ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

lunedì 25 giugno 2018

Pisa rende omaggio alla storia della sua ceramica

Quattro sedi espositive e oltre cinquecento pezzi per un omaggio alla ceramica pisana, che prevede anche percorsi guidati in città e sul territorio alla scoperta di inediti palazzi, chiese decorate da bacini ceramici, esempi di archeologia industriale e ceramisti ancora in attività: si presenta così la mostra «Pisa città della ceramica. Mille anni di economia e di arte, dalle importazioni mediterranee alle creazioni contemporanee», che rilegge un intero territorio, avanguardia nella tecnica destinata a cambiare le abitudini dell’Ottocento, cominciando dalla tavola per passare al resto.
Il cuore della rassegna è al Centro espositivo San Michele degli Scalzi (in viale delle Piagge), adiacente ai resti dell’ultimo baluardo della produzione in città, la fabbrica della Richard Ginori. L’allestimento si snoda nei locali disposti intorno all’antico chiostro, con vista sul campanile decorato dai bacini ceramici, ripercorrendo la storia di una produzione manifatturiera e artistica che ha caratterizzato Pisa e il suo territorio a livello nazionale e internazionale dal primo medioevo sino al XX secolo. Tra postazioni tattili, video e gigantografie d’impatto, è possibile approfondire le tecniche utilizzate prima dell’anno Mille, l’espansione del settore lungo il fiume Arno prima e sulle rotte del Mediterraneo poi, fino all’età industriale.
L’arte pisana della ceramica, nata già in età antica, affonda, infatti, le radici del suo sviluppo nelle importazioni via mare da aree islamiche e bizantine. In principio furono le Maioliche, manufatti realizzati prevalentemente per uso alimentare, con coperture vetrificate colorate, chiamate così per la provenienza dall’Isola di Maiorca. Acquisite le tecniche, all’inizio del Duecento i ceramisti pisani, primi in Toscana e tra i primi in Italia, avviano un’eccellente produzione di ceramica decorata. Ben presto gli allievi pisani superano i maestri spagnoli cominciando ad esportare in tutto il bacino del Mediterraneo. Rinnovatasi nel corso dei secoli, la produzione ceramica pisana si espande fino all’Ottocento, conquistando l’Europa e le Americhe.
Di epoca più recente la nascita di piccole fabbriche, in grado di rispondere al fabbisogno locale, ma anche di proseguire nelle esportazioni di manufatti di valore artistico: un panorama in cui s’impone tra primo e secondo dopoguerra il grande sviluppo industriale della Richard-Ginori.
Al nucleo principale di San Michele degli Scalzi faranno eco il Museo nazionale di San Matteo (in piazza San Matteo in Soarta, 1), con la sala espositiva dei bacini ceramici riallestita per l’occasione, e Palazzo Blu (sul lungarno Gambacorti, 9) con un percorso dedicato alle più antiche ceramiche medievali provenienti da scavi recenti praticati in zona. Il Novecento è, invece, protagonista nella sede della Camera di Commercio di Pisa (in piazza Vittorio Emanuele II, 5), che ospiterà una sezione espositiva dedicata alle produzioni tardo ottocentesche e novecentesche, compresi una serie di oggetti di uso quotidiano, come pipe, lampade e strumenti di vario genere, oltre ad una serie di incontri con i ceramisti contemporanei attivi in area pisana e mediterranea.
Per tutta la durata della mostra è, inoltre, possibile fruire di una serie di percorsi della ceramica in città e negli immediati dintorni, alla scoperta di chiese decorate da bacini ceramici, case-torri in cui è impiegato il cotto decorato, edifici del primo Novecento impreziositi da elementi ceramici e centri produttivi del territorio limitrofo.
La tradizione ceramista pisana, infatti, in età moderna si espande anche al territorio, conoscendo particolare fortuna tra ‘600 e ‘800 con l’apertura di numerose botteghe in alcuni dei centri del basso Valdarno. La capillarità delle produzioni ceramiche locali permette di creare un percorso ideale lungo le sponde dell’Arno («Un fiume di ceramiche»), che a partire da Vicopisano (con le produzioni di San Giovanni alla Vena), si snoda attraverso le realtà artigianali che caratterizzano le tradizioni di Calcinaia, Pontedera, Montopoli in Valdarno, S. Maria a Monte, Castelfranco di Sotto, per arrivare fino a S. Miniato e Fucecchio, tutti luoghi che ospiteranno allestimenti ed eventi paralleli alla mostra principale.

Informazioni utili 
«Pisa città della ceramica. Mille anni di economia e di arte, dalle importazioni mediterranee alle creazioni contemporanee». Orari: SMS - da maggio a luglio e da settembre a novembre, martedì e giovedì dalle ore 9:00 alle ore 13:00 e dalle ore 15:00 alle 17:00; il mercoledì e il venerdì dalle ore 9:00 alle ore 13:00; il sabato e la domenica dalle ore 10:00 alle ore 13:00 e dalle ore 15:00 alle ore 18:00 (ultimo ingresso 30 minuti prima della chiusura). Nel mese di agosto aperto sabato e domenica dalle 18:00 alle 22:00 |Camera di Commercio: da martedì a sabato, con orari in via di definizione. | Museo Nazionale di San Matteo: feriali: 8:30 - 19:30; festivi: 8:30 - 13:30 (ultimo ingresso 30 minuti prima della chiusura) Chiusura: ogni lunedì. Per informazioni specifiche Tel. 050 541865, pm-os.museosanmatteo@beniculturali.it | Palazzo Blu: Le collezioni della Fondazione Pisa sono fruibili dal martedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 19:00 e il sabato e la domenica dalle ore 10:00 alle ore 20:00 (ultimo ingresso un'ora prima della chiusura). Chiuso nel mese di agosto.  Per informazioni specifiche tel. +39 050 220.46.50; info@palazzoblu.it | Tutte le sedi espositive sono chiude il lunedì. Biglietti: accesso gratuito al centro SMS e alla sede espositiva presso la Camera di Commercio, e biglietto ridotto al Museo Nazionale di San Matteo e a Palazzo Blu – esposizione permanente. Informazioni e programma completo: www.pisacittaceramica.it. E-mail: info@pisacittaceramica.it; jenny.delchiocca@cfs.unipi.it. Prenotazioni: pisacittaceramica@gmail.com. Fino al 5 novembre 2018.

