ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

mercoledì 3 aprile 2019

Miart 2019, 186 gallerie e un invito: «abbi cara ogni cosa»

«Abbi cara ogni cosa»: è un verso del poeta Gareth Evans, tratto dal poema «Hold Everything Dear», il motto di Miart 2019, la fiera internazionale d’arte moderna e contemporanea in programma da venerdì 5 a domenica 7 aprile (con giovedì 4 press preview, VIP preview e vernissage su invito) a Milano, negli spazi del padiglione 3 di fieramilanocity, a chiusura della Milano art week, un vasto programma di eventi, inaugurazioni e performance che coinvolge istituzioni pubbliche, fondazioni private e spazi no-profit della città.
«Abbi cara ogni cosa» non è il tema guida di questa ventiquattresima edizione di Miart, espressione come tutte le rassegne di settore della diversità e della complessità del mercato dell’arte nelle sue varie forme e quindi evento difficilmente catalogabile, quanto un invito all’attenzione rivolto agli artisti e alle gallerie, ma anche al pubblico.
«L’arte -spiega a tal proposito Alessandro Rabottini, al suo terzo anno alla direzione della fiera milanese- ha il potere di trasformare anche gli aspetti più umili della realtà perché gli artisti posano una sguardo di cura su di essa, e quando come spettatori facciamo nostro questo gesto di attenzione allora forse diventiamo spettatori più consapevoli, e in grado noi stessi di incidere sulla società».
«Il punto -continua il critico e curatore milanese, attivo per anni alla Gamec di Bergamo- non è quanto l’arte del nostro tempo possa cambiare la realtà, ma quanto essa possa renderci spettatori attivi della nostra epoca, accettando il confronto e la sperimentazione accanto al consolidamento dei valori storici», facendoci osservare il nostro tempo, caotico quanto fecondo, con occhi nuovi.
All’appello di Alessandro Rabottini hanno risposto 186 gallerie internazionali provenienti da diciannove nazioni, alcune delle quali al loro debutto sulla scena milanese come le londinesi Cabinet, Corvi-Mora ed Herald St, la piemontese Tucci Russo di Torre Pellice, e le multi-sede Marian Goodman Gallery (New York - Parigi - Londra), Galerie Thaddaeus Ropac (Parigi - Londra - Salisburgo), e, ultima ma non ultima, la Hauser e Wirth (Hong Kong - Londra - Los Angeles - New York - Somerset - St. Moritz - Gstaad - Zurigo), grande protagonista anche dell’art week milanese con le mostre di Anna Maria Maiolino (rappresentata anche da Raffaella Cortese) al Pac – Padiglione d’arte contemporanea, Anj Smith al Museo Poldi Pezzoli, Lygia Pape alla Fondazione Carriero e Hans Josephsohn ad Ica.
Più di un centinaio delle realtà presenti in fiera a Milano sono italiane; una settantina provengono da Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Inghilterra, Messico, Perù, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Stati Uniti, Sud Africa, Svizzera, Turchia e Ungheria.
Tante sono le gallerie che consolidano il loro rapporto con Miart, a partire dalle italiane Alfonso Artiaco di Napoli, Giò Marconi di Milano e Massimo Minini di Brescia per giungere alle straniere ChertLüdde di Berlino, Bortolami di New York, Lelong e Co. di Parigi, senza dimenticare realtà con più sedi in tutto il mondo, come la Continua (San Gimignano - Pechino - Boissy-le-Châtel - L’Avana), la Clearing (Bruxelles - New York - Brooklyn),la Dvir Gallery (Bruxelles - Tel Aviv) e la Gladstone Gallery (New York - Bruxelles).
«Established contemporary», «Established Masters», «Generations», «Decades», «Emergent», «On Demand» ed «Object» sono le sette sezioni in cui è stato suddiviso il percorso in fiera, che getta un occhio anche al design in edizione limitata, facendo quasi da trait d’union con il prossimo importante appuntamento che attende il capoluogo milanese: la Milano Design Week, con il Salone del mobile, in cartellone dall’8 al 14 aprile.
Miart ha nel proprio Dna non solo il racconto di ciò che si muove sulla scena contemporanea, ma anche un’attenta riflessione sull’arte del secolo scorso, attraverso la presenza di stand di realtà come la Galleria dello Scudo di Verona, la Tega di Milano o la Mazzoleni di Torino, ma anche con la realizzazione del progetto «Decades», per la curatela di Alberto Salvadori, in cui ogni decade del Novecento verrà rappresentata da un artista simbolo.
Gli anni Novanta saranno raccontati, per esempio, da Jon Thompson, figura fondamentale per lo sviluppo della Young British Art e artista la cui ricerca sulla storia dell’arte è ancora da scoprire. Sandro Chia, uno dei protagonisti del movimento della Transavanguardia, rappresenterà, invece, gli anni Ottanta. Mentre gli anni Settanta saranno portati a Miart dalla galleria acb di Budapest, attraverso il lavoro di Katalin Ladik e le pratiche sperimentali delle artiste della Neo-avanguardia ungherese, e dalla Galleria Gomiero di Milano, che presenterà una straordinaria selezione di disegni inediti dell’ultimo periodo di attività dell’architetto Carlo Scarpa.
La recente riscoperta del lavoro di Maria Lai, protagonista dell’ultima edizione della Biennale di Venezia e a breve al centro di una grande retrospettiva a Roma per la curatela di Bartolomeo Pietromarchi, sarà sotto i riflettori di Miart grazie a una mostra personale promossa dalla M77 di Milano, con una selezione dei suoi lavori realizzati negli anni Sessanta. Gli anni Cinquanta saranno raccontati, invece, da uno dei capolavori dell’artista ceco Jaroslav Serpan. Mentre Antonietta Raphaēl, artista di riferimento della Scuola romana, sarà la protagonista degli anni Quaranta. La decade precedente sarà, invece, rappresentata dal romano Duilio Cambellotti; la Società di belle arti di Viareggio realizzerà, infine, un percorso attraverso gli anni ‘10 e ‘20 con opere, tra gli altri, di Lorenzo Viani ed Elisabeth Chaplin.
La fiera milanese sarà anche -come negli intenti di Alessandro Rabottini- barometro della realtà di oggi. Latifa Echakhch proporrà, per esempio, una riflessione sui limiti degli stereotipi culturali, mentre l’artista portoghese Luìs Lázaro Matos metterà in scena l’assurdità della propaganda attraverso i suoi dipinti ironici e pungenti. Serena Vestrucci installerà, invece, un monumentale cielo stellato cucito a mano con dozzine di bandiere dell’Unione Europea e, ancora, lo statunitense Jon Kessler presenterà le sue celebri sculture in movimento che criticano la società della sorveglianza.
Durante i giorni della fiera, diciotto direttori di musei internazionali e curatori di prestigiose istituzioni provenienti da dieci Paesi andranno ad implementare il fondo di acquisizione della Fondazione Fiera Milano con l’acquisto di opere esposte a Miart e assegneranno cinque premi a gallerie e artisti: Herno, Fidenza Village per Generations, On Demand by Snaporazverein, LCA per Emergent, Rotary club Milano Brera per l'arte contemporanea e i giovani artisti.
Ad accompagnare la ricca proposta delle gallerie c’è anche un nuovo ciclo di «miartalks», realizzati in collaborazione con «In Between Art Film», casa di produzione cinematografica fondata nel 2012 da Beatrice Bulgari. Si tratta di tre giornate di incontri in cui una quarantina di artisti, curatori e direttori di musei, collezionisti, designer e scrittori internazionali saranno chiamati a riflettere su tre principali tematiche, riunite attorno al tema «Il bene comune». La prima giornata è dedicata al collezionismo, alla produzione e alla commissione di opere d’arte; la seconda è incentrata sull’arte italiana come patrimonio collettivo e sulla sua diffusione a livello internazionale; la terza prevede un focus sul design.
Con Miart torna anche la Milano Art Week, una settimana in cui, scarpe comode e programma alla mano, si va a zonzo per la città a scoprire le ricerche più attuali del contemporaneo, in attesa dei due eventi collettivi che chiuderanno questa intensa sette giorni: l’Art Night degli spazi no-profit, in cartellone sabato 6 aprile, e l’apertura speciale, in agenda domenica 7, delle gallerie private.
Tra le mostre e le installazioni da vedere, tutte ben raccontate sul sito milanoartweek.it, si segnalano «A Friend», un intervento monumentale dell’artista ghanese Ibrahim Mahama ai bastioni di Porta Venezia (commissionato dalla Fondazione Trussardi), «Remains», un’ampia rassegna sul lavoro dell’artista di origine indiana Sheela Gowda all’Hangar Bicocca, ma anche i lavori di Marinella Pirelli al Museo del Novecento e quelli di Carlos Amorales alla Fondazione Adolfo Pini.
Una proposta, dunque, varia quella di Miart e della Milano Art Week, che, con i suoi tanti appuntamenti, indagherà come l’arte e il design «possano contribuire -si legge nella nota stampa- al dibattito attuale su questioni urgenti come il cambiamento climatico, lo scambio tra culture, l’espansione delle geografie dell’arte, l’impatto delle nuove tecnologie e la riscrittura della storia dell’arte alla luce del contributo della creatività delle donne». Temi di attualità, questi, che dimostrano come Milano possa essere e sia una «città che sale».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Immagine per «Horizon», campagna promozionale di Miart 2019. Fotografo: Jonathan Frantini. Art Direction: Francesco Valtolina (Mousse). Assistente Art Direction: Anita Poltronieri (Mousse). Assistente fotografo: Francesca Gardini, Giacomo Lepori. Casting: Semina Casting Modelli: Amelie, Lorenzo, Clara, Federico, Alessandro, Mohamed, Sara, Angela, Martina, Alessandro, Nicolo', Davide, Loreley, Mehdi; [fig. 2] JX Williams, Untitled (Bull Chain), 2018. Mixed media floor installation. Dimensions variable. Unique. Courtesy Cabinet, London; [fig. 3] Latifa Echakhch, Erratum, 2004. «Leopards in the Temple». Installation view, Sculpture Center, New York, 2010. Courtesy: courtesy of the artist, kaufmann repetto, Milan / New York. Copyright: Jason Mandella. © SculptureCenter and the artists; [fig. 4] Virgilio Guidi, Donna dalla cintura rossa, 1934. Olio su compensato, 90 × 72,2 cm. Courtesy Società delle belle arti, Viareggio; [fig. 5] Serena Vestrucci, «Strappo alla regola», 2013. European flags canvas, cotton thread, three months, 110 × 4 × 100 cm. Otto Zoo and the artist. Copyright Ph. Luca Vianello; [fig. 6] Luís Lázaro Matos, White Shark Cafe, 2018. Graphite, marker and tracing paper on paper, variable dimensions. Unique. Courtesy Galeria Madragoa and Luís Lázaro Matos; [fig. 7] Alessandro Mendini, Corbu, 2016. Ceramica dipinta con i colori usati da Le Corbusier nell'Unité d'Habitation di Marsiglia, 59,5 × 20 × 27 cm ciascuno. Copyright Renato Ghiazza. Courtesy Enrico Astuni, Bologna

