ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

mercoledì 8 maggio 2019

58° Biennale di Venezia: l’arte e i nostri «tempi interessanti»

È una densa nube bianca che ammanta e quasi nasconde la facciata del Padiglione centrale ad accogliere il pubblico ai Giardini della Biennale per la cinquantottesima edizione dell’Esposizione internazionale d’arte. Il vapore che si innalza dall’edificio è un omaggio dell’italiana Lara Favaretto (Treviso, 1973), veneta di nascita e torinese d’adozione, ad Alighiero Boetti e alla sua scultura-autoritratto «Mi fuma il cervello» (1993), dalla cui testa uscivano fumi prodotti da un dispositivo elettrico-idraulico, sintomi del pensiero. Questa nebbia, simbolo della nostra precarietà sociale e culturale, è la migliore introduzione possibile al composito progetto ideato da Ralph Rugoff, direttore dal 2006 della Hayward Gallery di Londra, uno degli spazi pubblici più importanti del Regno Unito, per l’evento espositivo veneziano, in programma dall’11 maggio al 24 novembre.
La mostra, che si intitola «May You Live In Interesting Times» (una frase, questa, spesso citata negli ultimi ottant’anni da importanti autori e politici come sir Austen Chamberlain, Arthur C. Clarke e Hillary Clinton, che ne hanno parlato come di «un’antica maledizione cinese», in realtà mai esistita), si propone, infatti, di raccontare il nostro tempo, pieno di sfide e di instabilità di varia natura, facendo vestire all’artista i panni di una cronista sui generis, capace di raccontare la realtà con occhio attento e insieme poetico.
L’accelerazione dei cambiamenti climatici, le violenze sociali, etnico-religiose o razziali, le migrazioni, la rinascita di programmi nazionalistici in varie parti del mondo, le crescenti disuguaglianze economiche sono solo alcuni dei temi trattati dai settantanove artisti invitati alla Biennale, che hanno portato in Laguna due loro lavori, uno per i Giardini e uno per l’Arsenale, delineando così una sorta di guida eterogenea per leggere il nostro presente.
«Le opere esposte nelle due sedi, insieme all’atmosfera che evocano, sono piuttosto diverse -racconta Ralph Rugoff nella presentazione in catalogo-, non tanto perché si sviluppano attorno a principi o concetti separati, bensì perché mostrano aspetti diversi della pratica di ciascun artista», offrendo così al pubblico «la possibilità di interpretare un tipo di opera alla luce dell’altra».
Tra gli artisti che cambiano registro narrativo nelle due sedi espositive c’è, per esempio, Shilpa Gupta (Mumbai, India, 1976). Ai Giardini il giovane indiano presenta un cancello elettrico residenziale che sbatte violentemente contro la parete, fino ad incrinarla e romperla, facendoci così riflettere sui confini geografici e sulle loro funzioni arbitrarie e repressive. Mentre all’Arsenale propone la stessa meditazione con la poetica installazione sonora «For, in your tongue, I can not fit» (2017-2018), composta da cento microfoni appesi al soffitto, ognuno con un verso stampato su carta e infilato su altrettante punte di metallo, dai quali esce una sinfonia di voci registrate che declamano e intonano i versi di cento poeti incarcerati a causa della loro produzione o delle loro posizioni politiche.
La divisione tra «Proposta A» e «Proposta B» (con questi nomi Ralph Rugoff differenzia i due percorsi) dipende anche dalla dimensione delle opere esposte ed è la prima volta che viene proposta nella storia della Biennale.