sabato 23 giugno 2018

Milano omaggia Alik Cavaliere

È una mostra diffusa che parte dalla Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale per estendersi all’intera città di Milano quella curata da Elena Pontiggia in occasione del ventennale della scomparsa di Alik Cavaliere (Roma 1926 - Milano 1998), artista fra i maggiori della scultura italiana del secondo Novecento. L’antologica, in programma dal 27 giugno al 9 settembre, intende ricostruire l’intero percorso dell’artista, soffermandosi sul tema della natura.
A Palazzo Reale verranno esposti lavori che mettono in luce le diverse fasi e tematiche dell’artista, dalle monumentali «Metamorfosi» dei tardi anni Cinquanta all’innovativo personaggio «Gustavo B.» dei primi anni Sessanta, protagonista di un racconto composito sulle tante esperienze dell’uomo del tempo, accostato a «Bimecus», una valigetta fai da te contenente elementi in bronzo e legno, un tempo componibili anche dall’osservatore per entrare in sintonia con l’autore.
Sarà, inoltre, possibile vedere capolavori di straordinaria bellezza come «Quae moveant animum res. Omaggio a Magritte» e il famoso «Monumento alla mela,» entrambi del 1963; in particolare in questi due lavori l’artista riprende da Magritte il tema della mela al quale associa il pensiero di Lucrezio secondo cui la mente umana genera immagini anche irreali e la natura è vista come un ciclo infinito di nascita e morte. Dello stesso periodo verranno, poi, esposte «Tibi suavis dedala tellus submittit. La terra feconda di frutti» e «Il tempo muta la natura delle cose», esposte nel 1964 in una sala personale alla Biennale di Venezia.
La mostra si soffermerà, inoltre, su un tema ricorrente nella poetica dell’artista, la gabbia, quale simbolo dei limiti e delle costrizioni che incombono sull’uomo. Una condizione, questa, ben rappresentata in «E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce» (1967) e approfondita nei numerosi lavori successivi dal titolo «W la libertà», in cui gli elementi naturali, imprigionati all’interno di rigide forme geometriche, tentano invano di evadere. Come afferma lo scultore: «La gabbia era un senso di oppressione di qualche cosa a cui non riusciamo a sfuggire. Ho anche imprigionato ricordi, memorie, cose che si erano perdute. La natura fioriva all’esterno di questa gabbia».
Di grande rilievo tra le opere scelte per l’antologica milanese sono sculture monumentali come lo spettacolare «Albero per Adriana» (1970) e «Mezzo albero» (1971). A chiudere il percorso sarà, invece, un’installazione degli anni Novanta: «Grande pianta Dafne» (cm 450x410x400). L’opera, riprendendo il mito di Apollo e Dafne narrato nelle «Metamorfosi» di Ovidio, ritrae la figura femminile avvolta da un intrico di rami e allude al legame simbiotico tra l’uomo e il mondo naturale.
L’esposizione nella Sala delle Cariatidi rivelerà così che l’artista ha anticipato di decenni problematiche e sensibilità che oggi sentiamo come nevralgiche, come il tema della natura, nei suoi aspetti di rigoglio e sofferenza, espansione e costrizione. Commenta a tale proposito Elena Pontiggia: «Nessun artista, nella scultura del Novecento, ha scolpito il mondo della vegetazione e, per essere più precisi, l’universo verde delle foglie, dei frutti, dei cespugli, degli arbusti, degli alberi, come Alik Cavaliere».
Quello in mostra è un lavoro in cui le tante fonti di ispirazione artistica - da De Chirico a Magritte, da Giacometti a Duchamp, dall’informale alla Pop Art all’arte concettuale, senza escludere qualche reminiscenza Liberty, pur reinterpretata con accenti insieme più ironici e più allarmati - si caricano di tante suggestioni poetiche e filosofiche con riferimenti a Lucrezio, Campanella, Petrarca, Leopardi, Giordano Bruno, Spinoza, Shakespeare, Rousseau, Ariosto, dando vita a opere ricche di significato, ma mai letterarie o meramente contenutistiche. Nell’ arte di Alik Cavaliere le domande esistenziali si mescolano al gioco dada, la precisione della forma di ascendenza surrealista si alterna alla libertà della materia di derivazione informale, il senso artigianale della scultura convive con l’operazione concettuale, generando opere tra le più singolari e le meno inquadrabili del nostro panorama espressivo.
Accanto al nucleo centrale di Palazzo Reale, la mostra propone focus specifici in altre cinque sedi.
Il Museo del Novecento ospiterà il ciclo «Le avventure di Gustavo B.», a partire da «Il Signor G.B. si innamora», opera acquisita dalle civiche raccolte nel 1984, in occasione dell’apertura del Cimac. In mostra saranno presentate al pubblico altre quattro sculture e un dipinto della medesima serie ideate dall’artista tra il 1960 e il 1963, dedicate alle vicende surreali dell’immaginario signor Gustavo B., in qualche modo alter ego dell’artista.
Palazzo Litta accoglierà l’opera «E sarà sempre di tutti quelli che credono con la loro arte di defraudare la natura» (1967) nel giardino interno al Cortile d’onore, mentre alle Gallerie d’Italia sarà ospitata la scultura «W la libertà» (1976-77), che riprende il tema delle piante rinchiuse nelle gabbie. L’Università Bocconi porrà, invece, l’accento sulle incisioni originali «Attraversare il tempo», realizzate a quattro mani con Vincenzo Ferrari; e, infine, il Centro artistico Alik Cavaliere offre un’ampia raccolta di lavori di piccole e grandi dimensioni, esposti sia all’interno, sia nel giardino.
La mostra, a ingresso gratuito, si inserisce nel percorso con il quale Palazzo Reale, per il terzo anno consecutivo, esplora nella programmazione estiva l’arte contemporanea, rafforzando quest’anno la proposta con la collaborazione del Museo del Novecento e presentando così alla città quattro artisti per raccontare la creatività dei nostri tempi: Agostino Bonalumi, Alik Cavaliere e Pino Pinelli a Palazzo Reale, Agostino Ferrari al Museo del Novecento.

Informazioni utili
Alik Cavaliere. L’universo verde. Le sedi: Palazzo Reale - Sala delle Cariatidi e Giardinetto, Piazza Duomo 12 – Milano. Ingresso libero. Orari: lunedì, ore 14:30 - 19:30; martedì, mercoledì, venerdì e domenica, ore 9:30 - 19:30; giovedì e sabato, ore 9:30 - 22:30; Ultimo ingresso un’ora prima della chiusura. Internet: www.palazzorealemilano.it. | Museo del Novecento, piazza Duomo, 8 - Milano. Ingresso incluso nel biglietto del museo. Prima domenica del mese gratuito. Orari: lunedì, ore 14:30 - 19:30; martedì, mercoledì, venerdì e domenica, ore 9:30 - 19:30; giovedì e sabato, ore 9:30 - 22:30. Ultimo ingresso un’ora prima della chiusura. Internet: www.museodelnovecento.org | Palazzo Litta, Corso Magenta, 24 - Milano. Ingresso libero. Orari: da lunedì a venerdì, ore 9.30 - 18.30. Internet: www.palazzolittacultura.org | Gallerie d’Italia, piazza della Scala, 6 - Milano.  Ingresso gratuito fino al 19 agosto 2018. Dal 21 agosto 2018: tariffe consultabili sul sito. Orari: da martedì a domenica, ore 9.30 - 19.30 (ultimo ingresso ore 18.30); giovedì, ore 9.30 - 22.30 (ultimo ingresso ore 21.30); lunedì chiuso. Internet: www.gallerieditalia.com | Università Bocconi, via Sarfatti, 25 - Milano. Ingresso libero. Orari: da lunedì a venerdì, ore 9.00 - 14.00; chiuso dal 4 al 19 agosto. Dal 27 giugno al 9 settembre 2018. 

giovedì 21 giugno 2018

Ad Arezzo i cavalli di Gustavo Aceves

È una mostra itinerante quella che Gustavo Aceves (Città del Messico, 1957), artista messicano che oggi vive e lavora a Pietrasanta, propone ad Arezzo.
Oltre duecento opere distribuite in cinque sedi espositive compongono il percorso della mostra «Lapidarium: dalla parte dei vinti», una delle tappe fondamentali del suggestivo progetto a cui l’artista sta lavorando dal 2014. San Francesco, la sala Sant’Ignazio, il sagrato del Duomo, piazza Vasari e la fortezza Medicea sono le sedi scelte per questa riflessione sui concetti di viaggio e di migrazione. Con le sculture esposte realizzate con materiali tra i più vari come pietra, bronzo, resina e legno, solo per fare qualche esempio, Aceves intende ricreare idealmente le peregrinazioni della «Quadriga di San Marco», opera che l’artista messicano, appena ventenne ebbe modo di ammirare nella sua Città del Messico, restandone folgorato. Erano gli anni ’70 e prima di essere musealizzati, quegli antichissimi cavalli bronzei provenienti da Costantinopoli, percorrevano un ultimo giro attorno al mondo, che avrebbe messo fine alla serie di migrazioni delle quali, sin dal XIII secolo, erano stati protagonisti.
Da lì è nata l’idea di dare vita a un’opera che potesse ripercorrere lo stesso itinerario fatto dalla «Quadriga di San Marco»: il Lapidarium di Aceves propone così statue dedicate al cavallo, simbolo che evoca il movimento, lo spostamento.

Come nei classici lapidari museali, dove sono conservati frammenti di opere antiche con cui ricostruire la storia, anche l’opera dell’artista messicano è caratterizzata dal «frammento», elemento attraverso il quale ciascuno può recuperare le radici della propria storia.
Il viaggio dei cavalli di Aceves è il viaggio dei popoli migranti, una tema di grande attualità, ma che in assoluto caratterizza ciclicamente l’intera storia dell’umanità. I suoi cavalli itineranti sono mutilati, scheletrici, sopravvissuti: una sorta di monumento equestre inverso, dedicato non ai vincitori ma ai vinti, agli antieroi di ieri, di oggi, di sempre.
Non mancano, poi, i motivi per i quali la mostra «Lapidarium: dalla parte dei vinti» trova una sede privilegiata nella città di Arezzo, il cui simbolo araldico è un cavallo e che ai cavalli affida la celebrazione della sua festa più importante: la Giostra del Saracino. Inoltre alla «Quadriga di San Marco» si legano due episodi importanti: nel 1364, fu l’aretino Francesco Petrarca, ospite d’onore ai festeggiamenti per la sottomissione di Candia alla Repubblica di Venezia, a dare annuncio dell’avvenuto trasferimento del gruppo equestre alla corte dei dogi veneziani. Infine la quadriga ha un rimando immediato a Costantino, figura importante per il percorso umano e intellettuale dello scultore messicano, la cui storia trova nella città toscana la propria consacrazione nel racconto affrescato da Piero della Francesca.
Arezzo offre, dunque, un motivo in più in questi giorni per perdersi tra le sue strade del centro storico: andare alla ricerca dei cavalli mutilati di Aceves, artista che ha già portato il suo progetto in città come Berlino, Roma, Istanbul, Parigi e Venezia con l’intento di evocare, con i suoi scheletri di galeoni spagnoli, il viaggio dei barconi naufragati nelle acque del Mar Mediterraneo, raccontando così gli antieroi di ieri, di oggi, di sempre.