Informazioni utili  
Miart. fieramilanocity, viale scarampo, gate 5 pad./ pav. 3 - Milano. Orari: venerdì 5 e sabato 6 aprile, dalle ore 12.00 alle ore 20.00, domenica 7 aprile, dalle ore 11.00 alle ore 19.00. Ingresso: intero 15,00 euro, ridotto per ragazzi dai 14 ai 17 anni 10,00 euro, ridotto per bambini sotto i 14 anni e studenti di arte 1,00 euro | il biglietto intero online costa 12,00 euro. Informazioni: www.miart.it. Dal 5 al 7 aprile 2019.

lunedì 1 aprile 2019

«Infinito Leopardi»: un manoscritto, un fotografo e duecento anni di poesia

Sono passati duecento anni da quando Giacomo Leopardi (Recanati 1798 – Napoli 1837) compose il manoscritto vissano de «L’Infinito», «la sua poesia -per usare le parole di Laura Melosi- più studiata, più letta e più tradotta».
In occasione dell’anniversario è stato ideato un ricco calendario di iniziative che, per un intero anno, proporrà al pubblico mostre, spettacoli, conferenze e pubblicazioni.
L’arco temporale dell’intera manifestazione sarà suddiviso in due momenti principali, corrispondenti alla realizzazione di rassegne di diversa natura prodotte da Sistema Museo, la società che gestisce i musei civici di Recanati, città natale dello scrittore.
La prima parte delle celebrazioni, in programma fino al 19 maggio, ha il suo cuore pulsante a Villa Colloredo Mels, dove Laura Melosi, direttrice della cattedra leopardiana all’Università degli studi di Macerata, ha curato l’esposizione «Infinità / Immensità», incentrata sul patrimonio leopardiano di manoscritti di proprietà del Comune di Visso, originariamente parte della collezione di Prospero Viani (1812-1892), tra i quali c’è appunto l’autografo de «L’infinito».
Questa poesia di grande armonia compositiva, costituita da quindici endecasillabi sciolti, fu composta in un anno della biografia di Giacomo Leopardi particolarmente difficile. Il 1819 fu, infatti, un vero e proprio annus horribilis per lo scrittore marchigiano, ridotto come era alla quasi completa cecità, impossibilitato allo studio e al pensiero, attanagliato da una disperazione profonda che lo portò a progettare una clamorosa fuga dal «natio borgo selvaggio».
È Leopardi stesso a indicare quel 1819 come l’anno della «mutazione totale», «privato dell’uso della vista e della continua distrazione della lettura, cominciai -scrive il poeta- a sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso, cominciai ad abbandonare la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose».
È proprio a queste traversie, in un contrasto notato da molti critici, «andrebbe ricondotta -racconta Laura Melosi- l’origine più intima dell’«Infinito», un componimento che in maniera implicita celebra la capacità del pensiero di trascendere il reale e i limiti concreti della vita, fino a valicare monti, campi e a naufragare nell’indeterminato e infinito spazio».
Della poesia esistono due manoscritti: uno più antico, conservato a Napoli, e un secondo, quello di Visso messo in mostra a Recanati, nel quale si tramanda una versione testuale molto vicina alla definitiva.
«Le correzioni che si osservano su questi manoscritti -racconta ancora Laura Melosi- sono effettivamente minime, sostituzioni di singole parole, aggiustamenti di punteggiatura, ma investono e riguardano altresì concetti filosofici e letterari sottilissimi, per cui anche la semplice mutazione di una virgola gioca un ruolo fondamentale nella conoscenza e nella comprensione di questa poesia».
La mostra a Villa Colloredo Mels non è, però, solo una semplice vetrina per il celebre manoscritto autografo, ma è anche un momento scientifico importante, come documenta il catalogo edito per l’occasione, che esce a distanza di quasi un secolo dal contributo più ampio finora dedicato ai manoscritti di Visso, quello scritto nel 1923 da Carlo Bandini per i tipi della Nicola Zanichelli di Bologna.
L’esposizione dell’intera collezione di autografi vissani, arrivati nel comune maceratese nel 1869 a seguito dell’acquisizione del deputato cavalier Giovan Battista Gaola Antinori per la cifra irrisoria di 400 lire (l’equivalente di circa 2000 euro odierni), permette, infatti, di ripercorrere alcune tappe dell’iter creativo leopardiano.
Il percorso espositivo, arricchito da strumenti multimediali, spazia dal manoscritto degli «Idilli» (con «L’Infinito», «La sera del dì di festa», «Alla luna», «Il sogno», «La vita solitaria» e il frammento «Odi, Melisso»), poesie ideati tra il 1819 e 1821, fino ad arrivare ad uno degli ultimi scritti del poeta recanatese, la nuova prefazione al commento delle «Rime» petrarchesche da ripubblicare per i tipi dell’’editore fiorentino David Passigli nel 1837, ma che avrebbe visto la luce solo due anni dopo.
Accanto al nucleo vissano, la mostra recanatese permette di ammirare altri documenti, manoscritti e cimeli del poeta, selezionati sempre da Laura Melosi, con la collaborazione di Lorenzo Abbate.
Tra le opere esposte meritano una segnalazione le carte donate nel 1881 dall’editore Le Monnier di Firenze, quelle relative alla pubblicazione della prima edizione dello «Zibaldone» e una commovente lettera che Giacomo spedì da Firenze il 7 luglio 1833 al padre Monaldo.
Questi documenti sono allineati accanto a una galleria di ritratti della famiglia Leopardi e dello stesso scrittore, tra cui si possono ammirare tre tele firmate da Giovanni Gallucci e Giuseppe Ciaranfi, un gesso di Antonio Ugo (Palermo 1870 – ivi 1950), un marmo di Americo Luchetti (Montecassiano 1909, – ivi 2006) e la maschera funeraria realizzata alla morte del poeta, il 14 giugno 1837, su incarico di Antonio Ranieri.
Le sale di villa Colloredo Mels e l’omaggio al manoscritto de «L'Infinito» si aprono anche al contemporaneo con la mostra «Mario Giacomelli. Giacomo Leopardi, L’Infinito, A Silvia», a cura di Alessandro Giampaoli e Marco Andreani, che racconta, anche grazie al prezioso catalogo edito per l’occasione, uno dei capitoli più affascinanti e meno indagati della storia della fotografia italiana del Dopoguerra e dei rapporti tra letteratura e fotografia.
Mario Giacomelli (Senigallia, 1925-2000), marchigiano come Giacomo Leopardi, non poteva non confrontarsi con il poeta recanatese e le sue opere più celebri. Data, per esempio, al 1964 la trasposizione fotografica della lirica leopardiana «A Silvia», esposta a Villa Colloredo Mels nella sua versione originale, della quale fino ad oggi si erano perse le tracce.
La serie, composta da trentaquattro stampe di vario formato, faceva parte di un progetto più ampio di diffusione dei grandi capolavori della letteratura attraverso la loro trasposizione fotografica, che vide coinvolti, tra gli altri, i fotografi Ugo Mulas, Ferdinando Scianna e Toni Nicolini.
Questo lavoro fu sceneggiato da Luigi Crocenzi (Montenegro, 1923- Fermo 1984), in vista della proiezione televisiva all’interno della trasmissione Rai Telescuola, e ne mostra parecchie sue suggestioni, come nel trittico di ritratti che, come i fotogrammi della pellicola di un film, segnano il mutamento progressivo dell’espressione di Silvia da «lieta» a «pensosa».
Giacomelli si accostò nuovamente alla poesia «A Silvia» nel 1988 e vi lavorò in totale autonomia.
Nonostante il recupero di undici fotografie e due varianti dalla versione originale, su un totale di trenta stampe, l’esito complessivo fu totalmente diverso.
«Il fotografo -raccontano i curatori- fece, infatti, un ampio uso di doppie esposizioni, immagini mosse, sfocate e contrastate, tutti stilemi tipici del Giacomelli degli anni Ottanta e Novanta e quasi del tutto assenti nella versione del 1964. Soprattutto mutò radicalmente il rapporto col testo. Se la versione originale costituiva una traduzione fedele dei versi di «A Silvia», in quella del 1988 il filo logico e narrativo del testo non era più immediatamente rintracciabile, disciolto nel magma di immagini realizzate in luoghi e situazioni diverse, tenute insieme non da relazioni sintattiche, spaziali, temporali o di causa-effetto, ma da un sistema di associazioni a volte indecifrabili».
Nel 1988 Giacomelli lavorò anche alla trasposizione fotografica de «L’Infinito». La serie, presentata in mostra nella sua sequenza originale, costituisce uno degli esiti più alti a cui pervenne l’artista nell’ambito delle cosiddette «foto-poesie». In questo lavoro -raccontano ancora i curatori- «attraverso il meticoloso montaggio di immagini legate tra loro e ai versi della lirica leopardiana secondo un complesso sistema di libere associazioni e richiami metaforici, Giacomelli ci restituisce in termini visivi il rapporto tra finito e infinito, realtà e immaginazione caro al poeta di Recanati».
Le celebrazioni recanatesi continueranno, dal 30 giugno al 3 novembre (l’inaugurazione è prevista per il 29 giugno, giorno in cui cade il compleanno del poeta), con due mostre che ruotano attorno all’espressione dell’infinito nell’arte: «Infiniti», a cura di Emanuela Angiuli, e «Finito, Non Finito, Infinito», a cura di Marcello Smarrelli. Ma il programma, che nei giorni passati ha visto, in occasione della Giornata mondiale della poesia, un’intensa tre giorni di eventi con ospiti del calibro di Antonino Zichichi, Paolo Crepet, il ministro Marco Bussetti e molti altri, ha in serbo ancora tante sorprese per gli appassionati di Giacomo Leopardi e della sua poesia più conosciuta. Tante occasioni per rivivere un viaggio in versi tra la concretezza di un colle e la meraviglia di ciò che sta oltre, nell’infinito, un’esperienza sublime, totale, che toglie il respiro, come ben racconta il verso finale: «E il naufragar m’è dolce in questo mare».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Copertine realizzate in occasione delle prime due mostre del progetto «Infinito Leopardi»; [fig. 2] Giacomo Leopardi, «L’Infinito», manoscritto autografo
1819. Visso, Museo Comunale; [fig. 3] Giovanni Gallucci, Ritratto di Giacomo Leopardi. Olio su tela. Collezione del Comune di Recanati, Donazione Teresa Teja; [fig. 4] Giacomo Leopardi, manoscritto della prima edizione dello «Zibaldone di pensieri». Collezione Comune di Recanati; [fig. 5]  Maschera funeraria realizzata alla morte di Giacomo Leopardi, il 14 giugno 1837, su incarico di Antonio Ranieri. Collezione del Comune di Recanati, Donazione Felice Le Monnier; [fig. 6 e 7] Mario Giacomelli, «A Silvia», 1964. Gelatin Silver Print. © Archivio Mario Giacomelli - Rita Giacomelli; [fig. 8] Mario Giacomelli, L'infinito, 1986-88. Gelatin Silver Print. © Archivio Mario Giacomelli - Rita Giacomelli; [fig. 8] Americo Luchetti (Montecassiano 1909 – ivi 2006), Testa di Giacomo Leopardi, marmo. Collezione del Comune di Recanati

Informazioni utili 
«Infinito Leopardi» - prima parte. Museo civico Villa Colloredo Mels, via Gregorio XII - Recanati. Orari: martedì – domenica, ore 10.00 – 13.00 e ore 15.00 – 18.00; Lunedì chiuso. Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 7 (gruppi minimo 15 persone, gruppi accompagnati da guida turistica abilitata, possessori di tessera FAI, Touring Club, Italia Nostra, Coop, Alleanza 3.0 e precedenti Adriatica, Bordest, Estense) o € 5,00 euro (possessori Recanati Card, aderenti al Campus Infinito, gruppi scolastici da 15 a 25 studenti); omaggio per minori fino a 19 anni (singoli), soci Icom, giornalisti muniti di regolare tesserino, disabili e la persona che li accompagna. Informazioni: Ufficio IAT, tel. 071.981471, recanati@sistemamuseo.it. Fino al 19 maggio 2019.