L’Arsenale, cuore dell’industria veneziana navale fondata nel XXII secolo, ospita, nei suoi rustici e suggestivi spazi, i lavori più monumentali a partire da «Barca nostra», la chiacchierata installazione dello svizzero Christoph Büchel (Basilea, 1966) che porta in Laguna la testimonianza del più grande naufragio avvenuto nel mar Mediterraneo, quello del 18 aprile 2015, nel quale morirono tra le settecento e le mille persone, facendoci così riflettere sui fenomeni migratori contemporanei e sulle politiche collettive che causano questo tipo di tragedie.
Di dimensioni monumentali sono anche le due opere proposte da Yin Xiuzhen (Pechino, Repubblica Popolare Cinese, 1963), entrambe caratterizzate da una forte sensazione di pessimismo e apprensione: «Nowhere To Land» (2012), con due pneumatici di un jet avvolti in un tessuto nero e appesi al soffitto, e «Trojan» (2016-2017), con un enorme passeggero-pupazzo di stracci rannicchiato sul sedile di un aereo nella posizione indicata dalle istruzioni di sicurezza.
Tessuti di varie fogge vengono messi in mostra anche dall’inglese Ed Atkins (Oxford, Regno Unito, 1982) con il suo guardaroba di vecchi costumi teatrali, parte della complessa installazione «Old Food» (2017-2019), carica di storicità e malinconia, che evoca rovine, paesaggi sospesi, atmosfere medioevali, personaggi in lacrime e cibi immangiabili.
Di grande impatto scenografico è anche il progetto presentato da Tavares Strachan (Nassau, Bahamas, 1979) sulla figura di Robert Henry Lawrence Jr, un astronauta afro-americano che morì l’8 dicembre 1969, durante un incidente di volo. L’installazione è composta da una scultura luminosa e fluttuante raffigurante uno scheletro e da un breve necrologio formato da luci al neon, che svela il razzismo di cui l’astronauta è stato vittima.
L’inglese Jesse Darling riflette, invece, sulla precarietà del nostro tempo attraverso «March of the Valedictorians» (2016), un raggruppamento di sedie rosse delle scuole elementari, con gambe sottili e oblunghe, che riescono a stare in piedi solo sostenendosi reciprocamente. Le sedie sono al centro anche del progetto di Augustas Serapinas (Vilnius, Lituania, 1990), che si è ispirato a quelle dei bagnini sulla spiaggia per creare delle inedite sedute per i sorveglianti della mostra.
Lungo gli spazi dell’Arsenale attraggono, inoltre, l’attenzione del visitatore anche più disattento la scultura di ventisei metri in vetro e marmo, «Veins Aligned» (2018), di Otobong Nkanga (Kano, Nigeria, 1974), il mercato di Zhanna Kadyrova (Brovary, Ucraina, 1961), la grande ruota incatenata di Arthur Jafa (Tupelo, Usa, 1960), i coralli all’uncinetto (presenti anche ai Giardini) di Christine e Margaret Wertheim (Brisbane, Australia, 1958) e, per finire, il lavoro del duo formato da Sun Yuan (Pechino, 1972) e Peng Yu (Pechino, 1974): una poltrona romana in silicone bianco, alla quale è legato un tubo di gomma che sbatte producendo un grande frastuono.
I due artisti sono al centro anche della proposta più intrigante dei Giardini: «Can’t Help Myself» (2016), una bloody clean machine che pulisce senza sosta, con gesti meticolosi o con la rabbia di un animale in gabbia, il sangue (inchiostro rosso) sparso all’interno di un cubo ermetico dalle pareti in acrilico.