Informazioni utili 
«Lapidarium: dalla parte dei vinti» ad Arezzo. Sedi espositive: San Francesco | Sala Sant’Ignazio | Sagrato del Duomo | Piazza Vasari | Fortezza Medicea . Orari: dalle ore 10.00 alle ore 19.00; giorno di chiusura: lunedì. Ingresso: € 3,00; accesso gratuito per i minori di 12 anni; i biglietti sono acquistabili presso le sedi espositive di Sant’Ignazio e Fortezza Medicea oppure presso l’Info Point di Piazza della Libertà, 1. Informazioni: tel. 0575.356203. Sito internet: www.arezzoaceves.wordpress.com. Dal 16 giugno al 14 ottobre 2018.

martedì 19 giugno 2018

Caserta, Marco Lodola e Giovanna Fra dialogano con la Reggia e la sua storia

Passato e presente si incontrano nelle sale della Reggia di Caserta grazie al progetto espositivo «Marco Lodola – Giovanna Fra. Tempus – Time», che vede la curatela di Luca Beatrice e l’organizzazione di Mary Farina e Augusto Ozzella, con la collaborazione della galleria Deodato Arte.
«La mostra -sottolinea Mauro Felicori, direttore dell’istituzione napoletana- si inserisce nell’importante storia del rapporto che il museo ha avuto con l’arte contemporanea e con la variegata polifonia dei suoi linguaggi, un dialogo lungo e intenso che si è rinnovato costantemente nel corso degli anni nel confronto continuo e forte, sentito tra epoche e stili, che rende sempre attiva e feconda la vita di uno spazio museale così significativo».
Il titolo della mostra, allestita fino al prossimo 15 settembre, è un voluto riferimento al trait d’union che Marco Lodola e Giovanna Fra, grazie alle loro opere, creano fra il Tempus, la dimensione temporale legata all’antichità, al classico, alla storica sede espositiva, e il Time, sintesi del mondo contemporaneo.
Il percorso espositivo -del quale rimarrà documentazione in un catalogo di Skira editore, con testi, tra gli altri, di Renzo Arbore, Jovannotti e Piero Chiambretti, ma anche di critici quali Achille Bonito Oliva, Philippe Daverio, Gillo Dorfles, Martina Corgnati e Vittorio Sgarbi- si compone di una selezione di opere dei due artisti, che dall’ingresso si snoda negli spazi interni, nel parco reale, fino ad arrivare agli appartamenti del piano nobile.
L’immenso parco della sontuosa villa, nel raggio di un chilometro, è punteggiato da oltre venti monumentali sculture luminose di Marco Lodola, che rappresentano alcuni dei suoi soggetti tipici, uomini e donne, ballerini, danzatrici, animali, figure reali e immaginarie, che metaforicamente partecipano a una festa di corte.
Questi lavori, oltre al forte impatto creato grazie alla loro imponenza e alla vivacità dei colori, si caratterizzano per la loro peculiarità: l’emanare luce, che genera dinamismo, potenza, vitalità; qualità che non riguardano solamente le opere in sé, ma che vengono trasmesse anche all’ambiente circostante.
Le installazioni di Lodola appaiono in grande sintonia con le tele di Giovanna Fra che accolgono il visitatore negli appartamenti reali e, con il loro forte cromatismo, incarnano perfettamente quell’arte contemporanea in cui la contaminazione di tecniche e la sperimentazione sono elementi imprescindibili. L’artista si misura con lo spazio interno e l’architettura vanvitelliana, reinterpretando nelle sue opere i motivi decorativi settecenteschi, arazzi, carte da parati, arredi barocchi e neoclassici, attraverso il linguaggio segnico, costituito da tracce di colore dalle forme imprevedibili e uniche, da textures astratte che si intrecciano con le trame del supporto digitale.
I suoi lavori di matrice informale abbandonano, infatti, i mezzi tradizionali e, partendo da frame fotografici stampati su tela, Giovanna Fra arriva al risultato finale, percorrendo un cammino a ritroso, che la conduce a terminare l’opera con delle pennellate tradizionali, un’ulteriore dimostrazione del legame fra tempus e time e nel caso specifico del «passaggio da time a tempus».
Seppure provenienti da formazioni diverse i lavori di Marco Lodola e Giovanna Fra creano un profondo dialogo e si completano vicendevolmente, ma soprattutto instaurano un forte legame con il luogo che li ospita, come afferma Luca Beatrice nel testo dedicato alla mostra: «Dialogare con stucchi, decorazioni, pitture di genere e, soprattutto, con un’architettura di inestimabile pregio può costituire infatti una sfida ardua eppure affascinante per gli artisti contemporanei, a partire dall’utilizzo di materiali anomali che solo da poco sono entrati nel novero appunto dell’artisticità. Senza contare volumi, cubature e l’immensità di un parco che farebbe spaventare chiunque. […] Realizzare un cortocircuito visivo tra il tempus e il time, ovvero il passato e il presente, è rischio che l’arte di oggi sente di correre con sempre maggior frequenza. Ora, in particolare, tra pittura, elaborazione digitale, plastica e luce».

Informazioni utili 
Marco Lodola – Giovanna Fra. Tempus – Time. Reggia di Caserta, via Douhet, 2/A – Caserta. Orari: Appartamenti storici - tutti i giorni dalle  ore 8.30 alle ore 19.30 (ultimo ingresso ore 19 - uscita dal museo 19.25) | Parco, dalle 8.30 alle 19 (ultimo ingresso ore 18) | Giardino Inglese - dalle 8.30 alle 18 (ultimo ingresso ore 17); martedì chiusura settimanale; aperture serali straordinarie dalle 19.30 alle 22.30 nelle giornate dal 23, 30 giugno; 4, 7, 14, 21 luglio; 10 agosto; 9, 15 settembre con biglietto di ingresso a € 3,00. Ingresso: mostra compreso nel biglietto della Reggia | Appartamenti storici, Parco e Giardino Inglese € 12,00 intero, € 6,00 ridotto | Solo Appartamenti Storici (acquistabile quando il parco è chiuso) € 9,00 intero, € 4,50 ridotto; la prima domenica di ogni mese: Appartamenti storici gratuito - Parco della Reggia € 5,00 intero, € 2,50 ridotto, gratis fino a 18 anni. Informazioni al pubblico: www.tempustime.com - info@tempustime.com. Fino al 15 settembre 2018. 

domenica 17 giugno 2018

«Resistere»: con il crowdfunding un viaggio fotografico nel cuore terremotato del Centro Italia

Si intitola «Resistere. Nel cuore terremotato del Centro Italia» ed è un libro fotografico alla cui realizzazione potranno contribuire tutti. Il volume, realizzato da Alessio Pagani e Francesco Fiorello per le edizioni Seipersei di Stefano Vigni, è, infatti, da poco sbarcato su Ulule, la principale piattaforma di reward-based crowdfunding d’Europa.
Chiunque potrà sostenere il progetto e ricevere a casa il volume che, attraverso decine di fotografie in bianco e nero riunite sotto il nome Genziana Project, racconta i venti mesi successivi al sisma che, il 24 agosto 2016, ha cambiato il Centro Italia.
Amatrice, Accumoli, Arquata del Tronto, Visso, Ussita, Castelsantangelo sul Nera, Pescara del Tronto, Camerino, Norcia, Castelluccio sono alcuni dei paesi al centro del racconto, che permette di conoscere più da vicino la quotidianità delle zone terremotate sin dai primissimi momenti, la sua evoluzione e le situazioni di difficoltà in cui le persone sono costrette a vivere tutt'oggi.
Si tratta di un progetto importante che ha un solo obiettivo: portare in tutta Italia le immagini e le storie di chi, nonostante tutto, ha scelto di resistere e restare in piedi.
Lo raccontano bene le parole dei due fotoreporter autori delle immagini raccolte nel volume: «Ho un’immagine impressa del 24 agosto 2016 -spiega Alessio Pagani-. A Pescara del Tronto c’è distruzione totale, ma una porta è lì ferma che rimane in piedi. In quel momento ho pensato che non tutto fosse perduto, né per le persone né per noi fotografi: potevamo raccontare non soltanto il dramma, ma anche la grande voglia di riscatto».
«Il cuore del libro fotografico ‘Resistere’ -aggiunge Francesco Fiorello- è la gente dell’Appennino ferito: per questo con il nostro lavoro abbiamo cercato di essere più obiettivi possibile senza però dimenticare mai di stare dalla parte delle popolazioni e della loro resistenza».
«Nelle nostre foto -spiegano entrambi- ci sono le macerie ancora per le strade, la non ricostruzione, le difficoltà. Ma ci sono anche la forza di volontà delle persone che abbiamo conosciuto e fotografato, la loro voglia di restare o ritornare appena possibile, i loro sforzi per andare avanti nonostante tutto, le loro proteste, manifestazioni e marce sempre troppo poco prese sul serio».
Dall’attesa per le soluzioni abitative d’emergenza alla riapertura di una strada, passando per le piccole meraviglie quotidiane come la semina a Castelluccio e ogni tentativo di rinascita che, nonostante tutto, si prova a mettere in campo nei luoghi del terremoto: «Resistere» è la realtà del Centro Italia, «è la fotografia di un popolo indomito che nonostante tutto continua a camminare a testa alta. Chinandosi – chiosano i due autori- solo «per cogliere la genziana», come ci hanno insegnato gli abitanti di quelle terre».
Il lavoro di Alessio Pagani e Francesco Fiorello ha i ritmi lenti di chi ha continuato a scattare anche quando è terminata l’emergenza della quotidianità che si fa cronaca. La loro è una narrazione che non si è mai sottomessa alla pressione di qualche testata dai modi troppo frettolosi per far le cose come si deve, «per seguire – scrive Davide Burchiellaro, vice direttore di «Marie Claire»- l’avventura di una lenticchia che deve germogliare lì, proprio lì, nella Piana di Castelluccio a dispetto delle strade dissestate». Perché la vita vince sempre.