sabato 30 marzo 2019

Da Botticelli a Della Robbia, Montevarchi e i suoi tesori

Figure dall'eleganza senza tempo, velate da un delicato senso di malinconia, scene oniriche illuminate da bagliori d’oro, ambientazioni dall'armonioso equilibrio compositivo e dalla sensibilità intima, quasi domestica: c’è lo stile, personalissimo, di Sandro Botticelli, (Firenze 1445 – 1510), uno dei maggiori esponenti del Rinascimento fiorentino, nella tela «Incoronazione della Vergine e Santi», grande protagonista della mostra «Botticelli, Della Robbia, Cigoli. Montevarchi alla riscoperta del suo patrimonio artistico», allestita negli spazi del recentemente restaurato Palazzo del Podestà di Montevarchi.
Ideata da Luca Canonici, direttore artistico del Museo di arte sacra di San Lorenzo, e curata da Bruno Santi, Lucia Bencistà e Felicia Rotundo, l’esposizione mette insieme per la prima volta dieci importanti opere d’arte -nove dipinti e una statua in terracotta- realizzate nella cittadina tra la fine del Quattrocento e gli ultimi decenni del Settecento, e in seguito allontanate, per circostanze diverse, dai luoghi per i quali erano state eseguite.
La rassegna, allestita fino al prossimo 28 aprile, prova così a ridisegnare una mappatura delle grandi committenze per gli enti religiosi di Montevarchi, quali il convento francescano di San Ludovico, il monastero benedettino di San Michele Arcangelo alla Ginestra, il monastero agostiniano di Santa Maria del Sacro Latte, la chiesa parrocchiale di Sant’Andrea a Cennano e la Collegiata di San Lorenzo.
L’ «Incoronazione della Vergine e Santi» di Sandro Botticelli -collocata al secondo piano del Palazzo del Podestà, a chiusura del percorso espositivo- torna a casa dopo due secoli. Era, infatti, il 1810 quando la tela, a seguito della soppressione napoleonica dei beni ecclesiastici, venne trafugata dalla chiesa di San Ludovico (ora Sant’Andrea a Cennano) per essere portata nei depositi fiorentini in piazza San Marco, giungendo, poi, nella chiesa di San Jacopo di Ripoli e finendo il suo viaggio, nel 1823, alla Villa La Quiete a Firenze, dove tuttora è conservata.
L’olio su tavola, di grandi dimensioni e presumibilmente realizzato tra il 1498 e il 1508, è diviso in due livelli, uno terreno e uno celeste, da un piano di nuvole. «Nella parte inferiore, in un prato fiorito, -scrive Maria Eletta Benedetti in catalogo- un’assemblea di Santi (Antonio da Padova, Barnaba, Filippo apostolo, Ludovico di Tolosa, Maria Maddalena, Giovanni Battista, Caterina d’Alessandria, Pietro, Bernardino, Francesco, Giacomo Maggiore e Sebastiano) rivolge il proprio sguardo al cielo, dove la Vergine viene incoronata da Dio Padre mentre un affollato coro di angeli musicanti celebra con antichi strumenti musicali (un organo portativo, un liuto, un salterio, una lira, un flauto, dei cimbali, un’arpa e un tamburello) il momento solenne, inondato di una luce dorata che filtra fino al cielo terrestre».
La ricchezza e la preziosità dell’abito di San Ludovico di Tolosa, la dolcezza lineare dei volti di Santa Caterina d’Alessandria e della Vergine sono caratteristiche riconducibili alla pittura matura del Botticelli. Ma insieme al maestro è ragionevole pensare che la tavola vide all’opera anche gli allievi della sua bottega. I tratti dei santi in seconda fila appaiono, infatti, impuri e grossolani, così come -racconta ancora Maria Elena Benedetti - «il terzetto di angeli cantatori in alto a sinistra sembra essere realizzato per la delicatezza del tratto, per la resa dei volti e per l’intensità espressiva, da un’altra mano rispetto a quella degli angeli eseguiti sommariamente nella parte destra».
Un altro capolavoro presente in mostra, al primo piano, è l’imponente «Miracolo della mula» di Giovanni Martinelli (Montevarchi 1600 – Firenze 1659), uno degli artisti più affascinanti ed enigmatici della pittura del Seicento, anche se, allo stesso tempo, tra i meno conosciuti.
Questo dipinto -commissionato per la Chiesa di San Ludovico e oggi custodito nella chiesa di San Francesco a Pescia- è stato realizzato nel 1632 probabilmente proprio a Montevarchi con il pittore «suggestionato -spiega Luca Canonici in catalogo- da ciò che il territorio gli suggeriva».
Sullo stesso piano è esposta anche una tela ritrovata da Lucia Bencistà proprio in occasione della mostra a Montevarchi: «Santi francescani in adorazione della Vergine» di Giacomo Tais (Trento 1685 - Pescia 1750).
Oggi conservato nel deposito del Museo del cenacolo di Andrea del Sarto a Firenze, quest’olio su tela, realizzato per la chiesa di San Ludovico nel 1739, è stato recentemente restaurato da Stefania Bracci, il cui lavoro ha restituito al dipinto la sua cromia accesa e luminosa, portando alla ribalta una tavolozza incentrata non solo su toni grigi e bruni, ma anche sulle tonalità del rosso, del giallo e del blu.
«L’opera -racconta Lucia Bencistà in catalogo- è dominata nel registro superiore da due angeli circondati da cherubini e puttini festanti e, più in basso, da quattro santi francescani che attorniano il vano centrale, in atteggiamento di venerazione». I santi sono Margherita da Cortona, Bonaventura da Bagnoregio, autore della «Legenda Maior» (la prima biografia ufficiale di San Francesco), San Pietro d’Alcantara e San Pasquale Baylon, «la cui vita -racconta ancora Lucia Bencistà- fu caratterizzata dall’amore per l’Eucaristia rappresentata nel calice poggiato sulla nuvoletta soprastante».
Sempre dal capoluogo fiorentino, o meglio dal Museo provinciale dei cappuccini toscani, provengono il «San Fedele da Sigmaringen in adorazione della Vergine col Bambino» di Fra’ Felice da Sambuca (Sambuca 1734 – Palermo 1805) e il «San Francesco» di Violante Siries Cerroti (Firenze 1710 - 1783), dipinto nel 1765 per l’altare del santo nella chiesa di San Ludovico.
Nella mostra, al piano terra, è possibile ammirare un altro capolavoro recuperato: un bellissimo dipinto del pittore Jacopo Vignali (Pratovecchio 1592 - Firenze 1664) per il convento dei frati cappuccini di Montevarchi, oggi conservato a Firenze, che raffigura il «Beato Felice da Cantalice che riceve il Bambino Gesù dalle mani della Vergine».
Dalla chiesa del Monastero benedettino di San Michele Arcangelo alla Ginestra a Montevarchi provengono, invece, altre due opere di primissimo piano, entrambe conservate al Museo nazionale d’arte medievale e moderna di Arezzo: la «Resurrezione di Cristo» di Ludovico Cardi detto il Cigoli (Cigoli di San Miniato 1559 – Roma 1613), firmata dal pittore e datata 1591, e l’intima «Natività della Vergine» di Santi di Tito (Firenze 1536 - 1603).
La mostra presenta, inoltre, altre interessanti sorprese come «Il miracolo di Sant’Antonio taumaturgo» di Mattia Bolognini (Montevarchi 1605 - Siena 1667), pittore nato a Montevarchi al pari del Martinelli, che dipinse quest’opera, oggi nella raccolta di arte sacra della chiesa di San Clemente di Pelago (Firenze), nel 1647 per l’ex Monastero di Santa Maria del Latte.
La mostra è, infine, arricchita da una terracotta policroma invetriata raffigurante «Sant’Antonio Abate», attribuita a Luca della Robbia il giovane e proveniente dall’antica Compagnia di Sant’Antonio abate.
Un percorso espositivo, dunque, di grande fascino quello visitabile a Montevarchi, che permette di riannodare i fili ormai recisi di una storia in cui si intrecciano le decisioni di committenze illuminate e il lavoro di artisti dall'abile mano. Una storia grazie alla quale, nell’Ottocento, la cittadina toscana -ricorda Lucia Bencistà in catalogo- venne inserita tra le «Cento città d’Italia» nell'impresa editoriale del «Secolo» di Milano, che per la prima volta diffondeva tra gli italiani la conoscenza e la bellezza del patrimonio culturale della penisola.

Didascalie delle immagini
[Figg. 1 e 2] Sandro Botticelli e bottega (Alessandro di Mariano di Vanni Filipepi, Firenze 1445 - 1510), «Incoronazione della Vergine e Santi», 1500-1508. Particolare. Olio su tavola di pioppo bianco, cm 350x159. Firenze, Villa La Quiete Provenienza: Montevarchi, chiesa di San Ludovico; [fig. 3] Jacopo Vignali (Pratovecchio 1592 - Firenze 1664), «Il beato Felice da Cantalice riceve il Bambino dalle mani della Madonna». Olio su tela, cm 200x142. Firenze, Convento Cappuccini, Museo Provinciale dei Cappuccini Toscani Provenienza: Montevarchi, chiesa di San Lorenzo dei Padri Cappuccini; [fig. 4] Giovanni Martinelli (Montevarchi 1600 - 1659), «Il miracolo della mula», 1632. Olio su tela, cm 250x200. Pescia (Pistoia), Chiesa di San Francesco Iscrizioni: Io.Es Martinellius Floren. Fecit MDCXXXII; [fig. 5] Fra’ Felice da Sambuca (Sambuca 1734 – Palermo 1805), «San Felice da Sigmaringen ed altri santi cappuccini in venerazione della Madonna col Bambino», 1777 ca. Olio su tela, cm 202x145. Firenze, Convento Cappuccini, Museo Provinciale dei Cappuccini Toscani Provenienza: Montevarchi, chiesa di San Lorenzo dei Padri Cappuccini; [fig. 6] Santi di Tito (Firenze 1536 - 1603), «Natività della Vergine». Olio su tavola, cm 129x138. Arezzo, Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna Provenienza: Montevarchi, chiesa di San Michele Arcangelo alla Ginestra; [fig. 7] Violante Siries Cerroti (Firenze 1710 - 1783), «San Francesco d’Assisi», 1765. Olio su tela, cm 178 x 92,5. Firenze, Convento Cappuccini, Museo Provinciale dei Cappuccini Toscani Provenienza: Montevarchi, chiesa di San Ludovico Iscrizioni: VIOLANTE SIRIES CERROTI FECIT/ EX ELEMOSINIS A. R.P. M. FELICIS ANTONII BICILIOTTI EX VOTIS (in basso a destra); PROPOSTO NEPI 1898/ PROPOSTO CORSI 1921/ 1921 7° CENTENARIO 7 AGOSTO (sul retro)