Scenografica è anche l’installazione proposta da Nabuqi (Ulanquab, Repubblica Popolare Cinese, 1984): «Do real think happen in moments of rationality?», riproduzione di una mucca in vetroresina a grandezza naturale, posizionata su un binario circolare in acciaio inossidabile, che si muove accompagnata da una colonna sonora di sample registrati nella natura, per strada e nei bar.
Ritornando all’inizio della mostra, all’ingresso del Padiglione centrale, Antoine Catala (Tolosa, Francia, 1975) propone un’interessante riflessione sul tema della comunicazione con la sua opera «It’s Over» (2019), nove pannelli ricoperti di silicone dai colori pastelli che si gonfiano e si sgonfiano ritmicamente facendo apparire messaggi come «Dont’ Worry» (Non ti preoccupare), «It’ s Over» (è finita), «Tutto va bene, hey, relax». Ryoji Ikeda (Gifu, Giappone, 1966), con il suo «Spectra III», un corridoio di tubi luminosi fluorescenti, manda, invece, in cortocircuito la nostra capacità di processare ciò che vediamo, generando paradossalmente una tabula rasa sensoriale.
Passeggiando tra le sale labirintiche del Padiglione centrale si possono, poi, incontrare anche i sacchi dell’immondizia di Andreas Lolis (Argirocastro, Albania, 1970), le sculture di frammenti corporei di Yu Li (Shangai, Repubblica Popolare Cinese, 1985), i cestini della spazzatura a forma di gabbia toracica di Andra Ursuta (Salonta, Romania, 1979), i pastori tedeschi in ceramica di Kemang Wa Lehulere (Città del Capo, Sudafrica, 1984), la placenta umana immersa in formalina di Alexandra Bircken (Colonia, Germania) e, per finire, il video «Leonardo’s Submarine» (2019) di Hito Steyerl (Monaco, Germania, 1966), nel quale il genio vinciano viene raccontato attraverso il prototipo di sottomarino inventato nel 1515 per difendere Venezia dagli attacchi dell’Impero ottomano.
Come consuetudine la Biennale d’arte apre anche molti spazi della città per accogliere due progetti speciali, da quello di Ludovica Carbotta (Torino, 1982) a Forte Marghera a quello sulle arti applicate del Victoria and Albert Museum di Londra, ventuno eventi collaterali, come la bella mostra di Baselitz alle Gallerie dell’Accademia, e alcuni dei novanta Padiglioni nazionali di questa edizione, che vede la partecipazione per la prima volta di Ghana, Madagascar, Malesia e Pakistan. Ricco è anche il cartellone di eventi proposto dalle varie sedi espositive cittadine, a partire dalla raffinata mostra di Alberto Burri alla Fondazione Cini o da quella, altrettanto interessante, di Jannis Kounellis alla Fondazione Prada.
Venezia diventa così, con questa nuova Biennale, uno straordinario palcoscenico per riflettere sul nostro presente, sui «tempi interessanti» che stiamo vivendo, carichi di problemi, ma sicuramente germinativi per chi si occupa d’arte.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Lara Favaretto, Thinking Head, 2018; [Fig. 2] Sun Yuan and Peng Yu, Dear, 2015; [fig. 3] Andreas Lolis, Untitled, 2018; [fig. 4] Tavares Strachan , Robert, 2018; [fig. 5] Shilpa Gupta, Untitled, 2009; [fig. 6] Nabuqi, Do real think happen in moments of rationality?, 2018; [fig. 7] Yin Xiuzhen , Trojan, 2016-2017; [fig. 8] Shilpa Gupta, For, In Your Tongue I Cannot Fit, 2017-2018; [fig. 9] Opera di Kemang Wa Lehulere al Padiglione centrale
 