Informazioni utili 
https://it.ulule.com/resistere/

venerdì 15 giugno 2018

Francesco Tricarico in mostra a Bologna: quando le note diventano arte

L’arte sposa le sette note al Museo internazionale e biblioteca della musica di Bologna. Fino al 24 giugno le sale del cinquecentesco Palazzo Sanguinetti, che si affaccia su Strada Maggiore, aprono le porte a Francesco Tricarico, cantautore italiano, immaginifico e naif, che ha debuttato nel mondo del pop, all’inizio del millennio, con il singolo «Io sono Francesco» e che, da allora, ha regalato agli amanti della musica leggera italiana album dal sapore poetico, capaci di metterci davanti a tutta la felicità e la malinconia del mondo facendoti stare bene, come «Drago», «La pesca» e «Frescobaldo nel recinto».
Dal 2015 Francesco Tricarico si dedica anche alle arti visite e da questa sua nuova passione prende spunto il progetto espositivo «Quando la musica si mostra. Una nota al museo», curato da Olivia Spatola e organizzato con la galleria Fabbrica Eos di Milano.
L’esposizione, che si avvale anche della collaborazione di Musiche Metropolitane e Vittorio Corbisiero Management, ben si sposa con la storia di Palazzo Sanguinetti, al cui interno sono conservate le prestigiose collezioni di beni musicali della città di Bologna, in un percorso di visita che si snoda attraverso nove sale a ripercorrere sei secoli di storia della musica europea, con oltre un centinaio di dipinti, più di ottanta strumenti musicali antichi ed un'ampia selezione di documenti storici di grande pregio.
L’intento della mostra di Francesco Tricarico è quello di far dialogare l’arte con la musica all’interno di uno stesso spazio che è al contempo sia fisico che metaforico: il concetto della musica in quanto segno espresso - scritto, di contenitore di significanti e di significati che suonano anche quando gli strumenti non sono sfiorati dalle dita del musicista.
In questo spazio che potremmo definire del «silenzio cageano», in cui lo spettatore ha la sensazione di ascoltare qualcosa anche se tutto tace, le opere di Francesco Tricarico svelano in quale modo è possibile controllare e organizzare le nostre percezioni.
I lavori selezionati sono sette come il numero delle note musicali e le sale del museo in cui il percorso artistico si dispiega. Ed è così che le stanze abbandonano temporaneamente la loro consueta numerazione per diventare contrassegnate -attraverso i dipinti dell’artista- dai nomi delle note musicali: la «Stanza del Do», la «Stanza del Re», la «Stanza del Mi», la «Stanza del Fa», la «Stanza del Sol», la «Stanza del La» e la «Stanza del Si». Ma non solo.

In questo caso, il segno - ovvero la relazione tra significante e significato - rappresentato dalla denominazione delle stanze, diventa anche simbolo: vale a dire una realtà altra, che va oltre e da ricomporre; l’espressione dell’inconscio collettivo da cui emergono processi di trasformazione tra ciò che è noto e ciò che non lo è, coinvolgendo lo spettatore.
La «Stanza del Do», dunque, -in questo gioco fra segno e simbolo- non è soltanto la sala in cui Tricarico omaggia la prima nota musicale, ma anche del Do-minus; la «Stanza del Re» del Re-gnare; la «Stanza del Mi» del Mi-stero; la «Stanza del Fa» del Fa-re; la «Stanza del Sol» del Sol-o; la «Stanza del La» del La-voro e la «Stanza del Si» del Si-lenzio, che chiude concretamente e allegoricamente la mostra.
Cos'è l’arte per Francesco Tricarico? È un modo di tornare alla vita, un riscatto, una rivincita, una grande occasione di scoperta e di de-costruzione di tutti i sistemi dell’essere umano. La passione per la pittura nasce fra i banchi di scuola e precisamente durante le lezioni di educazione tecnico-artistiche alle scuole medie: «Ho un grande ricordo di quel periodo -racconta l’artista-. Mentre disegnavo linee diagonali e curve per poi riempirle di colore, mi trovavo a partorire pensieri enormi che forse avrei dovuto affrontare un po’ più avanti. Ma siccome già li affrontavo, la ritualità di quei disegni mi dava la giustificazione di assentarmi e allontanarmi momentaneamente da tutti i miei amici perché mi sentivo in difetto: avevo argomenti che non potevo condividere con loro, c’era la morte, la morte di mio padre, pensieri troppo difficili da gestire. Riempire gli spazi di colore era un modo per riflettere sulla mia solitudine. Per cui -l’arte come la musica- giustificava me stesso e la mia esigenza di prendermi del tempo. Quel mondo dava una sensazione di protezione che poi con il tempo ho rielaborato».
I suoi quadri sono frutto di una ricerca interiore unita alla necessità di produrre contenuti dal valore universale, che lo uniscano agli altri nel concetto di bellezza condivisa. Per Tricarico dipingere non è un tentativo di fuga dalla realtà ma un modo di esserci: «è un modo di essere nella realtà interpretandola. Osservandola in altri modi, osservandola su una tela, innesca un un modo diverso di pensare e l’atto creativo rappresenta un momento che altrimenti non si fermerebbe ed invece si ferma. Tutto ciò mi suscita stupore».
L’arte di Tricarico è un grande caos ordinato, come afferma l’artista stesso. I soggetti delle sue opere cambiano, non sono mai gli stessi. La sua è una ricerca continua, legata a tutti i sensi, alla vista e soprattutto a ciò che non si vede: Tricarico è affascinato dalle cose che non sono visibili ma che allo stesso tempo possiamo intuire, percepire.
I suoi quadri sono delle chiavi d’accesso, piccole magie che aprono altre porte: «la tela mi svela qualcosa che prima non c’era, aiuta a farmi capire cose che probabilmente ancora non so».

Informazioni utili
Mostra personale di Francesco Tricarico. Museo internazionale e biblioteca della musica, Strada Maggiore, 34 – Bologna Orari di apertura: da martedì a domenica (festivi compresi), ore 10.00 – 18.30; lunedì chiuso. Ingresso (comprende l'accesso al museo): intero € 5,00, ridotto € 3,00, gratuito per possessori Card Musei Metropolitani Bologna e ogni prima domenica del mese. Informazioni: Museo internazionale e biblioteca della musica, Strada Maggiore, 34 – Bologna, tel. +39 051 2757711 o museomusica@comune.bologna.it. Sito internet: www.museibologna.it/musica. Fino al 24 giugno 2018. 

mercoledì 13 giugno 2018

Venezia, in mostra a Palazzo Fortuny la «stanza di Zoran»

