Si entra attraverso il battito di un cuore, che con il suo pulsare anima un ambiente buio dove specchi scuri vengono a intervalli regolari illuminati dalla luce di una lampadina, nella mostra antologica che il Mambo – Museo d’arte moderna di Bologna dedica a Christian Boltanski (Parigi, 1944), uno dei massimi artisti internazionali viventi, il cui percorso di ricerca si sviluppa intorno ai temi della memoria e del trascorrere del tempo inteso come ineluttabile passaggio tra la vita e la morte.
«Coeur», questo il titolo dell’opera posta in limine, ricorda, con il suo ritmo del battito cardiaco e con le sue luci a intermittenza, un altro importante lavoro che l’artista francese ha realizzato per la città emiliana: l’installazione permanente al Museo per la memoria di Ustica, del quale ricorrono quest’anno i dieci anni dall’inaugurazione.
Il 2017 segna, però, anche un altro importante anniversario per il lungo rapporto di amicizia e di collaborazione tra Christian Boltanski e la città di Bologna. Ricorrono, infatti, i vent’anni dalla mostra «Pentimenti» alla Villa delle Rose, in cui fu esposta per la prima volta «Les Regards», installazione con le fotografie di dieci partigiani e partigiane al Sacrario della Resistenza di piazza Nettuno, oggi visibile nell'ambito della collezione permanente del Mambo.
Curatore di quella mostra come dell’antologica attualmente allestita al pianoterra del museo bolognese, per la quale è stato scelto il titolo «Anime. Di luogo in luogo», è Danilo Eccher.
Venticinque, tra installazioni e video, sono le opere che lo studioso trentino ha selezionato per gli spazi della Sala delle ciminiere, permettendo così al visitatore di rivivere gli ultimi trent’anni di una ricerca artistica in cui la riflessione sulla transitorietà della nostra esistenza e sulla ricostruzione di tracce di vita per fugare il timore dell’oblio è stata resa con un linguaggio al contempo delicato e potente.
Al centro dell’esposizione, della quale rimarrà documentazione in una pubblicazione informativa gratuita in formato newspaper e in un agile instant book pubblicato dalle Edizioni Mambo, vi è «Volver», imponente installazione per la prima volta presentata in Europa, così come «Animitas (blanc)», costituita da una struttura piramidale alta oltre sette metri interamente rivestita da coperte isotermiche metallizzate di colore oro, che richiamano le drammatiche immagini dei primi soccorsi prestati ai migranti.
Intorno a questo lavoro l’artista francese ha posto «Regards», un insieme di tessuti leggeri e trasparenti appesi a cavi di acciaio, che sembrano ondeggiare al vento, su cui sono impressi quaranta sguardi: volti e occhi anonimi provenienti dall’immenso archivio fotografico raccolto negli anni da Boltanski. Il dialogo stabilito dall’artista tra queste due opere sembra suggerire un’immanente vicinanza tra le presenze/assenze dei volti oggi scomparsi raffigurati in «Regards», di cui sopravvive solo uno sguardo diafano, e i migranti, odierni fantasmi senza nome, uniti dalla comune privazione delle identità individuali.
È questo silenziosa relazione tra gli anonimi della storia il cuore della mostra bolognese, per cui è stato pensato un allestimento di intenso coinvolgimento emotivo: «Boltanski -raccontano al Mambo- ha immaginato l'architettura del museo come una cattedrale ricomponendone gli spazi espositivi in una navata centrale e due laterali, a disegnare un’ambientazione immersiva in cui la luce assume il ruolo di materia d’arte. Tutte le sale sono, infatti, completamente avvolte in una semi-oscurità rischiarata unicamente da piccole fonti luminose, con l’effetto di accentuare la dimensione evocativa del suo lavoro».
Si arriva in quella che è la «navata centrale» della mostra al Mambo passando attraverso «Entre temps», un video proiettato su una tenda in cui il volto di Christian Boltanski, fotogramma dopo fotogramma, si modifica nel passaggio dall’età infantile a quella adulta. L’opera sembra rappresentare un invito metaforico a entrare «dentro il tempo», attraversando letteralmente il viso dell’artista. Inizia così un’esperienza percettiva totalizzante che porta il visitatore a riflettere sul valore della testimonianza come mezzo di riparazione dell'assente o anche sulla riattivazione della memoria attraverso il valore simbolico di manufatti effimeri. Questa poetica viene spiegata dallo stesso Christian Boltanski nell’instant book realizzato per l’occasione: «Nelle mie installazioni cerco di usare oggetti in cui ciascuno possa riconoscersi e possa farli propri, come una foto, un vestito o anche una scatola di biscotti, che ricorda le urne funerarie». Ecco così «Le monteau», con un cappotto nero illuminato da luci al neon, e «Containers», grandi contenitori con abiti usati e dismessi che, per usare le parole dello stesso artista, «parlano di qualcuno che era lì e che non c’è più», la cui presenza rimane tra «l’odore e le pieghe». Seppure non in forma esplicita, questo lavoro, come altri di Christian Boltanski, ha spesso suggerito un'immediata associazione con l'Olocausto, un momento storico che ha segnato profondamente la vita dell'artista, figlio di un medico ebreo che sfuggì alla deportazione rimanendo per anni nascosto sotto il pavimento di casa.
A quella tragica pagina di storia guarda anche «Autel Lycée Chases», costituita da fotografie in bianco e nero che ritraggono i volti di giovani adolescenti ebrei di Vienna tratte da un album scolastico del 1931. «Questi muti frammenti -raccontano al Mambo- riportano al periodo precedente la salita al potere di Adolf Hitler, suggerendo la premonizione di un destino tragico che conferisce all’opera il valore di un luogo di culto e di omaggio per non dimenticare le vittime innocenti della barbarie nazista».
La dimensione reliquiaria della commemorazione si respira anche in «Monuments», un’installazione con fotografie in bianco e nero di volti, e in «Le grand mur de Suisses Mort», un muro formato da cento e quarantasette scatole di latta, ognuna delle quali è contrassegnata da un ritratto tratto dai necrologi di un giornale svizzero: a ciascuno Christian Boltanski crea piccoli memoriali per restituirvi una composta dignità del ricordo.
A chiudere il percorso espositivo, in quella che è l’abside della cattedrale costruita dall’artista francese al Mambo, è «Animitas (blanc)», un’installazione ambientale composta da un video a parere (della durata di undici ore) con centinaia di pali metallici a cui sono legati campanelli giapponesi, piantati nel deserto di Atacama in Cile, che tintinnano al vento e, sul pavimento, fiori secchi, fieno e terra. Si tratta di un’opera effimera e fugace, destinata a una progressiva scomparsa, che invita il visitatore a sedersi e riflettere sulla Storia da manuale scolastico, quella pubblica, che incontra e incrocia le piccole storie di tutti noi, quelle che vivono nel ricordo di pochi.
Christian Boltanski lascia così il visitatore carico non di risposte, ma di domande. Domande sul senso del nostro essere al mondo, sulla precarietà del nostro vivere, sulla necessità di preservare la memoria, trasformandola da ricordo privato o da pagina di un libro in un messaggio per il futuro.
Per saperne di più
«Anime. Di luogo in luogo», Boltanski, Bologna e la memoria che si fa futuro
Didascalie delle immagini
[Figg. 1,2,3 e 4] Christian Boltanski, «Anime. Di luogo in luogo»: veduta dell'allestimento presso il MAMbo – Museo d'Arte Moderna di Bologna, 2017. Foto di Matteo Monti; [fig.5] Christian Boltanski, «Animitas (blanc)», 2017. Video con sonoro, 16/9, HD. © C. Boltanski
Informazioni utili
«Anime. Di luogo in luogo». MAMbo – Museo d'arte moderna di Bologna, via Don Minzoni, 14 – Bologna. Orari: martedì, mercoledì, domenica e festivi, ore 10.00 – 18.00; giovedì, venerdì, sabato, ore 10.00 – 19.00; chiuso il lunedì.Ingresso: intero mostra € 6,00, ridotto mostra € 4,00 (Card Musei Metropolitani Bologna e altre riduzioni); intero cumulativo mostra + Collezioni permanenti MAMbo e Museo Morandi € 10,00, ridotto cumulativo mostra + Collezioni permanenti MAMbo e Museo Morandi € 8,00.Informazioni: tel. 051 6496611 o info@mambo-bologna.org. Sito web: www.mambo-bologna.org. Fino al 12 novembre 2017
ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
venerdì 4 agosto 2017
Boltanski, artista della memoria
Location:
Bologna BO, Italia
giovedì 3 agosto 2017
«Un’eterna bellezza», al Mart di Rovereto una mostra sull’arte italiana del primo Novecento
Dopo la devastazione della Prima guerra mondiale e le rivoluzioni avanguardiste di inizio secolo nell’arte europea emerge un’esigenza di equilibrio e stabilità che prende il nome di «ritorno all’ordine»: la ribellione futurista, espressionista e cubista cede il passo alla bellezza e all’armonia del periodo simbolista fino ad approdare alla riconquista della tradizione mediterranea anche attraverso linguaggi metafisici o richiami a una «moderna classicità».
L’«aspirazione verso il concreto, il semplice e il definitivo», per usare le parole di Margherita Sarfatti, è il fondamento che nutre la poetica di numerosi artisti a cavallo tra gli anni Venti e Trenta.
Generi tradizionali quali il ritratto, la figura, il paesaggio e la natura morta sono interpretati secondo un nuovo linguaggio che declina in chiave moderna i valori dell’arte antica e rinascimentale, a cominciare dal «ritorno al mestiere», alla maestria tecnica del fare artistico inteso come strumento di restituzione e trasfigurazione del reale alla ricerca di una dimensione trasognata e senza tempo.
A questa storia guarda la mostra «Un’eterna bellezza», a cura di Beatrice Avanzi e Daniela Ferrari, allestita fino al 5 novembre negli spazi del Mart di Rovereto, dove è in corso anche una grande retrospettiva dedicata ad Armando Testa e alle sue visionarie pubblicità.
Una selezione di circa cento opere di alcuni tra i più significativi protagonisti dell’arte italiana come Carrà, Casorati, de Chirico, de Pisis, Funi, Martini, Oppi, Savinio, Severini e Sironi, molti dei quali presenti anche nelle collezioni del museo trentino, propone un percorso espositivo in sette tappe che parla del recupero della tradizione, con un occhio rivolto alle lezione di Giotto, Masaccio e Piero della Francesca.
Ad aprire la mostra, della quale rimarrà documentazione in un catalogo di Electa Editore, è un omaggio alla Metafisica, che vede il suo principale esponente in Giorgio de Chirico, autore di una poetica di rarefazione formale, di visionaria percezione della realtà, di straniante relazione tra i luoghi e le cose, attenta recupero dell’arcaismo e della pittura giottesca e rinascimentale.
Il ritorno all’antico è centrale anche nel movimento Novecento, nato a Milano nel 1922 dal sodalizio di sette artisti -Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig, Oppi e Sironi- che fanno il proprio esordio l’anno seguente alla Galleria Pesaro di Milano, presentati da Margherita Sarfatti, e che espongono insieme alla Biennale di Venezia del 1924. Nei ritratti e nelle figure allegoriche dipinte da alcuni di questi autori, al centro della seconda sezione della mostra, l’antico è evocato dall’ambientazione ed è all’origine anche dello stile essenziale e solenne della rappresentazione, basato su un disegno accuratamente definito e su forme e volumi sintetici e maestosi.
Tra i temi al centro di questa stagione di ritorno all’ordine vi è la pittura di paesaggio con vedute urbane e luoghi della natura che affermano una piena riconquista dei valori pittorici fondati sulla tradizione.
Le architetture della periferia milanese «disegnate con il filo a piombo» da Sironi, proposte nella terza sezione della mostra, sono -si legge nella presentazione- «l’esempio più fulgido di questa capacità di rinnovare un genere pittorico, spogliandolo non solo di tutte le scomposizioni e frammentazioni avanguardiste ma anche dei residui del pittoricismo ottocentesco, approdando a una solida sintesi costruttiva».
L’esposizione roveretana permette di vedere anche le vedute di Milano e di Roma dipinte da Usellini e Donghi, oltre alle opere paesaggistiche di Carrà, nelle quali -afferma lo stesso artista- si ha una «trasformazione del paesaggio in poema pieno di spazio e di sogno».
Il percorso espositivo prosegue, quindi, con un focus sul genere della natura morta. A questo tema si dedicano con un’assiduità quasi esclusiva soprattutto de Pisis e Morandi, il primo dipingendo oggetti che paiono personaggi di una narrazione, il secondo trasformandoli, al contrario, in elementi quasi astratti. Anche Dudreville, Oppi, Donghi e Cagnaccio di San Pietro si confrontano con questo genere; nelle loro tele -si legge nella presentazione- «le cose sembrano osservate attraverso le lenti di un realismo talvolta esasperato, che per nettezza, luminosità, trasparenza e precisione nei dettagli ricorda la grande tradizione della natura morta fiamminga». Mentre le atmosfere evocate da Severini appaiono solenni e silenziose.
La mostra analizza, poi, il tema del ritratto. Un atteggiamento meditativo e malinconico, un distacco dalle cose del mondo che le circondano è ciò che si evidenzia principalmente nei soggetti raffigurati. In alcuni dipinti di Cagnaccio, Casorati, Donghi e Oppi lo «specifico tono di solitudine» delle figure, come lo definisce lo scrittore Giacomo Debenedetti, è trasposto in una dimensione incantata e sospesa, tipica del Realismo magico. In molti dei ritratti esposti si riconoscono, inoltre, scelte compositive e formali ispirate alla pittura rinascimentale, come la presenza di scorci paesaggistici inquadrati da finestre o balconi.
Anche il tema del nudo, ampiamente diffuso nella pittura italiana degli anni Venti, costituisce un’occasione di studio e di confronto con i modelli degli antichi maestri. A tal proposito le curatrici della mostra roveretana affermano: «nelle figure femminili dipinte da Casorati si legge l’eredità delle forme pure di Masaccio e Piero della Francesca; quelle di Marussig e di Celada da Virgilio discendono dalle Veneri rinascimentali di Giorgione e di Tiziano; mentre le forme opulente dei nudi di Malerba e Oppi condensano in forme sintetiche l’idea di bellezza della statuaria greca e romana».
Tra i grandi temi della tradizione riscoperti dalla pittura italiana del primo Novecento vi è, inoltre, quello della maternità, le cui radici affondano nell’arte sacra: la tela «Madre che si leva» di Virgilio Guidi, ricco di puntuali rimandi all’arte rinascimentale, e il quadro di Anselmo Bucci con una donna che allatta teneramente il suo bambino sono due esempi del genere esposti nella mostra trentina.
L’ultima sezione della rassegna, dall’atmosfera intima e introspettiva, guarda alla quotidianità e al susseguirsi delle varie età della vita esponendo ritratti di fanciulli in posa, bimbi che giocano, gruppi di famiglia e anziani genitori.