Informazioni utili 
«Botticelli, Della Robbia, Cigoli. Montevarchi alla riscoperta del suo patrimonio artistico». Palazzo del Podestà di Montevarchi, piazza Varchi, 8 – Montevarchi (Arezzo). Orari: dal giovedì alla domenica, dalle ore 10 alle 13 e dalle ore 15 alle ore 19. Ingresso: intero € 5,00, ridotto € 3,00. Informazioni: Ufficio cultura -Comune di Montevarchi, tel. 0559108230, 0559108314, e-mail: ufficio.cultura@comune.montevarchi.ar.it. Sito web: www.comune.montevarchi.ar.it. Fino al 28 aprile 2019

giovedì 28 marzo 2019

Duchamp e la sua «Scatola in una valigia»: viaggio da Venezia a Firenze per il restauro

Prosegue la collaborazione tra la collezione Peggy Guggenheim di Venezia e l’Opificio delle pietre dure e Laboratori di restauro di Firenze. Dopo l’intervento conservativo dell’opera «Alchimia» di Jackson Pollock, avvenuto nel 2013, tocca ora all’opera «Scatola in una valigia (Boîte-en-Valise)», realizzata da Marcel Duchamp nel 1941, essere oggetto di un importante intervento di studio e conservazione.
Il lavoro è il primo di un’edizione deluxe di venti valigette da viaggio di Louis Vuitton, che raccolgono ciascuna sessantanove riproduzioni e miniaturizzazioni di celebri lavori del poliedrico e dissacrante artista francese. Con la «Boîte-en-Valise», Duchamp intraprese uno dei suoi progetti più ambiziosi: un museo portatile di repliche creato con l'aiuto di elaborate tecniche di riproduzione come il pochoir, simile allo stencil. In questo modo l’artista condusse fino alle ultime battute la rivoluzionaria operazione avviata attraverso i ready-made, dando il via a una parodia estrema dell'arte e dei meccanismi creativi, che colpisce al cuore l'idea stessa di museo.
Nell’edizione deluxe le venti valigie contengono, oltre alle riproduzioni in miniatura delle sue opere, un «originale» diverso per ogni valigetta, e differiscono tutte tra di loro per piccoli dettagli e varianti nel contenuto. L’ «originale» della valigia di Peggy è una riproduzione de «Le roi et la reine entourès de nus vites» (1912), colorata ex-novo per la valigia dallo stesso artista («coloriage original»). Si tratta di una dedica a Peggy Guggenheim, che sostenne economicamente Duchamp in questa sua produzione. L’opera include al suo interno, tra le varie riproduzioni, anche una miniatura del famoso orinatoio rovesciato, «Fontana», del 1917, e una riproduzione di un «ready-made rettificato» del 1919 raffigurante la Gioconda di Leonardo da Vinci, con barba e baffi e l’iscrizione «L.H.O.O.Q.». La sequenza delle lettere pronunciate in francese formano la frase «elle a chaud au cul», convenientemente tradotta da Duchamp come «c’è il fuoco là sotto». Nel corso della sua vita, Duchamp creò trecentododici versioni de «Boîte-en-Valise».
L’idea di creare delle scatole contenenti facsimili e schizzi risale già al 1914: esistono tre o cinque copie di questa prima edizione di scatole, le quali contengono i primi schizzi su carta fotografica di «La mariée mise à nu par ses célibataires, même (Le Grand Verre)» (1915-23). Al momento si conosce l’ubicazione di solo due di queste scatole, una al Centre Pompidou a Parigi e l’altra al Philadelphia Museum of Art.
Prima che l’artista francese iniziasse a dedicarsi alle edizioni principali delle sue «Boîtes en Valise», creò un’ulteriore scatola contenente 93 documenti riguardanti le sue idee su «La mariée mise à nu par ses célibataires, même (Le Grand Verre)» negli otto anni prima del suo completamento. Questa scatola si chiama «La Boîte Verte» (1934) e si trova al Tate Modern a Londra.
Nel 1935 Duchamp comincia a creare le versioni principali delle «Boîtes en Valise», che sono suddivise in sette serie. Nel 1966 creò un’ultima scatola che non è parte delle edizioni principali, «La Boîte Blanche». Si tratta di una scatola in plexiglas con una serigrafia di «Glissière Contenant un Moulin à Eau». Al suo interno ci sono settantanove facsimili realizzati tra il 1914 e il 1923. Questa scatola si trova al Philadelphia Museum of Art.
Ritornando all’opera-compendio conservata alla Peggy Guggenheim di Venezia, questo particolarissimo lavoro è stato realizzato su supporti molto diversi tra loro: pelle, carta fotografica con aggiunte a matita, acquerello e inchiostro. L’intervento sull’opera di Duchamp, dato il carattere polimaterico, sarà coordinato dal dipartimento di conservazione della Collezione Peggy Guggenheim e dal Settore materiali cartacei e membranacei dell’Opificio delle pietre dure e Laboratori di restauro di Firenze, i cui restauratori condurranno le varie fasi di interventi coadiuvati da esperti dei diversi settori dell’istituto che, a vario livello, saranno coinvolti per consulenze e per interventi mirati sui singoli elementi, presenti all’interno.
È prevista una campagna di indagini per l’identificazione delle tecniche grafiche e pittoriche usate, così come sul metodo di assemblaggio dei pezzi.
Trattandosi della prima della celebre serie di valigie deluxe della fine degli anni ‘30 del Novecento, obiettivi dell’intervento saranno, oltre alla risoluzione delle problematiche inerenti la conservazione e l’esposizione di un oggetto molto delicato quale essa è, conoscere meglio il modo di lavorare di Duchamp e il sistema «quasi industriale» che da questo momento attiverà per realizzare le altre serie prodotte.
Particolarmente interessante sarà anche, data la complessità dell’oggetto e la sua stratificazione di contenuti, studiare la resa tridimensionale e la modellizzazione virtuale dell’oggetto, così da permettere una visione «in differita» dell’opera, da offrire al grande pubblico che altrimenti non potrebbe apprezzarlo nella sua completezza.
Come è consuetudine, l’Opificio delle pietre dure si avvarrà, per le indagini diagnostiche e la restituzione virtuale dell’opera, della rete di istituti di ricerca, universitari e del Cnr, che collaborano con l’istituto fiorentino alla ricerca sui materiali dell’arte.
La collezione Guggenheim rinsalda così i fili di un’amicizia durata quasi una vita, quella tra la collezionista americana e Duchamp. I due si conobbero a Parigi, negli anni ’20, quando la mecenate si trovava in Europa insieme al marito, l’artista Laurence Vail.
Quando nel 1938 Peggy Guggenheim aprì la galleria d'arte Guggenheim Jeune a Londra, diede ufficialmente inizio a una carriera che avrebbe influenzato significativamente il corso dell'arte del dopoguerra. Fu Duchamp a presentarle gli artisti e a insegnarle, come lei stessa ebbe a dire nella sua autobiografia «Una vita per l’arte» (Rizzoli Editori, Milano 1998), «la differenza tra l'arte astratta e surrealista». Nello stesso libro, Peggy Guggenheim parlava anche dell’opera dell’artista francese, oggetto oggi di restauro: «Spesso pensavo che sarebbe stato molto divertente andare a trascorrere un fine settimana portandosi dietro quella valigia invece della solita borsa che si riteneva indispensabile».