Nel 1950 Zoran Music (Bocavizza, 1909 - Venezia, 2005) ricevette, da parte delle sorelle Charlotte e Nelly Dornacher, l’incarico di decorare il seminterrato della loro villa a Zollikon, nei pressi di Zurigo.
L’insieme doveva costituire un esempio di opera d’arte totale: oltre alle pitture su intonaco, tela di lino e juta, l’artista disegnò i motivi decorativi ricamati sulle tende e sulla tovaglia che ornavano la sala. Alcuni mobili, seppure non progettati da lui, furono scelti con il suo accordo a completamento dello spazio destinato a riunioni conviviali.
La maggior parte dei dipinti furono eseguiti direttamente sull’intonaco murario, cinque composizioni erano su tela di lino tesa su supporti fissati al muro, mentre per la decorazione della porta d’entrata fu utilizzata la tela di iuta: lo stesso tessuto delle tende e di una tovaglia ricamata su disegno dell’artista, che ne scelse i colori e i differenti punti di ricamo.
Dopo anni di incuria e abbandono la stanza è stata recuperata grazie all’intervento di Paolo Cadorin, cognato di Music, direttore del dipartimento di restauro del Kunstmuseum di Basilea, che ha supervisionato lo stacco degli intonaci, il loro trasferimento su pannelli alveolari in alluminio e il recupero delle tele e degli arredi.
Un complesso lavoro portato a termine dai suoi allievi, restituisce finalmente al pubblico la «stanza di Zoran», ricomposta ora a Palazzo Fortuny come elemento centrale di una mostra omaggio al suo autore, curata da Daniela Ferretti e promossa dalla Fondazione Musei civici di Venezia con il sostegno di Charlotte und Nelly Dornacher Stiftung.
L'esposizione presenta, inoltre, un’ampia e accurata selezione di opere realizzate tra il 1947 e il 1953, provenienti da collezioni private e dall’archivio dell’artista.
Sono gli anni del ritorno alla vita dopo le sofferenze dell’esilio e del campo di concentramento; gli anni dell’approdo, tanto agognato, nella solare Venezia. Ed è allora che accetterà di dipingere per le amiche di Paolo Cadorin -come aveva fatto nel suo studio, a quel tempo all’ultimo piano di Palazzo Pisani- le pareti e il soffitto di una cantina, come si usava nel dopoguerra nelle caves di Parigi, per rifugiarsi a ballare o a scaldarsi.
Ne farà un inno alla vita, ricoprendo la cantina di pitture a fresco con quella stessa tecnica usata prima della guerra per decorare le chiese distrutte del Friuli. Un inno in cui egli inserisce tutto il suo universo.
I motivi profusi da Music in questa sala -di una ricchezza quasi vertiginosa– costituiscono, infatti, nel loro complesso, una sorta di summa iconografica della produzione artistica di quegli anni: dai motivi dalmati di donne a cavallo, col parasole, agli asinelli e cavallini nel paesaggio roccioso o danzanti nel vuoto; dai traghetti affollati di cavalli o bovini alle fasce decorative a losanghe, righe, tondi o scandole; dai volti incorniciati e ieratici che ricordano Campigli a un ritratto iconico di Ida allo specchio e al proprio autoritratto.
E poi le vedute di Venezia: le cupole e la facciata della Basilica, Palazzo Ducale, balaustre, archi, i portici della piazza, il Bacino di San Marco, San Giorgio, la Dogana, i bragozzi.
Soni gli stessi temi che ricorrono nelle altre opere in mostra: acquerelli, tempere su carta, oli su tela, pastelli in una pittura dominata da colori minerali e polverosi, che richiama Bisanzio e il mondo ingenuo dell’infanzia; ma anche incisioni e opere realizzate a puntasecca.
Di grande interesse, provenienti dall’Archivio Cadorin Barbarigo Music, sono anche gli studi preliminari per un arazzo intitolato «Storia di Marco Polo», di dimensioni notevoli (2,5 m di altezza su una base di 8 circa, formato al centro in basso «Music 1951») destinato in origine al soggiorno di prima classe del transatlantico Augustus. È una narrazione, una sorta di fregio, diviso in nove episodi. Disegni ricchi di particolari che in realtà si perderanno nella tessitura in un processo di rarefazione delle forme.

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Zoran Mušicˇ, Veduta di San Giorgio Maggiore e bragozzi. Dettaglio del soffitto, Olio su intonaco. Collezione privata; [fig. 2] Zoran Mušicˇ, Veduta di Venezia: Bacino di San Marco con l’Isola di San Giorgio Maggiore. Dettaglio di parete. Olio su tela di lino. Collezione privata; [fig. 3] Zoran Mušicˇ,Motivo dalmata, 1947 Tempera su cartone Collezione privata Foto Claudio Franzini,  Venezia, Archivio Cadorin Barbarigo Mušic

Informazioni utili 
Primavera a Palazzo Fortuny. Museo di Palazzo Fortuny, San Marco - San Beneto - 30124 Venezia. Orari: 10.00-18.00; chiuso il martedì. Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8.00. Informazioni: www.fortuny.visitmuve.it | info@fmcvenezia.it | 848082000 (dall’Italia) | +3904142730892 (dall’estero). Fino al 23 luglio 2018. 

lunedì 11 giugno 2018

Arezzo, sessant'anni di moda italiana alla Basilica di San Francesco

Dalle linee sinuose degli abiti della Belle Époque a quelle scivolate e audaci dell'epoca Decò, dalla moda austera del periodo bellico alla rivoluzionaria minigonna degli anni Sessanta: racconta l’evoluzione dello stile italiano, nei primi decenni del Novecento, la mostra «Moda e Modi. Stile e costume in Italia 1900-1960», ospitata fino al 4 novembre ad Arezzo, negli spazi della Basilica di San Francesco. L’esposizione, per la curatela di Mariastella Margozzi e Laura Mancioli, allinea una ricca selezione di abiti d’epoca, accessori di moda, oggetti, dipinti, disegni, acquerelli e fotografie, che raccontano non solo la moda indossata in quegli anni, ma anche quella che si ammirava sulle riviste o che veniva rappresentata da artisti reporter come Ottorino Mancioli o da pittori come Fazi, Sobrero, Avenali, ritrattisti della «vita quotidiana».
A raccontare lo stile italiano nella rassegna sono anche oggetti che hanno segnato il Novecento come il grammofono, la radio, il telefono e la televisione.
Il ventesimo secolo ha visto cambiamenti incredibili in ogni campo e ha significato per tutte le classi sociali, ma soprattutto per quelle medio basse, una integrazione continua all'ambiente della vita, ai cambiamenti epocali delle modalità del lavoro, a quelli che inevitabilmente si registrano nei costumi, nelle abitudini, nelle mode e nei modi di rappresentarsi da parte della società a tutti i suoi livelli.
Le città si caratterizzano sempre più come luoghi della modernità, delle fabbriche che impiegano operai, degli alloggi collettivi nei palazzoni, delle ferrovie e della viabilità automobilistica. La vita è frenetica, i tempi dell’esistenza sono ritmati dagli orari di lavoro ancora troppo lunghi, la vita familiare risente moltissimo di questo cambiamento, soprattutto quando le donne lavorano e c'è ancora pochissimo a disposizione per organizzare la giornata dei bambini.
La moda, quella comune e di tutti i giorni, cambia per esigenze di praticità e molto del lavoro femminile ha come prodotto gli indumenti perché con la diffusione dei grandi magazzini destinati agli acquisti delle classi medie, nascono numerosi laboratori sartoriali, nei quali vengono confezionati a cottimo con taglie prestabilite i vari capi.
Non è una moda nel senso del lusso e dell'esclusività quella che si vuole raccontare ad Arezzo attraverso abiti, accessori, dipinti e fotografie; è il gusto condiviso dalla maggioranza delle persone, che non disdegnano di vestire e comportarsi come gli altri, anzi cercano di appartenere a un gruppo, a una categoria, omologandosi nella scelta dei capi d'abbigliamento, nell’arredo della casa, nei comportamenti sociali, nei modi di essere. È la moda della musica ascoltata al grammofono e dei balli sfrenati come il charleston, delle comunicazioni attraverso il telefono, delle trasmissioni della radio e poi della televisione.
Tutti gli oggetti che vengono presentati hanno accompagnato nei sei decenni in esame soprattutto la vita delle donne e hanno fatto parte del loro mondo: borsette e cappelli, abiti per ogni ora importante della giornata, accessori frivoli, ma anche oggetti essenziali per il loro tempo libero: ricami, letture, giochi. E ci sono anche quelli legati ai loro affetti: ai bambini e al loro piccolo universo di abiti e giochi; agli uomini, che pure si rappresentano con i loro cappelli e smoking, con i loro sport, descritti negli anni '30 da Ottorino Mancioli, artista attento a rappresentare la società a lui contemporanea anche nei divertimenti come il ballo o le chiacchiere in spiaggia, mentre Emilio Sobrero restituisce l’intimismo del ritratto degli anni ’30. Nei più problematici e difficili anni '40 la moda e i modi di differenti femminilità sono raccontate da Rolando Monti e da Marcello Avenali, capaci di leggere il profondo legame con il mondo che li circonda attraverso l'immagine di una casalinga o di una donna alla moda.
Le fotografie dell’album di famiglia dai ritratti in posa dei primi decenni del secolo, singoli o di gruppo, teatrini dell'apparire, sorta di biglietto da visita da lasciare come testimonianza di avvenimenti particolari e per essere ricordati, si arricchiscono negli anni ’50 e ’60 di immagini estemporanee, di pose spontanee, di espressioni non convenzionali. Sempre di memoria tuttavia si tratta, di quel senso del tempo, del qui e ora, che solo la fotografia può restituire, con quel suo essere immagine apparentemente immota, eppure generatrice della riappropriazione di un attimo, del recupero di un ricordo. E proprio perché i ricordi siano più reali, negli anni ’60 essi si affidano anche alla cinepresa, oggetto divenuto in quegli anni un must, come il suo uso è divenuto uno degli hobby più praticati dagli uomini.
La «vita come racconto» attraverso i ricordi è l’idea che percorre questa mostra; ogni oggetto evoca non solo momenti che un tempo sono stati personali, ne sottolinea oggi il comune sentire delle epoche, l’appartenenza di mode e modi a intere generazioni che in essi si sono identificate.
La rassegna è arricchita da una sezione speciale con tre abiti riproducono le vesti della Vergine nell’Annunciazione, della Regina di Saba nell’episodio dell’incontro con Re Salomone e di un’ancella nella scena dell’Adorazione del Sacro Legno, raffigurati negli affreschi di Piero della Francesca. Le opere, realizzate dagli studenti della sezione di Design della moda e del costume teatrale del Liceo artistico, coreutico e scientifico Internazionale «Piero della Francesca», annesso al Convitto nazionale «Vittorio Emanuele II» di Arezzo, consentono un suggestivo confronto tra le rappresentazioni pittoriche rinascimentali e le ricostruzioni, realizzate quasi 600 anni dopo, di quegli stessi abiti, tessuti, decorazioni e ornamenti.

