgrò (29 agosto-24 novembre), focalizzato su un tema centrale nella poetica dell’artista, quello della cancellatura.
Sono tanti, dunque, gli appuntamenti d’arte pensati per godere appieno della bellezza dell’isola di San Giorgio Maggiore e ora, al calendario, si aggiunge anche la possibilità di gustare un pasto d’autore. Da qualche giorno è già possibile prenotare on-line il proprio tavolo sul sito www.sangiorgio.cafe, i cui contenuti saranno svelati alla stampa il prossimo 5 aprile. Una prima occasione, quella del sito e delle pagine social su Facebook e Instagram, per «cogliere -raccontano da Venezia- il significato profondo del rapporto integrato tra il San Giorgio Cafè e le tradizionali attività della Fondazione Giorgio Cini a sostegno e valorizzazione dell'Isola».

Informazioni utili 
Per prenotazioni >>> booking@sangiorgio.cafe 
Per informazioni >>> info@sangiorgio.cafe 
Sito ufficiale >>> www.sangiorgio.cafe 
Instagram >>> https://www.instagram.com/sangiorgiocafe
Facebook >>>https://www.facebook.com/sangiorgiocafe/

domenica 24 marzo 2019

«Gauguin a Tahiti», al cinema per scoprire «il paradiso perduto» dell'artista

È il 1° aprile 1891 quando, a bordo della nave Océanien, Paul Gauguin (1848-1903) lascia Marsiglia diretto a Tahiti, in Polinesia. Ha appena ottenuto dal Governo francese una missione gratuita con lo scopo di «fissare il carattere e la luce della regione», allora molto pubblicizzata dagli opuscoli dedicati alle colonie francesi in Oceania. L’artista realizza così, a quarantatré anni, il suo sogno di abbandonare una realtà che sempre meno sembra essergli congeniale per luoghi che, attraverso la lettura del romanzo «Le mariage» di Pierre Loti, gli sembrano il paradiso in terra.
Quella giornata di inizio aprile del 1891 segna l’avvio di un viaggio che due mesi dopo, il 9 giugno, vedrà Paul Gauguin giungere agli antipodi della civiltà, alla ricerca dell’alba del tempo e dell’uomo.
Ai Tropici, l’artista resterà quasi senza intervalli fino alla morte, prima sull’isola di Tahiti, poi in quella di Hiva Oa, nell’arcipelago delle Marchesi, dove giunge il 16 settembre 1901.
Questi dodici anni vedono il pittore francese andare alla ricerca, disperata e febbrile, dell’autenticità di un luogo dalla natura lussureggiante e dai colori accesi, un vero e proprio Eden che farà di lui uno dei pittori più grandi di sempre tra quelli che si ispirarono alle Muse d’Oltremare.
A questa storia guarda il nuovo appuntamento del progetto «Grande arte al cinema»: «Gauguin a Tahiti. Il paradiso perduto», in cartellone il 25, 26 e 27 marzo.
Il nuovo docu-film, con la partecipazione straordinaria di Adriano Giannini, è diretto da Claudio Poli, su soggetto di Marco Goldin e Matteo Moneta, che firma anche la sceneggiatura, ed è prodotto da 3D Produzioni e Nexo Digital con il sostegno di Intesa Sanpaolo.
Ripercorrendo le tracce di una biografia che appartiene ormai al mito e di una pittura raffinatamente primordiale, il film-evento, che vanta una colonna sonora originale firmata dal compositore e pianista Remo Anzovino, guiderà lo spettatore in un percorso tra i luoghi che Paul Gauguin scelse come sua patria d’elezione e attraverso i grandi musei americani dove sono custoditi i suoi più grandi capolavori: New York col Metropolitan Museum, Chicago con il Chicago Art Institute, Washington con la National Gallery of Art, Boston con il Museum of Fine Arts.
Ad accompagnare il pubblico in questo viaggio alla scoperta del «romantico dei mari del Sud» saranno anche gli interventi di esperti internazionali: Mary Morton, curatrice alla National Gallery of Art di Washington, Gloria Groom, curatrice all’Art Institute di Chicago, Judy Sund, docente della New York City University, Belinda Thomson, massima esperta di Gauguin, e David Haziot, autore della più aggiornata e accreditata biografia su Gauguin.
