ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

venerdì 24 luglio 2015

Monticchiello, il borgo toscano che diventa teatro

Erano gli anni Sessanta quando a Monticchiello, piccolo paese nel cuore della Val d’Orcia, a pochi chilometri da Pienza, cornice naturale dichiarata nel 2004 Patrimonio dell’umanità dall’Unesco, nasceva un’esperienza teatrale destinata a incontrare il favore del pubblico, ma soprattutto l’interesse di molti addetti ai lavori, da importanti protagonisti della drammaturgia italiana a sociologi e antropologi di vaglia, tra i quali si ricordano il regista Arnaldo Della Giovampaola, il professor Asor Rosa, il giornalista Mario Guidotti, che fu capo-ufficio stampa alla Camera dei deputati.
In questo borgo medioevale, che stava spopolandosi in seguito alla crisi del mondo mezzadrile-contadino, gli abitanti decisero, infatti, di organizzare uno spettacolo all’aperto, povero di mezzi e con una metodologia di costruzione drammaturgica partecipata, teso a raccontare la loro storia, la loro cultura, gli ultimi accadimenti della comunità.
Nasceva così il Teatro povero di Monticchiello, un’esperienza diventata famosa in tutta Europa e studiata anche all’università, oggi guidata da Andrea Cresti, che, anno dopo anno, si è interrogata su questioni cruciali per il paese (ma anche per tutta Italia) come la crisi economica, il consumismo, i rapporti giovani-vecchi e il ruolo delle donne nella società contemporanea.
Per questo genere scenico, nel quale gli spettacoli sono «ideati, discussi e recitati dagli abitanti-attori», Giorgio Strehler, grande estimatore dell’avventura toscana, coniò il termine «autodramma». Non a caso, durante gli appuntamenti in calendario tra luglio e agosto in piazza della Commenda, su un palco che è insieme macchina teatrale e scenografica, i borghigiani di Monticchiello si raccontano, portando a compimento il lavoro dei mesi precedenti. «Alle spalle di ogni spettacolo -raccontano gli organizzatori- vi è, infatti, un lungo percorso partecipativo: da gennaio iniziano le assemblee pubbliche, aperte a chiunque desideri collaborare oltreché ai membri della compagnia. Si comincia così a raccogliere spunti e riflessioni fino ad arrivare ai temi ritenuti urgenti per l’anno in corso. Da qui parte la discussione collettiva che porta al soggetto e, poi, al copione e alle prove».
Quest’anno, una quarantina di abitanti-attori di diverse età porteranno in scena lo spettacolo «Il paese che manca», una riflessione sull’andarsene e sul restare nel luogo natio. «Un tempo si fuggiva dal proprio paese per le difficili condizioni economiche, in cerca di riscatto. Oggi in un paese come Monticchiello si fugge perché il tessuto sociale sembra sgretolarsi, lasciando tra le sue macerie confusi incubi di dismissioni e impotenza civile che inquietano e disorientano», dichiarano gli organizzatori. Così la piccola comunità toscana si ritrova a mettere in scena una grande festa di compleanno (o forse d’addio) per l’ultimo ventenne rimasto.
Ma cosa significa davvero partire? Lasciare tutto per una nuova vita è una condanna o una possibilità? Una resa o una reazione? Oppure soltanto un gioco del destino? Queste domande tessono la trama dello spettacolo e portano a focalizzare l’attenzione su un curioso parallelismo: mentre gli abitanti più giovani di Monticchiello valutano la possibilità di andarsene dal loro borgo e dalla loro patria, assistendo allo smantellamento degli ultimi baluardi sociali -l’ufficio postale e la scuola-, «tanti arrivano, attraversano mari, talvolta uscendone feriti, offesi, costretti alla resa, talaltra, nonostante tutto, trovando una nuova energia che permetterà poi di tornare, lottare, ricostruire. Su tutti -racconta Andrea Cresti- regna il ghigno di un misterioso giocattolaio, un po’ matto un po’ santo, in cui ciascuno vede ciò che vuol vedere: paure e inquietudini, attese o speranze».
«Il paese che manca» verrà rappresentato dal 25 luglio al 15 agosto, rendendo così vivo per il quarantanovesimo anno consecutivo il Teatro povero, oggi una realtà culturale e sociale attiva 360 giorni all’anno, che affianca alle attività culturali la gestione di servizi sociali, sostegno alla comunità, attività di inclusione, integrazione e formazione: un’esperienza, questa, basata in gran parte sul volontariato, che cerca caparbiamente di opporsi alle logiche di marginalizzazione dei piccoli centri.
In occasione delle rappresentazioni si potranno, inoltre, degustare piatti tipici come la trippa e i famosi pici, la pasta fatta a mano più conosciuta della Val d’Orcia, alla «Taverna di Bronzone», storico ristorante gestito dalla cooperativa del Teatro povero, una consolidata realtà della drammaturgia italiana che nel 2011 si è aggiudicata anche due importanti premi quali l’Ubu e l’Hystrio per l’impegno civile e la forza poetica del suo lavoro.

