ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

venerdì 10 maggio 2019

Un «tesoro ritrovato» al Musec di Lugano: in mostra nuove sculture della collezione Brignoni

Era il 1984 quando, grazie a una donazione di arte etnica di proprietà di Serge Brignoni, la Municipalità di Lugano decideva di inaugurare il Museo delle Culture.
La sede prescelta per ospitare questa nuova realtà fu l’Heleneum, una bella villa neoclassicheggiante in riva al lago, giusto all’inizio del sentiero che da Castagnola porta all’antico abitato di Gandria.
Cinque anni dopo, il 23 settembre 1989, il museo apriva i battenti.
Al suo interno si muovevano due differenti ideologie gestionali: Serge Brignoni, appassionato dell’art nègre con Giacometti e Miró, voleva dimostrare come le opere esposte fossero parte delle fonti che avevano rinnovato i linguaggi artistici del Novecento; i giovani studiosi che la Municipalità di Lugano aveva coinvolto nel progetto intendevano costruire principalmente un centro di competenza che si occupasse delle culture e delle società non occidentali.
I risultati dei primi anni di gestione della neonata organizzazione dimostrarono che ambedue le prospettive erano probabilmente troppo ambiziose per la realtà socio-culturale e per gli interessi locali di allora. Il museo finì per chiudere i battenti.
Solo nel 2005 la Municipalità di Lugano decise di ridare nuova linfa a quella realtà, tanto da trovargli due anni fa, nella primavera del 2017, anche una nuova sede negli spazi di Villa Malpensata.
Sin dalla riapertura il Museo delle Culture aveva un sogno: riunire l’intera collezione di Serge Brignoni. Delle originali ottocento opere che il collezionista aveva immaginato di donare a Lugano ne era arrivate 541 al momento dell’inaugurazione e altre 127 negli anni successivi.
Una parte abbastanza importante della raccolta era rimasta nella casa bernese di Brugnoni o era stata venduta o destinata altrove.
Il più importante dei nuclei non giunto a Lugano era stato donato, alla fine del 1998, al Kunstmuseum Bern che, a sua volta, poco tempo dopo, aveva deciso di depositarlo al Musée d’ethnographie di Neuchâtel.
Queste opere, in tutto venticinque, sono state da poco acquisite dal Museo delle Culture, dopo una trattativa con Berna iniziata dalla Fondazione Culture e Musei due anni fa, al tempo del passaggio del Musec a Villa Malpensata. Il Museo di Neuchâtel ha, infatti, riconosciuto Lugano come la sede migliore per ospitare anche quella parte della raccolta di Brignoni.
Le opere acquisite dal museo luganese diretto da Francesco Paolo Campione sono soprattutto sculture di legno provenienti dall’Indonesia, dall’Oceania e dall’Africa, che fanno sì che oggi il Musec abbia la più rilevante collezione al mondo di grandi sculture di legno del Borneo.
La nuova acquisizione è attualmente al centro di una mostra, aperta fino al prossimo 10 novembre, nello «Spazio Cielo» di Villa Malpensata nell’ambito delle «anteprime» organizzate in vista dell’inaugurazione ufficiale del “nuovo” Musec, fissata per l’aprile del 2019.
L’allestimento è particolare: le opere sono esposte come se fossero state appena disimballate e, per questo, accanto a ognuna di esse vi è una lunga descrizione. «Abbiamo immaginato -raccontano dal museo- il titolo della scheda per suggerire l’emozione di chi, dell’opera, percepisce prima di tutto un valore unitario. Il contenuto della scheda è stato, invece, immaginato per condurre per mano il visitatore alla scoperta di alcuni valori remoti dell’opera d’arte, quelli espressi dall’originario creatore e dal contesto culturale».
Tra i pezzi esposti è possibile ammirare una scultura balinese di legno nobile interamente rivestita di antiche monete forate al centro, raffigurante la divinità Sri Sedana, la cui immagine è associata alla ricchezza materiale e al sostentamento.
 Ci sono, poi, interessanti testimonianze di vari popoli locali: gli Abelam con una maschera di fibra vegetale, gli Asmat e i Toraja con la raffigurazione di un corpo finemente intarsiato con motivi geometrici a rilievo.
Merita, infine, una segnalazione il palo cerimoniale (sapundu) originario dell’isola del Borneo, realizzato nel XIX secolo, che veniva impiegato dal popolo Ngaju nelle feste di “seconda sepoltura” per immolare i bufali in onore dei defunti.
Un percorso, dunque, curioso e interessante quello proposto dal Musec, con l’intento anche di ricreare una gioia, quella di chi è riuscito a ottenere per Lugano questa raccolta e quella di Serge Brignoni, che con questi pezzi, espressioni creative di alto grado, è riuscito anche a trasmetterci le sue aspirazioni e gli ideali di un’intera generazione di artisti alla ricerca di una fuga dal realismo figurativo che aveva condizionato secoli di arte europea.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] cultura balinese di legno nobile interamente rivestita di antiche monete forate al centro. Raffigura la divinità Sri Sedana, la cui immagine è associata alla ricchezza materiale e al sostentamento. [Indonesia, Bali, XIX - inizio del XX secolo. Collezione Brignoni]. ©2019 MUSEC, Lugano; [fig. 2] Parte alta di un palo cerimoniale (sapundu) originario dell’isola del Borneo. Era impiegato dal popolo Ngaju nelle feste di “seconda sepoltura” per immolare i bufali in onore dei defunti. [Indonesia, Borneo, XIX secolo. Collezione Brignoni]. ©2019 MUSEC, Lugano; [fig. 3] cultura raffigurante un antenato del popolo Asmat. [Indonesia, Papua, XX secolo. Collezione Brignoni]. ©2019 MUSEC, Lugano; [fig. 4] Grande maschera di fibra vegetale intessuta, raffigurante un antenato del popolo Abelam. [Nuova Guinea, Maprik, XX secolo. Collezione Brignoni]. ©2019 MUSEC, Lugano.