Classicità e modernità si incontrano, dunque, tra le sale del Mart per raccontare un momento storico nel quale gli artisti abbandonano le sperimentazioni avanguardiste per guardare al passato. Ma senza nostalgia, senza voglia di tornare indietro. Alla ricerca della perfezione, delle sue regole, delle armonie.
Didascalie delle immagini
[Fig.1]Felice Casorati, Ritratto di Renato Gualino, 1923-1924. Istituto Matteucci, Viareggio; [fig. 2] Giorgio de Chirico, Enigma della partenza, 1914. Fondazione Magnani Rocca, Mamiano di Traversetolo (PR); [fig. 3]Filippo de Pisis, Natura morta, 1924. Mart, Collezione L.F.; [fig. 4] Achille Funi, Saffo, 1924. Collezione privata. Courtesy Studio d’arte Nicoletta Colombo, Milano
Informazioni utili
«Un’eterna bellezza – Il canone classico nell’arte italiana del primo Novecento». Mart, Corso Bettini, 43 – Rovereto. Orari: martedì-domenica, ore 10.00–18.00; venerdì, ore 10.00-21.00; lunedì chiuso. Ingresso: intero € 11,00; ridotto gruppi, giovani dai 15 ai 26 anni e over 65 anni € 7,00, biglietto famiglia € 22,00. Informazioni e prenotazioni: numero verde 800.397760, info@mart.trento.it. Sito internet: www.mart.trento.it. Fino al 5 novembre 2017.
L’«aspirazione verso il concreto, il semplice e il definitivo», per usare le parole di Margherita Sarfatti, è il fondamento che nutre la poetica di numerosi artisti a cavallo tra gli anni Venti e Trenta.
Generi tradizionali quali il ritratto, la figura, il paesaggio e la natura morta sono interpretati secondo un nuovo linguaggio che declina in chiave moderna i valori dell’arte antica e rinascimentale, a cominciare dal «ritorno al mestiere», alla maestria tecnica del fare artistico inteso come strumento di restituzione e trasfigurazione del reale alla ricerca di una dimensione trasognata e senza tempo.
A questa storia guarda la mostra «Un’eterna bellezza», a cura di Beatrice Avanzi e Daniela Ferrari, allestita fino al 5 novembre negli spazi del Mart di Rovereto, dove è in corso anche una grande retrospettiva dedicata ad Armando Testa e alle sue visionarie pubblicità.
Una selezione di circa cento opere di alcuni tra i più significativi protagonisti dell’arte italiana come Carrà, Casorati, de Chirico, de Pisis, Funi, Martini, Oppi, Savinio, Severini e Sironi, molti dei quali presenti anche nelle collezioni del museo trentino, propone un percorso espositivo in sette tappe che parla del recupero della tradizione, con un occhio rivolto alle lezione di Giotto, Masaccio e Piero della Francesca.
Ad aprire la mostra, della quale rimarrà documentazione in un catalogo di Electa Editore, è un omaggio alla Metafisica, che vede il suo principale esponente in Giorgio de Chirico, autore di una poetica di rarefazione formale, di visionaria percezione della realtà, di straniante relazione tra i luoghi e le cose, attenta recupero dell’arcaismo e della pittura giottesca e rinascimentale.
Il ritorno all’antico è centrale anche nel movimento Novecento, nato a Milano nel 1922 dal sodalizio di sette artisti -Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig, Oppi e Sironi- che fanno il proprio esordio l’anno seguente alla Galleria Pesaro di Milano, presentati da Margherita Sarfatti, e che espongono insieme alla Biennale di Venezia del 1924. Nei ritratti e nelle figure allegoriche dipinte da alcuni di questi autori, al centro della seconda sezione della mostra, l’antico è evocato dall’ambientazione ed è all’origine anche dello stile essenziale e solenne della rappresentazione, basato su un disegno accuratamente definito e su forme e volumi sintetici e maestosi.
Tra i temi al centro di questa stagione di ritorno all’ordine vi è la pittura di paesaggio con vedute urbane e luoghi della natura che affermano una piena riconquista dei valori pittorici fondati sulla tradizione.
Le architetture della periferia milanese «disegnate con il filo a piombo» da Sironi, proposte nella terza sezione della mostra, sono -si legge nella presentazione- «l’esempio più fulgido di questa capacità di rinnovare un genere pittorico, spogliandolo non solo di tutte le scomposizioni e frammentazioni avanguardiste ma anche dei residui del pittoricismo ottocentesco, approdando a una solida sintesi costruttiva».
L’esposizione roveretana permette di vedere anche le vedute di Milano e di Roma dipinte da Usellini e Donghi, oltre alle opere paesaggistiche di Carrà, nelle quali -afferma lo stesso artista- si ha una «trasformazione del paesaggio in poema pieno di spazio e di sogno».
Il percorso espositivo prosegue, quindi, con un focus sul genere della natura morta. A questo tema si dedicano con un’assiduità quasi esclusiva soprattutto de Pisis e Morandi, il primo dipingendo oggetti che paiono personaggi di una narrazione, il secondo trasformandoli, al contrario, in elementi quasi astratti. Anche Dudreville, Oppi, Donghi e Cagnaccio di San Pietro si confrontano con questo genere; nelle loro tele -si legge nella presentazione- «le cose sembrano osservate attraverso le lenti di un realismo talvolta esasperato, che per nettezza, luminosità, trasparenza e precisione nei dettagli ricorda la grande tradizione della natura morta fiamminga». Mentre le atmosfere evocate da Severini appaiono solenni e silenziose.
La mostra analizza, poi, il tema del ritratto. Un atteggiamento meditativo e malinconico, un distacco dalle cose del mondo che le circondano è ciò che si evidenzia principalmente nei soggetti raffigurati. In alcuni dipinti di Cagnaccio, Casorati, Donghi e Oppi lo «specifico tono di solitudine» delle figure, come lo definisce lo scrittore Giacomo Debenedetti, è trasposto in una dimensione incantata e sospesa, tipica del Realismo magico. In molti dei ritratti esposti si riconoscono, inoltre, scelte compositive e formali ispirate alla pittura rinascimentale, come la presenza di scorci paesaggistici inquadrati da finestre o balconi.
Anche il tema del nudo, ampiamente diffuso nella pittura italiana degli anni Venti, costituisce un’occasione di studio e di confronto con i modelli degli antichi maestri. A tal proposito le curatrici della mostra roveretana affermano: «nelle figure femminili dipinte da Casorati si legge l’eredità delle forme pure di Masaccio e Piero della Francesca; quelle di Marussig e di Celada da Virgilio discendono dalle Veneri rinascimentali di Giorgione e di Tiziano; mentre le forme opulente dei nudi di Malerba e Oppi condensano in forme sintetiche l’idea di bellezza della statuaria greca e romana».
Tra i grandi temi della tradizione riscoperti dalla pittura italiana del primo Novecento vi è, inoltre, quello della maternità, le cui radici affondano nell’arte sacra: la tela «Madre che si leva» di Virgilio Guidi, ricco di puntuali rimandi all’arte rinascimentale, e il quadro di Anselmo Bucci con una donna che allatta teneramente il suo bambino sono due esempi del genere esposti nella mostra trentina.
L’ultima sezione della rassegna, dall’atmosfera intima e introspettiva, guarda alla quotidianità e al susseguirsi delle varie età della vita esponendo ritratti di fanciulli in posa, bimbi che giocano, gruppi di famiglia e anziani genitori.
Classicità e modernità si incontrano, dunque, tra le sale del Mart per raccontare un momento storico nel quale gli artisti abbandonano le sperimentazioni avanguardiste per guardare al passato. Ma senza nostalgia, senza voglia di tornare indietro. Alla ricerca della perfezione, delle sue regole, delle armonie.
Didascalie delle immagini
[Fig.1]Felice Casorati, Ritratto di Renato Gualino, 1923-1924. Istituto Matteucci, Viareggio; [fig. 2] Giorgio de Chirico, Enigma della partenza, 1914. Fondazione Magnani Rocca, Mamiano di Traversetolo (PR); [fig. 3]Filippo de Pisis, Natura morta, 1924. Mart, Collezione L.F.; [fig. 4] Achille Funi, Saffo, 1924. Collezione privata. Courtesy Studio d’arte Nicoletta Colombo, Milano
Informazioni utili
«Un’eterna bellezza – Il canone classico nell’arte italiana del primo Novecento». Mart, Corso Bettini, 43 – Rovereto. Orari: martedì-domenica, ore 10.00–18.00; venerdì, ore 10.00-21.00; lunedì chiuso. Ingresso: intero € 11,00; ridotto gruppi, giovani dai 15 ai 26 anni e over 65 anni € 7,00, biglietto famiglia € 22,00. Informazioni e prenotazioni: numero verde 800.397760, info@mart.trento.it. Sito internet: www.mart.trento.it. Fino al 5 novembre 2017.
mercoledì 2 agosto 2017
Dai Maya agli Inca, a Napoli «il mondo che non c’era»
«Queste cose son più belle che delle meraviglie […] Nella mia vita non ho mai visto cose che mi riempissero di gioia come questi oggetti». Così scriveva, nel 1520, Albrecht Dürer di fronte ai regali di Montezuma a Cortés, giunti a Bruxelles dall’America del Sud, terra sconosciuta fino a pochi decenni prima. La scoperta di questo continente, avvenuta tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, scardina la visione culturale del tradizionale asse Roma – Grecia – Oriente e, secondo l’antropologo Claude Lévi- Strauss, è l’evento forse più importante nella storia dell’umanità.
Fu il grande esploratore Amerigo Vespucci a comprendere per primo che le terre incontrate da Cristoforo Colombo nel 1492 non erano isole indiane al largo del Cipango (Giappone) e neppure le ricercate porte dell’Eden, ma un Mundus Novus, un nuovo continente che pochi anni dopo alcuni geografi che lavoravano a Saint-Denis des Voges vollero chiamare, in suo onore, America.
Alle principali culture di questo territorio -quelle degli Olmechi, dei Maya, degli Aztechi e degli Inca- è dedicata la mostra «Il mondo che non c’era», allestita fino al 30 ottobre al Mann – Museo archeologico nazionale di Napoli. Al centro dell’esposizione -curata da Jacques Blazy, specialista delle arti pre-ispaniche della Mesoamerica e dell’America del Sud- c’è una delle principali raccolte italiane dedicate a quest’ambito di indagine: quella di Giancarlo Ligabue (1931- 2015), imprenditore ma anche paleontologo, studioso di archeologia e antropologia, esploratore e appassionato collezionista che partecipò ad oltre centotrenta spedizioni.
La mostra -realizzata anche grazie alla collaborazione di Inti Ligabue- racconta le antiche culture della cosiddetta Mesoamerica (gran parte del Messico, Guatemala, Belize, una parte dell’Honduras e del Salvador), il territorio di Panama, le Ande (Colombia, Ecuador, Perù e Bolivia, fno al Cile e Argentina), dalla cultura Chavin a Tiahuanaco e Moche, fno agli Inca.
Dalle rarissime maschere in pietra di Teotihucan, la più grande città della Mesoamerica, primo vero centro urbano del Messico Centrale, ai vasi Maya d’epoca classica, preziose fonti d’informazione, con le loro decorazioni e iscrizioni: è articolato il viaggio proposto dalla mostra napoletana, che vede nel comitato scientifico personalità del calibro dello studioso André Delpuech, direttore del Musée de l’Homme – Muséum d’Histoire Nationale Naturelle di Parigi, e dell’archeologo peruviano Federico Kauffmann Doig, entrambi anche componenti del comitato scientifico della Fondazione Giancarlo Ligabue di Venezia.
Tra i pezzi esposti sarà possibile ammirare delle statuette antropomorfe della cultura Olmeca, che tanto affascinarono anche il pittore Diego Rivera e la moglie Frida Kahlo, e le sculture Mezcala, tanto enigmatiche nella loro semplicità quanto misteriose nelle origini, al punto che ne restarono profondamente suggestionati divenendone collezionisti anche André Breton, Paul Eluard e lo scultore Henry Moore.
Sempre dal Messico arrivano delle statuette policrome di ceramica cava della cultura di Chupicuaro, il cui apogeo si situa tra il 400 e il 100 a.C., e urne cinerarie (dal 200 a.C. al 200 d.C.) della cultura Zapoteca, databili tra il 200 a.C. e il 200 d.C.. Sono, poi, esposte sculture azteche, esempi pregevoli delle Veneri ecuadoriane di Valdivia, oggetti Inca, tessuti e vasi della regione di Nazca, manufatti dell’affascinante cultura Moche, straordinari oggetti in oro.
Purtroppo proprio l’oro, che spingerà nelle Ande spagnoli ed avventurieri alla ricerca del mitico El Dorado, segnò la fine delle culture degli Aztechi e degli Inca, schiacciati con le armi e con la schiavitù dai conquistatori. Milioni di indio moriranno anche a causa delle malattie arrivate dal Vecchio Mondo. Dovranno passare almeno quattro secoli, prima che l’Europa prenda nuovamente coscienza della grandezza dell’arte dell’America antica e ancora oggi sfuggono molti aspetti di queste culture.
La mostra al Museo archeologico nazionale di Napoli permette, dunque, di approfondire alcuni aspetti di queste civiltà, ma anche di ricordare gli storici legami della città campana non solo con la Spagna tra XVI e XVIII secolo, ma anche con l’immenso impero spagnolo cresciuto a dismisura all’epoca dei Conquistadores e portatore di ricchezze a scapito, appunto, dei popoli meso e sudamericani. E i debiti in termini di progresso economico e di ampliamenti culturali nei confronti del Nuovo Mondo sono evidenti: pensiamo ad alcuni alimenti (cacao, pomodori o patate) che sono arrivati per mediazione delle cucine della Corte spagnola nella tradizione alimentare del regno di Napoli e che oggi costituiscono la base di piatti considerati della tradizione locale. Ma ricordiamo anche il gioco con il pallone “di gomma” che scopriremo, grazie alle raffigurazioni in mostra sul tema, essere profondamente e anticamente radicato nella civiltà e nella ritualità mesoamericana.
Va del resto ricordato che lo stesso Carlo III di Borbone diede un contributo importante alla riscoperta dell’archeologia precolombiana, in particolare del sito maya di Palenque. Il complesso, definito la Pompei dei Maya, fu esplorato da una spedizione alla quale parteciparono Antonio Bernasconi, allievo di Luigi Vanvitelli, e alcuni studiosi che parteciparono ai primi scavi di Pompei ed Ercolano. Un’occasione, dunque, quella della mostra di Napoli per conoscere attraverso duecento opere vite, costumi e cosmogonie di un mondo entrato nella Storia.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Tessuto e copricapo. Cultura Nazca, 200. A. C.. Piume di uccelli amazzonici e corda. Altezza: 46 cm. Altezza banda: 12 cm Larghezza: 38 cm. Venezia, Collezione Ligabue; [fig. 2] Vaso o tazza votiva, Cultura Nazca - Perù, I-II secolo d.C. Ceramica con decorazioni di esseri mitologici. Altezza: 10,5 cm, diametro: 13 cm. Venezia, Collezione Ligabue; [fig. 3] Maschera. Cultura Chimù-Lambayeque, 1300 d.C.. Maschera funebre in rame ricoperto da lamina d’oro. Altezza 26 cm. Venezia, Collezione Ligabue
Informazioni utili
«Il mondo che non c’era». Museo archeologico nazionale di Napoli, piazza Museo, 19 - Napoli. Orari: ore 09.00 – 19.30; chiuso il martedì. Ingresso: intero € 12,00, ridotto € 6,00, per altre tariffe si consiglia di consultare il sito www.museoarcheologiconapoli.it. Informazioni: tel. 081.4422149. Sito internet: www.ilmondochenoncera.it. Fino al 30 ottobre 2017.