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Una scena dello spettacolo «Anni Quaranta», con il Teatro povero. Foto di Umberto Bindi; [fig. 2] Una scena dello spettacolo «Il paese dei b(a)locchi» con il Teatro povero. Foto di Umberto Bindi; [fig. 3] Una scena dello spettacolo «A(h)ia» con il Teatro povero. Foto di Umberto Bindi; [fig. 4] Una scena delle prove dello spettacolo «Il paese che manca» - auto dramma del Teatro povero di Monticchiello. 

Informazioni utili 
«Il paese che manca» - auto dramma del Teatro povero di Monticchiello. Piazza della Commenda – Monticchiello (Siena). Orari: tutti i giorni (tranne il 27 luglio), ore 21.30.. Ingresso: intero € 13,00, ridotto (per bambini fino a 12 anni) € 7,00. Prenotazioni on-line: http://teatropovero.it/prenotazione/. Il biglietto può essere ritirato solo il giorno dello spettacolo: - dalle 9 alle 19: presso la sede del Teatro povero, in Piazza Nuova 1; - dalle 19.30 fino alle 21.00: alla biglietteria (ingresso alla piazza). Si ricorda che dopo le ore 21.00 decade il diritto di prenotazione. Informazioni: tel. 0578.755118 o info@teatropovero.it. Sito internet: www.teatropovero.it. Dal 25 luglio al 15 agosto 2015. 

giovedì 23 luglio 2015

«Motherlode», «Drodesera» e la «vena madre» della live-art contemporanea

«Motherlode», vena madre: è questo il titolo scelto per la trentacinquesima edizione del festival «Drodesera», uno degli appuntamenti con la performance, la danza, il teatro e le arti visive internazionali più attesi dell’estate, in agenda dal 26 luglio al 2 agosto nella Centrale idroelettrica di Fies, splendida archeologia industriale sulle rive del fiume Sarca, nella cittadina altoatesina di Dro.
A segnare l’apertura della manifestazione, che vede alla direzione Dino Sommadossi e Barbara Boninsegna, sarà la mostra «The Abandoned Mines», una riflessione inedita sulla conservazione della performance, che sarà tenuta a battesimo dall’artista lituana Augusta Serapinas. La rassegna entrerà, quindi, nel vivo con la terza edizione di «Live Works Performance Act Award», un premio ideato da Centrale Fies con ViaFarini, che vedrà esibirsi nove artisti internazionali, selezionati da Barbara Boninsegna, Simone Frangi, Daniel Blanga Gubbay e Dennis Isaia, confermandone la sua vocazione di centro di residenza e produzione.
Una giuria internazionale, presieduta da Michelangelo Pistoletto e composta da Nico Vascellari, Danjel Andersson, Marwa Arsanios e Dora Garcìa, decreterà il vincitore tra gli artisti Robert B. Lisek, Simon Asencio, Vanja Smiljanic, Roberto Fassone, Diego Tonus, Justin Randolph Thompson, Styrmir Örn Guðmundsson, il trio formato da Jazra Khaleed, Timos Alexandropoulos e Antonis Kalagkatis e il duo composto da Gregory Dapra e Stefano Faoro.
Padrini della manifestazione, presenti al festival con lavori inediti nei tre giorni di «Live Works», saranno Jérôme Bel, Alessandro Sciarroni e Santiago Sierra, che proporrà «L’abbeveratoio» (martedì 28 e mercoledì 29 luglio, dalle ore 19), una restituzione del simbolo della svastica, noto dai tempi del Paleolitico, agli originari proprietari asiatici, screditando così l'inversione simbolica infamante subita dal simbolo con il nazismo.
Spazio, poi, a una programmazione più classica, con protagonisti della performance e della danza. Dal 30 luglio al 1° agosto Dro vedrà, infatti, esibirsi la Compagnia Abbondanza/Bertoni con il progetto inedito «Solo per Fies», i Cosmesi con «Di natura violenta», gli OHT office for a human theatre con uno spettacolo sulla ricerca coloristica di Josef Albers, i Curandi Katz con la prima di una performance dedicata ai metodi di azione non-violenta, i Fanny & Alexander con una riflessione sul rapporto tra arte ed economia e gli attori di Teatro Sotterraneo con il lavoro «Sold out», una rappresentazione in forma d’asta in cui mettono in vendita pezzi di spettacoli portati in scena nei loro dieci anni di collaborazione con Centrale Fies.
La tre giorni vedrà anche la partecipazione di Mali Weil, dei performers Navaridas e Deutinger con «Your Majesties», ispirato al discorso di Obama per il Nobel, di Roger Bernat che in «Numax-Fagor-Plus» riproporrà due assemblee operaie.
A concludere il festival sarà, nella giornata di domenica 2 agosto, una giornata dedicata agli Studio Visit, una serie di incontro con i percorsi artistici che hanno portato alle loro nuove produzioni Marta Cuscunà, Mara Cassiani, Hannes Egger, AngiUsFestA e Filippo Andreatta, nel quale il pubblico sarà invitato a offrire nuove prospettive di visione. Un festival ricco di appuntamenti, dunque, quello di Dro che si propone di restituire una visione utile, complessa e stratificata della realtà, rivelando ciò che non è ancora visibile e che lo diventerà in futuro o, al contrario, cambiando i paradigmi e riappropriandosi di un presente che guarda avanti attingendo dal passato.