Informazioni utili 
«Un tesoro ritrovato. Nuove opere della Collezione Brignoni». MUSEC, Villa Malpensata, Riva Caccia 5 / Via Mazzini 5 – Lugano (Svizzera). Orari: tutti i giorni, dalle ore 14.00 alle ore 18.00, martedì chiuso. Ingresso: Chf 5.-. Informazioni: +41 (0)58 866 6964. Sito internet: https://www.mcl.lugano.ch/. Fino al 16 giugno 2019. Prorogata fino al 10 novembre 2019.

mercoledì 8 maggio 2019

58° Biennale di Venezia: l’arte e i nostri «tempi interessanti»

È una densa nube bianca che ammanta e quasi nasconde la facciata del Padiglione centrale ad accogliere il pubblico ai Giardini della Biennale per la cinquantottesima edizione dell’Esposizione internazionale d’arte. Il vapore che si innalza dall’edificio è un omaggio dell’italiana Lara Favaretto (Treviso, 1973), veneta di nascita e torinese d’adozione, ad Alighiero Boetti e alla sua scultura-autoritratto «Mi fuma il cervello» (1993), dalla cui testa uscivano fumi prodotti da un dispositivo elettrico-idraulico, sintomi del pensiero. Questa nebbia, simbolo della nostra precarietà sociale e culturale, è la migliore introduzione possibile al composito progetto ideato da Ralph Rugoff, direttore dal 2006 della Hayward Gallery di Londra, uno degli spazi pubblici più importanti del Regno Unito, per l’evento espositivo veneziano, in programma dall’11 maggio al 24 novembre.
La mostra, che si intitola «May You Live In Interesting Times» (una frase, questa, spesso citata negli ultimi ottant’anni da importanti autori e politici come sir Austen Chamberlain, Arthur C. Clarke e Hillary Clinton, che ne hanno parlato come di «un’antica maledizione cinese», in realtà mai esistita), si propone, infatti, di raccontare il nostro tempo, pieno di sfide e di instabilità di varia natura, facendo vestire all’artista i panni di una cronista sui generis, capace di raccontare la realtà con occhio attento e insieme poetico.
L’accelerazione dei cambiamenti climatici, le violenze sociali, etnico-religiose o razziali, le migrazioni, la rinascita di programmi nazionalistici in varie parti del mondo, le crescenti disuguaglianze economiche sono solo alcuni dei temi trattati dai settantanove artisti invitati alla Biennale, che hanno portato in Laguna due loro lavori, uno per i Giardini e uno per l’Arsenale, delineando così una sorta di guida eterogenea per leggere il nostro presente.
«Le opere esposte nelle due sedi, insieme all’atmosfera che evocano, sono piuttosto diverse -racconta Ralph Rugoff nella presentazione in catalogo-, non tanto perché si sviluppano attorno a principi o concetti separati, bensì perché mostrano aspetti diversi della pratica di ciascun artista», offrendo così al pubblico «la possibilità di interpretare un tipo di opera alla luce dell’altra».
Tra gli artisti che cambiano registro narrativo nelle due sedi espositive c’è, per esempio, Shilpa Gupta (Mumbai, India, 1976). Ai Giardini il giovane indiano presenta un cancello elettrico residenziale che sbatte violentemente contro la parete, fino ad incrinarla e romperla, facendoci così riflettere sui confini geografici e sulle loro funzioni arbitrarie e repressive. Mentre all’Arsenale propone la stessa meditazione con la poetica installazione sonora «For, in your tongue, I can not fit» (2017-2018), composta da cento microfoni appesi al soffitto, ognuno con un verso stampato su carta e infilato su altrettante punte di metallo, dai quali esce una sinfonia di voci registrate che declamano e intonano i versi di cento poeti incarcerati a causa della loro produzione o delle loro posizioni politiche.
