ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

venerdì 14 dicembre 2012

Amore e Psiche, la favola di Apuleio secondo Canova e Gérard

Un fresco profumo di lavanda e menta piperita, frammisto a un delicato aroma di eucalipto e a una legnosa fragranza di patchouli e sandalo, accoglie i visitatori negli spazi cinquecenteschi della sala Alessi di Palazzo Marino, sede di rappresentanza del Comune di Milano. Sono, queste, le essenze scelte dalla Officina Profumo - Farmaceutica di Santa Maria Novella, casa fondata nel 1612 a Firenze, per ricreare le suggestioni olfattive di un giardino notturno di ispirazione neoclassica. E’, infatti, una scenografia fatta di un morbido manto erboso, di filari di siepi sagomate a forma di portici e di labirinti verdi quella costruita dallo Studio Greci Architettura per ambientare la mostra «Amore e psiche a Milano», appuntamento promosso da Eni, in partnership con il Museo del Louvre di Parigi, nel solco di una fortunata tradizione, inaugurata nel 2008, che, di Natale in Natale, ha portato nel capoluogo lombardo opere come la «Conversione di Saulo» del Caravaggio (2008), il «San Giovanni Battista» di Leonardo da Vinci (2009), la «Donna allo specchio» di Tiziano (2010), «L’Adorazione dei pastori» e il «San Giuseppe falegname» di Georges de La Tour (2011).
All’ombra di filari di bosso e sotto un soffitto di verzura e rampicanti, costruito per mezzo di proiezioni perimetrali di Simon Miller, tese a dare la sensazione di una vegetazione che in quasi modo piranesiano divora e avvolge le pareti della sala, va, dunque, in scena uno dei miti più affascinanti della classicità, una delle storie più romantiche di tutti i tempi: la favola di Amore e Psiche, tratta dal capolavoro di Apuleio, «Le metamorfosi» o «L’asino d’oro» del II secolo d.C., e fonte di ispirazione per schiere di artisti, come documentano grandi cicli di affreschi come quelli di Raffaello alla villa Farnesina di Roma o quelli di Giulio Romano a Palazzo Te di Mantova.
Tutto incomincia con il più classico degli avvii: c’era una volta. Sì, c’era una volta una ragazza bellissima, così bella da suscitare le invidie della dea Afrodite che, vendicativa come sempre, mandò sulla terra suo figlio, il dio Amore (Cupido per i romani, Eros per i greci), ordinandogli di punire la fanciulla, detta Psiche, accendendo in lei un amore insopprimibile per il più brutto degli uomini. Ma, per uno strano gioco del destino, Amore cadde vittima del fascino della ragazza, la fece prigioniera nel suo castello incantato e le disse che si sarebbero sempre amati al buio, di notte, per lasciarsi ogni mattina, ai primi raggi del sole, in modo tale che lei non potesse mai vederlo in volto. Psiche, istigata dalla due sorelle invidiose, trasgredì, però, il divieto e dovette così espiare la colpa di aver guardato negli occhi una divinità, prima di potersi ricongiungere definitivamente al suo amato e, attraverso una serie di prove terribili, conquistare l’immortalità.
A rievocare questa vicenda di seduzione, tradimento e perdono, metafora dell’amore che vince su tutto, sono, negli spazi di Palazzo Marino, due opere simbolo del Neoclassicismo, la scultura «Amore e Psiche stanti» di Antonio Canova e il dipinto «Psyché et l’Amour» di François Gérard, esposte, per la curatela di Valeria Merlini e Daniela Storti, in un percorso espositivo arricchito da apparati didattici e supporti video, oltre che da un catalogo edito da Rubbettino editore e da un percorso digitale con un sito web (www.amoreepsicheamilano.it), un’app dedicata, video e approfondimenti sui principali social network.
L’opera di Antonio Canova, datata 1797, ritrae i due giovani nel loro ultimo abbraccio mortale, richiamando il tema della metamorfosi di Psiche nell’immagine della farfalla, simbolo dell’anima che, dal corpo terreno, vola verso l’eternità. Alla dolcezza e all’eleganza formale del maestro veneto, François Gérard, pittore parigino di scene galanti, risponde, l’anno successivo, con un dipinto dall’erotismo raffinato: Amore è visto di profilo, con il corpo reclinato per accostarsi all’amata fanciulla, ritratto nuda, con un solo velo a ricoprire gambe e bacino, mentre sopra il suo capo, dipinto con eleganza raffaellesca, volteggia una farfalla, riferimento in chiave neoplatonica e successivamente cristiana al tema dell’immortalità dell’anima.