Fu il grande esploratore Amerigo Vespucci a comprendere per primo che le terre incontrate da Cristoforo Colombo nel 1492 non erano isole indiane al largo del Cipango (Giappone) e neppure le ricercate porte dell’Eden, ma un Mundus Novus, un nuovo continente che pochi anni dopo alcuni geografi che lavoravano a Saint-Denis des Voges vollero chiamare, in suo onore, America.
Alle principali culture di questo territorio -quelle degli Olmechi, dei Maya, degli Aztechi e degli Inca- è dedicata la mostra «Il mondo che non c’era», allestita fino al 30 ottobre al Mann – Museo archeologico nazionale di Napoli. Al centro dell’esposizione -curata da Jacques Blazy, specialista delle arti pre-ispaniche della Mesoamerica e dell’America del Sud- c’è una delle principali raccolte italiane dedicate a quest’ambito di indagine: quella di Giancarlo Ligabue (1931- 2015), imprenditore ma anche paleontologo, studioso di archeologia e antropologia, esploratore e appassionato collezionista che partecipò ad oltre centotrenta spedizioni.
La mostra -realizzata anche grazie alla collaborazione di Inti Ligabue- racconta le antiche culture della cosiddetta Mesoamerica (gran parte del Messico, Guatemala, Belize, una parte dell’Honduras e del Salvador), il territorio di Panama, le Ande (Colombia, Ecuador, Perù e Bolivia, fno al Cile e Argentina), dalla cultura Chavin a Tiahuanaco e Moche, fno agli Inca.
Dalle rarissime maschere in pietra di Teotihucan, la più grande città della Mesoamerica, primo vero centro urbano del Messico Centrale, ai vasi Maya d’epoca classica, preziose fonti d’informazione, con le loro decorazioni e iscrizioni: è articolato il viaggio proposto dalla mostra napoletana, che vede nel comitato scientifico personalità del calibro dello studioso André Delpuech, direttore del Musée de l’Homme – Muséum d’Histoire Nationale Naturelle di Parigi, e dell’archeologo peruviano Federico Kauffmann Doig, entrambi anche componenti del comitato scientifico della Fondazione Giancarlo Ligabue di Venezia.
Tra i pezzi esposti sarà possibile ammirare delle statuette antropomorfe della cultura Olmeca, che tanto affascinarono anche il pittore Diego Rivera e la moglie Frida Kahlo, e le sculture Mezcala, tanto enigmatiche nella loro semplicità quanto misteriose nelle origini, al punto che ne restarono profondamente suggestionati divenendone collezionisti anche André Breton, Paul Eluard e lo scultore Henry Moore.
Sempre dal Messico arrivano delle statuette policrome di ceramica cava della cultura di Chupicuaro, il cui apogeo si situa tra il 400 e il 100 a.C., e urne cinerarie (dal 200 a.C. al 200 d.C.) della cultura Zapoteca, databili tra il 200 a.C. e il 200 d.C.. Sono, poi, esposte sculture azteche, esempi pregevoli delle Veneri ecuadoriane di Valdivia, oggetti Inca, tessuti e vasi della regione di Nazca, manufatti dell’affascinante cultura Moche, straordinari oggetti in oro.
Purtroppo proprio l’oro, che spingerà nelle Ande spagnoli ed avventurieri alla ricerca del mitico El Dorado, segnò la fine delle culture degli Aztechi e degli Inca, schiacciati con le armi e con la schiavitù dai conquistatori. Milioni di indio moriranno anche a causa delle malattie arrivate dal Vecchio Mondo. Dovranno passare almeno quattro secoli, prima che l’Europa prenda nuovamente coscienza della grandezza dell’arte dell’America antica e ancora oggi sfuggono molti aspetti di queste culture.
La mostra al Museo archeologico nazionale di Napoli permette, dunque, di approfondire alcuni aspetti di queste civiltà, ma anche di ricordare gli storici legami della città campana non solo con la Spagna tra XVI e XVIII secolo, ma anche con l’immenso impero spagnolo cresciuto a dismisura all’epoca dei Conquistadores e portatore di ricchezze a scapito, appunto, dei popoli meso e sudamericani. E i debiti in termini di progresso economico e di ampliamenti culturali nei confronti del Nuovo Mondo sono evidenti: pensiamo ad alcuni alimenti (cacao, pomodori o patate) che sono arrivati per mediazione delle cucine della Corte spagnola nella tradizione alimentare del regno di Napoli e che oggi costituiscono la base di piatti considerati della tradizione locale. Ma ricordiamo anche il gioco con il pallone “di gomma” che scopriremo, grazie alle raffigurazioni in mostra sul tema, essere profondamente e anticamente radicato nella civiltà e nella ritualità mesoamericana.
Va del resto ricordato che lo stesso Carlo III di Borbone diede un contributo importante alla riscoperta dell’archeologia precolombiana, in particolare del sito maya di Palenque. Il complesso, definito la Pompei dei Maya, fu esplorato da una spedizione alla quale parteciparono Antonio Bernasconi, allievo di Luigi Vanvitelli, e alcuni studiosi che parteciparono ai primi scavi di Pompei ed Ercolano. Un’occasione, dunque, quella della mostra di Napoli per conoscere attraverso duecento opere vite, costumi e cosmogonie di un mondo entrato nella Storia.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Tessuto e copricapo. Cultura Nazca, 200. A. C.. Piume di uccelli amazzonici e corda. Altezza: 46 cm. Altezza banda: 12 cm Larghezza: 38 cm. Venezia, Collezione Ligabue; [fig. 2] Vaso o tazza votiva, Cultura Nazca - Perù, I-II secolo d.C. Ceramica con decorazioni di esseri mitologici. Altezza: 10,5 cm, diametro: 13 cm. Venezia, Collezione Ligabue; [fig. 3] Maschera. Cultura Chimù-Lambayeque, 1300 d.C.. Maschera funebre in rame ricoperto da lamina d’oro. Altezza 26 cm. Venezia, Collezione Ligabue
Informazioni utili
«Il mondo che non c’era». Museo archeologico nazionale di Napoli, piazza Museo, 19 - Napoli. Orari: ore 09.00 – 19.30; chiuso il martedì. Ingresso: intero € 12,00, ridotto € 6,00, per altre tariffe si consiglia di consultare il sito www.museoarcheologiconapoli.it. Informazioni: tel. 081.4422149. Sito internet: www.ilmondochenoncera.it. Fino al 30 ottobre 2017.
martedì 1 agosto 2017
«Bestiale!», quando il cane e il gatto diventano star del cinema
Ci sono proprio tutti alla Mole Antonelliana di Torino: Rin Tin Tin e Lassie, l'orca Keiko del film «Free Willy» e «Furia il cavallo del West», il gatto di «Colazione da Tiffany» e gli «Uccelli» di Hitchcock, ma anche il maialino Babe, il gufo di Harry Potter, «Francis il mulo parlante», la scimmia Cita di Tarzan e non solo. Gli animali resi famosi dal grande schermo sono i protagonisti della mostra «Bestiale! Animal Film Stars», a cura di Davide Ferrario e Donata Pesenti Campagnoni, con la collaborazione di Tamara Sillo e Nicoletta Pacini, che il Museo del cinema di Torino accoglie fino al prossimo 8 gennaio.
Animatronics, oggetti di scena, costumi, storyboard, bozzetti, disegni, sceneggiature, libri, fotografie, manifesti e materiali pubblicitari, brochure e programmi di sala, per un totale di oltre quattrocento opere, compongono il percorso espositivo che documenta l'esistenza di oltre duecentosettanta animali-attori, tra cui quarantuno stelle del cinema, e più di duecentottanta film dedicati all'argomento.
Tra i prestatori ci sono l'Academy of Motion Picture -quella degli Oscar- la Cinémathèque française, il Bafta di Londra e collezionisti privati come il premio Oscar per gli effetti speciali John Cox e gli storyboard artists Giacomo Ghiazza, Davis Russell e Jason Mayah.
Due i filoni di indagine della mostra, di cui rimarrà documentazione in un catalogo di Silvana editoriale. «Il primo -spiegano gli organizzatori- racconta cos’è un animale star e, in particolare, qual è la relazione tra icona popolare e animale in carne e ossa (spesso non un singolo, ma più di uno, che lo interpretano sullo schermo). Il secondo indaga il ruolo dell’animale-attore, interrogandosi se esista una recitazione animale, soprattutto oggi, quando animatronics ed effetti speciali digitali spingono verso personaggi di animali che sembrano sempre più esseri umani, mutandone la natura stessa».
Ad aprire il percorso espositivo sono gli esperimenti pre-cinematografici di Eadweard Muybridge, che nel 1878 cercò di documentare la corsa di un cavallo, e un fotogramma di «Adieu au langage» («Addio al linguaggio», 2014), l’ultimo film di Jean-Luc Godard, che ha per co-protagonista il suo cane.
La rassegna documenta, poi, come la storia del cinema abbia spesso creato intorno a molti cani e gatti, ma anche cavalli, topi o pinguini una storia da umani, dotandoli di personalità e – talvolta – di linguaggio. Sono nati così dei premi che danno riconoscimento al talento cinematografico degli animali-attori come lo storico PATSY Award (acronimo di Picture Animal Top Star of the Year e di Performing Animal Television Star of the Year), creato nel 1951 dall’American Humane e assegnato ininterrottamente fino al 1896, o il Palm Dog Award, istituito nel 2001 dal giornalista Toby Rose e assegnato nei giorni del Festival di Cannes. A dire il vero c’è anche chi pensò di candidare un animale all’Oscar con tanto di campagna mediatica. Il fortunato fu il cagnolino Uggie del film «The Artist», che letteralmente rubò la scena (e l'affetto del pubblico) al protagonista Jean Dujardin. Pure Donald O'Connor, protagonista della serie «Francis», si ritrovò a competere per la notorietà con il famoso mulo parlante ed esasperato dal successo del suo collega-animale lasciò la serie -dicono i ben informati- con le parole «Quando giri sei film e il mulo riceve più posta dai fan di te, qualcosa non va...».
Gli animali, in effetti, hanno sempre suscitato un grande interesse nel pubblico sin dagli esordi del cinema. Basti pensare che la prima pellicola con un quadrupede fu girata nel 1897 dai fratelli Lumière, che dedicarono al pranzo di un gattino uno dei loro primissimi film: «Le déjeuner du chat». Ecco così scorrere lungo le pareti del museo torinese le storie di animali che hanno fatto sognare, sorridere, spaventare ed emozionare svariate generazioni di grandi e piccoli spettatori: da Zanna Gialla a King Kong, dallo squalo di Spielberg al vero e proprio zoo che fu messo in piedi per girare il kolossal «La Bibbia», diretto nel 1966 da John Huston. A completamento della mostra sono stati ideati numerosi eventi: da laboratori per i più piccoli a incontri con gli insegnanti, da visite guidate a feste di compleanno a tema, fino all’attesa rassegna cinematografica in programma dall’11 ottobre al 1° novembre al cinema Massimo. Un’occasione per vedere quanto sia stato determinante l’apporto degli animali per la storia della settima arte.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] King Kong, John Guillermin, USA, 1976 Jessica Lange (Dwan) e il braccio meccanico di King Kong. King Kong di John Guillermin, USA, 1976. ©Angelo Frontoni/Cineteca Nazionale-Museo Nazionale del Cinema; [fig. 2] L’orca assassina di Michael Anderson, USA, 1977. Disegno di progettazione dello scenografo Mario Garbuglia per la costruzione delle orche. Collezione Museo Nazionale del Cinema; [fig. 3] 102 Dalmatians di Kevin Lima, USA, 2000. Animatronic di un cucciolo di dalmata; [fig. 4]Fumetti degli anni ’60 - ’70 tratti dalla serie televisiva Lassie. Collezione Museo Nazionale del Cinema
Informazioni utili
«Bestiale! Animal Film Stars». Museo Nazionale del Cinema – Mole Antonelliana, via Montebello, 20 – Torino. Orari: dalla domenica al venerdì, ore 9.00-20.00; sabato, ore 9.00-23.00; chiuso il martedì; aperture straordinarie nei giorni del 1° ottobre (Halloween), 1° novembre (Ognissanti), 8 dicembre (Immacolata), 24 dicembre (Vigilia di Natale), 25 dicembre (Natale), 26 dicembre (S. Stefano), 31 dicembre (Vigilia di Capodanno), 1° gennaio 2018 (Capodanno), 2 gennaio 2018 e 6 gennaio 2018 (Epifania).Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8,00, ridotto speciale € 3,00. Informazioni: tel. 011.8138.560 / 561 o info@museocinema.it. Sito internet: www.museocinema.it. Fino all’8 gennaio 2018.
Animatronics, oggetti di scena, costumi, storyboard, bozzetti, disegni, sceneggiature, libri, fotografie, manifesti e materiali pubblicitari, brochure e programmi di sala, per un totale di oltre quattrocento opere, compongono il percorso espositivo che documenta l'esistenza di oltre duecentosettanta animali-attori, tra cui quarantuno stelle del cinema, e più di duecentottanta film dedicati all'argomento.
Tra i prestatori ci sono l'Academy of Motion Picture -quella degli Oscar- la Cinémathèque française, il Bafta di Londra e collezionisti privati come il premio Oscar per gli effetti speciali John Cox e gli storyboard artists Giacomo Ghiazza, Davis Russell e Jason Mayah.
Due i filoni di indagine della mostra, di cui rimarrà documentazione in un catalogo di Silvana editoriale. «Il primo -spiegano gli organizzatori- racconta cos’è un animale star e, in particolare, qual è la relazione tra icona popolare e animale in carne e ossa (spesso non un singolo, ma più di uno, che lo interpretano sullo schermo). Il secondo indaga il ruolo dell’animale-attore, interrogandosi se esista una recitazione animale, soprattutto oggi, quando animatronics ed effetti speciali digitali spingono verso personaggi di animali che sembrano sempre più esseri umani, mutandone la natura stessa».
Ad aprire il percorso espositivo sono gli esperimenti pre-cinematografici di Eadweard Muybridge, che nel 1878 cercò di documentare la corsa di un cavallo, e un fotogramma di «Adieu au langage» («Addio al linguaggio», 2014), l’ultimo film di Jean-Luc Godard, che ha per co-protagonista il suo cane.