La divisione tra «Proposta A» e «Proposta B» (con questi nomi Ralph Rugoff differenzia i due percorsi) dipende anche dalla dimensione delle opere esposte ed è la prima volta che viene proposta nella storia della Biennale.
L’Arsenale, cuore dell’industria veneziana navale fondata nel XXII secolo, ospita, nei suoi rustici e suggestivi spazi, i lavori più monumentali a partire da «Barca nostra», la chiacchierata installazione dello svizzero Christoph Büchel (Basilea, 1966) che porta in Laguna la testimonianza del più grande naufragio avvenuto nel mar Mediterraneo, quello del 18 aprile 2015, nel quale morirono tra le settecento e le mille persone, facendoci così riflettere sui fenomeni migratori contemporanei e sulle politiche collettive che causano questo tipo di tragedie.
Di dimensioni monumentali sono anche le due opere proposte da Yin Xiuzhen (Pechino, Repubblica Popolare Cinese, 1963), entrambe caratterizzate da una forte sensazione di pessimismo e apprensione: «Nowhere To Land» (2012), con due pneumatici di un jet avvolti in un tessuto nero e appesi al soffitto, e «Trojan» (2016-2017), con un enorme passeggero-pupazzo di stracci rannicchiato sul sedile di un aereo nella posizione indicata dalle istruzioni di sicurezza.
Tessuti di varie fogge vengono messi in mostra anche dall’inglese Ed Atkins (Oxford, Regno Unito, 1982) con il suo guardaroba di vecchi costumi teatrali, parte della complessa installazione «Old Food» (2017-2019), carica di storicità e malinconia, che evoca rovine, paesaggi sospesi, atmosfere medioevali, personaggi in lacrime e cibi immangiabili.
Di grande impatto scenografico è anche il progetto presentato da Tavares Strachan (Nassau, Bahamas, 1979) sulla figura di Robert Henry Lawrence Jr, un astronauta afro-americano che morì l’8 dicembre 1969, durante un incidente di volo. L’installazione è composta da una scultura luminosa e fluttuante raffigurante uno scheletro e da un breve necrologio formato da luci al neon, che svela il razzismo di cui l’astronauta è stato vittima.
L’inglese Jesse Darling riflette, invece, sulla precarietà del nostro tempo attraverso «March of the Valedictorians» (2016), un raggruppamento di sedie rosse delle scuole elementari, con gambe sottili e oblunghe, che riescono a stare in piedi solo sostenendosi reciprocamente. Le sedie sono al centro anche del progetto di Augustas Serapinas (Vilnius, Lituania, 1990), che si è ispirato a quelle dei bagnini sulla spiaggia per creare delle inedite sedute per i sorveglianti della mostra.
Lungo gli spazi dell’Arsenale attraggono, inoltre, l’attenzione del visitatore anche più disattento la scultura di ventisei metri in vetro e marmo, «Veins Aligned» (2018), di Otobong Nkanga (Kano, Nigeria, 1974), il mercato di Zhanna Kadyrova (Brovary, Ucraina, 1961), la grande ruota incatenata di Arthur Jafa (Tupelo, Usa, 1960), i coralli all’uncinetto (presenti anche ai Giardini) di Christine e Margaret Wertheim (Brisbane, Australia, 1958) e, per finire, il lavoro del duo formato da Sun Yuan (Pechino, 1972) e Peng Yu (Pechino, 1974): una poltrona romana in silicone bianco, alla quale è legato un tubo di gomma che sbatte producendo un grande frastuono.
I due artisti sono al centro anche della proposta più intrigante dei Giardini: «Can’t Help Myself» (2016), una bloody clean machine che pulisce senza sosta, con gesti meticolosi o con la rabbia di un animale in gabbia, il sangue (inchiostro rosso) sparso all’interno di un cubo ermetico dalle pareti in acrilico.