Informazioni utili
«May You Live In Interesting Times». 58. Esposizione internazionale d'Arte. Giardini e Arsenale - Venezia.Orari: 10.00-18.00; chiuso il lunedì, escluso il 13 maggio, il 2 novembre e il 18 novembre. Ingresso: intero plus € 35,00, ridotto plus € 25,00, intero regular € 25,00, ridotto regular € 22,00 o € 20,00, i costi degli altri biglietti sono disponibili sul sito internet. Catalogo ufficiale, catalogo breve e guida: Marsilio editore, Mestre. Informazioni: tel. 041.5218828. Sito internet: www.labiennale.org. Dall’11 maggio alo 24 novembre 2019.

«I love lego», un milione di mattoncini al Salone degli incanti di Trieste

Da oltre sessant'anni fanno giocare bambine e bambini di tutto il mondo, ma non smettono di affascinare gli adulti. Stiamo parlando dei mattoncini Lego, dichiarati nel 1999 «giocattoli del secolo» dalla rivista «Fortune», a cui Genertel, la compagnia diretta di Generali Italia nata nel 1994, dedica in questi giorni, con la complicità di Arthemisia e in occasione dei venticinque anni dalla sua fondazione, una mostra al Salone degli incanti di Trieste.
«I love lego» è il titolo della rassegna, che ha portato in Friuli Venezia Giulia oltre un milione di mattoncini, utilizzati per comporre città moderne e monumenti antichi per oltre cento metri quadrati di scenari.
Dalla metropoli contemporanea ideale alle avventure leggendarie dei pirati, dai paesaggi medievali agli splendori dell’Antica Roma, fino alla conquista dello spazio sono tanti i mondi in miniatura, progettati e costruiti a Trieste da RomaBrick, uno dei LUG (Lego® User Group) più antichi d’Europa, con il giocattolo ideato da Ole Kirk Kristiansen, falegname danese della piccola città di Billund, sede del più antico parco Legoland.
In altre parole, dietro ogni edificio, strada, mezzo o piazza che i visitatori del Salone degli incanti vedranno c’è un lavoro collettivo e assolutamente originale, frutto della collaborazione di un team che vanta al suo interno la presenza di numerosi architetti e ingegneri.
Ad accogliere il pubblico in mostra è un grande diorama ispirato alle avventure nei lontani mari caraibici, tra navi pirata, atolli di origine vulcanica e il leggendario kraken, un gigantesco cefalopode dai tentacoli lunghissimi, simili a un calamaro, costruito con oltre cinquemila pezzi.
Si approda, quindi, sullo spazio con la riproduzione di un insediamento minerario lunare, in cui l’uomo si avvale dell’aiuto di astronavi, droidi e macchinari per la ricerca di nuove risorse.
Sembra, questa, la riproposizione di tante scene avveniristiche viste al cinema e proprio alla «settima arte» si rifà il diorama «Nido d’aquila», ispirato alla saga «A Song of Ice and Fire» dello scrittore americano George R.R. Martin e alla pluripremiata serie televisiva «Game of Thrones».
Lo scenario, esposto per la prima volta al Lucca Comics and Games nel 2016 e in continua costruzione, occupa attualmente una superficie di quasi 3 metri quadrati e fa uso di oltre trecentomila pezzi, mentre la sommità dell’inespugnabile roccaforte, residenza della casata Arryn, raggiunge 1,80 metri di altezza.
Altro spettacolare diorama work in progress è quello dedicato alla città contemporanea, iniziato nel 2010 da Marcello Amalfitano, Marco Cancellieri, Antonio Cerretti e Manuel Montaldo. Con oltre 250mila mattoncini sono stati edificati stadi, tratte ferroviarie, zone verdi e aree ricreative, oltre al «BrickTheater», al «Legolad Hospital», al Museo archeologico e all’«Empire Brick Building», edificio ispirato al famoso grattacielo di New York.
Guardano, invece, al passato i diorami dedicati ai fori romani imperiali e a un castello di ispirazione medioevale. Il primo lavoro riproduce con 80mila mattoncini il Foro di Nerva o Transitorio, un insieme di monumentali piazze che costituivano il centro della città di Roma in epoca imperiale.
L’altro diorama, nato da un'idea di Marco Cancellieri e Jonathan Petrongari nel  2011, mette in mostra una città fortificata e un piccolo villaggio alle porte di Winterfell, la dimora della casata Stark nel profondo Nord. Ancora un omaggio, quindi, agli appassionati della serie televisiva «Game of Thrones».
Il progetto espositivo triestino prevede, inoltre, il coinvolgimento dei giovani artisti Fabio Ferrone Viola, Luigi Folliero, Irem Incedayi, Daniele Clementucci e Corrado Delfini con le loro opere a tema Lego: spunti pop e materiali di riciclo per raccontare come un gioco possa trasformarsi in arte.

Informazioni utili
I love Lego. Salone degli Incanti, Riva Nazario Sauro, 1 - Trieste. Orari: da martedì a venerdì, dalle ore 10.00 alle ore 18.00; sabato e domenica, dalle ore 10.00 alle ore 19.00 (ultimo ingresso 45 minuti prima) |  aperture straordinarie: domenica 21 aprile, dalle ore 10.00 alle ore 19.00; lunedì 22 aprile, dalle ore 10.00 alle ore 19.00; giovedì 25 aprile, dalle ore 10.00 alle ore 19.00; mercoledì 1° maggio, dalle ore 10.00 alle ore 19.00; domenica 2 giugno, dalle ore 10.00 alle ore 19.00. Biglietti: intero € 11,00, ridotto € 9,00; sono previste altre forme di riduzione per i dipendenti e i clienti Genertel.  Informazioni: www.arthemisia.it , www.triestecultura.it. Fino al 30 giugno 2019  