Per saperne di più
www.guggenheim-venice.it

martedì 26 marzo 2019

«San Giorgio Cafè», La Mantia cucina per Venezia e gli art addicted

In primo piano le barche mollemente adagiate sulle acque della Laguna veneta e sullo sfondo la magnificenza del campanile di San Marco. È una location da sogno quella del nuovo ristorante di Filippo La Mantia, «oste e cuoco» palermitano -per sua stessa definizione- famoso per una cucina ricca di sapori genuini, profumi che rimangono impressi nella memoria e amore per materie prime come agrumi, finocchietto e pistacchi, fiore all’occhiello della sua Sicilia. Da sabato 6 aprile l’isola di San Giorgio Maggiore a Venezia avrà, infatti, un nuovo spazio dedicato all’arte della cucina e alla cultura gastronomica italiana: il San Giorgio Café.
Il progetto, voluto dalla Fondazione Giorgio Cini nell’ambito delle attività di valorizzazione dell’isola lagunare, è stato progettato da D’Uva con Filippo la Mantia e sarà l’unico luogo di ristoro pubblico sull’isola. Una tappa, dunque, quasi obbligata per gli appassionati d’arte, soprattutto in vista dell’ormai vicina cinquantottesima edizione della Biennale.
Bar, café, bistrot e ristorante: sarà tutto questo il nuovo locale, collocato a fianco del complesso monumentale dell’isola benedettina, tra i principali promotori della vita culturale veneziana con il suo ricco calendario di iniziative, che spaziano dalla stagione concertistica dell’affascinante auditorium «Lo Squero» a importanti convegni e giornate di studio (tra cui si segnala per il 2019, dal 29 al 31 maggio, l’appuntamento internazionale «How Europe discovered the music of the World after World War II. Cold war, Unesco and ethomusicological debate»), senza dimenticare il sempre raffinato calendario espositivo.
Quest’anno, tra le mostre annunciate dalla Fondazione Cini per l’apertura della Biennale di Venezia, merita una segnalazione l’importante retrospettiva dedicata ad Alberto Burri (10 maggio - 28 luglio), realizzata con la collaborazione della Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri di Città di Castello.
La mostra, a cura di Bruno Corà, nasce dalla volontà di riportare a Venezia le opere più significative dell’artista, uno dei più grandi protagonisti dell'arte italiana ed europea del XX secolo, la cui ultima antologica risale al 1987.
L’esposizione, allestita negli spazi dell’Ala napoleonica, ripercorrerà così cronologicamente le più significative tappe del percorso del «maestro della materia» attraverso molti dei suoi più importanti capolavori: circa cinquanta opere, provenienti dalla Fondazione Burri, da musei italiani e stranieri e da collezioni private.
In primavera sull’isola di San Giorgio Maggiore sarà possibile vedere anche la nuova esposizione del progetto «Le stanze del vetro», iniziativa per lo studio e la valorizzazione dell’arte vetraria veneziana del Novecento nata dalla collaborazione tra Fondazione Cini e Pentagram Stiftung: «Maurice Marinot. The Glass, 1911-1934» (25 marzo - 28 luglio), a cura di Jean-Luc Olivié e Cristina Beltrami.
L’esposizione, organizzata insieme al Museo delle arti decorative di Parigi, sarà il primo tributo internazionale a questo grande artigiano, protagonista di una rivoluzione, nella tecnica quanto nel gusto, ancora non pienamente conosciuta dal grande pubblico, che lo ha visto letteralmente inventare un nuovo tipo di vetro, spesso, pesante e come egli stesso lo definì «carnoso».

Dopo una formazione parigina, la carriera di Marinot prende avvio come pittore fauve, ma è col vetro, al quale si avvicina quasi casualmente nel 1911, che l'artista trova la via dell'unicità.
Le prime prove con questo materiale sono decorazioni a smalto di oggetti prodotti dalla vetreria industriale di alcuni amici a Bar-sur-Seine, nella regione dell’Aube.
Il rapporto col vetro diviene, negli anni, sempre più fisico, quasi una lotta a due con la materia. Marinot arriva a padroneggiare la tecnica e, a partire dal 1922-1923, soffia egli stesso creando pezzi unici dalle forme originali e dalle colorazioni raffinatissime. Passa da forme pulite dalle superficie lisce, che giocano con le bolle d’aria sospese nello spessore, a flaconi e vasi che incide con tagli profondi, o corrode con lunghi passaggi nell’acido.
Questa storia, che termina nel 1934, verrà raccontata attraverso duecento pezzi unici e centoquindici disegni, tra schizzi e progetti per oggetti e per allestimenti, provenienti da differenti musei francesi.
In autunno «Le stanze del vetro» proporranno, invece, la mostra «Thomas Stearns alla Venini» (9 settembre 2019 - 6 gennaio 2020), dedicata all’esperienza muranese dell’artista americano che giunse a Murano nel 1960. La mostra, e il relativo catalogo, metteranno insieme per la prima volta tutte le opere che si sono conservate e che in gran parte possono essere considerate pezzi unici.
Mentre l’Ala napoleonica della Fondazione Giorgio Cini vedrà un omaggio a Emilio Isgrò (29 agosto-24 novembre), focalizzato su un tema centrale nella poetica dell’artista, quello della cancellatura.
Sono tanti, dunque, gli appuntamenti d’arte pensati per godere appieno della bellezza dell’isola di San Giorgio Maggiore e ora, al calendario, si aggiunge anche la possibilità di gustare un pasto d’autore. Da qualche giorno è già possibile prenotare on-line il proprio tavolo sul sito www.sangiorgio.cafe, i cui contenuti saranno svelati alla stampa il prossimo 5 aprile. Una prima occasione, quella del sito e delle pagine social su Facebook e Instagram, per «cogliere -raccontano da Venezia- il significato profondo del rapporto integrato tra il San Giorgio Cafè e le tradizionali attività della Fondazione Giorgio Cini a sostegno e valorizzazione dell'Isola».

Informazioni utili 
Per prenotazioni >>> booking@sangiorgio.cafe 
Per informazioni >>> info@sangiorgio.cafe 
Sito ufficiale >>> www.sangiorgio.cafe 
Instagram >>> https://www.instagram.com/sangiorgiocafe
Facebook >>>https://www.facebook.com/sangiorgiocafe/