Scenografica è anche l’installazione proposta da Nabuqi (Ulanquab, Repubblica Popolare Cinese, 1984): «Do real think happen in moments of rationality?», riproduzione di una mucca in vetroresina a grandezza naturale, posizionata su un binario circolare in acciaio inossidabile, che si muove accompagnata da una colonna sonora di sample registrati nella natura, per strada e nei bar.
Ritornando all’inizio della mostra, all’ingresso del Padiglione centrale, Antoine Catala (Tolosa, Francia, 1975) propone un’interessante riflessione sul tema della comunicazione con la sua opera «It’s Over» (2019), nove pannelli ricoperti di silicone dai colori pastelli che si gonfiano e si sgonfiano ritmicamente facendo apparire messaggi come «Dont’ Worry» (Non ti preoccupare), «It’ s Over» (è finita), «Tutto va bene, hey, relax». Ryoji Ikeda (Gifu, Giappone, 1966), con il suo «Spectra III», un corridoio di tubi luminosi fluorescenti, manda, invece, in cortocircuito la nostra capacità di processare ciò che vediamo, generando paradossalmente una tabula rasa sensoriale.
Passeggiando tra le sale labirintiche del Padiglione centrale si possono, poi, incontrare anche i sacchi dell’immondizia di Andreas Lolis (Argirocastro, Albania, 1970), le sculture di frammenti corporei di Yu Li (Shangai, Repubblica Popolare Cinese, 1985), i cestini della spazzatura a forma di gabbia toracica di Andra Ursuta (Salonta, Romania, 1979), i pastori tedeschi in ceramica di Kemang Wa Lehulere (Città del Capo, Sudafrica, 1984), la placenta umana immersa in formalina di Alexandra Bircken (Colonia, Germania) e, per finire, il video «Leonardo’s Submarine» (2019) di Hito Steyerl (Monaco, Germania, 1966), nel quale il genio vinciano viene raccontato attraverso il prototipo di sottomarino inventato nel 1515 per difendere Venezia dagli attacchi dell’Impero ottomano.
Come consuetudine la Biennale d’arte apre anche molti spazi della città per accogliere due progetti speciali, da quello di Ludovica Carbotta (Torino, 1982) a Forte Marghera a quello sulle arti applicate del Victoria and Albert Museum di Londra, ventuno eventi collaterali, come la bella mostra di Baselitz alle Gallerie dell’Accademia, e alcuni dei novanta Padiglioni nazionali di questa edizione, che vede la partecipazione per la prima volta di Ghana, Madagascar, Malesia e Pakistan. Ricco è anche il cartellone di eventi proposto dalle varie sedi espositive cittadine, a partire dalla raffinata mostra di Alberto Burri alla Fondazione Cini o da quella, altrettanto interessante, di Jannis Kounellis alla Fondazione Prada.
Venezia diventa così, con questa nuova Biennale, uno straordinario palcoscenico per riflettere sul nostro presente, sui «tempi interessanti» che stiamo vivendo, carichi di problemi, ma sicuramente germinativi per chi si occupa d’arte.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Lara Favaretto, Thinking Head, 2018; [Fig. 2] Sun Yuan and Peng Yu, Dear, 2015; [fig. 3] Andreas Lolis, Untitled, 2018; [fig. 4] Tavares Strachan , Robert, 2018; [fig. 5] Shilpa Gupta, Untitled, 2009; [fig. 6] Nabuqi, Do real think happen in moments of rationality?, 2018; [fig. 7] Yin Xiuzhen , Trojan, 2016-2017; [fig. 8] Shilpa Gupta, For, In Your Tongue I Cannot Fit, 2017-2018; [fig. 9] Opera di Kemang Wa Lehulere al Padiglione centrale
 
