Per più di quarant’anni, - racconta Alessandro Martoni - Franca Fenga Malabotta «è stata custode ammirevolmente tenace e magistralmente competente» della collezione d’arte e di libri del marito. Ne è stata anche una «lungimirante ambasciatrice» con lasciti, donazioni, mostre e pubblicazioni, mostrando «una dedizione profonda, segno estroflesso di un amore serbato con dolcezza e riserbo», che non la faceva mai essere stanca, sino agli ultimi giorni, di occuparsi del patrimonio che custodiva.
Con garbo e con saggezza, con intelligenza e generosità, Franca Fenga Malabotta ha, infatti, sempre intessuto relazioni con persone e istituzioni perché il nome del marito Manlio fosse adeguatamente ricordato e studiato. Nel 1996, il corpus della raccolta dedicato a Filippo de Pisis - composto da ventiquattro oli, settanta disegni, centodiciassette litografie, insieme a lettere e documenti - è stato, per esempio, donato alla Galleria d’arte moderna e contemporanea di Ferrara. Palazzo Massari si è arricchito così di capolavori come «La bottiglia tragica» (1927), «I pesci marci» (1928), «La coupole» (1928), «Il gladiolo fulminato» (1930), «L’aviatore» (1949), «Ritratto di Allegro» (1940), «Pesci nel paesaggio di Pomposa» (1928), «Una rosa sta buttando» (1938), «Viale di Parigi» (1938), già di Umberto Saba, «Il galletto» (1934), appartenuto a Leonor Fini, e «La falena» (1945), ceduto del grande amico editore, libraio, critico d’arte italo-svizzero Giovanni Scheiwiller.
Nel 2011 è seguita la donazione all’Archivio di Stato di Trieste dei settantadue fascicoli con le carte di Manlio Malabotta, un prezioso fondo documentale, ricchissimo di corrispondenza, che ha permesso la ricostruzione puntuale della poliedrica personalità del collezionista e del côté delle sue frequentazioni intellettuali. Al 2015 risale, invece, la donazione delle opere triestine della collezione al Museo Revoltella - Galleria d’arte moderna.
Mentre, con lascito testamentario disposto nel 2013 e perfezionato nel 2020, Franca Fenga Malabotta ha legato il resto della raccolta al nome della Fondazione Giorgio Cini. Le collezioni dell’Istituto di storia dell’arte, diretto da Luca Massimo Barbero, si sono così arricchite dell’intera raccolta d’arte grafica novecentesca (disegni e stampe di Attardi, Biasion, Cassinari, Chagall, Dova, Guacci, Guidi, Kubin, Lilloni, Maccari, Marini, Mascherini, Minguzzi, Morandi, Morlotti, Reggiani, Vedova
In questi giorni la Fondazione Cini rende un primo omaggio all’importante donazione con la mostra «Arturo Martini, Giorgio Morandi, Filippo De Pisis. Il lascito Franca Fenga Malabotta», visitabile fino al 31 ottobre.
Tra le opere martiniane esposte a Venezia è possibile vedere il gesso «La sete» (1932), preparatorio per l’omonima scultura in pietra di Finale del 1934, oggi al Museo del Novecento di Milano: «corpi scabri e belluini di madre e figlio – racconta Alessandro Martoni - protesi nella tensione spasmodica che anela all’acqua, ispirati, nella sintesi tra simbolico e mitico, ai giacenti pompeiani sorpresi dall’eruzione e alle loro pose estreme» che l’artista aveva visto nel 1931. Dal gesso deriva anche un bronzo con lo stesso titolo, presente in mostra, di cui non è però documentata l’acquisizione.
Altro pezzo importante della collezione e della rassegna lagunare è la splendida formella in terracotta «Ofelia» (1932), appartenuta a Giovanni Comisso. «Di toccante poesia, plasmata con rapida sprezzatura nella morbida e calda materia della creta che si fa gesto lirico di vibrante pittoricismo, quasi un ritorno nel grembo dell’informe bergsoniano nel segno di Medardo Rosso, l’«Ofelia» – spiega ancora Alessandro Martoni - è opera cardine nella serie delle opere che Martini dedica all’eroina tragica shakespeariana e alla sua ‘folle’ morte per annegamento».
La mostra presenta anche il bronzo «Donna al mare» (1932), dalle forme più raccolte, compatte, levigate, di matrice sintetista, che dimostra come sia difficile racchiudere in rigidi schemi evolutivi lo stile polimorfo, inquieto, sperimentale del genio di Martini. È, poi, visibile la scultura in bronzo «Cavallino» (1943 ca.), acquistata dall’albergatore e collezionista veneziano Arturo Deana nel 1951, fusione dalla superficie resa crepitante dalla modellazione a colpi di stecca.
Di Arturo Martini è, infine, visibile anche un libro d’artista: il volume «Lirici minori del XIII e XIV secolo», a cura di Anceschi e Salvatore Quasimodo (Edizioni della Conchiglia, 1941, con 70 tavole di cui 11 fuori testo, 14/150, con litografie), con opere arricchite dalle potenti linee plastiche del segno litografico martiniano.
Sono, poi, visibili tre lavori di Giorgio Morandi: l’acquaforte «Natura morta con scatole e bottiglie su sfondo ovale» (1921), l’acquaforte «Natura morta con vasetto e tre bottiglie» (1945-1946) e l’acquerello «Natura morta» (1963), il cui disegno fu realizzato nell’ultima estate a Grizzana, trovando nella smaterializzazione e provvisorietà dell’umile oggetto la sua forza evocativa. Completano l’esposizione due opere di Filippo de Pisis: «Bobby», tavola litografica del volume «Alcune poesie e dieci litografie a colori di Filippo de Pisis» (Il Tridente, Venezia 1945), «Gli amanti», prova di stampa litografica per una delle illustrazioni del volume «I carmi di Catullo» (Verona, Officina Bodoni/Hoepli 1945), di cui si espone l’esemplare integro.
La mostra permette così un primo approccio conoscitivo allo stile collezionistico del notaio triestino, di cui Luca Massimo Barbero racconta: in Malabotta e nel suo «vivere l’idea di collezionare» vi è «una sorta d’inarrestabile anelito di completezza, di ricerca che superando la filologia, giunge alla volontà ferma e al tempo stesso inarrestabile, di riunire, ricostruire, e infine catalogare tutte le immagini di un racconto artistico. Immagini che in forma d’opera o di oggetto, di lettera o documento, fotografia o libro, riflettono non solo i suoi interessi, ma raccolgono (…) appunto la ricchezza di un mondo ch’egli si accanisce a riunire e quasi contemporaneamente a consegnare ordinato ai posteri».
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