Didascalie delle immagini 
[Fig. 1] Centrale Fies, località Fies, 1, Dro (Trento). Foto: Andrea Pizzalis; [fig. 2] Centrale Fies, località Fies, 1, Dro (Trento). Foto: Claudia Marini; [fig. 3] Nava¬ri¬das e Deu¬tin¬ger in scena con «Your Majesties». Foto: Daniel Schmidt

Informazioni utili 
 «Motherlode» - «Drodesera» #35. Centrale Fies, località Fies, 1, Dro (Trento). Programma: www.centralefies.it/drodesera15/program.html. Informazioni tel. 0464.504700 o info@centralefies.it. Sito internet: www.centralefies.it. Dal 26 luglio al 2 agosto 2015.

mercoledì 22 luglio 2015

Venezia, da Ettore Spalletti al Beato Angelico: tutte le novità di Palazzo Cini a San Vio

È Ettore Spalletti (Cappelle sul Tavo – Pescara, 1940) l’artista contemporaneo scelto da Luca Massimo Barbero per inaugurare il secondo piano della Galleria di Palazzo Cini a San Vio, straordinaria casa-museo veneziana, un tempo dimora dell’industriale e politico Vittorio Cini (Ferrara, 1885-Venezia, 1977), riaperta al pubblico per il secondo anno consecutivo grazie alla partnership di Assicurazioni Generali.
In queste sale, nelle quali sono conservate molte opere della collezione personale del grande mecenate che, grazie a un’ampia possibilità di mezzi economici e all’amicizia con personaggi del calibro di Federico Zeri, Bernard Berenson e Nino Barbantini, acquisì nell’arco della sua vita mirabili testimonianze del Rinascimento toscano e ferrarese, l’artista abruzzese espone, fino al prossimo 23 agosto, sedici suoi lavori tra pitture, opere su carta e sculture, nei quali prevalgono le tonalità del rosa e dell’azzurro.
Con questo progetto espositivo, Ettore Spalletti vuole proporre, in linea con la sua ricerca artistica interessata a studiare le relazioni tra natura e astrazione e le congiunzioni tra memoria del classico e contemporaneità, una propria personale interpretazione degli spazi della casa-museo lagunare, ragionando sulla storia del luogo, studiandone la sua dimensione intima, osservandone i colori e le variazioni di luce, attraverso un percorso che accosta opere già note ad alcune mai esposte prima.
Si trovano così in mostra, lungo un percorso che non segue un ordine cronologico, ma che mira a coinvolgere emotivamente il visitatore, lavori conosciuti come «Sapone» (1998), una scultura sospesa in bronzo dorato, e «Così com’è, fonte» (2006), un’installazione cilindrica fatta di colore azzurro e resina, ma anche nuove creazioni come le due tele monocrome «I colori si innamorano» (2015).
Colpiscono l’attenzione anche due grandi opere su carta azzurre, di cui una già presente nella prima sala, realizzate per la prima volta nel 1974 e riproposte per la mostra a Palazzo Cini a San Vio in una nuova versione. «Sono due lavori -racconta l’artista- che amo particolarmente, perché sono in continuo mutamento: come un foglio di carta che si apre o si arriccia a seconda dell’umidità e non trova quiete sulla parete».
Questo dimostra l’attualità della ricerca artistica di Ettore Spalletti, che così racconta il suo incontro con le atmosfere del Canal Grande: «le opere qui esposte, indipendentemente dalla data di realizzazione, sono tutte nuove perché la luce di Venezia è diversa. I colori sono rinnovati da questa luce che li ha trasformati: nemmeno io li avevo mai visti con questi toni e queste sfumature che sono unici perché la luce di Venezia è unica».
L’esposizione vuole, inoltre, sottolineare la dimensione intima della casa di Vittorio Cini. Ecco così che, nella Sala del caminetto, è stata collocata l’opera «Leggio» (2011), composta da due elementi d’arredo disegnati dall’artista: una sedia e un tavolino che regge un oggetto in alabastro, teso a raccogliere lo sguardo di chi entra nella stanza.
In questi giorni, e fino al 28 settembre, il museo lagunare mette in mostra anche la «Madonna di Pontassieve» (1435 circa) del Beato Angelico (Vicchio di Mugello, 1395 ca. – Roma, 1455), capolavoro proveniente dalla Galleria degli Uffizi di Firenze.