La rassegna documenta, poi, come la storia del cinema abbia spesso creato intorno a molti cani e gatti, ma anche cavalli, topi o pinguini una storia da umani, dotandoli di personalità e – talvolta – di linguaggio. Sono nati così dei premi che danno riconoscimento al talento cinematografico degli animali-attori come lo storico PATSY Award (acronimo di Picture Animal Top Star of the Year e di Performing Animal Television Star of the Year), creato nel 1951 dall’American Humane e assegnato ininterrottamente fino al 1896, o il Palm Dog Award, istituito nel 2001 dal giornalista Toby Rose e assegnato nei giorni del Festival di Cannes. A dire il vero c’è anche chi pensò di candidare un animale all’Oscar con tanto di campagna mediatica. Il fortunato fu il cagnolino Uggie del film «The Artist», che letteralmente rubò la scena (e l'affetto del pubblico) al protagonista Jean Dujardin. Pure Donald O'Connor, protagonista della serie «Francis», si ritrovò a competere per la notorietà con il famoso mulo parlante ed esasperato dal successo del suo collega-animale lasciò la serie -dicono i ben informati- con le parole «Quando giri sei film e il mulo riceve più posta dai fan di te, qualcosa non va...».
Gli animali, in effetti, hanno sempre suscitato un grande interesse nel pubblico sin dagli esordi del cinema. Basti pensare che la prima pellicola con un quadrupede fu girata nel 1897 dai fratelli Lumière, che dedicarono al pranzo di un gattino uno dei loro primissimi film: «Le déjeuner du chat». Ecco così scorrere lungo le pareti del museo torinese le storie di animali che hanno fatto sognare, sorridere, spaventare ed emozionare svariate generazioni di grandi e piccoli spettatori: da Zanna Gialla a King Kong, dallo squalo di Spielberg al vero e proprio zoo che fu messo in piedi per girare il kolossal «La Bibbia», diretto nel 1966 da John Huston. A completamento della mostra sono stati ideati numerosi eventi: da laboratori per i più piccoli a incontri con gli insegnanti, da visite guidate a feste di compleanno a tema, fino all’attesa rassegna cinematografica in programma dall’11 ottobre al 1° novembre al cinema Massimo. Un’occasione per vedere quanto sia stato determinante l’apporto degli animali per la storia della settima arte.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] King Kong, John Guillermin, USA, 1976 Jessica Lange (Dwan) e il braccio meccanico di King Kong. King Kong di John Guillermin, USA, 1976. ©Angelo Frontoni/Cineteca Nazionale-Museo Nazionale del Cinema; [fig. 2] L’orca assassina di Michael Anderson, USA, 1977. Disegno di progettazione dello scenografo Mario Garbuglia per la costruzione delle orche. Collezione Museo Nazionale del Cinema; [fig. 3] 102 Dalmatians di Kevin Lima, USA, 2000. Animatronic di un cucciolo di dalmata; [fig. 4]Fumetti degli anni ’60 - ’70 tratti dalla serie televisiva Lassie. Collezione Museo Nazionale del Cinema
Informazioni utili
«Bestiale! Animal Film Stars». Museo Nazionale del Cinema – Mole Antonelliana, via Montebello, 20 – Torino. Orari: dalla domenica al venerdì, ore 9.00-20.00; sabato, ore 9.00-23.00; chiuso il martedì; aperture straordinarie nei giorni del 1° ottobre (Halloween), 1° novembre (Ognissanti), 8 dicembre (Immacolata), 24 dicembre (Vigilia di Natale), 25 dicembre (Natale), 26 dicembre (S. Stefano), 31 dicembre (Vigilia di Capodanno), 1° gennaio 2018 (Capodanno), 2 gennaio 2018 e 6 gennaio 2018 (Epifania).Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8,00, ridotto speciale € 3,00. Informazioni: tel. 011.8138.560 / 561 o info@museocinema.it. Sito internet: www.museocinema.it. Fino all’8 gennaio 2018.
lunedì 31 luglio 2017
Botero, una carriera lunga cinquant’anni
È la grande scultura in bronzo «Cavallo con briglie», di oltre una tonnellata e mezzo di peso e alta più di tre metri, ad aprire il percorso espositivo della retrospettiva che Roma dedica, fino al prossimo 27 agosto, a Fernando Botero (Medellín - Colombia, 19 aprile 1932), in occasione del suo ottantacinquesimo compleanno. Come una sorta di cavallo di Troia l’opera è posta all’ingresso del Complesso del Vittoriano con l’intento di incuriosire i turisti e i romani, così da invitarli a entrare in un mondo dai colori brillanti e dalle forme opulente, ammantato di una dimensione fiabesca e senza tempo, che fonde le suggestioni dell’arte latino-americana con quelle dei grandi maestri del passato, soprattutto dell’epoca rinascimentale.
Sono cinquanta le opere che il curatore Rudy Chiappini ha selezionato per questa mostra, già attesa per il prossimo autunno a Verona, dove sarà allestita, a partire dal 21 ottobre e fino al 29 aprile 2018, negli spazi di Palazzo Forti. Si tratta di dipinti e sculture, realizzati tra il 1958 e il 2016, che raccontano di una straordinaria carriera non ascrivibile a nessuna corrente pittorica, seppur spesso accostata al Surrealismo, il cui linguaggio -giocato su un’esasperata dilatazione delle forme, nonché su un colore smagliante steso in grandi campiture piatte e uniformi, senza contorni e ombreggiature- è facilmente riconoscibile, e anche molto amato, dal grande pubblico.
Nudi immersi in una sorta di Eden primordiale che non contempla la malizia, nature morte dai canoni classici, ritratti austeri di vescovi e matador, scampoli di vita circense, scene di quotidianità delle popolazioni andine, della amata Antioquia, con uomini e donne che sembrano privati dei propri sentimenti: questo e molto altro anima l’arte di Fernando Botero e scorre lungo le pareti dell’Ala Brasini del Complesso del Vittoriano.
Giotto, Piero della Francesca, Leonardo, Mantegna, Velázquez e Goya sono punti di riferimento imprescindibili per l’artista sudamericano. Gli offrono un’inesauribile fonte di ispirazione, che spesso lo ha portato a dare vita a una propria personale re-interpretazione dell’opera di questi maestri, scoperti durante un suo viaggio in Italia e in Spagna nei primi anni Cinquanta. Sono nati così lavori come «La Fornarina» (2008), rilettura del sinuoso e sensuale capolavoro di Raffaello, o il celebre «Dittico di Piero della Francesca» (1998), «L’infanta Margherita Teresa» (2006), ironico omaggio a Velasquez, o ancora il ritratto di «Rubens e sua moglie» (2005) che mantiene inalterata l’atmosfera intimista, corroborata dalla sinuosa impronta boteriana.
Anche le nature morte dell’artista guardano alla lezione del passato. Lo si può notare in «Natura morta con frutta e bottiglia» (2000), il cui particolare clima di complicità discende dalle equivalenti composizioni concepite nel Seicento dallo spagnolo Francisco de Zurbarán per arrivare quindi a Paul Cézanne, capace di infondere una spiccata personalità, se così si può dire, anche a una mela che conquista la scena.
Non meno forte è l’attaccamento di Fernando Botero alla sua terra natale. Nel linguaggio espressivo dell’artista colombiano si respira, infatti, una radicata dimensione popolare, un profondo attaccamento alla propria cultura, alla memoria mai venuta meno della quotidianità di Medellín. Egli stesso lo racconta con queste parole: «si ritrova nella mia pittura un mondo che ho conosciuto quando ero molto giovane, nella mia terra. Si tratta di una specie di nostalgia e io ne ho fatto l’aspetto centrale del mio lavoro. […] Io ho vissuto quindici anni a New York e molti anni in Europa, ma questo non ha cambiato nulla nella mia disposizione, nella mia natura e nel mio spirito latino-americano. La comunione con il mio Paese è totale».
Sono figlie di questo attaccamento alle proprie origini opere come «Le sorelle» (1969-2005), «Il club del giardinaggio» (1997), «Atelier di sartoria» (2000) e «Picnic» (2001) con i suoi placidi innamorati. Queste caratteristiche si ravvisano anche nelle tante opere dedicate al circo, «un soggetto bellissimo e senza tempo» -per usare le parole dell’artista-, del quale ci viene consegnata una carrellata di ritratti di grande bellezza, da Pierrot ad Arlecchino, dalla cavallerizza impegnata nel suo numero ai clown sui loro improbabili trampoli, dall’elefante ai cavalli.
Didascalie delle immagini
[Figg. 1, 2, 3] Allestimento della mostra che Roma dedica, negli spazi del Complesso del Vittoriano, a Fernando Botero. Foto di Iskra Coronelli
Informazioni utili
Fernando Botero. Complesso del Vittoriano - Roma. Orari: dal lunedì al giovedì, ore 9.30-19.30; venerdì e sabato, ore 9.30-22.00; domenica, ore 9.30 - 20.30; la biglietteria chiude un'ora prima. Ingresso: intero € 12,00 (audioguida inclusa), ridotto € 10,00 (audioguida inclusa) o € 8,00, ridotto scuole € 5,00. Informazioni: tel. 06.8715111. Sito internet: www.ilvittoriano.com. Fino al 27 agosto 2017.
Sono cinquanta le opere che il curatore Rudy Chiappini ha selezionato per questa mostra, già attesa per il prossimo autunno a Verona, dove sarà allestita, a partire dal 21 ottobre e fino al 29 aprile 2018, negli spazi di Palazzo Forti. Si tratta di dipinti e sculture, realizzati tra il 1958 e il 2016, che raccontano di una straordinaria carriera non ascrivibile a nessuna corrente pittorica, seppur spesso accostata al Surrealismo, il cui linguaggio -giocato su un’esasperata dilatazione delle forme, nonché su un colore smagliante steso in grandi campiture piatte e uniformi, senza contorni e ombreggiature- è facilmente riconoscibile, e anche molto amato, dal grande pubblico.
Nudi immersi in una sorta di Eden primordiale che non contempla la malizia, nature morte dai canoni classici, ritratti austeri di vescovi e matador, scampoli di vita circense, scene di quotidianità delle popolazioni andine, della amata Antioquia, con uomini e donne che sembrano privati dei propri sentimenti: questo e molto altro anima l’arte di Fernando Botero e scorre lungo le pareti dell’Ala Brasini del Complesso del Vittoriano.
Giotto, Piero della Francesca, Leonardo, Mantegna, Velázquez e Goya sono punti di riferimento imprescindibili per l’artista sudamericano. Gli offrono un’inesauribile fonte di ispirazione, che spesso lo ha portato a dare vita a una propria personale re-interpretazione dell’opera di questi maestri, scoperti durante un suo viaggio in Italia e in Spagna nei primi anni Cinquanta. Sono nati così lavori come «La Fornarina» (2008), rilettura del sinuoso e sensuale capolavoro di Raffaello, o il celebre «Dittico di Piero della Francesca» (1998), «L’infanta Margherita Teresa» (2006), ironico omaggio a Velasquez, o ancora il ritratto di «Rubens e sua moglie» (2005) che mantiene inalterata l’atmosfera intimista, corroborata dalla sinuosa impronta boteriana.
Anche le nature morte dell’artista guardano alla lezione del passato. Lo si può notare in «Natura morta con frutta e bottiglia» (2000), il cui particolare clima di complicità discende dalle equivalenti composizioni concepite nel Seicento dallo spagnolo Francisco de Zurbarán per arrivare quindi a Paul Cézanne, capace di infondere una spiccata personalità, se così si può dire, anche a una mela che conquista la scena.
Non meno forte è l’attaccamento di Fernando Botero alla sua terra natale. Nel linguaggio espressivo dell’artista colombiano si respira, infatti, una radicata dimensione popolare, un profondo attaccamento alla propria cultura, alla memoria mai venuta meno della quotidianità di Medellín. Egli stesso lo racconta con queste parole: «si ritrova nella mia pittura un mondo che ho conosciuto quando ero molto giovane, nella mia terra. Si tratta di una specie di nostalgia e io ne ho fatto l’aspetto centrale del mio lavoro. […] Io ho vissuto quindici anni a New York e molti anni in Europa, ma questo non ha cambiato nulla nella mia disposizione, nella mia natura e nel mio spirito latino-americano. La comunione con il mio Paese è totale».
Sono figlie di questo attaccamento alle proprie origini opere come «Le sorelle» (1969-2005), «Il club del giardinaggio» (1997), «Atelier di sartoria» (2000) e «Picnic» (2001) con i suoi placidi innamorati. Queste caratteristiche si ravvisano anche nelle tante opere dedicate al circo, «un soggetto bellissimo e senza tempo» -per usare le parole dell’artista-, del quale ci viene consegnata una carrellata di ritratti di grande bellezza, da Pierrot ad Arlecchino, dalla cavallerizza impegnata nel suo numero ai clown sui loro improbabili trampoli, dall’elefante ai cavalli.
Didascalie delle immagini
[Figg. 1, 2, 3] Allestimento della mostra che Roma dedica, negli spazi del Complesso del Vittoriano, a Fernando Botero. Foto di Iskra Coronelli
Informazioni utili
Fernando Botero. Complesso del Vittoriano - Roma. Orari: dal lunedì al giovedì, ore 9.30-19.30; venerdì e sabato, ore 9.30-22.00; domenica, ore 9.30 - 20.30; la biglietteria chiude un'ora prima. Ingresso: intero € 12,00 (audioguida inclusa), ridotto € 10,00 (audioguida inclusa) o € 8,00, ridotto scuole € 5,00. Informazioni: tel. 06.8715111. Sito internet: www.ilvittoriano.com. Fino al 27 agosto 2017.
venerdì 28 luglio 2017
«Tutti gli ismi di Armando Testa», al Mart di Rovereto la pubblicità con la P maiuscola
Cento anni fa nasceva a Torino uno delle menti creative più feconde della pubblicità italiana: Armando Testa. Per ricordare la travolgente fantasia di questo importante protagonista della nostra cultura visiva, che ha regalato alla storia del Carosello Rai personaggi iconici come Carmencita e Caballero della Lavazza o l’ippopotamo Pippo della Lines, il Mart di Rovereto ospita per l’intera estate, negli ampi e luminosi spazi del secondo piano, la mostra «Tutti gli «ismi» di Armando Testa», a cura di Gianfranco Maraniello e Gemma De Angelis Testa.
L’esposizione, della quale rimarrà documentazione in un catalogo di Electa editore, si sviluppa in un unico grande ambiente scandito da alcune salette che fungono da contrappunto narrativo. Attraverso la presentazione di circa centocinquanta opere tra sculture, manifesti, pubblicità, spot televisivi, bozzetti, quadri, installazioni, estratti di celebri interviste e filmati di repertorio, il percorso è segnato dalla stessa voce del pubblicitario torinese, che con la sua grafica inconfondibile ha accompagnato gli italiani negli anni del boom economico e della rivoluzione della televisione come medium di massa.