Informazioni utili
«Moda e Modi. Stile e costume in Italia 1900-1960».Basilica di San Francesco / Affreschi di Piero della Francesca, piazza S. Francesco – Arezzo. Orari: dal lunedì al venerdì, dalle ore 9:00 alle ore 19:00, sabato dalle ore 9:00 alle ore 18:00 e la domenica dalle ore 13:00 alle ore 18:00. Ingresso: intero € 6,00, ridotto € 4,00, scuole gratuito. Informazioni: tel. 0575 352727. Sito internet: www.pierodellafrancesca-ticketoffice.it; www.munus.com. Fino al 4 novembre 2018.

sabato 9 giugno 2018

La collezione Magnani-Rocca tra le pagine di un libro

È un punto fermo nel panorama dell'arte internazionale e una meta imprescindibile per chi non può fare a meno della bellezza. Stiamo parlando della Fondazione Magnani-Rocca di Mamiano di Traversetolo, in provincia di Parma, al cui interno sono ospitati capolavori di celeberrimi maestri antichi e contemporanei, testimoni della grande storia d’Europa.
Ora quella raffinata collezione ideata da Luigi Magnani come un Pantheon dell'arte prima per il godimento della propria anima poi per tutti, per sempre, rivive nelle pagine di un libro appena pubblicato per i tipi di Silvana editoriale.
Un dipinto da solo varrebbe il viaggio verso questa magica villa, immersa nel verde: è il grande quadro «La famiglia dell'infante don Luis» (1783-1784) di Francisco Goya, uno dei ritratti di corte più affascinanti di tutta la storia della pittura. Eccezionali sono anche le tre Madonne col Bambino di Filippo Lippi, Albrecht Dürer e Domenico Beccafumi, dipinte a cinquant’anni l’una dall’altra. La collezione ospita, poi, altre opere imperdibili del Carpaccio, del Ghirlandaio, di Rubens, dei Van Dyck, dei Tiepolo e di Füssli. Ma unici sono lavori come «Stimmate di San Francesco» di Gentile da Fabriano, opera rarissima, e l’indimenticabile «Sacra conversazione» di Tiziano (1513), col predominio della costruzione cromatica, tipicamente veneta, rispetto ai valori disegnativi. L’eccellenza dei capolavori pittorici si traduce in scultura con «Tersicore» di Antonio Canova, due figure femminili di Lorenzo Bartolini e i più recenti Leoncillo e Manzù.
Il nucleo contemporaneo è dominato dalle cinquanta opere di Giorgio Morandi, riunite durante la vita del pittore all’interno di un rapporto di stima e di amicizia con Magnani, che illustrano, al massimo livello qualitativo, tutta l’attività del grande artista bolognese. Altro pittore emiliano presente nella collezione è Filippo de Pisis, con un gruppo di dipinti della maturità, intensi e drammatici. Tra le altre opere di artisti italiani una «Danseuse» futurista di Gino Severini, una piazza metafisica di Giorgio de Chirico e alcuni lavori di Renato Guttuso. Importantissimo è anche il «Sacco» di Alberto Burri del 1954, che Magnani considerava il proprio baluardo avanguardistico. Fra i non italiani, Cézanne è rappresentato da un olio con «Bagnanti» e da cinque acquarelli contraddistinti da un'incredibile trasparenza dei colori; splendide poi sono le opere di Renoir, Matisse, de Staël, Fautrier, Hartung, oltre a un incantevole Monet raffigurante un paesaggio marino della Normandia, emblematico della sperimentazione degli impressionisti sulle infinite variazioni dei colori sottoposti ai mutamenti della luce.
Si tratta di capolavori che continuano a suscitare emozioni profonde, altissima espressione dell’intimo e commosso stupore dell’uomo di fronte al segreto della bellezza.
Della capacità dell’arte di conchiudere significati assoluti Magnani era convinto, come pure del suo afflato metafisico; per questo, dopo un lungo soggiorno romano dedicato all’insegnamento, si era ritirato nella sua Villa di Mamiano di Traversetolo, in quiete operosissima, fra non molti amici e le amate opere d’arte, tutte scelte con lenta e infallibile cura. Resta fra esse, come fu per Magnani e come ora per noi tutti, la gioia silenziosa del vedere e del capire, del posare lo sguardo, così spesso affaticato da inezie quotidiane, su questi sublimi frammenti della vicenda umana, raccolti fino alla morte, avvenuta nel 1984, a settantotto anni.
Il percorso della fondazione, ora presieduta da Giancarlo Forestieri, era stato avviato con l’istituzione da parte di Magnani nel 1977, nell’esplicito disegno di destinare i suoi tesori d’arte al godimento di tutti, nel ricordo dei propri genitori. Proseguì nel 1978 con il riconoscimento da parte dello Stato italiano e con l’apertura al pubblico della Villa divenuta sede museale nell’aprile 1990; venivano così definitivamente svelate le opere di una raccolta quasi leggendaria appartenuta a una delle più eclettiche personalità culturali del XX secolo: Magnani fu, infatti, scrittore, saggista, storico dell’arte, compositore, critico musicale e, con le sue ricerche e i suoi scritti su Beethoven, Proust, Stendhal e Morandi, seppe, come pochi, ricongiungere le ragioni del sentimento e quelle dell’intelletto.
Nonostante i cambiamenti avvenuti nella trasformazione museale, quella che fu la Corte di Mamiano, conserva ancora il ricordo del raffinato studioso e collezionista che «amava spostare le opere per creare dialoghi inediti tra artisti e forme, luce e materia, spazio e idee».
A quarant’anni dall’istituzione e dal riconoscimento della fondazione viene pubblicato il volume «Fondazione Magnani-Rocca. La Villa dei Capolavori» (Silvana Editoriale), a cura di Stefano Roffi, direttore scientifico della fondazione stessa. Molte delle schede delle opere sono quelle elaborate dal giovanissimo Vittorio Sgarbi per Magnani nel 1984, altre derivano dall’edizione del catalogo generale del 2001.

Nel nuovo volume numerosi sono gli aggiornamenti per novità di studi, in particolare per il grande dipinto di Goya, e le aggiunte di schede di nuove opere, dallo stesso Goya a Matisse fino a Manzù. Finalmente la collezione di Luigi Magnani viene così presentata nella sua interezza. A dipinti, sculture e lavori grafici si uniscono arredi e oggetti, prevalentemente di gusto Impero, che Magnani volle come contesto ideale della propria raccolta. I testi introduttivi di storici dell’arte – quali Lucia Fornari Schianchi, Andrea Emiliani e lo stesso Vittorio Sgarbi - che hanno conosciuto e frequentato Magnani, possono evocarne la figura non solo attraverso le opere che ha raccolto ma anche attraverso ricordi di brani di vita; a questi contributi si affianca quello di Stefano Roffi, che ragiona sulla ricerca e sul lascito del fondatore. Insieme agli interventi di Carlo Mambriani sulla storia della dimora e del giardino, e di Mauro Carrera sulla preziosa biblioteca di Magnani, al racconto biografico, frutto di accurati studi d’archivio, e a un ricco apparato iconografico, si viene così a realizzare un vero e proprio libro della Fondazione Magnani-Rocca, che intende principalmente e doverosamente rendere onore alla grande impresa culturale e filantropica di Luigi Magnani.