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Antonio Canova (Possagno, 1757 – Venice, 1822), «Amore e Psiche stanti», c. 1797. Marmo di Carrara, H. 1.45 m. Parigi, Museo del Louvre; [fig. 2] François Gérard, «Psyché et l’Amour», 1798.  H. 1.86 m; W. 1.32 m. Parigi, Museo del Louvre

Informazioni utili 
Amore e Psiche a Milano. Palazzo Marino, piazza della Scala, 2 - Milano. Orari: tutti i giorni (compresi 25 dicembre 2012 e 1° gennaio 2013), ore 9.30-20.00; giovedì, ore 9.30-22.30; 24 e 31 dicembre,ore 9.30-18.00. Ingresso libero. Catalogo: Rubbettino editore. Informazioni: numero verde 800.14.96.17. Sito internet: www.amoreepsicheamilano.it. Fino a domenica 13 gennaio 2013

mercoledì 12 dicembre 2012

Brigitte Niedermair e la sua «Ultima cena» al femminile in aiuto delle donne

Dalla rivisitazione pop di Andy Warhol alla rilettura in chiave militare di Adi Nes, passando per gli omaggi irrituali di Damien Hirst, Hermann Nitsch e Alfred Hrdlicka, è lungo l’elenco degli artisti che hanno guardato a Leonardo da Vinci e all’iconografia del suo «Cenacolo».
L’affresco parietale, realizzato tra il 1494 e il 1498 per il refettorio del convento della chiesa di Santa Maria delle Grazie a Milano, ha suggestionato anche la fantasia di Brigitte Niedermair (Merano, 1971), fotografa e pittrice altoatesina che da sempre lavora sui territori di confine tra impegno civile e rigore estetico. E’, infatti, sua «The Last Supper», l’immagine della discussa campagna pubblicitaria per la collezione primavera-estate 2005 della maison francese Marithé e François Girbaud, raffigurante un’«Ultima cena» tutta al femminile. Lo scatto, che alla sua prima apparizione fece addirittura parlare di blasfemia e del quale fu proibita l’affissione sia in Italia che in Francia per «lesa maestà della morale», ritorna oggi agli onori della cronaca per un’iniziativa di solidarietà. Brigitte Niedermair ha, infatti, deciso di mettere in rete e di commercializzare la propria opera offrendo in beneficenza parte del ricavato per sostenere progetti di sostegno e aiuto alle donne. Duemila gli esemplari autografati, numerati e certificati, disponibili al costo di 1000,00 euro, sul sito www.lastsupper.it.
Il guadagno ottenuto dalla vendita delle stampe andrà in favore della rete internazionale dei Musei delle Donne (www.womeninmuseum.net), un’istituzione nata nel 2008, che realizza, tra le molte iniziative, un servizio educativo per superare le situazioni di discriminazione e violazione dei diritti umani in Paesi come il Sudan, l’Africa centrale e l’Iran, riunendo più di cinquanta enti internazionali e promuovendo quattordici progetti.
«Un'opera d'arte sulle donne che può aiutare le donne»: ecco, dunque, la nuova vita dell’«Ultima cena» di Brigitte Niedermair, una foto molto glamour, insieme poetica e provocatoria, che strizza l’occhio anche alle teorie contenute nel best-seller «Il codice da Vinci» di Dan Brown, secondo le quali Maria Maddalena avrebbe partecipato all’ultimo pasto di Gesù Cristo e la sua figura comparirebbe anche all’interno dell’affresco leonardesco, celata sotto le sembianze femminili di Giovanni. L’artista altoatesina ribalta questo concetto: accanto a un Gesù e ad undici apostoli donne, modelle di conturbante bellezza in abiti griffati, appare un solo uomo, di spalle e semi-nudo, conteso da due ragazze dall'aria agguerrita, che impersonano Giuda e San Pietro. Si tratta, appunto, di Giovanni.
Molti i simboli che compaiono nell’immagine: la colomba, il lavaggio dei piedi, il pane spezzato, un fico aperto, il pesce davanti al Cristo-donna. Non mancano, inoltre, riferimenti alla contemporaneità, con un registratore che simboleggia la ricerca della verità e due quotidiani, uno palestinese e uno israeliano, a ricordare il conflitto che tormenta la Terra Santa.
Pensando al lavoro artistico di Brigitte Niedermair, vengono così alla mente le parole di Erri de Luca: «Il genere maschile è invidioso della potenza femminile di generare. Si è ritagliato per sé il potere, la guerra, la politica, spazi di governo minori di fronte all’immensità di fare nascere. Il femminile riproduce l’opera della creazione. E’ il tempo delle madri».