«Gauguin a Tahiti. Il paradiso perduto» trasforma in immagini quel libro d’avventura che fu la vita di Gauguin, ma è anche la cronaca di un fallimento. Perché Gauguin non poté mai sfuggire alle proprie origini, alle ambizioni e ai privilegi dell’uomo moderno. Fu sempre il cittadino di una potenza coloniale: dipinse tra le palme, ma con la mente rivolta al pubblico dell’Occidente, alla sua clientela con la malia dell’esotico. Un paradosso, questo, -raccontano da Nexo Digital- che «si riflette nel destino della sua opera, visto che i suoi quadri oggi sono conservati in grandi musei internazionali dove ogni anno milioni di persone si fermano di fronte alle tele di Tahiti, sognando il loro istante di paradiso, un angolo di silenzio in mezzo alla folla».
Ma da dove nasce la fascinazione di Paul Gaugin per i Tropici? Verrebbe da dire dalle sue stesse origini. L’artista, nato a Parigi il 7 giugno del 1848, a soli quattordici mesi viene portato dai suoi genitori -il giornalista Clovis Gauguin e la sudamericana Aline Marie Chazal- in Perù.
Qui, forse, prende il via la sua iniziazione tropicale: egli resterà, infatti, sempre fiero del suo sangue sudamericano, tanto da sostenere con fermezza una sua parentela con gli Aztechi.
Dopo il ritorno a Parigi, Paul Gauguin si avvicina alla pittura e all’Impressionismo, ma presto sente di dover cercare se stesso altrove. Parte così alla volta della costa bretone, un cuneo di roccia proteso sul vuoto dell'Oceano. In questi luoghi rudi, primitivi, malinconici, il pittore pensa di purificarsi dalla città e dalle mode artistiche parigine. Si mette alla ricerca delle forme ancestrali di una nuova pittura. Ed proprio qui, a Pont-Aven, che Gauguin dipingerà alcune delle sue opere più celebri, come il «Cristo Giallo», in cui riproduce un crocifisso ligneo ammirato nella cappella di Trémalo, o «La visione dopo il sermone», in cui il misticismo bretone trova forma nel cloisonnisme, con le sue campiture nette e stesure compatte di colore.
È qui, in Bretagna, che prende il via la sua meravigliosa avventura del colore, con il distacco dagli Impressionisti e dalle loro pennellate frammentarie, con i contrasti violenti con l’amico e collega Vincent Van Gogh e con l’approdo, poi, a un cromatismo nuovo, anti-naturalistico e legato ai movimenti dell’anima come quello di opere come «La orana Maria, Nafea faa ipoipo, Aha oe feii?» o «Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?».
Il racconto sarà accompagnato anche dalle parole dello stesso Gauguin, con brani tratti da testi autobiografici (come «Noa Noa» o «Avant et après»), dalle lettere a familiari, amici e alla moglie Mette, alla quale Paul scriverà: «Verrà un giorno, e presto, in cui mi rifugerò nella foresta in un’isola dell’Oceano a vivere d’arte, seguendo in pace la mia ispirazione. Circondato da una nuova famiglia, lontano da questa lotta europea per il denaro. A Tahiti, nel silenzio delle notti tropicali, potrò ascoltare il ritmo dolce e suadente del mio cuore in armonia con le presenze misteriose che mi circondano. Libero, senza problemi di denaro, potrò amare, cantare, morire».
La storia di Paul Gauguin è, dunque, la storia -recita Adriano Giannini nel trailer- di «un uomo in fuga dall’arte accademia, dal male di vivere della modernità». È la storia di un ribelle che cerca pace in terre lontane. È la storia di un pittore che sembra aver capito ciò che è importante nella vita: «Quando, finalmente gli uomini comprenderanno -dice- il senso della parola libertà? Che mi importa della gloria? Sono forte perché faccio ciò che sento dentro di me».