Ad aprire il percorso espositivo è una videointervista nella quale il pubblicitario dichiara che, dopo aver perso un cliente a causa di una proposta troppo azzardata, nella sua agenzia si disse: «Il Testa qualche volta ha delle cose azzeccate negli «ismi», chiamiamoli «ismi» tutti i modernismi. Qualche volta però sarà bene guardare di più il marketing!». Questi «ismi» sono il perno attorno a cui ruota l’intero progetto del Mart.
Futurismo, Astrattismo, Surrealismo sono, infatti, fonti alle quali Armando Testa attinge per il suo lavoro. Lampanti appaio, per esempio, i riferimenti al Bauhaus e non meno chiari sono gli omaggi a Mondrian e Malevič come provano l’uso dei colori primari e delle forme geometriche. Anche il cinema e la fotografia sono linguaggi a cui il creativo guarda per carpire tecniche e strutture, dando così vita a opere in cui le grammatiche culturali si ibridano e incontrano i riferimenti più comuni, rendendo la quotidianità un territorio fantastico ricco di significazione.
«Armando Testa -raccontano al Mart- intuisce che il mondo sta cambiando e che i linguaggi della modernità diventano patrimonio comune, identità condivisa. Precursore assoluto, inaugura un nuovo modo di fare pubblicità, sintesi perfetta tra rappresentazione e simbolo. Tra metafore, miraggi, sogni, favole, metamorfosi, le sue creazioni concedono un’evasione dall’ovvietà del reale, rispondendo ai bisogni primari dello spettatore: divertimento, emozione, coinvolgimento».
A Rovereto trovano posto in mostra alcuni dei protagonisti più celebri dei mondi di Testa, icone inconfondibili a cui generazioni di italiani guardano con sorrisi nostalgici e che risultano una divertente scoperta per i più giovani. Dall’«Uomo moderno», ideato per egli allegri manifesti della Facis, a Carmencita e Caballero, protagonisti della pubblicità per il caffè Paulista di Lavazza, il visitatore incontra Punt e Mes per il vermut Carpano, gli sferici extra terrestri del pianeta Papalla per Philco, l’ippopotamo Pippo, gli elefanti Pirelli, i rinoceronti Esso e molto altro ancora.
La mostra propone anche presente un nucleo di opere inedite che illustra la produzione propriamente artistica di Armando Testa, portata avanti parallelamente al suo lavoro in agenzia.
L’esposizione roveretana si sofferma, nello specifico, sulle passioni iconografiche ripetute e reinterpretate durante quella che fu una lunga carriera. «L’allestimento, che include manifesti del primo periodo fortemente pittorici, quadri, fotografie, serigrafie e sculture, approfondisce – raccontano ancora dal museo roveretano- i topoi ricorrenti, come quello degli animali o quello delle dita, presentato al Mart per la prima volta in maniera unitaria.
Ricco si rivela anche il gruppo di materiali ispirati al cibo, tema a cui l’artista si dedicò fin dalla fine degli anni Sessanta, precorrendo ancora una volta i tempi».
Procedendo per suggestioni tematiche, la rassegna illustra la ricerca del pubblicitario italiano, restituendo il volto di un artista a tutto tondo la cui attività supera l’ambito della comunicazione ed entra in contatto diretto con le energie e le sperimentazioni che hanno segnato gli ultimi settant’anni.
Giochi di parole, slittamenti semantici e la chiave dell’umorismo come strumento per aprire le porte della fantasia sono tra le caratteristiche fondamentali delle numerose visioni rappresentate. Armando Testa raggiunge così tutti i pubblici, piacendo tanto ai frequentatori delle gallerie, dei musei e dei cinematografi, quanto ai consumatori meno avvezzi ai linguaggi colti. Attraverso una formidabile capacità visionaria e raffinata efficacia semiotica, l’artista rielabora stilemi e canoni della storia dell’arte e li traduce in materiale per la comunicazione di massa. Inventa mondi fantastici capaci di parlare anche ai giovani d’oggi e che fanno di lui, per usare le parole di Gillo Dorfles, un sempre attuale «(...) visualizzatore globale dei rapporti fra uomo e mondo, fra produzione e consumo, fra creatività pura e creatività finalizzata a uno scopo».
Didascalie delle immagini
[Figg. 1,2, 3 e 4] Veduta dell'allestimento della mostra «Tutti gli «ismi» di Armando Testa» al Mart di Rovereto. Fotografie di Jacopo Salvi
Informazioni utili
«Tutti gli «ismi» di Armando Testa». Mart, Corso Bettini, 43 - Rovereto. Orari: martedì-domenica, ore 10.00–18.00; venerdì, ore 10.00-21.00; lunedì chiuso. Ingresso:
intero € 11,00, ridotto gruppi, giovani dai 15 ai 26 anni e over 65 anni € 7,00, biglietto famiglia € 22,00, gratuito fino ai 14 anni e Amici del museo. Informazioni: Numero verde 800.397760 o info@mart.trento.it. Sito internet: www.mart.trento.it. Fino al 15 ottobre 2017
L’esposizione, della quale rimarrà documentazione in un catalogo di Electa editore, si sviluppa in un unico grande ambiente scandito da alcune salette che fungono da contrappunto narrativo. Attraverso la presentazione di circa centocinquanta opere tra sculture, manifesti, pubblicità, spot televisivi, bozzetti, quadri, installazioni, estratti di celebri interviste e filmati di repertorio, il percorso è segnato dalla stessa voce del pubblicitario torinese, che con la sua grafica inconfondibile ha accompagnato gli italiani negli anni del boom economico e della rivoluzione della televisione come medium di massa.
Ad aprire il percorso espositivo è una videointervista nella quale il pubblicitario dichiara che, dopo aver perso un cliente a causa di una proposta troppo azzardata, nella sua agenzia si disse: «Il Testa qualche volta ha delle cose azzeccate negli «ismi», chiamiamoli «ismi» tutti i modernismi. Qualche volta però sarà bene guardare di più il marketing!». Questi «ismi» sono il perno attorno a cui ruota l’intero progetto del Mart.
Futurismo, Astrattismo, Surrealismo sono, infatti, fonti alle quali Armando Testa attinge per il suo lavoro. Lampanti appaio, per esempio, i riferimenti al Bauhaus e non meno chiari sono gli omaggi a Mondrian e Malevič come provano l’uso dei colori primari e delle forme geometriche. Anche il cinema e la fotografia sono linguaggi a cui il creativo guarda per carpire tecniche e strutture, dando così vita a opere in cui le grammatiche culturali si ibridano e incontrano i riferimenti più comuni, rendendo la quotidianità un territorio fantastico ricco di significazione.
«Armando Testa -raccontano al Mart- intuisce che il mondo sta cambiando e che i linguaggi della modernità diventano patrimonio comune, identità condivisa. Precursore assoluto, inaugura un nuovo modo di fare pubblicità, sintesi perfetta tra rappresentazione e simbolo. Tra metafore, miraggi, sogni, favole, metamorfosi, le sue creazioni concedono un’evasione dall’ovvietà del reale, rispondendo ai bisogni primari dello spettatore: divertimento, emozione, coinvolgimento».
A Rovereto trovano posto in mostra alcuni dei protagonisti più celebri dei mondi di Testa, icone inconfondibili a cui generazioni di italiani guardano con sorrisi nostalgici e che risultano una divertente scoperta per i più giovani. Dall’«Uomo moderno», ideato per egli allegri manifesti della Facis, a Carmencita e Caballero, protagonisti della pubblicità per il caffè Paulista di Lavazza, il visitatore incontra Punt e Mes per il vermut Carpano, gli sferici extra terrestri del pianeta Papalla per Philco, l’ippopotamo Pippo, gli elefanti Pirelli, i rinoceronti Esso e molto altro ancora.
La mostra propone anche presente un nucleo di opere inedite che illustra la produzione propriamente artistica di Armando Testa, portata avanti parallelamente al suo lavoro in agenzia.
L’esposizione roveretana si sofferma, nello specifico, sulle passioni iconografiche ripetute e reinterpretate durante quella che fu una lunga carriera. «L’allestimento, che include manifesti del primo periodo fortemente pittorici, quadri, fotografie, serigrafie e sculture, approfondisce – raccontano ancora dal museo roveretano- i topoi ricorrenti, come quello degli animali o quello delle dita, presentato al Mart per la prima volta in maniera unitaria.
Ricco si rivela anche il gruppo di materiali ispirati al cibo, tema a cui l’artista si dedicò fin dalla fine degli anni Sessanta, precorrendo ancora una volta i tempi».
Procedendo per suggestioni tematiche, la rassegna illustra la ricerca del pubblicitario italiano, restituendo il volto di un artista a tutto tondo la cui attività supera l’ambito della comunicazione ed entra in contatto diretto con le energie e le sperimentazioni che hanno segnato gli ultimi settant’anni.
Giochi di parole, slittamenti semantici e la chiave dell’umorismo come strumento per aprire le porte della fantasia sono tra le caratteristiche fondamentali delle numerose visioni rappresentate. Armando Testa raggiunge così tutti i pubblici, piacendo tanto ai frequentatori delle gallerie, dei musei e dei cinematografi, quanto ai consumatori meno avvezzi ai linguaggi colti. Attraverso una formidabile capacità visionaria e raffinata efficacia semiotica, l’artista rielabora stilemi e canoni della storia dell’arte e li traduce in materiale per la comunicazione di massa. Inventa mondi fantastici capaci di parlare anche ai giovani d’oggi e che fanno di lui, per usare le parole di Gillo Dorfles, un sempre attuale «(...) visualizzatore globale dei rapporti fra uomo e mondo, fra produzione e consumo, fra creatività pura e creatività finalizzata a uno scopo».
Didascalie delle immagini
[Figg. 1,2, 3 e 4] Veduta dell'allestimento della mostra «Tutti gli «ismi» di Armando Testa» al Mart di Rovereto. Fotografie di Jacopo Salvi
Informazioni utili
«Tutti gli «ismi» di Armando Testa». Mart, Corso Bettini, 43 - Rovereto. Orari: martedì-domenica, ore 10.00–18.00; venerdì, ore 10.00-21.00; lunedì chiuso. Ingresso:
intero € 11,00, ridotto gruppi, giovani dai 15 ai 26 anni e over 65 anni € 7,00, biglietto famiglia € 22,00, gratuito fino ai 14 anni e Amici del museo. Informazioni: Numero verde 800.397760 o info@mart.trento.it. Sito internet: www.mart.trento.it. Fino al 15 ottobre 2017
giovedì 27 luglio 2017
«Spartaco», la schiavitù nel mondo antico e oggi
La storia di Roma è la storia di una società, di una cultura e di un'economia essenzialmente schiaviste. Il nostro sguardo ammirato rivolto all'antico non deve nasconderci questa verità: l'impero romano e la sua organizzazione così avanzata, che in alcuni casi ha fatto parlare di proto-capitalismo, non avrebbe potuto reggersi senza lo sfruttamento, abilmente organizzato, delle capacità e della forza lavoro di milioni di individui senza libertà, senza diritti e senza proprietà, neppure quella del proprio corpo. Senza gli schiavi, motore silenzioso e quasi invisibile dell’impero, difficilmente si sarebbe sviluppato il latifondo a cultura intensiva. Il commercio non avrebbe potuto distribuire merci su scala globale solcando numerose rotte, così come l’industria tessile, le fabbriche dei laterizi, la produzione industriale della ceramica e le imprese estrattive di cava e di miniera non avrebbero potuto far fronte ai consumi delle grandi concentrazioni urbane sorte intorno al Mediterraneo. Persino il divertimento e il tempo libero –ovvero tutto quel sistema che comprendeva teatro, circo e terme– non avrebbe potuto sopravvivere senza una larga percentuale di lavoro servile. Basti pensare che stime recenti hanno calcolato la presenza tra i 6 e i 10 milioni di schiavi su una popolazione di 50-60 milioni di individui.
A questa storia rivolge la propria attenzione la mostra «Spartaco. Schiavi e padroni a Roma», ospitata fino al 17 settembre al Museo dell’Ara Pacis di Roma, che vede il coinvolgimento nella parte curatoriale di un team di archeologi, scenografi, registi e architetti, coordinato dal punto di visto scientifico da Claudio Parisi Presicce, Orietta Rossini e Lucia Spagnuolo.
Oltre duecentocinquanta reperti archeologici provenienti da importanti istituzioni italiane e straniere come il Louvre di Parigi, i Musei Vaticani, la Galleria Tretyakov di Mosca, il Maschio Angioino di Napoli e le Terme di Diocleziano (solo per fare qualche nome) ricostruiscono la complessità del mondo degli schiavi nell’antica Roma a partire dall’ultima grande rivolta guidata da Spartaco tra il 73 e il 71 a.C., una protesta che coinvolse oltre settantamila gladiatori della Scuola di Capua e che venne repressa nel sangue da una decina di legioni al comando di Crasso.
Le opere sono inserite in un racconto immersivo composto da installazioni audio e video che riportano in vita suoni, voci e ambientazioni del contesto storico, la cui regia visiva e sonora è stata curata da Roberto Andò.
Il percorso espositivo è, inoltre, arricchito da una selezione di dieci fotografie, selezionate da Alessandro Mauro di Contrasto e firmate da Lewis Hine, Philip Jones Griffith, Patrick Zachmann, Gordon Parks, Fulvio Roiter, Francesco Cocco, Peter Magubane, Mark Peterson e Selvaprakash Lakshmanan, che rappresentano forti denunce visive di forme di schiavismo dell’epoca post-industriale e contemporanea.
L’attenzione all’attualità in mostra è data anche dai contributi forniti dall’Ilo - Organizzazione internazionale del lavoro, agenzia specializzata delle Nazioni Unite nei temi della politica sociale, impegnata nell’eliminazione del lavoro servile e di altre forme di schiavitù legate al mondo del lavoro.
Il percorso si snoda attraverso undici sezioni, a partire da «Vincitori e vinti», in cui si racconta l’età delle conquiste e la riduzione in schiavitù di decine di migliaia di vinti in ogni campagna militare: 300.000 prigionieri a seguito delle guerre puniche, 30.000 dalla sola città di Taranto nel 209 a.C., 150.000 durante le razzie dell’Epiro, 40.000 arrivati dalla Sardegna nel 174 a.C., altri 50.000 da Corinto nel 146 a.C.., circa 150.000 presi tra i Cimbri e i Teutoni ai tempi di Caio Mario e, secondo alcune fonti, più di un milione, catturati dall’esercito di Giulio Cesare in Gallia.
A mantenere alto il numero degli schiavi nell’antica Roma era, fin dai tempi remoti, la loro riproduzione naturale, ovviamente favorita dai padroni, ma anche la povertà, che costringeva molti a vendere i propri figli e a farne così dei servi, o le pendenze con la legge.
Di sezione in sezione, il visitatore può scoprire, per esempio, che gli schiavi domestici -cuochi (praepositus cocorum), camerieri (ministratores), assaggiatori (praegustatores), barbieri (tonsores), pettinatrici (ornatrices), addetti al guardaroba (ad vestem) o ai gioielli (ab ornamentis) e portatori di lettighe (lecticarii)- avevano dei privilegi rispetto agli addetti ai lavori pesanti, concentrati principalmente nei campi e nelle miniere, e in alcuni casi creavano addirittura rapporti di affetto e intimità con i loro padroni.