Informazioni utili
www.magnanirocca.it 

giovedì 7 giugno 2018

Giorgio Morandi attraverso gli occhi di Giancarlo Fabbi

Leggere il lavoro di Giorgio Morandi attraverso pochi semplici oggetti, un pennello, un bulino, un tubetto di colore: è quanto fa Giancarlo Fabbi, autore modenese in mostra in questi giorni a Bologna, negli spazi di Casa Morandi, l’originale dimora del maestro, al cui interno è ricostruito il suo studio, con gli oggetti e i materiali che hanno accompagnato il suo percorso artistico.
L’esposizione, per la curatela di Massimo Recalcati, allinea dieci scatti dell’artista afferenti alla sua ricerca morandiana, iniziata nel 2014.
Giancarlo Fabbi -che ha mosso i suoi passi nel mondo della fotografia da autodidattica, all’inizio per passione e poi sempre più per necessità, facendone una vera e propria ragione di vita- si è concentrato su alcuni oggetti appartenuti a Giorgio Morandi, esposti in mostra insieme alle fotografie.
Nella sua ricerca l’artista evita volutamente di utilizzare le componenti più celebri delle composizioni morandiane come le bottiglie, le conchiglie, i fiori per offrire una visione asciutta ed essenziale degli elementi primari e più umili riferibili alla pittura e all’incisione.
La sua indagine fotografica, nella serie in mostra che sarà poi dedicata all’Istituzione Bologna Musei, viene condotta eccezionalmente a colori e in digitale, contrariamente agli altri suoi progetti tutti rigorosamente in bianco e nero, per i quali si avvale sempre dell’utilizzo dell’analogico e della luce naturale per dare realtà a quello che si fa.

Attraverso un ragionato processo di astrazione compiuto da Fabbi, scrive Massimo Recalcati, «l’ascesi che ispira la pittura di Morandi si trova riflessa perfettamente e con toni per nulla freddi o anaffettivi, ma al limite di un vero e proprio struggimento, in questo ciclo di fotografie. Antipsicologismo di fondo, soppressione dell’inessenziale, monachesimo formale, rigore geometrico, insistenza degli stessi oggetti. In queste fotografie suona e risuona forte il passo più vero di Morandi: accogliere il segreto della pittura, dipingere l’invisibile nel visibile, elevare il visibile alla dignità eterna dell’invisibile».
La serie di dieci fotografie -di cui rimarrà documentazione in un catalogo con testi di Lorenzo Balbi, Francesca Interlenghi e Massimo Recalcati, edito da NFC di Amedeo Bartolini & C. sas di Rimini- vuole, infatti, incoraggiare una meta-riflessione su alcuni aspetti fondamentali della pittura di Morandi: composizione e ricomposizione geometrica, insistenza su pochi temi, silenzio, solitudine, assenza di retorica e di qualsiasi narrazione.
La scelta del colore dello sfondo che fa da quinta alle composizioni di Fabbi, un bianco luminoso da cui emergono gli oggetti nella loro fisicità come forme che si allineano, si intersecano o campeggiano al centro della foto in un voluto isolamento estetico, mette in risalto l’atteggiamento con cui il fotografo modenese intende la pratica artistica: esperienza sulla luce e sull’ombra, ricerca quasi mistica dell’essenziale, riduzione estrema delle immagini, intese come frammenti di realtà capaci di custodire momenti di eterna poesia, proprio come la pittura di Morandi.

Informazioni utili 
«Giancarlo Fabbi. Il silenzio della pittura». Casa Morandi, via Fondazza, 36 – Bologna. Orari: venerdì e sabato, ore 17.00 – 19.00; domenica, ore 11.00 – 13.00. Biglietti: ingresso libero. Informazioni: tel. 051.6496611. Sito web: www.mambo-bologna.org/museomorandi/. Fino al 1° luglio 2018.

martedì 5 giugno 2018

La vita di Giorgio Vasari diventa un film

È noto soprattutto come autore del libro «Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori», prima raccolta di biografie di artisti ad avere avuto dignità di stampa. Ma è stato anche un buon pittore, uno tra i maggiori manieristi tosco-romani, la cui perizia disegnativa e capacità di composizione prospettica era stata appresa da maestri del calibro di Baccio Bandinelli e Andrea del Sarto. Oltre che biografo e pittore molto prolifico e controverso, Giorgio Vasari fu anche e soprattutto un grande architetto e tale lo reputava persino Michelangelo Buonarroti.
A raccontare la vita dell'artista aretino, che contribuì alla costruzione degli Uffizi di Firenze e che ha firmato una tavola di estrema bellezza quale «La cena di San Gregorio» (1540 - Bologna, Pinacoteca nazionale), sarà questa estate il film «Le memorie di Giorgio Vasari», in arrivo nelle principali sale cinematografiche italiane per un evento speciale previsto per le giornate del 26 e del 27 giugno.
A firmare la regia del lavoro, distribuito da Zenit Distribution in collaborazione con Twelve Entertainment, è Luca Verdone; mentre il direttore della fotografia è Gianluca Gallucci.
Nel docufilm Giorgio Vasari è interpretato dall’attore statunitense, ma a lungo attivo in Italia, Brutius Selby. Daniele Monterosi e Dino Santoro vestono rispettivamente i ruoli di Alessandro e Lorenzino dei Medici. Mentre Livia Filippi interpreta la parte di Clementina, la modella dell’artista. A indossare le vesti di Michelangelo è, invece, Allan Caister Pearce, mentre il giovanissimo artista Giambattista Cungi, citato dal Vasari nelle sue «Vite», è impersonato da Michael Natelle.
Nel film «Le memorie di Giorgio Vasari», l’artista racconta in prima persona, come in un diario, le vicende della sua vita, le opere da lui realizzate sul solco di Michelangelo e di Andrea del Sarto, i suoi rapporti con i Medici, che governarono il Gran Ducato di Toscana per molti anni, e le sue relazioni con artisti e letterati che conobbe da vicino come Francesco Salviati, Tiziano e Pietro Aretino. Ancora, nella narrazione «non sono trascurati -si legge nella sinossi- gli aspetti della vita privata nella sua bottega, i rapporti con le sue modelle e i suoi allievi», e ancora «i legami con la famiglia Farnese», che lo chiamò a Roma per affrescare gli interni del Palazzo della Cancelleria, e i rapporti col granduca Cosimo I. Da Michelangelo a Lorenzo dei Medici passando per Rosso Fiorentino e Tiziano, il film ha il merito di raccontare la vita di un uomo che è famoso, paradossalmente, per aver raccontato le vite degli altri, da Cimabue fino ai suoi contemporanei, in primis quel Michelangelo Buonarroti in cui egli intravide il culmine dell’arte italiana.
Il film diventa così un viaggio nel tempo tra gli artisti e i mecenati degli anni d’oro del Rinascimento italiano, restituendo allo spettatore uno spaccato suggestivo di un'epoca irripetibile. Il documfilm è, inoltre, anche uno strumento per scoprire qualcosa in più sulle due stesure delle «Vite», opera pubblicata per la prima volta nel 1550, che diventa il punto di riferimento per conoscere tre secoli di arte italiana attraverso le vite, appunto, di centinaia di artisti. Anche per tale motivo, a distanza di cinque secoli, grazie anche a questo film, Vasari continua ad essere il testimone che ci prende per mano per conoscere ed amare l’arte e la bellezza del nostro Paese.