Informazioni utili 
«The Last Supper»,di Brigitte Niedermair. Edizione di 2000 esemplari, autografati, numerati e certificati disponibili al costo di 1000,00 euro cadauno solo on-line, sul sito www.lastsupper.it. Parte del ricavato sarà devoluto in favore della Rete internazionale dei Musei delle Donne (www.womeninmuseum.net).

lunedì 10 dicembre 2012

Natale d’arte a Palazzo Madama, in mostra Pisanello

Il Natale porta a Torino, nelle sale di Palazzo Madama, un grande capolavoro dell’arte italiana del Rinascimento. Dopo la «Madonna col Bambino» (1525) di Michelangelo, prezioso disegno usualmente conservato alla Casa Buonarroti di Firenze ed ammirato durante le passate festività natalizie da migliaia di torinesi, la città regala ai suoi abitanti un confronto ravvicinato con il «Ritratto di Lionello d’Este» di Antonio Pisano, detto Pisanello, artista tardo-gotico celebre per la propria attività di medaglista e per i suoi disegni con studi dal vero di personaggi e animali, nei quali si evidenzia uno spiccato senso di analisi e di curiosità naturalistica.
L’esposizione, resa possibile grazie al generoso contributo dei visitatori che l’anno scorso hanno donato oltre 16mila euro, si lega al percorso sulla storia del ritratto pittorico, allestito nelle sale espositive del museo in occasione della mostra dedicata a Robert Wilson: un excursus dal Medioevo all’Ottocento, tra pale sacre, medaglie rinascimentali, raffigurazioni per monete, dipinti devozionali, celebrativi o allegorici. Si viene così a creare un dialogo ideale tra opere note come il «Ritratto d’uomo» (1476) di Antonello da Messina o «Il gioco degli scacchi» (1530-1532 circa) di Giulio Campi e il celebre dipinto di Pisanello, restaurato nel 2008 presso l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e usualmente conservato nelle raccolte dell’Accademia Carrara di Bergamo, ora chiusa per lavori di restauro e la cui riapertura è prevista per il 2014.
La tempera su tela (28x 19 centimetri), tra le opere più celebri della pittura rinascimentale italiana, raffigura il marchese Lionello d’Este, signore di Ferrara dal 1441 al 1450. Il busto di profilo, simile ai ritratti delle monete imperiali romane, si delinea con fierezza contro lo sfondo blu scuro del cielo, in uno spazio reso più profondo dalla siepe di rose che gioca in funzione di quinta ravvicinata. La spalla marca il primo piano con un ricco broccato a fili d’oro e bordure di velluto su cui spiccano grandi bottoni perlacei. Il volto, dall’incarnato chiarissimo, è contraddistinto dall’impasto prezioso del colore, accarezzato dalla luce che si dirama in sottilissime ombre a definire i tratti essenziali, quasi incisi, della fisionomia.
L’opera, citata per la prima volta nei testi «Pro insigne certamine» di Angelo Decembrio e il «De Politia letteraria» di Ulisse degli Aleotti, fu realizzata a Ferrara nei primi sei mesi del 1441, in occasione di una sfida artistica voluta, secondo le fonti del tempo, da Niccolo III d’Este, che fece ‘duellare’ Pisanello, in punta di pennello, con un altro artista veneto del momento, Jacopo Bellini. Quest’ultimo, stando alla testimonianza di Ulisse degli Aleotti, ebbe la meglio (il suo ritratto è, però, andato perduto), ma Pisanello non conobbe, per questo, scarsa fortuna a Ferrara. Sue sono, intatti, alcune delle più note medaglie celebrative di Lionello d’Este, mentre il ritratto realizzato per la contesa artistica rimase, per lungo tempo, nelle raccolte estensi. L’opera approdò, poi, alla collezione Costabili di Ferrara e venne, quindi, acquistata da Giovanni Morelli, che la lasciò, per legato testamentario, all’Accademia di Carrara.
Renzo Chiarelli, nel 1961, elogiò la tecnica del ritratto, che – si legge in uno dei suoi testi- «sembra giovarsi dell'esperienza del bronzo, specie in quei capelli singolarmente trattati e disposti in piccoli ciuffi filiformi e ricurvi che ravvivano plasticamente quella curiosa mezza parrucca, in aderenza al modo di trattare la materia nei corrispondenti particolari delle medaglie». Mentre Licisco Magagnato, nel 1958, paragonò l’opera, per il suo «carico d’energia», ai «ritratti più alti di Piero della Francesca e Antonio del Pollaiolo», facendone così uno dei simboli più eleganti dell'Italia delle corti.