L’opera, esposta nell’ambito del progetto «L’ospite a palazzo», fu commissionata nel 1435 da sei componenti della ricca famiglia fiorentina Filicaia, detentori del patronato sulla chiesa di San Michele a Pontassieve, e costituisce con ogni probabilità la parte centrale del polittico dell’altare maggiore: l’ipotesi che alla destra della Vergine, in uno dei due pannelli perduti, dovesse stagliarsi il santo titolare della chiesa, è confermata dalla presenza, al margine della tavola conservata, della punta di una spada trattata con foglia d’argento, messa in evidenza dall’ultimo restauro.
Il capolavoro, realizzato dal Beato Angelico negli anni della sua maturità, rimase per lungo tempo nell’ombra, complici la collocazione periferica e il precoce smembramento che dovette subire già entro la metà del XVII secolo. Solo nel 1909 il dipinto ottenne la prima menzione in sede critica da Giovanni Poggi, con attribuzione, universalmente accettata, al pittore. L’interesse suscitato attorno all’opera, grazie anche alle mostre di Londra e Firenze degli anni Trenta che la posero all’attenzione degli studi, aumentò da allora e contribuì alla decisione di trasferirla presso la Galleria degli Uffizi nel 1949.
In occasione dell'apertura al pubblico del palazzo, prevista fino al prossimo 15 novembre, è stato, inoltre, ridisegnato il percorso di visita: accanto ai lavori di Giotto, Guariento, Botticelli, Filippo Lippi e Pontormo già esposti lo scorso anno, saranno visibili nuovi arredi e opere d’arte.
Dopo molti anni, tornano, quindi, a impreziosire la casa, ricostruendo l’ambiente domestico principesco in cui viveva il conte Vittorio, un armadio intagliato, già riferito a Jacopo Tatti detto il Sansovino (Firenze, 1486 - Venezia, 1570), e un monumentale tavolo antico ornato da telamoni e cariatidi, che ritrova la sua collocazione originale accanto al polittico (recentemente restaurato) di Lorenzo di Niccolò. Tra gli arredi, sono in mostra a palazzo Cini San Vio anche due meravigliosi orci in terracotta policroma e un vaso da farmacia, detto «globulare» per la tipica forma panciuta, esempio della ricchissima produzione della bottega di uno dei più importanti maiolicari veneziani del Cinquecento.
Per gentile concessione di Giovanni Alliata di Montereale, figlio di Yana Cini Alliata, si possono ammirare, inoltre, due grandi zuppiere in argento realizzate dall’argentiere Robert Garrard, attivo a Londra tra Settecento e Ottocento.
Tra le novità, si registra, poi, l’arrivo a Palazzo Cini anche di alcuni importanti dipinti, prima fra tutti una preziosa tavola raffigurante «San Giovanni Evangelista» di Stefano di Giovanni detto «il Sassetta» (Cortona, 1400 circa – Siena, 1450), artista di cui la galleria già possiede la tavola con la «Madonna dell’Umiltà», che rende ancora più ampio il panorama della pittura senese del Quattrocento, rappresentato anche dalle tavole del Maestro dell’Osservanza, di Matteo di Giovanni e di Lorenzo di Pietro detto il Vecchietta.
Ancora, tra le nuove opere, si può ammirare un raro elaborato portadocumenti della metà del Quattrocento in cuoio rosso cesellato, appartenuto al duca Borso d’Este, come rivela lo stemma di famiglia che decora il fronte.
Trovano posto lungo il percorso espositivo, infine, una tela del tardo Rinascimento con un «Ritratto di gentiluomo con guanti», già attribuito al geniale pittore bresciano Girolamo Romanino, e due straordinari lavori di Giandomenico e Lorenzo Tiepolo, raffiguranti due «teste di fantasia», ritratti virili ideali, esempi di un genere diffuso nel Settecento a Venezia. Queste opere, fra le poche presenze veneziane della galleria, sono un interessante esempio della ricchezza della collezione, che annoverava anche uno straordinario nucleo di opere del Settecento veneziano: da Guardi a Canaletto, da Tiepolo a Longhi.