Informazioni utili 
www.lememoriedigiorgiovasari.it

domenica 3 giugno 2018

A Venezia «la Biennale di Peggy» settant'anni dopo

«La mia mostra ebbe una risonanza enorme e il mio padiglione divenne uno dei più popolari della Biennale. Tutto ciò mi emozionava terribilmente, ma quel che mi piacque di più fu veder comparire nei prati dei giardini pubblici il nome Guggenheim accanto a quelli della Gran Bretagna, della Francia, dell’Olanda, dell’Austria, della Svizzera, della Polonia […] Mi sembrava di essere un nuovo paese europeo». Così Peggy Guggenheim, nel libro «Una vita per l’arte», ricordava la sua partecipazione alla XXIV Biennale di Venezia, negli spazi del Padiglione greco. Da allora – era il 1948- sono passati settant’anni e per ricordare quell’evento, dirompente per la storia dell’arte del XX secolo, la collezione Guggenheim promuove una mostra-omaggio a cura di Gražina Subelytė.
La partecipazione della collezionista americana alla Biennale del 1948, la prima dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, fu un evento miliare non solo perché fu la prima esposizione pubblica di una collezione privata di arte moderna in Italia dopo due decenni di regime dittatoriale, ma anche perché fu la prima presentazione della collezione in Europa, dopo la chiusura della galleria newyorkese Art of This Century (1942-’47) e il trasferimento di Peggy a Venezia. Dopo un periodo di interruzione cominciato nel 1942 a causa della guerra, è proprio nel ‘48 che la Biennale, fondata nel 1895, comincia a ricoprire un ruolo internazionale sulla scena dell’arte moderna e contemporanea: dal 6 giugno al 30 settembre viene presentata un’esposizione di capolavori dell’Impressionismo, proposta dallo storico Roberto Longhi, una retrospettiva delle opere di Pablo Picasso, dal 1907 al 1942, e una mostra nel padiglione principale dedicata ad artisti come Otto Dix, Karl Hofer e Max Pechstein che desidera restituire nuova dignità all’arte bollata come «degenerata» negli anni del nazismo.
L’esposizione della collezione di Peggy Guggenheim, invitata a partecipare dall’allora segretario generale della Biennale Rodolfo Pallucchini su consiglio dell’artista Giuseppe Santomaso, è un avvenimento senza precedenti per la manifestazione. Non si era mai vista fino ad allora nel Vecchio continente una raccolta così rappresentativa di «opere dell’arte non-oggettiva», con il merito di offrire esempi di tutte le scuole artistiche, dal Cubismo, al Futurismo, e continuate poi con il Dadaismo, il Surrealismo e l’Espressionismo astratto.
Di fatto, pur annoverando gli italiani Giacomo Balla, Gino Severini, Giorgio de Chirico e Massimo Campigli, la collezione comprendeva soprattutto i nomi più rappresentativi dell’arte astratta e surrealista, quali Jean Arp, Costantin Brancusi, Alexander Calder, Max Ernst, Alberto Giacometti, Kazimir Malevich, Antoine Pevsner, senza dimenticare i molti artisti americani, da William Baziotes a Jackson Pollock, da Mark Rothko a Clyfford Still, mai esposti al di fuori degli Stati Uniti e qui presenti per la prima volta.
Esponendo l’arte contemporanea dell’epoca, la collezione di Peggy Guggenheim si allineava perfettamente con le aspirazioni della Biennale di offrire una visione il più ampia possibile sullo scenario artistico post-bellico.
Negli spazi del padiglione concesso dalla Grecia, allora devastata dalla guerra civile, Peggy espose centotrentasei opere, una ventina delle quali saranno in seguito donate a vari musei nel mondo, tra cui il Museo d’arte di Tel Aviv, la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, il Museum of Modern Art di San Francisco, il Museum of Art, Rhode Island School of Design, il Museum of Art dell’Università dell’Iowa e l’ Art Museum di Seattle.
La mostra «1948: la Biennale di Peggy Guggenheim» mira a ricreare l’ambiente del padiglione attraverso documenti, fotografie, lettere e una maquette che per la prima volta ne ricostruisce gli spazi e l’allestimento originario del ’48, seguito dall’eminente architetto veneziano Carlo Scarpa, che collabora con la Biennale dal 1948 al 1972. Non mancheranno alcune delle opere allora in mostra, oggi parte della Collezione Peggy Guggenheim, insieme ad altre in seguito donate, quali «Composizione n. 113» (1939) di Friedrich Vordemberge-Gildewart e «Composizione» (1936) di Jean Hélion, oggi nella collezione del Museo d’arte di Tel Aviv, e che dagli anni Cinquanta non sono mai più state esposte a Venezia. La mostra offrirà, dunque, l’opportunità di riesaminare questo evento quale spartiacque nella carriera di Peggy e nella storia stessa della Biennale di Venezia. La collezione offrì, infatti, agli europei l’occasione di mettersi al passo con gli esiti migliori delle avanguardie più recenti, e conoscere gli artisti newyorkesi che avrebbero dominato la scena artistica degli anni ’50.

La mostra della collezionista creò non poco scompiglio e spaesamento nel pubblico e nella critica, ma fu anche visitata da personalità illustri come il presidente Luigi Einaudi, l’ambasciatore americano in Italia James Dunn e l’anziano storico dell’arte Bernard Berenson, sui cui testi la collezionista americana studiò e si documentò durante il suo primo viaggio in Europa, agli inizi degli anni ’20. Una fotografia di Lee Miller catturò, poi, una Peggy felicissima durante la visita del critico Lionello Venturi.
Della mostra rimane anche un prezioso catalogo fatto editare dalla stessa collezionista, con un disegno di Max Ernst in copertina, un testo del critico ed editore Bruno Alfieri e testimonianze di Herbert Read, Jean Arp e Max Ernst.
Sempre in concomitanza con il settantesimo anniversario dell’esposizione della collezione di Peggy Guggenheim alla Biennale di Venezia, nelle sale di Palazzo Venier dei Leoni saranno straordinariamente esposte, per la prima volta negli ultimi vent’anni, tutte e undici le opere di Jackson Pollock, oggi appartenenti alla collezione. Cinque di queste erano in mostra nel Padiglione del ’48 insieme agli altri capolavori delle avanguardie storiche.

Informazioni utili
1948: la Biennale di Peggy Guggenheim. Project Rooms, Collezione Peggy Guggenheim | Palazzo Venier dei Leoni  Dorsoduro 701 - Venezia. Orari: tutti i giorni, ore 10.00-18.00; chiuso il martedì; la biglietteria chiude alle ore 17.30. Ingresso: intero € 15,00, ridotto € 9,00. Informazioni: tel. 041.2405415. Sito internet: guggenheim-venice.it. Fino al 25 novembre 2018.

venerdì 1 giugno 2018

Qui, ora (con il giusto tempo)», debutto in galleria per Vinil

I disegni come espressione d’arte libera, i tatuaggi come forma d’artigianato, l’inchiostro come ingrediente chiave per fermare (e firmare) l’hic et nunc, il qui e l’ora, per sempre. Si potrebbe riassumere così il lavoro di Ylenia Manzoni, in arte Vinil, apprezzata artista e tatuatrice bergamasca, i cui disegni saranno protagonisti della mostra «Qui, ora (con il giusto tempo)», con cui la 255 Raw Gallery, il polo artistico della vivace via Torquato Tasso di Bergamo, festeggia il suo secondo compleanno.
Le opere esposte, realizzate con pantone su carta, sono caratterizzate da linee nette e definite, figure leggere, fanciullesche e affascinanti, ed esprimono il suo io più profondo, l’anima da artista che da sempre la accompagna. I disegni sono in mostra, fino al prossimo 27 luglio, in quella che gli organizzatori definiscono «una concept gallery dallo stile domestico, ma ad alto tasso di natura, con piante e fiori, in continuità con il carattere unico di Vinil, con le sue numerose esperienze e con la sua passione per la natura, ambiente di grande ispirazione». A conferma di questo, un corner dell’esposizione è dedicato alla ricostruzione di un salotto green, dove trovano spazio i vasetti per piantine caratterizzati dal tratto unico di Ylenia.
La mostra ha, poi, un’ideale prosecuzione da Wooden Bergamo, in via San Bernardino, dove ha trovato casa la collezione esclusiva di t-shirt disegnate dall’artista.
Classe 1988, Vinil è nata a Merate, dopo il diploma al liceo artistico ha studiato per un anno all’Accademia delle Belle Arti di Brera per arrivare a dedicarsi al disegno che, da semplice passione, è diventata una vera e propria vocazione. Quasi un’ossessione. Così, dopo aver fatto gavetta come assistente in uno studio di tatuaggi e, soprattutto, dopo aver conosciuto alla Convention di Milano Amanda Toy, tatuatrice famosa in Italia e all’estero, ha acquistato le sue prime macchinette. Da quel momento, Vinil non si è più fermata. Oggi lavora per Area Industriale Tattoo Brescia e ha all’attivo guest spot con fuoriclasse del settore come Peter Aurisch e Angelique Houtkamp.
«Qui, ora (con il giusto tempo)» è la sua prima mostra personale e vede in esposizione, oltre ai disegni originali, pantone su carta, serigrafie, una parete dedicata ai suoi post social più apprezzati: Vinil è molto seguita anche online dai suoi oltre 34 mila followers su Instagram.
«I miei disegni -racconta Vinil- parlano per me, esprimono chi sono e ciò in cui credo. Lo stile potrebbe essere definito fiabesco per via delle lunghe ciglia e delle gote rossissime che dono solitamente ai personaggi che ritraggo, ma prendo ispirazione da ogni aspetto della vita reale. Sono le relazioni e i trascorsi a renderci ciò siamo. E se nel disegno mi ritengo completamente libera, nel tatuare, invece, pongo grande ascolto ai miei clienti. Contamino le mie idee con le loro. Nessun disegno è uguale a un altro, ogni tatuaggio mostra l’anima di chi lo accoglie». L’artista racconta, poi, anche la scelta del titolo per la mostra: «Ho scelto di intitolare l’esposizione «Qui, ora (con il giusto tempo)» perché vorrei invitare i visitatori a prendersi del tempo per assaporare le immagini. Per non guardarle e basta, magari velocemente e distrattamente come siamo abituati a fare ogni giorno, ma per sentirle davvero, ascoltarle, capirle».

Informazioni utili
 «Qui, ora (con il giusto tempo)». 255 Raw Gallery presso Palazzo Zanchi, via Torquato Tasso, 49 / C - Bergamo. Orari: dal lunedì al venerdì, dalle ore 10.00 alle ore 19.00. Ingresso libero. Informazioni: www.255.gallery. Fino al 27 luglio 2018.