lunedì 6 maggio 2019

I Ciardi, pittori di paesaggi e giardini

«Un buon ombrello bianco e il vero», una tavolozza di colori e la magia della natura a fare da compagna: non basta altro a Guglielmo Ciardi (Venezia, 1842-1917) quando, nei paesaggi campestri del suo amato Veneto, si dedica alla pittura.
Sono gli anni dell’arte en plein air, quelli degli stagni ridondanti di ninfee di Claude Monet, dalle alzaie dei macchiaioli e del verde dei parchi e dei giardini francesi che ammaliarono Pierre August Renoir, Camille Pisarro e tanti altri impressionisti.
Sono gli anni della «scuola del vero» veneziana, quella che ha un debito di riconoscenza nei confronti del paesaggista padovano Domenico Bresolin (1813 –1900), docente nella classe di «Vedute di paese e di mare» all’Accademia di belle arti di Venezia. È, infatti, questo artista, uno dei pionieri nell’uso del mezzo fotografico, che, nella tarda estate del 1865, invita alcuni dei suoi migliori allievi, tra cui Guglielmo Ciardi, a fare un’esperienza di immersione totalizzante nella pedemontana trevigiana, per studiare un paesaggio diverso da quello lagunare.
In quelle sei settimane di esercizio, Domenico Bresolin stimola i suoi giovani alunni a dipingere en plein air e a rapportarsi direttamente con la realtà naturale, superando così quei limiti che il «paesaggio di composizione», praticato all’interno delle aule, imponeva agli allievi.
Per Guglielmo Ciardi è la novità che segna una carriera. Qualche anno dopo, intorno al 1870, l’artista veneziano è ancora là, nella marca trevigiana, probabilmente lungo le rive del Sile, quando l’amico e collega Egisto Lancerotto (1847-1916) lo ritrae intento a dare forma e colori al paesaggio e alle sue variazioni di luce. Gugliemo Ciardi è giovane e barbuto. Sta seduto su un tronco d’albero davanti al suo cavalletto, su cui è montata una tela di circa cinquanta centimetri per settanta. Porta un berretto in testa e una camicia bianca su dei pantaloni da lavoro scuri. Studia i toni dell’atmosfera, il contrasto e l’integrazione tra le luci e le ombre.
Questo ritratto è stato scelto per aprire il percorso espositivo della mostra «I Ciardi. Paesaggi e giardini» allestita al Palazzo Sarcinelli di Conegliano Veneto, per la curatela di Giandomenico Romanelli e l’organizzazione di Civita Tre Venezie.
Attraverso una sessantina di opere viene ripercorsa non solo la carriera di Guglielmo, ma anche quella dei figli Beppe (Venezia, 1875-Quinto di Treviso, 1932) ed Emma (Venezia, 1879-1933), protagonisti della stagione pittorica, italiana e internazionale, a cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, con la partecipazione alle Biennali di Venezia e a importanti appuntamenti espositivi tra Londra e Monaco, come ricordava Ugo Ojetti, nell’ottobre del 1909, sulle pagine del «Corriere della Sera».
Il percorso espositivo, del quale rimarrà documentazione in un catalogo pubblicato da Marsilio editore, prosegue, quindi, con un focus sugli esordi di Guglielmo, ancora influenzato dalla tradizione paesaggistica accademica, come si nota dal precocissimo e inedito dipinto «Paesaggio fuviale» del 1859.
Si possono, poi, ammirare una serie di straordinarie vedute campestri dei primi anni Settanta, spesso ambientate lungo quel suggestivo corso d’acqua di risorgiva che è il Sile, un territorio ancora incontaminato e lontano dalle seduzioni turistiche.
I prolungati soggiorni attorno a Quinto di Treviso, Fonzaso, Asiago e San Martino di Castrozza permettono a Guglielmo di instaurare un dialogo intimo con questi territori, protagonisti, anno dopo anno, delle sue opere paesaggistiche al pari della laguna veneziana (non trattata in questa mostra per esplicita scelta del curatore Romanelli).
Non mancano lungo il percorso espositivo paesaggi dolomitici, immagini dell’altipiano di Asiago e della Carnia, ritratti durante i lunghi soggiorni estivi in montagna. Tra le alte quote, Guglielmo si arrampica con il cavalletto portatile e la tavolozza per schizzare e dipingere in solitudine «dal vero», immerso nella natura e affascinato dall’ebbrezza della luce alpina, regalandoci quadri con verdi intensi che giocano con i toni argentini delle creste rocciose e gli azzurri dei cieli striati da nubi.
Guglielmo si dimostra, inoltre, sempre aggiornato sulla pittura europea di quegli anni: lo documentano i cicli degli anni Ottanta con stagni, ispirati alla pittura impressionista, o le suggestioni simboliste dell’ultima stagione, che risentono della fascinazione per la pittura nordica, apprezzata attraverso le esposizioni organizzate dalla Biennale di Venezia, di cui è l’artista tra i fondatori e alla quale partecipa per undici edizioni, fino al 1914.