Vedi anche
2014: a Venezia riapre al pubblico Palazzo Cini a San Vio

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Ettore Spalletti, «I colori si innamorano», 2015, impasto di colore su tavola/ 2 elementi/ 120 x 120 x 4 cm ciascuno; [fig. 2] Interno di Palazzo Cini a San Vio, Venezia. Foto: Matteo De Fina; [fig. 3] Esterno di  Palazzo Cini a San Vio, Venezia. Foto: Matteo De Fina; [fig. 4] Veduta del rio dal secondo piano Palazzo Cini a San Vio, Venezia. Foto: Matteo De Fina; [fig. 5] Beato Angelico, «Madonna di Pontassieve», 1435 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi 

Informazioni utili
Palazzo Cini, Campo San Vio, Dorsoduro 864 – Venezia. Orari: ore 11.00–19.00, chiuso il martedì (ultimo ingresso ore 18.15). Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8,00. Catalogo: disponibile in mostra guida breve (€ 4,00). Informazioni: palazzocini@cini.it. Sito web: www.palazzocini.it  e www.cini.it. Fino al 15 novembre 2015. 

martedì 21 luglio 2015

«Scena di sacrificio», un raro dipinto di Paulus Bor agli Uffizi

Nell’ottobre 2011 Antonio Natali, direttore della Galleria degli Uffizi, è a Palazzo Corsini, in visita alla Biennale internazionale d'antiquariato. Alla stand della galleria fiorentina Pasti e Bencini lo studioso rimane letteralmente ammaliato da un quadro, il cui soggetto e il cui stile pittorico si distinguono in maniera inequivocabile dalle tante scene di battaglia appese alle pareti con l’intento di ricordare i centocinquanta anni dalla nascita dell’Unità d’Italia.
Quel dipinto -rara opera di Paulus Bor (Amersfoort, Paesi Bassi, c. 1601-1669), artista olandese del XVII secolo poco conosciuto ai più, del quale gli studiosi contano solo una trentina di lavori- è da poco entrato nella collezione del museo fiorentino grazie alla donazione dell’associazione Amici degli Uffizi, presieduta da Maria Vittoria Rimbotti. Ed è da qualche giorno esposto al piano nobile dell’edificio vasariano, nella Sala 54, dove è conservata una selezione di tele di pittori attivi ad Haarlem e Utrecht, in gran parte acquisite da Cosimo III durante i suoi viaggi nei Paesi Bassi.
«Scena di sacrificio», questo il titolo del nuovo acquisto della Galleria degli Uffizi, mostra un personaggio femminile, a figura intera, avvolta in un manto coperto di fiori e con una gonna decorata con dei tulipani, che sta per mettere in atto il sacrificio di un uccello, adagiato su un altare. Ad assistere la donna è un giovane uomo dal torso nudo, dalle sembianze dionisiache, che soffia la piccola fiamma che si sta sviluppando tra le foglie. Il soggetto non appare riconducibile a una fonte letteraria precisa ed è da qualificarsi piuttosto come una rivisitazione personalissima di una scena di sacrificio classico in ambiente naturale. Il giovane uomo con la testa cinta di una corona di alloro quasi sicuramente rappresenta un pastore, così come il volatile dovrebbe essere una colomba, cara a Venere e simbolo dell’amore.