Difficile era anche la situazione delle donne. «Prehende servam: cumvoles, uti licet», ovvero «Prenditi la schiava come vuoi, come è tuo diritto», è quanto si legge, per esempio, in un graffito pompeiano. I padroni utilizzavano, dunque, le loro serve come un bene su cui investire, mettendole incinte o favorendo il loro accoppiamento, vendendole a casa di piacere o destinandole ad ambienti particolari della propria casa, le cosiddette cellae meretricae. Non possiamo, però, escludere del tutto che talvolta le schiave-amanti acquisissero ruoli di rilievo nella vita familiare, come nel caso della schiava di Moregine, che poteva sfoggiare un dono prezioso come il bracciale d'oro serpentiforme, che riporta l’iscrizione «Dominus ancillae suae». A raccontare questo aspetto della vita servile ci sono anche le spintriae, dischi di bronzo, della dimensione di una moneta, che dovevano anche possedere un qualche valore, forse corrispondente al numero ordinale su di esse riportato.
Schiavi erano anche i professionisti dello spettacolo, a cominciare dagli aurighi e dai gladiatori, vere e proprie star del firmamento romano.
Chi calcava il palcoscenico -attori comici, tragici, mimi, cantanti e danzatori- aveva uguale la sua dose di gloria, pur facendo un lavoro considerato non rispettabile. L’affermazione del mimo, basato sulla capacità espressiva e acrobatica del singolo performer, consacrò, per esempio, nuovi idoli: ad esempio lo schiavo Publilio Siro, un contemporaneo di Giulio Cesare di grande arguzia e avvenenza, o la famosa mima Licoride, nata schiava quindi liberata, amante di grandi personalità politiche, come Marco Antonio, e amata da uno dei poeti più famosi del I secolo a.C., Cornelio Gallo.
Accanto a questi lavori che venivano bollati con il marchio di infamia ve ne erano, però, altri -oggi stimati, come quello del medico e del chirurgo- esercitati da schiavi, molto spesso greci, di particolare cultura e abilità.
La mostra documenta anche la manumissio, ovvero «la strada verso la libertà», vera e propria occasione offerta dal diritto romano agli schiavi più meritevoli e a quelli che erano riusciti, arricchendosi, a comprare la propria libertà. Si trattava, comunque, di una pratica diffusa e unica nella storia della schiavitù tanto che gli schiavi liberati, i liberti, potevano divenire a pieno titolo cittadini romani, con tutti i diritti connessi e poche limitazioni, che peraltro scomparivano per la generazione successiva. Con questa logica, paradossale, il sistema schiavistico romano metteva in moto un vero e proprio ascensore sociale su base, almeno teoricamente, meritocratica.
Interessante è anche la sezione dedicata alla schiavitù in epoca moderna, che presenta, tra l’altro, un’immagine di Fulvio Roiter, datata 1953, che ritrae dei lavoratori nella miniera di zolfo di Caltanisetta e uno scatto di Lewis H. Hine con due bambini intenti a riparare i fili spezzati di un telaio in una fabbrica tessile di Macon, in Georgia, nel 1909. Un invito a non dimenticare e a continuare e a impegnarci nella lotta contro le nuove schiavitù.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Frammento di mosaico figurato, Paris, Musée du Louvre Département des Antiquitès greques, étrusques et romaines Photo© RMN-Gran Palais (musée du Louvre)/Hervé Lewandowski; [fig. 2] Bracciale in oro con iscrizione incisa, Moregine. Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo - Soprintendenza Speciale Pompei; [fig. 3] Ritratto di auriga, Su concessione del ministero per i Beni e le Attività Culturali – Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma. Museo Nazionale Romano – Palazzo Massimo alle Terme; [fig. 4] Lanternarius addormentato, Su concessione del ministero per i Beni e le Attività culturali – Soprintendenza Speciale per i Beni archeologici di Roma. Museo Nazionale Romano – Museo delle Terme di Diocleziano; [fig. 5] Gerla per lavoro in miniera. Madrid, Museo Arqueòlogico Nacional
Informazioni utili
«Spartaco. Schiavi e padroni a Roma». Museo dell’Ara Pacis, lungotevere in Augusta – Roma. Orari: tutti i giorni, dalle ore 9.30 alle ore 19.30; la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso: intero € 11,00, ridotto € 9,00; speciale scuola ad alunno € 4,00 (ingresso gratuito a un docente accompagnatore ogni 10 alunni); speciale Famiglie € 22,00 (2 adulti più figli al di sotto dei 18 anni). Informazioni: 060608 (tutti i giorni, dalle ore 9.00 alle ore 19.00). Sito internet: www.arapacis.it, www.museiincomuneroma.it. Fino al 17 settembre 2017.
A questa storia rivolge la propria attenzione la mostra «Spartaco. Schiavi e padroni a Roma», ospitata fino al 17 settembre al Museo dell’Ara Pacis di Roma, che vede il coinvolgimento nella parte curatoriale di un team di archeologi, scenografi, registi e architetti, coordinato dal punto di visto scientifico da Claudio Parisi Presicce, Orietta Rossini e Lucia Spagnuolo.
Oltre duecentocinquanta reperti archeologici provenienti da importanti istituzioni italiane e straniere come il Louvre di Parigi, i Musei Vaticani, la Galleria Tretyakov di Mosca, il Maschio Angioino di Napoli e le Terme di Diocleziano (solo per fare qualche nome) ricostruiscono la complessità del mondo degli schiavi nell’antica Roma a partire dall’ultima grande rivolta guidata da Spartaco tra il 73 e il 71 a.C., una protesta che coinvolse oltre settantamila gladiatori della Scuola di Capua e che venne repressa nel sangue da una decina di legioni al comando di Crasso.
Le opere sono inserite in un racconto immersivo composto da installazioni audio e video che riportano in vita suoni, voci e ambientazioni del contesto storico, la cui regia visiva e sonora è stata curata da Roberto Andò.
Il percorso espositivo è, inoltre, arricchito da una selezione di dieci fotografie, selezionate da Alessandro Mauro di Contrasto e firmate da Lewis Hine, Philip Jones Griffith, Patrick Zachmann, Gordon Parks, Fulvio Roiter, Francesco Cocco, Peter Magubane, Mark Peterson e Selvaprakash Lakshmanan, che rappresentano forti denunce visive di forme di schiavismo dell’epoca post-industriale e contemporanea.
L’attenzione all’attualità in mostra è data anche dai contributi forniti dall’Ilo - Organizzazione internazionale del lavoro, agenzia specializzata delle Nazioni Unite nei temi della politica sociale, impegnata nell’eliminazione del lavoro servile e di altre forme di schiavitù legate al mondo del lavoro.
Il percorso si snoda attraverso undici sezioni, a partire da «Vincitori e vinti», in cui si racconta l’età delle conquiste e la riduzione in schiavitù di decine di migliaia di vinti in ogni campagna militare: 300.000 prigionieri a seguito delle guerre puniche, 30.000 dalla sola città di Taranto nel 209 a.C., 150.000 durante le razzie dell’Epiro, 40.000 arrivati dalla Sardegna nel 174 a.C., altri 50.000 da Corinto nel 146 a.C.., circa 150.000 presi tra i Cimbri e i Teutoni ai tempi di Caio Mario e, secondo alcune fonti, più di un milione, catturati dall’esercito di Giulio Cesare in Gallia.
A mantenere alto il numero degli schiavi nell’antica Roma era, fin dai tempi remoti, la loro riproduzione naturale, ovviamente favorita dai padroni, ma anche la povertà, che costringeva molti a vendere i propri figli e a farne così dei servi, o le pendenze con la legge.
Di sezione in sezione, il visitatore può scoprire, per esempio, che gli schiavi domestici -cuochi (praepositus cocorum), camerieri (ministratores), assaggiatori (praegustatores), barbieri (tonsores), pettinatrici (ornatrices), addetti al guardaroba (ad vestem) o ai gioielli (ab ornamentis) e portatori di lettighe (lecticarii)- avevano dei privilegi rispetto agli addetti ai lavori pesanti, concentrati principalmente nei campi e nelle miniere, e in alcuni casi creavano addirittura rapporti di affetto e intimità con i loro padroni.
Difficile era anche la situazione delle donne. «Prehende servam: cumvoles, uti licet», ovvero «Prenditi la schiava come vuoi, come è tuo diritto», è quanto si legge, per esempio, in un graffito pompeiano. I padroni utilizzavano, dunque, le loro serve come un bene su cui investire, mettendole incinte o favorendo il loro accoppiamento, vendendole a casa di piacere o destinandole ad ambienti particolari della propria casa, le cosiddette cellae meretricae. Non possiamo, però, escludere del tutto che talvolta le schiave-amanti acquisissero ruoli di rilievo nella vita familiare, come nel caso della schiava di Moregine, che poteva sfoggiare un dono prezioso come il bracciale d'oro serpentiforme, che riporta l’iscrizione «Dominus ancillae suae». A raccontare questo aspetto della vita servile ci sono anche le spintriae, dischi di bronzo, della dimensione di una moneta, che dovevano anche possedere un qualche valore, forse corrispondente al numero ordinale su di esse riportato.
Schiavi erano anche i professionisti dello spettacolo, a cominciare dagli aurighi e dai gladiatori, vere e proprie star del firmamento romano.
Chi calcava il palcoscenico -attori comici, tragici, mimi, cantanti e danzatori- aveva uguale la sua dose di gloria, pur facendo un lavoro considerato non rispettabile. L’affermazione del mimo, basato sulla capacità espressiva e acrobatica del singolo performer, consacrò, per esempio, nuovi idoli: ad esempio lo schiavo Publilio Siro, un contemporaneo di Giulio Cesare di grande arguzia e avvenenza, o la famosa mima Licoride, nata schiava quindi liberata, amante di grandi personalità politiche, come Marco Antonio, e amata da uno dei poeti più famosi del I secolo a.C., Cornelio Gallo.
Accanto a questi lavori che venivano bollati con il marchio di infamia ve ne erano, però, altri -oggi stimati, come quello del medico e del chirurgo- esercitati da schiavi, molto spesso greci, di particolare cultura e abilità.
La mostra documenta anche la manumissio, ovvero «la strada verso la libertà», vera e propria occasione offerta dal diritto romano agli schiavi più meritevoli e a quelli che erano riusciti, arricchendosi, a comprare la propria libertà. Si trattava, comunque, di una pratica diffusa e unica nella storia della schiavitù tanto che gli schiavi liberati, i liberti, potevano divenire a pieno titolo cittadini romani, con tutti i diritti connessi e poche limitazioni, che peraltro scomparivano per la generazione successiva. Con questa logica, paradossale, il sistema schiavistico romano metteva in moto un vero e proprio ascensore sociale su base, almeno teoricamente, meritocratica.
Interessante è anche la sezione dedicata alla schiavitù in epoca moderna, che presenta, tra l’altro, un’immagine di Fulvio Roiter, datata 1953, che ritrae dei lavoratori nella miniera di zolfo di Caltanisetta e uno scatto di Lewis H. Hine con due bambini intenti a riparare i fili spezzati di un telaio in una fabbrica tessile di Macon, in Georgia, nel 1909. Un invito a non dimenticare e a continuare e a impegnarci nella lotta contro le nuove schiavitù.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Frammento di mosaico figurato, Paris, Musée du Louvre Département des Antiquitès greques, étrusques et romaines Photo© RMN-Gran Palais (musée du Louvre)/Hervé Lewandowski; [fig. 2] Bracciale in oro con iscrizione incisa, Moregine. Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo - Soprintendenza Speciale Pompei; [fig. 3] Ritratto di auriga, Su concessione del ministero per i Beni e le Attività Culturali – Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma. Museo Nazionale Romano – Palazzo Massimo alle Terme; [fig. 4] Lanternarius addormentato, Su concessione del ministero per i Beni e le Attività culturali – Soprintendenza Speciale per i Beni archeologici di Roma. Museo Nazionale Romano – Museo delle Terme di Diocleziano; [fig. 5] Gerla per lavoro in miniera. Madrid, Museo Arqueòlogico Nacional
«Spartaco. Schiavi e padroni a Roma». Museo dell’Ara Pacis, lungotevere in Augusta – Roma. Orari: tutti i giorni, dalle ore 9.30 alle ore 19.30; la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso: intero € 11,00, ridotto € 9,00; speciale scuola ad alunno € 4,00 (ingresso gratuito a un docente accompagnatore ogni 10 alunni); speciale Famiglie € 22,00 (2 adulti più figli al di sotto dei 18 anni). Informazioni: 060608 (tutti i giorni, dalle ore 9.00 alle ore 19.00). Sito internet: www.arapacis.it, www.museiincomuneroma.it. Fino al 17 settembre 2017.
martedì 25 luglio 2017
«L’offensiva su carta», la Grande guerra raccontata dal Fondo Luxardo
Con i suoi cinquemilasettecento pezzi tra giornali, periodici, bollettini, manifesti, volantini e pubblicazioni relativi alla Grande Guerra, il Fondo Luxardo, conservato nei Civici musei udinesi, è tra i più importati al mondo per ripercorrere la storia della prima guerra mondiale attraverso il linguaggio dell’arte e della comunicazione. Si rivela, dunque, preziosa la mostra «L’offensiva su carta», allestita negli spazi dell’istituzione friulana per la curatela di Giovanna Durì, Luca Giuliani e Anna Villari, che si sono avvalsi dell’aiuto di Sara Codutti e Fernando Orlandi. La rassegna, visibile fino al 7 gennaio, non si limita a presentare i soli materiali della Luxardo, utili anche per ricostruire il costume e la storia dell’arte di quel periodo storico, ma si estende al cinema d’epoca per arrivare ad illustratori contemporanei quali Hugo Pratt e Gipi.
Anna Villari, che di questa ricognizione storico artistica sui tesori della Luxardo è la responsabile, evidenzia come «l’illustrazione e la grafica italiane degli anni della Prima guerra mondiale, sulla scia di studi passati e anche delle diverse occasioni espositive legate alla ricorrenza del centenario, continuino a rivelarsi un settore particolarmente ‘generoso’ e ancora in parte inesplorato, sia nella quantità e varietà dei materiali che nella analisi e riflessione critica».
Quando l’Italia entra in guerra, dal punto di vista artistico si stanno ancora assaporando le delizie e i compiacimenti del gusto art nouveau, con l’eleganza del segno e la leggerezza delle atmosfere come chiavi di volta. In un versante culturale più raffinato ed esclusivo, l’inizio del secolo vede anche il manifestarsi di un altro e ben diverso versante espressivo, attraversato e da inquiete correnti tardo simboliste, in parte vicine a influenze mitteleuropee e secessioniste, e da fermenti futuristi e d’avanguardia, ancor più audaci e rivoluzionari. Allo scoppiare della guerra, sia le raffinate atmosfere Liberty sia le più innovative sperimentazioni avanguardiste, appaiono improvvisamente inadeguate a comunicare attraverso i vecchi e nuovi canali della illustrazione popolare, ora utilissimo veicolo di propaganda per parlare, con un linguaggio efficace e insieme rassicurante, tanto ai soldati che alla popolazione, sempre più invitata a sostenere, emotivamente e economicamente, il conflitto in corso. Questo avviene in misura ancora maggiore durante l’ultimo anno di guerra, quando l’istituzione da parte dello Stato maggiore dell’Esercito di un apposito servizio dedicato alla propaganda si preoccupa di confortare e rinvigorire la fede patriottica delle truppe anche attraverso la diffusione di giornali illustrati.