Per saperne di più
www.nexodigital.it 

venerdì 22 marzo 2019

«Sulla via della folgore di diamante», a Torino una mostra sulla tradizione religiosa tibetana

Non smette di aggiornarsi e di aggiornarci il Mao – Museo d’arte orientale di Torino. Dopo il nuovo allestimento del corridoio dedicato alle stampe policrome giapponesi, si rinnova anche la Galleria della regione hymalayana. A partire da mercoledì 27 marzo i visitatori potranno, infatti, ammirare venticinque nuove opere appartenenti alla tradizione religiosa tibetana, i thang-ka, databili tra il XVII e il XIX secolo. L’occasione è offerta dalla mostra «Sulla via della folgore di diamante».
Il termine thang-ka indica un tessuto dipinto che può essere arrotolato. I dipinti sono eseguiti a tempera, il supporto è una mussola di cotone e la base di preparazione è realizzata con una mistura di gesso e caolino.
I dipinti sono considerati oggetti sacri non solo perché presentano soggetti religiosi e simboli pertinenti alla complessa iconografia buddhista tantrica, ma anche perché fungono da supporto concreto alla meditazione.
Le thang-ka, anche quando incentrate sulla raffigurazione di un unico soggetto religioso, sia esso simbolico, umano o divino, intendono trasmettere una complessità di conoscenze filosofico-religiose che si esplicitano attraverso la definizione di elementi iconografici minori, immediatamente colti dai devoti buddhisti.
Le thang-ka, anche quando incentrate sulla raffigurazione di un unico soggetto religioso, sia esso simbolico, umano o divino, intendono trasmettere una complessità di conoscenze filosofico-religiose che si esplicitano attraverso la definizione di elementi iconografici minori, immediatamente colti dai devoti buddhisti.
I soggetti iconografici esposti spaziano dalle raffigurazioni del Buddha Shakyamuni a quelle del Buddha primordiale e dei Cinque grandi Buddha cosmici che da esso discendono. Nel sistema «Vajrayana - la Via della Folgore di diamante» - i Cinque grandi Buddha sono, infatti, considerati essere emanazioni delle qualità spirituali del Buddha primordiale, personificazione dell’illuminazione innata. Ciascuno dei Cinque Buddha cosmici è associato a una direzione dello spazio. Amitabha, il «Buddha della Luce Infinita», è collocato a Occidente, mentre Amogasiddhi, «Colui che conduce all’infallibile realizzazione», è il reggente del Nord. Nell’ambito di questo universo spirituale così spazialmente definito, si collocano esseri intermedi, quali i Bodhisattva, ovvero coloro che rinunciano all’estinzione dal ciclo di nascite e morti (nirvana) per indicare la via della salvezza a tutti gli esseri senzienti.
Oltre alle figure spirituali pacifiche troviamo divinità protettrici della religione, dall’aspetto terrifico, come Mahavajrabhairava, il Grande terrifico, o Yamantaka, il distruttore della morte, così come maestri e adepti tantrici, che a loro volta si mostrano gentili come Tson-ka-pa, fondatore della scuola che dal XVI secolo sarà retta dai Dalai Lama, o terrifici nell’atto di scacciare i demoni.
Due thang-ka tibetane del XVIII secolo, piuttosto rare, sono quelle prodotte nell’ambito della scuola monastica del Bon. Si tratta di una via spirituale parallela al Buddhismo, risalente come quella dei Rnyng-ma-pa a un gruppo antico di lignaggi di praticanti tantrici. È la principale forma religiosa del Tibet non buddhista.
Oltre a vari soggetti religiosi, le opere esposte mostrano alcuni tratti stilistici appartenenti a diverse scuole pittoriche. Lo stile della thank-ga «Storie di Mandhatar, Candraprabha, Supriya», del XVIII secolo, si rifà alla scuola karma sgar bris, una delle due grandi correnti stilistiche in cui si divide la pittura tibetana degli ultimi quattro secoli. Questa bella thang-ka proveniente dal Khams, nel Tibet orientale, si distingue per la levità e delicatezza dei toni con cui viene trattato il paesaggio e per l'eleganza da miniatura con cui sono dipinte le piccole figure collocate nei vari edifici o distribuite nei larghi spazi aperti, elementi che rimandano immediatamente all’estetica del Celeste Impero. Tali caratteristiche sono presenti anche nella thang-ka «Il Palazzo Celeste di Shyamatara (Tara verde)», dove l’accento posto sull’architettura e la concezione vivace del paesaggio conferiscono alla composizione una notevole freschezza, nonostante l’artificiosità della costruzione. Anche se un poco indurite, sopravvivono nelle descrizioni della zona inferiore del dipinto le tracce del trattamento del paesaggio proprio di questo stile.
Oltre ai soggetti rappresentati frontalmente, con una disposizione geometrica delle figure minori, che ricordano il primo stile d’origine nepalese, come nella thang-ka «Vajradhara e i mahasiddha», si segnalano dipinti dalla gradazione cromatica particolare, come nella thang-ka« Rol-pa’i-rdo-rje e nove manifestazioni di Amitayus», che appartiene al gruppo dei mtshal-khang (pittura vermiglia), realizzata con sottili tratti dorati su fondo preparato con il rosso cinabro. Il dipinto «Amoghasiddhi», una thang-ka di carattere misto, vede la figura centrale dipinta a tempera con vari pigmenti su un fondo realizzato con la stessa tecnica delle mtshal-thang.
Un’occasione, dunque, questa mostra per conoscere culture lontane dalla nostra, piene di fascino e di grande perizia artistica.

Informazioni utili 
MAO - Museo d’arte orientale, via San Domenico, 11 – Torino. Orari: martedì-venerdì, ore 10.00 -18.00; sabato-domenica, ore 11.00– 19.00; chiuso lunedì. La biglietteria chiude un'ora prima. Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8,00, gratuito fino ai 18 anni e abbonati Musei Torino Piemonte. Informazioni: tel. 011.4436927, e-mail mao@fondazionetorinomusei.it. Sito web: www.maotorino.it.