«Nell’invenzione, -spiega Gert Jan van der Sman, studioso dell’Istituto universitario di storia dell’arte olandese a Firenze- la protagonista principale rimane la figura della maga: col suo viso assorto e pensoso, e la sua gestualità pacata, riesce ad imprimere un’atmosfera intimamente solenne al rituale. La fisionomia della donna è in tutto tipica di Bor: un viso pieno e soffice, un collo corto, cappelli lunghi sciolti e un’espressione sognante».
Nella tela, di alta qualità poetica, si ravvisa un’attenzione non comune verso la letteratura classica, come documentano altri due noti lavori dell’artista quali la «Medea disillusa» del Metropolitan Museum of Art e «Cidippe con la mela di Aconzio» del Rijksmuseum di Amsterdam.
Colpisce, inoltre, il lieve tono argenteo del dipinto, una colorazione che distingue quasi tutte le opere del pittore, la cui produzione è caratterizzata da soggetti insoliti ed enigmatici, che coniugano la rappresentazione di paesaggi dalle ispirazioni nordiche a scenari di impianto classicheggiante tesi alla rievocazione, pacata e struggente, di un mondo perfetto e senza tempo.
Vissuto fra il 1601 e il 1660, in condizioni di agiatezza che spiegano in buona parte, secondo Antonio Natali, l'originalità del suo lavoro, Paulus Bor fu in Italia dal 1622 e al 1626, attratto come molti suoi connazionali dallo studio delle antichità e dei maestri del Cinquecento. Molto attivo e riconosciuto nel circolo degli artisti nordici di passaggio a Roma, fra i quali era noto con il soprannome di «Orlando», il pittore rimase folgorato dalla scoperta delle novità luministiche introdotte da Caravaggio, che rivisitò partendo da spunti rendrandtiani. Lo prova bene l’intero corpus delle sue opere, in massima parte conservate in Olanda. Un’acquisizione, dunque, importante quella degli Uffizi che va così a incrementare la già ricca collezione dedicata ai pittori stranieri conservata nelle cosiddette «Sale blu».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Paulus Bor, «Scena di sacrificio», 1635-1640. Olio su tela, 89,5x67,7 cm; [fig. 2] Paulus Bor, «Cidippe con la mela di Aconzio», Amsterdam, Rijksmuseum

Informazioni utili 
«Scena di sacrificio» di Paulus Bor. Galleria degli Uffizi, Piazzale degli Uffizi, 6 – Firenze. Orari: martedì-domenica, ore 8.15-18.50; chiuso il lunedì; la biglietteria chiude alle ore 18.05; le operazioni di chiusura iniziano alle ore 18.35.Ingresso: intero € 12,50; biglietto ridotto € 6,25; gratuito per gli aventi diritto. Informazioni utili: tel. 055.2388651. Sito internet: http://www.polomuseale.firenze.it.