Ma come rispondono a questa nuova urgenza gli artisti e i professionisti dell’illustrazione, coinvolti e chiamati a comunicare, in un certo senso anche a vendere, la guerra? Molti degli illustratori attivi nelle redazioni di riviste come «San Marco», «La Trincea», «La Tradotta», «Il Montello», «La Ghirba» e «Signorsì» provengono dal mondo della grafica editoriale, dei giornali e dell’illustrazione di libri per l’infanzia, un genere che si era sempre più consolidato nell’Italia post risorgimentale, e il cui stile ora appariva utile per sostenere il carattere eminentemente educativo delle attività coordinate dal cosiddetto «Servizio P», che vedeva tra le fila dei suoi intellettuali e animatori un pedagogista del calibro di Giuseppe Lombardo Radice. La vocazione edificante, i toni di monito, incitamento, scherzoso supporto psicologico usati di volta in volta nelle diverse rubriche, negli articoli e, in modo ancora più immediato e empatico, attraverso le immagini, erano del resto dopo Caporetto chiare direttive dello Stato maggiore, e obiettivo primario dei giornali destinati ai soldati.
Uno stile giocoso e fantastico ereditato da quel mondo e il ricorso a caricature e deformazioni satiriche che rappresentano appena una leggera evoluzione di gusto rispetto a ciò che si ritrova nei giornali del tardo Ottocento caratterizzano questa fase comunicativa, nella quale emergono nuove esperienze figurative come quelle di Umberto Brunelleschi e Antonio Rubino.
In mostra è possibile vedere anche vignette pressoché sconosciute del grande cartellonista Leonetto Cappiello e le produzioni di autori meno noti al grande pubblico come Enrico Sacchetti, Filiberto Mateldi, Bruno Angoletta e Primo Sinopico. Sono esposte anche le prime prove pubbliche di giovanissimi soldati come Giorgio De Chirico, Carlo Carrà e Ardengo Soffici, che pubblicano sulla rivista «La Ghirba», ma anche i lavori di Mario Sironi, autore qui di vignette dai tratti brutali e dai toni scurissimi e tetri che saranno propri della sua successiva produzione, e del poeta paroliberista Francesco Cangiullo.
Mentre sulla «Trincea» e sul «Signorsì» è protagonista il disturbante e poco classificabile Aroldo Bonzagni, illustratore sospeso tra un simbolismo «maledetto» e un crudo realismo di matrice quasi espressionista,già firmatario nel 1910 del Manifesto dei pittori futuristi.
«Dalle migliaia di illustrazioni e vignette pubblicate in quei mesi di guerra, dalle decine e decine di nomi di artisti più o meno noti al pubblico, emerge, dunque, una varietà e ricchezza di esiti e ricerche che rende singolarmente feconda l’esperienza della illustrazione di guerra, -afferma ancora Anna Villani- e il Fondo Luxardo una miniera di materiali e di fonti il cui interesse e il cui valore figurativo e di testimonianza superano la contingenza storica per arrivare – intatti – fino a noi».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Luigi Daniele Crespi, «Cravatte», copertina de «La Trincea», n.35 (ultimo numero), 16 gennaio 1919; [fig. 2] Antonio Rubino, «L’ardito si diverte», «La Tradotta», n.18, 15 ottobre 1918; [fig. 3] Ardengo Soffici, «Trecentomila morti in un mese Generale!... » , copertina de «La Ghirba», n.3, 21 aprile 1918[fgi. 4] Leonetto Cappiello, «L’uragano dell’ovest», «Sempre avanti», 1918, n. 8, 27 ottobre 1918
Informazioni utili
«L’offensiva su carta». Musei civici udinesi - Castello di Udine, piazzale del Castello, 1 - Udine. Orari: fino al 30 aprile 2017 e dal 1° ottobre 2017, da martedì a domenica, dalle ore 10.30 alle ore 17.00; dal 1° maggio al 30 settembre 2017, da martedì a domenica, dalle ore 10.30 alle ore 19.00; chiuso il lunedì. Ingresso: intero € 8,00, ridotto € 4,00. Informazioni utili: tel. 0432.1272591 o civici.musei@comune.udine.it. Fino al 7 gennaio 2018.
Anna Villari, che di questa ricognizione storico artistica sui tesori della Luxardo è la responsabile, evidenzia come «l’illustrazione e la grafica italiane degli anni della Prima guerra mondiale, sulla scia di studi passati e anche delle diverse occasioni espositive legate alla ricorrenza del centenario, continuino a rivelarsi un settore particolarmente ‘generoso’ e ancora in parte inesplorato, sia nella quantità e varietà dei materiali che nella analisi e riflessione critica».
Quando l’Italia entra in guerra, dal punto di vista artistico si stanno ancora assaporando le delizie e i compiacimenti del gusto art nouveau, con l’eleganza del segno e la leggerezza delle atmosfere come chiavi di volta. In un versante culturale più raffinato ed esclusivo, l’inizio del secolo vede anche il manifestarsi di un altro e ben diverso versante espressivo, attraversato e da inquiete correnti tardo simboliste, in parte vicine a influenze mitteleuropee e secessioniste, e da fermenti futuristi e d’avanguardia, ancor più audaci e rivoluzionari. Allo scoppiare della guerra, sia le raffinate atmosfere Liberty sia le più innovative sperimentazioni avanguardiste, appaiono improvvisamente inadeguate a comunicare attraverso i vecchi e nuovi canali della illustrazione popolare, ora utilissimo veicolo di propaganda per parlare, con un linguaggio efficace e insieme rassicurante, tanto ai soldati che alla popolazione, sempre più invitata a sostenere, emotivamente e economicamente, il conflitto in corso. Questo avviene in misura ancora maggiore durante l’ultimo anno di guerra, quando l’istituzione da parte dello Stato maggiore dell’Esercito di un apposito servizio dedicato alla propaganda si preoccupa di confortare e rinvigorire la fede patriottica delle truppe anche attraverso la diffusione di giornali illustrati.
Ma come rispondono a questa nuova urgenza gli artisti e i professionisti dell’illustrazione, coinvolti e chiamati a comunicare, in un certo senso anche a vendere, la guerra? Molti degli illustratori attivi nelle redazioni di riviste come «San Marco», «La Trincea», «La Tradotta», «Il Montello», «La Ghirba» e «Signorsì» provengono dal mondo della grafica editoriale, dei giornali e dell’illustrazione di libri per l’infanzia, un genere che si era sempre più consolidato nell’Italia post risorgimentale, e il cui stile ora appariva utile per sostenere il carattere eminentemente educativo delle attività coordinate dal cosiddetto «Servizio P», che vedeva tra le fila dei suoi intellettuali e animatori un pedagogista del calibro di Giuseppe Lombardo Radice. La vocazione edificante, i toni di monito, incitamento, scherzoso supporto psicologico usati di volta in volta nelle diverse rubriche, negli articoli e, in modo ancora più immediato e empatico, attraverso le immagini, erano del resto dopo Caporetto chiare direttive dello Stato maggiore, e obiettivo primario dei giornali destinati ai soldati.
Uno stile giocoso e fantastico ereditato da quel mondo e il ricorso a caricature e deformazioni satiriche che rappresentano appena una leggera evoluzione di gusto rispetto a ciò che si ritrova nei giornali del tardo Ottocento caratterizzano questa fase comunicativa, nella quale emergono nuove esperienze figurative come quelle di Umberto Brunelleschi e Antonio Rubino.
In mostra è possibile vedere anche vignette pressoché sconosciute del grande cartellonista Leonetto Cappiello e le produzioni di autori meno noti al grande pubblico come Enrico Sacchetti, Filiberto Mateldi, Bruno Angoletta e Primo Sinopico. Sono esposte anche le prime prove pubbliche di giovanissimi soldati come Giorgio De Chirico, Carlo Carrà e Ardengo Soffici, che pubblicano sulla rivista «La Ghirba», ma anche i lavori di Mario Sironi, autore qui di vignette dai tratti brutali e dai toni scurissimi e tetri che saranno propri della sua successiva produzione, e del poeta paroliberista Francesco Cangiullo.
Mentre sulla «Trincea» e sul «Signorsì» è protagonista il disturbante e poco classificabile Aroldo Bonzagni, illustratore sospeso tra un simbolismo «maledetto» e un crudo realismo di matrice quasi espressionista,già firmatario nel 1910 del Manifesto dei pittori futuristi.
«Dalle migliaia di illustrazioni e vignette pubblicate in quei mesi di guerra, dalle decine e decine di nomi di artisti più o meno noti al pubblico, emerge, dunque, una varietà e ricchezza di esiti e ricerche che rende singolarmente feconda l’esperienza della illustrazione di guerra, -afferma ancora Anna Villani- e il Fondo Luxardo una miniera di materiali e di fonti il cui interesse e il cui valore figurativo e di testimonianza superano la contingenza storica per arrivare – intatti – fino a noi».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Luigi Daniele Crespi, «Cravatte», copertina de «La Trincea», n.35 (ultimo numero), 16 gennaio 1919; [fig. 2] Antonio Rubino, «L’ardito si diverte», «La Tradotta», n.18, 15 ottobre 1918; [fig. 3] Ardengo Soffici, «Trecentomila morti in un mese Generale!... » , copertina de «La Ghirba», n.3, 21 aprile 1918[fgi. 4] Leonetto Cappiello, «L’uragano dell’ovest», «Sempre avanti», 1918, n. 8, 27 ottobre 1918
Informazioni utili
«L’offensiva su carta». Musei civici udinesi - Castello di Udine, piazzale del Castello, 1 - Udine. Orari: fino al 30 aprile 2017 e dal 1° ottobre 2017, da martedì a domenica, dalle ore 10.30 alle ore 17.00; dal 1° maggio al 30 settembre 2017, da martedì a domenica, dalle ore 10.30 alle ore 19.00; chiuso il lunedì. Ingresso: intero € 8,00, ridotto € 4,00. Informazioni utili: tel. 0432.1272591 o civici.musei@comune.udine.it. Fino al 7 gennaio 2018.
domenica 23 luglio 2017
Piranesi e le antichità romane
«È così pieno dell'aria, del cielo, del suolo di Roma, da ritrarla con prodigiosa fedeltà e da farla comparire come per incanto innanzi agli occhi di chi non l'ha ancora veduta». È ben raccontato in queste parole dello scrittore Giuseppe Rovani l'innamoramento a prima vista per la Città Eterna del giovane Giovan Battista Piranesi (Mogliano Veneto, 4 ottobre 1720 – Roma, 9 novembre 1778), qui giunto a soli vent'anni, nel 1740, al seguito dell'ambasciatore veneziano Francesco Venier. Con le «parlanti ruine» dell’Urbe l’architetto veneto instaura subito un dialogo personalissimo: le analizza, le studia, le reinventa dando vita a una miriade di strepitose opere grafiche che cristallizzano nel tempo la grandezza dell’antico passato capitolino.
Il Ponte e Castel Sant’Angelo, piazza di Spagna, il Campidoglio e la sua scalinata, il Pantheon, le grandi basiliche cittadine, il porto di Ripetta con i velieri che navigano lungo il Tevere: sono solo alcune delle bellezze architettoniche che l’artista fissa in un numero impensabile di schizzi, disegni, incisioni e acqueforti con l’intento di tutelare e salvaguardare la memoria di un mondo che sta scomparendo ed è sempre più al centro di quel viaggio di iniziazione e crescita culturale che è il Grand Tour internazionale.
È lo stesso Giovan Battista Piranesi a parlare, nel 1756, di questo suo intento documentarista: «vedendo che i resti degli antichi edifici di Roma, sparsi in gran parte negli orti e in altri luoghi coltivati, -si legge nel volume «Antichità romane»- diminuiscono giorno per giorno o per l’ingiuria del tempo o per l’avarizia dei proprietari che con barbara licenza li distruggono clandestinamente e ne vendono i pezzi per costruire edifici moderni, ho deciso di fissarli nelle mie stampe».
Quelle stesse stampe, dalle ardite visioni prospettiche e dai volenti effetti luministici, sono al centro della mostra «Piranesi. La fabbrica dell’utopia», a cura di Luigi Ficacci e Simonetta Tozzi, allestita fino al 15 ottobre a Roma, negli spazi di Palazzo Braschi.
Si tratta di oltre duecento opere grafiche, equamente ripartite tra la Fondazione Giorgio Cini di Venezia e le collezioni del museo romano, che ricostruiscono la parabola creativa di questo importante artista settecentesco, noto per aver applicato la matrice vedutistica della propria formazione veneta a una forte passione per l’archeologia e le antichità romane, delle quali rivendica la superiorità sia su quella dei barbari, sostenuta dall'inglese Ramsay, sia su quella greca, sostenuta dal tedesco Johann Joachim Winckelmann. Accanto a questi lavori grafici sono esposti anche i marmi, oggi conservati nelle collezioni della Sovrintendenza capitolina, derivati dalla celebre Forma Urbis severiana, la prima pianta di Roma fatta scolpire su pietra da Settimio Severo, che Giovan Battista Piranesi tentò di ricostruire nella sua originaria composizione. A completamento della mostra è, inoltre, possibile vedere delle immagini fotografiche di Andrea Jemolo dell’unica ed effettiva realizzazione architettonica lasciataci dall’artista veneto, ovvero la chiesa di S. Maria del Priorato, in cima al colle Aventino.
Tra le serie grafiche, il percorso espositivo, del quale rimarrà documentazione in un catalogo di De Luca editori d’arte, vede esposte, nello specifico, le grandi «Vedute di Roma», dalle amplificate prospettive architettoniche, i fantasiosi «Capricci», eseguiti ancora sotto l’influsso di Tiepolo, le celeberrime e suggestive visioni della serie delle «Carceri», fino alle varie raccolte di antichità romane, rese con prospettive fedeli, quasi fotograficamente perfette e attente ai più minuti dettagli.
Dalla Fondazione Cini provengono, inoltre, le realizzazioni tridimensionali di alcune invenzioni piranesiane mai realizzate e ricavate dal ricchissimo repertorio delle «Diverse Maniere di adornare i Cammini» (1769) o di alcuni pezzi antichi, riprodotti e divulgati da Piranesi nella serie dei «Vasi candelabri cippi sarcofagi tripodi…» (1978), come il celeberrimo tripode del Tempio di Iside a Pompei, vero e proprio masterpiece dell’arredo neoclassico e Impero. Le ri-creazioni piranesiane tridimensionali sono state realizzate dall’Atelier Factum Arte di Madrid, diretto da Adam Lowe, tramite modellazione in 3D e procedimento stereolitografico, in occasione della mostra «Le arti di Piranesi. Architetto, incisore, antiquario, vedutista, designer», organizzata dalla Fondazione Giorgio Cini nel 2010.