domenica 24 marzo 2019

«Gauguin a Tahiti», al cinema per scoprire «il paradiso perduto» dell'artista

È il 1° aprile 1891 quando, a bordo della nave Océanien, Paul Gauguin (1848-1903) lascia Marsiglia diretto a Tahiti, in Polinesia. Ha appena ottenuto dal Governo francese una missione gratuita con lo scopo di «fissare il carattere e la luce della regione», allora molto pubblicizzata dagli opuscoli dedicati alle colonie francesi in Oceania. L’artista realizza così, a quarantatré anni, il suo sogno di abbandonare una realtà che sempre meno sembra essergli congeniale per luoghi che, attraverso la lettura del romanzo «Le mariage» di Pierre Loti, gli sembrano il paradiso in terra.
Quella giornata di inizio aprile del 1891 segna l’avvio di un viaggio che due mesi dopo, il 9 giugno, vedrà Paul Gauguin giungere agli antipodi della civiltà, alla ricerca dell’alba del tempo e dell’uomo.
Ai Tropici, l’artista resterà quasi senza intervalli fino alla morte, prima sull’isola di Tahiti, poi in quella di Hiva Oa, nell’arcipelago delle Marchesi, dove giunge il 16 settembre 1901.
Questi dodici anni vedono il pittore francese andare alla ricerca, disperata e febbrile, dell’autenticità di un luogo dalla natura lussureggiante e dai colori accesi, un vero e proprio Eden che farà di lui uno dei pittori più grandi di sempre tra quelli che si ispirarono alle Muse d’Oltremare.
A questa storia guarda il nuovo appuntamento del progetto «Grande arte al cinema»: «Gauguin a Tahiti. Il paradiso perduto», in cartellone il 25, 26 e 27 marzo.
Il nuovo docu-film, con la partecipazione straordinaria di Adriano Giannini, è diretto da Claudio Poli, su soggetto di Marco Goldin e Matteo Moneta, che firma anche la sceneggiatura, ed è prodotto da 3D Produzioni e Nexo Digital con il sostegno di Intesa Sanpaolo.
Ripercorrendo le tracce di una biografia che appartiene ormai al mito e di una pittura raffinatamente primordiale, il film-evento, che vanta una colonna sonora originale firmata dal compositore e pianista Remo Anzovino, guiderà lo spettatore in un percorso tra i luoghi che Paul Gauguin scelse come sua patria d’elezione e attraverso i grandi musei americani dove sono custoditi i suoi più grandi capolavori: New York col Metropolitan Museum, Chicago con il Chicago Art Institute, Washington con la National Gallery of Art, Boston con il Museum of Fine Arts.
Ad accompagnare il pubblico in questo viaggio alla scoperta del «romantico dei mari del Sud» saranno anche gli interventi di esperti internazionali: Mary Morton, curatrice alla National Gallery of Art di Washington, Gloria Groom, curatrice all’Art Institute di Chicago, Judy Sund, docente della New York City University, Belinda Thomson, massima esperta di Gauguin, e David Haziot, autore della più aggiornata e accreditata biografia su Gauguin.
«Gauguin a Tahiti. Il paradiso perduto» trasforma in immagini quel libro d’avventura che fu la vita di Gauguin, ma è anche la cronaca di un fallimento. Perché Gauguin non poté mai sfuggire alle proprie origini, alle ambizioni e ai privilegi dell’uomo moderno. Fu sempre il cittadino di una potenza coloniale: dipinse tra le palme, ma con la mente rivolta al pubblico dell’Occidente, alla sua clientela con la malia dell’esotico. Un paradosso, questo, -raccontano da Nexo Digital- che «si riflette nel destino della sua opera, visto che i suoi quadri oggi sono conservati in grandi musei internazionali dove ogni anno milioni di persone si fermano di fronte alle tele di Tahiti, sognando il loro istante di paradiso, un angolo di silenzio in mezzo alla folla».
Ma da dove nasce la fascinazione di Paul Gaugin per i Tropici? Verrebbe da dire dalle sue stesse origini. L’artista, nato a Parigi il 7 giugno del 1848, a soli quattordici mesi viene portato dai suoi genitori -il giornalista Clovis Gauguin e la sudamericana Aline Marie Chazal- in Perù.
Qui, forse, prende il via la sua iniziazione tropicale: egli resterà, infatti, sempre fiero del suo sangue sudamericano, tanto da sostenere con fermezza una sua parentela con gli Aztechi.
Dopo il ritorno a Parigi, Paul Gauguin si avvicina alla pittura e all’Impressionismo, ma presto sente di dover cercare se stesso altrove. Parte così alla volta della costa bretone, un cuneo di roccia proteso sul vuoto dell'Oceano. In questi luoghi rudi, primitivi, malinconici, il pittore pensa di purificarsi dalla città e dalle mode artistiche parigine. Si mette alla ricerca delle forme ancestrali di una nuova pittura. Ed proprio qui, a Pont-Aven, che Gauguin dipingerà alcune delle sue opere più celebri, come il «Cristo Giallo», in cui riproduce un crocifisso ligneo ammirato nella cappella di Trémalo, o «La visione dopo il sermone», in cui il misticismo bretone trova forma nel cloisonnisme, con le sue campiture nette e stesure compatte di colore.
È qui, in Bretagna, che prende il via la sua meravigliosa avventura del colore, con il distacco dagli Impressionisti e dalle loro pennellate frammentarie, con i contrasti violenti con l’amico e collega Vincent Van Gogh e con l’approdo, poi, a un cromatismo nuovo, anti-naturalistico e legato ai movimenti dell’anima come quello di opere come «La orana Maria, Nafea faa ipoipo, Aha oe feii?» o «Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?».
Il racconto sarà accompagnato anche dalle parole dello stesso Gauguin, con brani tratti da testi autobiografici (come «Noa Noa» o «Avant et après»), dalle lettere a familiari, amici e alla moglie Mette, alla quale Paul scriverà: «Verrà un giorno, e presto, in cui mi rifugerò nella foresta in un’isola dell’Oceano a vivere d’arte, seguendo in pace la mia ispirazione. Circondato da una nuova famiglia, lontano da questa lotta europea per il denaro. A Tahiti, nel silenzio delle notti tropicali, potrò ascoltare il ritmo dolce e suadente del mio cuore in armonia con le presenze misteriose che mi circondano. Libero, senza problemi di denaro, potrò amare, cantare, morire».