La seconda sezione della mostra è dedicata, invece, al lavoro di Emma Ciardi, instancabile pittrice e viaggiatrice apprezzata a livello internazionale, cultrice della tradizione del vedutismo veneziano, capace di rielaborare le esperienze macchiaiole, impressioniste e tardo impressioniste con un’originale chiave espressiva.
L’artista riscopre la grande tradizione settecentesca di Francesco Guardi e delle sue «macchiette» (cioè le piccole scene collocate in parchi e giardini delle ville venete), riprendendone il brio e l’eleganza in chiave moderna. Le sue damine incipriate, i cavalieri danzanti in minuetti aggraziati, le carrozze, le livree dei valletti conquistano soprattutto il pubblico inglese.
Il paesaggio della Gran Bretagna, visitata e dipinta in compagnia del padre nel 1910, compare, poi, spesso nelle sue opere. Lungo il percorso espositivo si possono, per esempio, ammirare scorci del Tamigi e di Trafalgar Square, tutti giocati sui toni grigio-argentei tipici della City e del suo fiume, ma anche vivaci bozzetti «in cui -racconta Romanelli- passanti e mezzi di trasporto, come case e cieli, sono sagome di pasta colore che compongono lo spazio, elementi dinamici in cui la forma, perdendo definizione, si sfalda in vibrazioni di luce».
Il percorso si chiude con l’opera di Beppe Ciardi, presentata sotto una luce nuova che vuole mettere in evidenza la modernità e gli accenti simbolisti dell’autore, il quale, pur nella fedeltà alla poetica paterna, introduce elementi più tipicamente novecenteschi, frutto della fascinazione per l’opera di Arnold Böcklin, fino a dar spazio a una visione personale del paesaggio.
Nella sua pittura si afferma via via, oltre a una presenza pacata di animali e pastori, la centralità della figura umana che, grazie alla lezione di Ettore Tito, talora si emancipa fino a prevalere sul paesaggio.
Importante è per Beppe anche lo studio della pittura campestre di Giovanni Segantini, a cui lo introduce Vittore Grubicy de Dragon, pittore e noto promulgatore di concetti simbolisti e divisionisti. L’atmosfera cupa e brumosa delle opere dei primi anni lascia così spazio a toni più chiari e ricchi di luce; la pennellata si fa col tempo sempre più larga, avvolgente, gli impasti sempre più spessi e robusti.
Il percorso espositivo evidenzia così l’evoluzione del linguaggio di ciascuno dei tre autori, mettendo in evidenza peculiarità, convergenze e divergenze nel loro modo di trattare la pittura paesaggistica. Come osserva il curatore Giandomenico Romanelli «la ricchezza della loro scelta […] si misura nelle radicali novità che essi (e soprattutto Guglielmo) sanno introdurre in questo genere pittorico: la luce declinata in tutte le possibili atmosfere, la presenza viva e palpitante della natura nelle piante, nei campi, nelle messi, nelle distese di eriche; la maestosità spesso scabra delle masse montuose, colte nella luce azzurra dell’alba o in quella struggente e aranciata dei tramonti, i filari, i covoni, i corsi d’acqua».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Guglielmo Ciardi tra i figli Emma e Beppe; [Fig. 2] Gugliemo Ciardi, «Mattino alpestre (Sorapis)», 1894 circa. Olio su tela, 150 X 300 cm Venezia, Istituto Veneto di SS.LL.AA. – V.I.C.; [fig. 3] Guglielmo Ciardi, «Lungo il Sile», Anni Ottanta dell’Ottocento. Olio su tela, 105 X 81 cm. Padova, Courtesy Galleria Nuova Arcadia di L. Franchi; [fig. 4] Emma Ciardi, «Dame mascherate», 1909 circa. Olio su tela, 44,5 X 51,3 cm. Padova, Courtesy Galleria Nuova Arcadia di L. Franchi; [fig. 5] Emma Ciardi, «Oxford Street», 1908. Olio su cartone, 20 X 27cm Padova, Courtesy Galleria Arte Cesaro; [fig. 6] Beppe Ciardi, «Zattera», 1925 ca.. Olio su tela, 64 x 92 cm. Pordenone, Collezione privata; [fig. 7] Beppe Ciardi, «Il bagno o Ragazzi sul fiume», 1899. Olio su tavola, 36 x 56 cm. Voghera, Collezione privata. © Saporetti, Milano

Informazioni utili 
«I Ciardi. Paesaggi e giardini». Palazzo Sarcinelli, via XX Settembre, 132 - Conegliano (Treviso). Orari: martedì – giovedì, ore 9.00 – 18.00; venerdì – domenica, ore 10.00 -19.00; chiuso il lunedì. Ingresso: intero € 11,00, ridotto € 8,50 (studenti, adulti over 65 anni, convenzioni, gruppi con almeno 10 unità, residenti nel Comune di Conegliano nei giorni feriali) o € 7,00 (gruppi da 10 a 25 persone), ridotto scuole € 4,00, biglietto famiglia € 25,00. Informazioni: tel. 0438.1932123. Sito internet: www.mostraciardi.it. Fino al 23 giugno 2019