lunedì 20 luglio 2015

Dante compie 750 anni. Gli Uffizi lo festeggiano con il ritratto del Bronzino

È l’italiano più noto nel mondo, insieme a Leonardo da Vinci. Stiamo parlando di Dante Alighieri, del quale ricorrono quest’anno i settecentocinquanta anni dalla nascita. Per l’occasione, tutta Italia si china al genio dello scrittore toscano organizzando una serie di eventi tra mostre, letture, convegni, conferenze, concerti, spettacoli di teatro e di danza, videoinstallazioni.
Tra le istituzioni che celebrano il sommo poeta ci sono anche gli Uffizi di Firenze che hanno allestito, nella sala 65, l’esposizione di una delle tante opere raffiguranti l'artista: il «Ritratto allegorico di Dante Alighieri», dipinto nel 1532-1533 dal Bronzino.
L’olio si tela (130 x 136 centimetri), fino a poco tempo fa conservato nella Sala dei Gigli di Palazzo Vecchio, giunge in Galleria in seguito ad un comodato.
L’opera, secondo quanto afferma Giorgio Vasari, fu commissionata al pittore da Bartolomeo Bettini insieme ai ritratti di altri due padri della letteratura italiana, Petrarca e Boccaccio, per essere collocato nelle lunette di una stanza della sua abitazione, secondo una tradizione tipicamente rinascimentale legata al culto degli uomini illustri.
Di questi tre lavori l’unico ad oggi conosciuto è quello dedicato a Dante: esistono, infatti, un disegno preparatorio a Monaco, una replica di bottega su tavola conservata nella collezione Kress della National Gallery of Art di Washington, la presente redazione su tela in collezione privata fiorentina, svariate copie grafiche e la xilografia del solo busto, sul frontespizio della «Divina Commedia», pubblicata nel 1564 per la curatela di Francesco Sansovino.
Nel 1956 la tavola statunitense, radicalmente restaurata, fu acquistata come opera della bottega di Vasari; nel 1964 Luciano Berti ne ascrisse la paternità al Bronzino, mentre nel 1991 Alessandro Cecchi preferì considerarla una replica autografa. L’attribuzione fu, poi, ridimensionata da Jonathan Nelson, che la ritenne un prodotto di buona fattura della bottega del pittore, dipinto forse su commissione di un membro dell’Accademia fiorentina probabilmente dopo il 1541, quando la disputa sul primato del volgare toscano e l’interesse per Dante infervorarono non solo gli studi letterari, ma anche il dibattito politico.
Su questo fronte, Bettini era fortemente impegnato nel difendere la Repubblica contro la tirannia del duca Alessandro de’ Medici e il canto XXV del «Paradiso», leggibile sul libro sorretto da Dante desideroso di rientrare dall’esilio, si adatta particolarmente alle vicende politiche della sua famiglia.
Il lavoro, di collezione privata e pubblicato nel 2002 come opera del Bronzino da Philippe Costamagna, è attualmente ritenuti dalla critica autografa dell’artista, anche se il supporto in tela era particolarmente infrequente nella Firenze dei primi del Cinquecento. Questo dato non è, però, pregiudizievole per la sua autenticità, dal momento che ne esistono altri illustri esempi come la nota «Cena in Emmaus» del Pontormo per la Certosa del Galluzzo o il «Nano Morgante» dello stesso Bronzino, entrambi agli Uffizi.
Il ritratto, quantunque la tela sia supporto delicato, si dimostra di eccellente fattura, visibile soprattutto negli incarnati, che sono di una consistenza affine a quella di dipinti coevi come il «Ritratto del suonatore di liuto» e il «Pigmalione e Galatea», tutte e due conservati nel museo fiorentino.
Rispetto alla lunetta quasi gemella della National Gallery di Washington (cui alla mostra del Bronzino del 2010-2011 a Palazzo Strozzi la tela fiorentina fu affiancata) l’andamento dei panni, simili a quello della «Venere e Amore» del Pontormo, appare molto meno schematico; la pittura presenta un segno più sicuro e l’espressione del volto del poeta appare più ispirata. Il quadro dimostra anche una particolare sensibilità per la luce, che può esser derivata dalla conoscenza della pittura di Dosso, con cui il Bronzino entrò in contatto all’Imperiale di Pesaro nel 1531.

Didascalie delle immagini 
[Fig. 1] Bronzino, «Ritratto allegorico di Dante Alighieri», 1532-33. Collezione privata [figg. 2 e 3] «Ritratto allegorico di Dante Alighieri» del Bronzino in esposizione alla Galleria degli Uffizi di Firenze. 

Informazioni utili 
«Ritratto allegorico di Dante Alighieri» del Bronzino agli Uffizi. Galleria degli Uffizi, Piazzale degli Uffizi, 6 – Firenze. Orari: martedì-domenica, ore 8.15-18.50; chiuso il lunedì; la biglietteria chiude alle ore 18.05; le operazioni di chiusura iniziano alle ore 18.35.Ingresso: intero € 12,50; biglietto ridotto € 6,25; gratuito per gli aventi diritto. Informazioni utili: tel. 055.2388651. Sito internet: http://www.polomuseale.firenze.it.