La storia di Paul Gauguin è, dunque, la storia -recita Adriano Giannini nel trailer- di «un uomo in fuga dall’arte accademia, dal male di vivere della modernità». È la storia di un ribelle che cerca pace in terre lontane. È la storia di un pittore che sembra aver capito ciò che è importante nella vita: «Quando, finalmente gli uomini comprenderanno -dice- il senso della parola libertà? Che mi importa della gloria? Sono forte perché faccio ciò che sento dentro di me».

Per saperne di più
www.nexodigital.it 

venerdì 22 marzo 2019

«Sulla via della folgore di diamante», a Torino una mostra sulla tradizione religiosa tibetana

Non smette di aggiornarsi e di aggiornarci il Mao – Museo d’arte orientale di Torino. Dopo il nuovo allestimento del corridoio dedicato alle stampe policrome giapponesi, si rinnova anche la Galleria della regione hymalayana. A partire da mercoledì 27 marzo i visitatori potranno, infatti, ammirare venticinque nuove opere appartenenti alla tradizione religiosa tibetana, i thang-ka, databili tra il XVII e il XIX secolo. L’occasione è offerta dalla mostra «Sulla via della folgore di diamante».
Il termine thang-ka indica un tessuto dipinto che può essere arrotolato. I dipinti sono eseguiti a tempera, il supporto è una mussola di cotone e la base di preparazione è realizzata con una mistura di gesso e caolino.
I dipinti sono considerati oggetti sacri non solo perché presentano soggetti religiosi e simboli pertinenti alla complessa iconografia buddhista tantrica, ma anche perché fungono da supporto concreto alla meditazione.
Le thang-ka, anche quando incentrate sulla raffigurazione di un unico soggetto religioso, sia esso simbolico, umano o divino, intendono trasmettere una complessità di conoscenze filosofico-religiose che si esplicitano attraverso la definizione di elementi iconografici minori, immediatamente colti dai devoti buddhisti.
Le thang-ka, anche quando incentrate sulla raffigurazione di un unico soggetto religioso, sia esso simbolico, umano o divino, intendono trasmettere una complessità di conoscenze filosofico-religiose che si esplicitano attraverso la definizione di elementi iconografici minori, immediatamente colti dai devoti buddhisti.
I soggetti iconografici esposti spaziano dalle raffigurazioni del Buddha Shakyamuni a quelle del Buddha primordiale e dei Cinque grandi Buddha cosmici che da esso discendono. Nel sistema «Vajrayana - la Via della Folgore di diamante» - i Cinque grandi Buddha sono, infatti, considerati essere emanazioni delle qualità spirituali del Buddha primordiale, personificazione dell’illuminazione innata. Ciascuno dei Cinque Buddha cosmici è associato a una direzione dello spazio. Amitabha, il «Buddha della Luce Infinita», è collocato a Occidente, mentre Amogasiddhi, «Colui che conduce all’infallibile realizzazione», è il reggente del Nord. Nell’ambito di questo universo spirituale così spazialmente definito, si collocano esseri intermedi, quali i Bodhisattva, ovvero coloro che rinunciano all’estinzione dal ciclo di nascite e morti (nirvana) per indicare la via della salvezza a tutti gli esseri senzienti.
Oltre alle figure spirituali pacifiche troviamo divinità protettrici della religione, dall’aspetto terrifico, come Mahavajrabhairava, il Grande terrifico, o Yamantaka, il distruttore della morte, così come maestri e adepti tantrici, che a loro volta si mostrano gentili come Tson-ka-pa, fondatore della scuola che dal XVI secolo sarà retta dai Dalai Lama, o terrifici nell’atto di scacciare i demoni.
Due thang-ka tibetane del XVIII secolo, piuttosto rare, sono quelle prodotte nell’ambito della scuola monastica del Bon. Si tratta di una via spirituale parallela al Buddhismo, risalente come quella dei Rnyng-ma-pa a un gruppo antico di lignaggi di praticanti tantrici. È la principale forma religiosa del Tibet non buddhista.
Oltre a vari soggetti religiosi, le opere esposte mostrano alcuni tratti stilistici appartenenti a diverse scuole pittoriche. Lo stile della thank-ga «Storie di Mandhatar, Candraprabha, Supriya», del XVIII secolo, si rifà alla scuola karma sgar bris, una delle due grandi correnti stilistiche in cui si divide la pittura tibetana degli ultimi quattro secoli. Questa bella thang-ka proveniente dal Khams, nel Tibet orientale, si distingue per la levità e delicatezza dei toni con cui viene trattato il paesaggio e per l'eleganza da miniatura con cui sono dipinte le piccole figure collocate nei vari edifici o distribuite nei larghi spazi aperti, elementi che rimandano immediatamente all’estetica del Celeste Impero. Tali caratteristiche sono presenti anche nella thang-ka «Il Palazzo Celeste di Shyamatara (Tara verde)», dove l’accento posto sull’architettura e la concezione vivace del paesaggio conferiscono alla composizione una notevole freschezza, nonostante l’artificiosità della costruzione. Anche se un poco indurite, sopravvivono nelle descrizioni della zona inferiore del dipinto le tracce del trattamento del paesaggio proprio di questo stile.
Oltre ai soggetti rappresentati frontalmente, con una disposizione geometrica delle figure minori, che ricordano il primo stile d’origine nepalese, come nella thang-ka «Vajradhara e i mahasiddha», si segnalano dipinti dalla gradazione cromatica particolare, come nella thang-ka« Rol-pa’i-rdo-rje e nove manifestazioni di Amitayus», che appartiene al gruppo dei mtshal-khang (pittura vermiglia), realizzata con sottili tratti dorati su fondo preparato con il rosso cinabro. Il dipinto «Amoghasiddhi», una thang-ka di carattere misto, vede la figura centrale dipinta a tempera con vari pigmenti su un fondo realizzato con la stessa tecnica delle mtshal-thang.
Un’occasione, dunque, questa mostra per conoscere culture lontane dalla nostra, piene di fascino e di grande perizia artistica.