Informazioni utili
«May You Live In Interesting Times». 58. Esposizione internazionale d'Arte. Giardini e Arsenale - Venezia.Orari: 10.00-18.00; chiuso il lunedì, escluso il 13 maggio, il 2 novembre e il 18 novembre. Ingresso: intero plus € 35,00, ridotto plus € 25,00, intero regular € 25,00, ridotto regular € 22,00 o € 20,00, i costi degli altri biglietti sono disponibili sul sito internet. Catalogo ufficiale, catalogo breve e guida: Marsilio editore, Mestre. Informazioni: tel. 041.5218828. Sito internet: www.labiennale.org. Dall’11 maggio alo 24 novembre 2019.

«I love lego», un milione di mattoncini al Salone degli incanti di Trieste

Da oltre sessant'anni fanno giocare bambine e bambini di tutto il mondo, ma non smettono di affascinare gli adulti. Stiamo parlando dei mattoncini Lego, dichiarati nel 1999 «giocattoli del secolo» dalla rivista «Fortune», a cui Genertel, la compagnia diretta di Generali Italia nata nel 1994, dedica in questi giorni, con la complicità di Arthemisia e in occasione dei venticinque anni dalla sua fondazione, una mostra al Salone degli incanti di Trieste.
«I love lego» è il titolo della rassegna, che ha portato in Friuli Venezia Giulia oltre un milione di mattoncini, utilizzati per comporre città moderne e monumenti antichi per oltre cento metri quadrati di scenari.
Dalla metropoli contemporanea ideale alle avventure leggendarie dei pirati, dai paesaggi medievali agli splendori dell’Antica Roma, fino alla conquista dello spazio sono tanti i mondi in miniatura, progettati e costruiti a Trieste da RomaBrick, uno dei LUG (Lego® User Group) più antichi d’Europa, con il giocattolo ideato da Ole Kirk Kristiansen, falegname danese della piccola città di Billund, sede del più antico parco Legoland.
In altre parole, dietro ogni edificio, strada, mezzo o piazza che i visitatori del Salone degli incanti vedranno c’è un lavoro collettivo e assolutamente originale, frutto della collaborazione di un team che vanta al suo interno la presenza di numerosi architetti e ingegneri.
Ad accogliere il pubblico in mostra è un grande diorama ispirato alle avventure nei lontani mari caraibici, tra navi pirata, atolli di origine vulcanica e il leggendario kraken, un gigantesco cefalopode dai tentacoli lunghissimi, simili a un calamaro, costruito con oltre cinquemila pezzi.
Si approda, quindi, sullo spazio con la riproduzione di un insediamento minerario lunare, in cui l’uomo si avvale dell’aiuto di astronavi, droidi e macchinari per la ricerca di nuove risorse.
Sembra, questa, la riproposizione di tante scene avveniristiche viste al cinema e proprio alla «settima arte» si rifà il diorama «Nido d’aquila», ispirato alla saga «A Song of Ice and Fire» dello scrittore americano George R.R. Martin e alla pluripremiata serie televisiva «Game of Thrones».
Lo scenario, esposto per la prima volta al Lucca Comics and Games nel 2016 e in continua costruzione, occupa attualmente una superficie di quasi 3 metri quadrati e fa uso di oltre trecentomila pezzi, mentre la sommità dell’inespugnabile roccaforte, residenza della casata Arryn, raggiunge 1,80 metri di altezza.
Altro spettacolare diorama work in progress è quello dedicato alla città contemporanea, iniziato nel 2010 da Marcello Amalfitano, Marco Cancellieri, Antonio Cerretti e Manuel Montaldo. Con oltre 250mila mattoncini sono stati edificati stadi, tratte ferroviarie, zone verdi e aree ricreative, oltre al «BrickTheater», al «Legolad Hospital», al Museo archeologico e all’«Empire Brick Building», edificio ispirato al famoso grattacielo di New York.
Guardano, invece, al passato i diorami dedicati ai fori romani imperiali e a un castello di ispirazione medioevale. Il primo lavoro riproduce con 80mila mattoncini il Foro di Nerva o Transitorio, un insieme di monumentali piazze che costituivano il centro della città di Roma in epoca imperiale.
L’altro diorama, nato da un'idea di Marco Cancellieri e Jonathan Petrongari nel  2011, mette in mostra una città fortificata e un piccolo villaggio alle porte di Winterfell, la dimora della casata Stark nel profondo Nord. Ancora un omaggio, quindi, agli appassionati della serie televisiva «Game of Thrones».
Il progetto espositivo triestino prevede, inoltre, il coinvolgimento dei giovani artisti Fabio Ferrone Viola, Luigi Folliero, Irem Incedayi, Daniele Clementucci e Corrado Delfini con le loro opere a tema Lego: spunti pop e materiali di riciclo per raccontare come un gioco possa trasformarsi in arte.

Informazioni utili
I love Lego. Salone degli Incanti, Riva Nazario Sauro, 1 - Trieste. Orari: da martedì a venerdì, dalle ore 10.00 alle ore 18.00; sabato e domenica, dalle ore 10.00 alle ore 19.00 (ultimo ingresso 45 minuti prima) |  aperture straordinarie: domenica 21 aprile, dalle ore 10.00 alle ore 19.00; lunedì 22 aprile, dalle ore 10.00 alle ore 19.00; giovedì 25 aprile, dalle ore 10.00 alle ore 19.00; mercoledì 1° maggio, dalle ore 10.00 alle ore 19.00; domenica 2 giugno, dalle ore 10.00 alle ore 19.00. Biglietti: intero € 11,00, ridotto € 9,00; sono previste altre forme di riduzione per i dipendenti e i clienti Genertel.  Informazioni: www.arthemisia.it , www.triestecultura.it. Fino al 30 giugno 2019