Dall’intera mostra emerge il volto di un artista che, stando alle parole di Luigi Ficacci, «fu un innovatore decisivo per la storia dell’acquaforte e tale è riconosciuto, nello specifico scientifico: il suo lessico calcografico, per l’inedita varietà tonale delle morsure e gli effetti dell’inchiostrazione, così come per la sconosciuta qualità del cromatismo grafico, produssero conseguenze determinanti presso le individualità artistiche che, nei secoli e fino all’attualità, vi si riferirono, restandone segnate secondo modalità assolutamente proprie e spesso non coincidenti con lo sviluppo storico complessivo della storia del gusto».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Giovanni Battista Piranesi Mausoleo di Cecilia Metella, 1762, acquaforte, Museo di Roma; [Fig. 2] Giovanni Battista Piranesi , Veduta del Campidoglio e di S. Maria d'Aracoeli,1746-1748, acquaforte, Museo di Roma; [fig.3] Giovanni Battista Piranesi, Basilica di San Sebastiano, 1750-1760, acquaforte, Museo di Roma; [fig. 4] Foto di Andrea Jemolo, Tempio di Giano, da Vedute di Roma, 1745-1778
Informazioni utili
«Piranesi. La fabbrica dell’utopia». Museo di Roma - Palazzo Braschi, piazza Navona, 2 o piazza San Pantaleo, 10 – Roma. Orari: dal martedì alla domenica, dalle ore 10.00 alle ore 19.00 (la biglietteria chiude alle ore 18.00); chiuso il lunedì. Ingresso (solo alla mostra): intero € 9,00; ridotto € 7,00; speciale scuola € 4,00 ad alunno (ingresso gratuito ad un docente accompagnatore ogni 10 alunni); speciale famiglia € 22,00 (2 adulti più figli al di sotto dei 18 anni); per altre tariffe è possibile consultare il sito www.museodiroma.it. Informazioni: tel. 060608 (tutti i giorni ore 9.00 - 19.00). Sito internet: www.museodiroma.it. Fino al 15 ottobre 2017.
Il Ponte e Castel Sant’Angelo, piazza di Spagna, il Campidoglio e la sua scalinata, il Pantheon, le grandi basiliche cittadine, il porto di Ripetta con i velieri che navigano lungo il Tevere: sono solo alcune delle bellezze architettoniche che l’artista fissa in un numero impensabile di schizzi, disegni, incisioni e acqueforti con l’intento di tutelare e salvaguardare la memoria di un mondo che sta scomparendo ed è sempre più al centro di quel viaggio di iniziazione e crescita culturale che è il Grand Tour internazionale.
È lo stesso Giovan Battista Piranesi a parlare, nel 1756, di questo suo intento documentarista: «vedendo che i resti degli antichi edifici di Roma, sparsi in gran parte negli orti e in altri luoghi coltivati, -si legge nel volume «Antichità romane»- diminuiscono giorno per giorno o per l’ingiuria del tempo o per l’avarizia dei proprietari che con barbara licenza li distruggono clandestinamente e ne vendono i pezzi per costruire edifici moderni, ho deciso di fissarli nelle mie stampe».
Quelle stesse stampe, dalle ardite visioni prospettiche e dai volenti effetti luministici, sono al centro della mostra «Piranesi. La fabbrica dell’utopia», a cura di Luigi Ficacci e Simonetta Tozzi, allestita fino al 15 ottobre a Roma, negli spazi di Palazzo Braschi.
Si tratta di oltre duecento opere grafiche, equamente ripartite tra la Fondazione Giorgio Cini di Venezia e le collezioni del museo romano, che ricostruiscono la parabola creativa di questo importante artista settecentesco, noto per aver applicato la matrice vedutistica della propria formazione veneta a una forte passione per l’archeologia e le antichità romane, delle quali rivendica la superiorità sia su quella dei barbari, sostenuta dall'inglese Ramsay, sia su quella greca, sostenuta dal tedesco Johann Joachim Winckelmann. Accanto a questi lavori grafici sono esposti anche i marmi, oggi conservati nelle collezioni della Sovrintendenza capitolina, derivati dalla celebre Forma Urbis severiana, la prima pianta di Roma fatta scolpire su pietra da Settimio Severo, che Giovan Battista Piranesi tentò di ricostruire nella sua originaria composizione. A completamento della mostra è, inoltre, possibile vedere delle immagini fotografiche di Andrea Jemolo dell’unica ed effettiva realizzazione architettonica lasciataci dall’artista veneto, ovvero la chiesa di S. Maria del Priorato, in cima al colle Aventino.
Tra le serie grafiche, il percorso espositivo, del quale rimarrà documentazione in un catalogo di De Luca editori d’arte, vede esposte, nello specifico, le grandi «Vedute di Roma», dalle amplificate prospettive architettoniche, i fantasiosi «Capricci», eseguiti ancora sotto l’influsso di Tiepolo, le celeberrime e suggestive visioni della serie delle «Carceri», fino alle varie raccolte di antichità romane, rese con prospettive fedeli, quasi fotograficamente perfette e attente ai più minuti dettagli.
Dalla Fondazione Cini provengono, inoltre, le realizzazioni tridimensionali di alcune invenzioni piranesiane mai realizzate e ricavate dal ricchissimo repertorio delle «Diverse Maniere di adornare i Cammini» (1769) o di alcuni pezzi antichi, riprodotti e divulgati da Piranesi nella serie dei «Vasi candelabri cippi sarcofagi tripodi…» (1978), come il celeberrimo tripode del Tempio di Iside a Pompei, vero e proprio masterpiece dell’arredo neoclassico e Impero. Le ri-creazioni piranesiane tridimensionali sono state realizzate dall’Atelier Factum Arte di Madrid, diretto da Adam Lowe, tramite modellazione in 3D e procedimento stereolitografico, in occasione della mostra «Le arti di Piranesi. Architetto, incisore, antiquario, vedutista, designer», organizzata dalla Fondazione Giorgio Cini nel 2010.
Dall’intera mostra emerge il volto di un artista che, stando alle parole di Luigi Ficacci, «fu un innovatore decisivo per la storia dell’acquaforte e tale è riconosciuto, nello specifico scientifico: il suo lessico calcografico, per l’inedita varietà tonale delle morsure e gli effetti dell’inchiostrazione, così come per la sconosciuta qualità del cromatismo grafico, produssero conseguenze determinanti presso le individualità artistiche che, nei secoli e fino all’attualità, vi si riferirono, restandone segnate secondo modalità assolutamente proprie e spesso non coincidenti con lo sviluppo storico complessivo della storia del gusto».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Giovanni Battista Piranesi Mausoleo di Cecilia Metella, 1762, acquaforte, Museo di Roma; [Fig. 2] Giovanni Battista Piranesi , Veduta del Campidoglio e di S. Maria d'Aracoeli,1746-1748, acquaforte, Museo di Roma; [fig.3] Giovanni Battista Piranesi, Basilica di San Sebastiano, 1750-1760, acquaforte, Museo di Roma; [fig. 4] Foto di Andrea Jemolo, Tempio di Giano, da Vedute di Roma, 1745-1778
Informazioni utili
«Piranesi. La fabbrica dell’utopia». Museo di Roma - Palazzo Braschi, piazza Navona, 2 o piazza San Pantaleo, 10 – Roma. Orari: dal martedì alla domenica, dalle ore 10.00 alle ore 19.00 (la biglietteria chiude alle ore 18.00); chiuso il lunedì. Ingresso (solo alla mostra): intero € 9,00; ridotto € 7,00; speciale scuola € 4,00 ad alunno (ingresso gratuito ad un docente accompagnatore ogni 10 alunni); speciale famiglia € 22,00 (2 adulti più figli al di sotto dei 18 anni); per altre tariffe è possibile consultare il sito www.museodiroma.it. Informazioni: tel. 060608 (tutti i giorni ore 9.00 - 19.00). Sito internet: www.museodiroma.it. Fino al 15 ottobre 2017.
venerdì 21 luglio 2017
Call for Artist, nel Nord-est interventi site-specific per la valorizzazione territoriale
Lupi disegnati, scolpiti, grafitati o riprodotti in installazioni: ecco quanto cerca il concorso di idee «Lupi in città!» lanciato dal Muse di Trento, in collaborazione con il Mart di Rovereto e Palazzo Strozzi di Firenze, per «Life Wolfalps», progetto cofinanziato dall’Unione Europea nell’ambito della programmazione «Life+ 2007-2013», con l’intento di realizzare azioni coordinate per la conservazione a lungo termine della popolazione alpina del lupo.
Il bando, la cui scadenza è fissata al 1° settembre, richiede la presentazione di progetti artistici che declinino il rapporto uomo-lupo o che individuino strategie funzionali ad assicurare una convivenza stabile tra il lupo e le attività economiche tradizionali, sia nei territori dove questo animale è già presente da tempo, sia nelle zone in cui il processo di naturale ricolonizzazione è attualmente in corso.
Le opere d'arte/installazioni ispirate ai contenuti e agli obiettivi del progetto selezionate, in tutto otto, verranno esposte a partire dal tardo autunno nel centro storico di Trento, en plein air. La loro realizzazione sarà preceduta da un primo periodo di residenza degli artisti al Muse.
Nella prima fase di selezione, non si richiede l’invio di progetti di opere dettagliati o specifici. Si richiede, invece, l’invio di materiali che contengano le linee guida secondo le quali i candidati intendono sviluppare le loro opere. Le idee progettuali inviate dovranno essere decontestualizzate (non ideate, dunque, per essere esposte in un luogo specifico). La scelta delle opere d’arte avverrà nell’ottica di una successiva itineranza della mostra.
Possono partecipare alla selezione artisti italiani che, al momento della presentazione della domanda, non abbiano compiuto i quaranta anni di età. Street art, videoarte, new media art, scultura, pittura, disegno e installazione sono le discipline ammesse. La giuria sarà formata da un rappresentante per ciascun ente coinvolto nel progetto, affiancati da Adriana Polveroni e Arturo Galansino.
Un premio per la valorizzazione territoriale è stato lanciato anche da Ca’ Corniani, la storica tenuta di Genagricola che con i suoi millesettecento ettari di estensione nell’entroterra di Caorle, in provincia di Venezia, è una delle più grandi aziende agricole italiane. Il bando, a invito e a cura di Eight Art Project, vedrà cinque artisti europei invitati Elena Tettamanti e Antonella Soldaini -Monica Bonvicini, Alberto Garutti, Carsten Höller, Tobias Rehberger e Remo Salvadori- a ideare per i tre punti di accesso della residenza veneta altrettanti interventi site-specific con l’obiettivo di raccontare la ricchezza di quest’area dalla vocazione fortemente agricola e produttiva.
Gli artisti invitati ragioneranno sul concetto di soglia, a partire dagli ingressi via terra e via acqua alla tenuta: tre Soglie, fisiche e simboliche, il cui significato è da interpretare nell’accezione data da Robert Venturi di «punto di tensione tra due polarità».
La cerimonia di premiazione è prevista per il 12 ottobre negli spazi della Triennale di Milano; mentre il progetto vincitore -selezionato da una giuria composta, tra gli altri, da Gabriella Belli, Beatrice Merz, Pippo Ciorra e Vicente Todolì- verrà inaugurato nel maggio 2018, in occasione della sedicesima Mostra internazionale di architettura della Biennale di Venezia.
Informazioni utili
«Lupi in città!». Informazioni e bando completo su www.muse.it e www.lifewolfalps.eu. Deadline: 1° settembre 2017
«Tre soglie». Concorso ad invito. Informazioni e bando completo su cacorniani.genagricola.it/. Premiazione: 12 ottobre 2017
Il bando, la cui scadenza è fissata al 1° settembre, richiede la presentazione di progetti artistici che declinino il rapporto uomo-lupo o che individuino strategie funzionali ad assicurare una convivenza stabile tra il lupo e le attività economiche tradizionali, sia nei territori dove questo animale è già presente da tempo, sia nelle zone in cui il processo di naturale ricolonizzazione è attualmente in corso.
Le opere d'arte/installazioni ispirate ai contenuti e agli obiettivi del progetto selezionate, in tutto otto, verranno esposte a partire dal tardo autunno nel centro storico di Trento, en plein air. La loro realizzazione sarà preceduta da un primo periodo di residenza degli artisti al Muse.
Nella prima fase di selezione, non si richiede l’invio di progetti di opere dettagliati o specifici. Si richiede, invece, l’invio di materiali che contengano le linee guida secondo le quali i candidati intendono sviluppare le loro opere. Le idee progettuali inviate dovranno essere decontestualizzate (non ideate, dunque, per essere esposte in un luogo specifico). La scelta delle opere d’arte avverrà nell’ottica di una successiva itineranza della mostra.
Possono partecipare alla selezione artisti italiani che, al momento della presentazione della domanda, non abbiano compiuto i quaranta anni di età. Street art, videoarte, new media art, scultura, pittura, disegno e installazione sono le discipline ammesse. La giuria sarà formata da un rappresentante per ciascun ente coinvolto nel progetto, affiancati da Adriana Polveroni e Arturo Galansino.
Un premio per la valorizzazione territoriale è stato lanciato anche da Ca’ Corniani, la storica tenuta di Genagricola che con i suoi millesettecento ettari di estensione nell’entroterra di Caorle, in provincia di Venezia, è una delle più grandi aziende agricole italiane. Il bando, a invito e a cura di Eight Art Project, vedrà cinque artisti europei invitati Elena Tettamanti e Antonella Soldaini -Monica Bonvicini, Alberto Garutti, Carsten Höller, Tobias Rehberger e Remo Salvadori- a ideare per i tre punti di accesso della residenza veneta altrettanti interventi site-specific con l’obiettivo di raccontare la ricchezza di quest’area dalla vocazione fortemente agricola e produttiva.
Gli artisti invitati ragioneranno sul concetto di soglia, a partire dagli ingressi via terra e via acqua alla tenuta: tre Soglie, fisiche e simboliche, il cui significato è da interpretare nell’accezione data da Robert Venturi di «punto di tensione tra due polarità».
La cerimonia di premiazione è prevista per il 12 ottobre negli spazi della Triennale di Milano; mentre il progetto vincitore -selezionato da una giuria composta, tra gli altri, da Gabriella Belli, Beatrice Merz, Pippo Ciorra e Vicente Todolì- verrà inaugurato nel maggio 2018, in occasione della sedicesima Mostra internazionale di architettura della Biennale di Venezia.
Informazioni utili
«Lupi in città!». Informazioni e bando completo su www.muse.it e www.lifewolfalps.eu. Deadline: 1° settembre 2017
«Tre soglie». Concorso ad invito. Informazioni e bando completo su cacorniani.genagricola.it/. Premiazione: 12 ottobre 2017
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