Informazioni utili 
MAO - Museo d’arte orientale, via San Domenico, 11 – Torino. Orari: martedì-venerdì, ore 10.00 -18.00; sabato-domenica, ore 11.00– 19.00; chiuso lunedì. La biglietteria chiude un'ora prima. Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8,00, gratuito fino ai 18 anni e abbonati Musei Torino Piemonte. Informazioni: tel. 011.4436927, e-mail mao@fondazionetorinomusei.it. Sito web: www.maotorino.it.

mercoledì 20 marzo 2019

«I volti del Buddha», Bologna riscopre la storia del suo Museo indiano

C’era una volta: potrebbe avere l’incipit delle favole più belle il racconto della mostra «I volti del Buddha», attualmente allestita negli spazi del Museo civico medievale di Bologna per la curatela di Luca Villa, che si è avvalso per l’occasione della collaborazione di Antonella Mampieri. L'esposizione ricompone, infatti, per la prima volta un’ampia parte delle raccolte appartenute al Museo indiano di Bologna, oggi suddivise e conservate in tre diverse sedi: lo stesso Museo civico medievale, il Museo di Palazzo Poggi e, fuori dal capoluogo emiliano, il Museo di antropologia dell’Università di Padova.
Quella del Museo indiano di Bologna, conosciuto anche con il nome di Museo d’indologia e museo di etnografia indiana orientale, è una storia affascinante, che si intreccia con le vicende della città felsinea tra il 1907 e il 1935.
Allestito nel Palazzo dell’Archiginnasio, nelle sale oggi in uso alla biblioteca, il museo nacque per ospitare inizialmente la cospicua collezione di oggetti, fotografie e manoscritti acquisiti da Francesco Lorenzo Pullè (Modena, 1850 – Erbusco, 1934), professore ordinario di Filologia indoeuropea e sanscrito alla Regia Università di Bologna, durante un viaggio compiuto nel 1902 in Vietnam, Ceylon, India e Pakistan, in occasione della sua partecipazione al Congresso internazionale degli orientalisti ad Hanoi.
Lo studioso modenese aveva in animo di creare un museo che rappresentasse non solo l’area geografica a cui dedicava da molti anni le sue ricerche, ma l’intero continente asiatico. Tuttavia, il suo obiettivo poté dirsi raggiunto solo quando il Comune e l’Università di Bologna, enti che avevano partecipato alla creazione di questa nuova realtà culturale cittadina, si impegnarono a incrementare la collezione originale con acquisti e prestiti temporanei.
L’allestimento - di cui abbiamo traccia grazie alla pianta del museo, conservata presso l’Archivio storico comunale di Bologna- comprendeva molte raffigurazioni di divinità del pantheon hindu e, rispetto ai musei dell’epoca, si distingueva per la presenza di una vasta raccolta di immagini che immortalavano le architetture templari dell’India, hindu, buddhiste e islamiche.
Francesco Lorenzo Pullè era un convinto sostenitore dell’utilizzo della fotografia per far conoscere ad un vasto pubblico l’arte e l’archeologia.
Nella sua ricchissima collezione sono presenti così circa trecentocinquanta stampe fotografiche -in parte consultabili sul sito www.cittadegliarchivi.it- in grado di documentare l'archeologia indiana in maniera esauriente e innovativa per l'epoca.
Fatta eccezione per un piccolo rilievo proveniente da un monumento buddhista indiano, raffigurante delle figure principesche adornate da grandi turbanti e gioielli, lo studioso si distinse, inoltre, per non aver prelevato dai Paesi di origine reperti che altri, invece, separarono dalla cultura d'origine.
La parte più consistente della raccolta fotografica riguarda i ritrovamenti archeologici allora conservati presso il Central Museum di Lahore, nell’odierno Pakistan, dove nei decenni precedenti rispetto al viaggio del professore emiliano erano confluiti reperti e lastre figurate recuperate durante gli scavi effettuati nella non lontana valle di Peshawar. Questi oggetti rappresentano oggi l’eredità dell’arte buddhista del Gandhāra, antica area situata tra gli attuali confini di Pakistan e Afghanistan, dove tra gli ultimi decenni del I sec. a.C. e il IV-V sec. d.C. fiorì una tradizione artistica connessa alla devozione buddhista.
Gli arricchimenti successivi -a cominciare dall'acquisto nel 1908 da parte del Comune di undici statue della raccolta Pellegrinelli, quasi tutte raffiguranti divinità del pantheon buddhista cinese- confermano l’interesse per questa tradizione filosofica e religiosa e l'ambizione di Francesco Lorenzo Pullè di voler creare un'ampia raccolta a testimonianza della ricchezza artistica e culturale dell'Asia.
Si trova, inoltre, lungo il percorso espositivo testimonianza di un'attenzione alle tendenze estetiche dell'epoca, che vedevano spesso opere di arte cinese e giapponese presenti nei salotti e negli studi delle case di illustri cittadini, così come nei saloni di prestigiosi locali pubblici. A tale proposito, va ricordato come Pullè seppe agire affinché il Museo indiano partecipasse dell'eredità Pepoli, grazie all'acquisizione di alcuni vasi ora in mostra nelle sale delle Collezioni comunali d'arte, anch'essi, in parte, di provenienza giapponese.
La vicenda del Museo indiano si concluse definitivamente nel 1935 e due anni più tardi si redasse l'atto con cui le raccolte furono suddivise tra Comune e Università, che ne rimangono ancor oggi custodi, e la famiglia Pullè. Quest’ultima pochi anni dopo cedette almeno una parte della collezione pervenuta al figlio del professore, Giorgio, all'Università di Padova, dove lo studioso emiliano aveva insegnato a lungo prima di passare all'Alma Mater.
Tra i pezzi esposti, insieme con la già citata decorazione in arenaria con figure principesche della collezione Pullè, si segnalano due opere entrambe provenienti dalla raccolta Pellegrinelli: un Buddha della medicina, datato alla fine del XIX secolo, e una rappresentazione di Samantabhadra.
 Eiko Kondo, che curò la prima scheda di catalogazione di quest’ultima opera, la considerò prodotta nel XVII secolo in ambito cinese, aspetto, questo, che conferma l'importanza della raffigurazione, riconoscibile per l'elefante a sei zanne su cui è assiso il bodhisattva.
«Sebbene sia una figura meno nota in Occidente -racconta Luca Villa-, Samantabhadra ha, infatti, un ruolo di rilievo per la grande parte dei lignaggi buddhisti, tanto da essere considerato l'Adi-Buddha (il Buddha primordiale), sia secondo la scuola Nyingma del budddhismo tibetano, sia secondo lo Dzogchen, sentiero di realizzazione spirituale sviluppatosi nella stessa area geografica. Nelle correnti Mahayana, invece, Samantabhadra compare insieme a Manjushri accanto al Buddha storico. Oltre all'importante significato simbolico, la delicatezza dell'esecuzione e lo stato di conservazione decisamente buono, stanno a indicare il valore della statua, superiore rispetto ad altri esemplari della stessa raccolta».
 Una mostra, dunque, di particolare pregio quella proposta dal Museo civico medievale di Bologna non solo per gli appassionati dell’arte indiana, ma anche per chi abbia voglia di andare alla scoperta della storia cittadina.

Informazioni utili
 I volti del Buddha dal perduto Museo Indiano di Bologna. Musei civici d’arte antica - Museo civico medievale, via Manzoni, 4 - Bologna. Orari: da martedì a domenica, ore 10.00 - 18.30; chiuso il lunedì. Ingresso: intero € 5,00, ridotto € 3,00 gratuito Card Musei Metropolitani Bologna e ogni prima domenica del mese. Informazioni: tel. 051.2193916 / 2193930, museiarteantica@comune.bologna.it. Sito internet: www.museibologna.it/arteantica. Fino al 28 aprile 2019