Didascalia delle immagini
[fig. 1] Antonio Pisano, detto Pisanello, (Pisa, circa 1394 – Roma? 1455), «Ritratto di Lionello d’Este», circa 1441. Tempera su tavola, cm 29 x 19,5. Bergamo, Accademia Carrara

Informazioni utili
«Ritratto di Lionello d’Este». Palazzo Madama - Museo civico d’arte antica, Corte Medievale - piazza Castello - Torino. Orari: martedì-domenica, ore 10.00-19.00, chiuso lunedì. Ingresso libero. Informazioni: tel. 011.4433501. Sito Internet: www.palazzomadamatorino.it. Da mercoledì 12 dicembre a domenica 13 gennaio 2012. 

venerdì 7 dicembre 2012

Fondazione De Fornaris, trent’anni d’arte da Torino a New York

«Trent'anni sono una ricorrenza importante, che invita a volgere indietro lo sguardo, per ripercorrere il cammino compiuto». Così Piergiorgio Re, presidente della Fondazione De Fornaris, parla del prestigioso anniversario che l’istituzione culturale nata a Torino nel 1982, per volere testamentario e grazie al lascito del mecenate e collezionista Ettore De Fornaris, si accinge a festeggiare a New York, nell’ambito della Anno della cultura italiana negli Stati Uniti.
Una tavola rotonda al Guggenheim Museum e due mostre, una all'Istituto Italiano di Cultura di New York e l’altra negli spazi di Industria Superstudio (entrambe visitabili fino a domenica 11 gennaio 2013), compongono il cartellone dell’omaggio americano alla vivace realtà culturale piemontese che, per l’occasione, edita anche un volume bilingue, in italiano e in inglese, dal titolo «Trent'anni d’arte – 1982/2012».
Il catalogo, pubblicato da L’Artistica Editrice, ripercorre, attraverso un centinaio di immagini e testi di Danilo Eccher, Marina Paglieri e Riccardo Passoni, tre decenni di attività e di acquisizioni a fianco della Gam- Galleria civica d’arte moderna e contemporanea di Torino, alla quale, nel corso degli anni, sono state donate, anche in occasione di particolari circostanze come i Giochi olimpici torinesi del 2006 o i centocinquanta anni dell’Italia unita, più di mille opere che spaziano dall’Ottocento ai giorni nostri, firmate, tra gli altri, da Francesco Hayez, Giuseppe Pelizza da Volpedo, Giacomo Balla, Fausto Melotti, Alberto Burri, Michelangelo Pistoletto, Mario Merz e Giuseppe Penone.
Ad aprire l’intensa programmazione newyorkese sarà, nel pomeriggio di lunedì 10 dicembre, la tavola rotonda «Musei e Collezioni in Italia negli ultimi 30 anni», alla quale prenderanno parte Piero Fassino, sindaco di Torino, Piergiorgio Re, presidente della Fondazione De Fornaris, e Riccardo Viale, direttore dell’Istituto italiano di Cultura di New York. Dopo il benvenuto di Vivien Greene, curatrice dell’arte del XIX e XX secolo per l’istituzione americana, ci sarà un dibattito animato da Germano Celant, direttore artistico della Fondazione Prada, Danilo Eccher, direttore della Gam di Torino, e dall’artista Giuseppe Penone.
Il giorno successivo, martedì 11 dicembre, è in agenda l’inaugurazione della mostra «Morandi e Casorati in collezione De Fornaris: dal laboratorio all’opera», in programma all’Istituto italiano di cultura di Park Avenue. Un dialogo inedito, questo, fra due artisti sostanzialmente coetanei, dai percorsi paralleli, entrambi ossessionati dal problema della «forma», ossia della rappresentazione dell’oggetto trasmutata in senso «intellettuale», e caratterizzati dalla scelta di percorsi artistici solitari, autonomi rispetto al fare pittorico dei loro contemporanei.
Al piano terra dell’Istituto italiano di cultura saranno esposti, accanto a due oli, cinque acquerelli e sei disegni di Giorgio Morandi, tutti appartenenti alla fase tarda dell’artista bolognese. Gli oli testimoniano l’arricchimento della gamma cromatica e tonale, schiarita e modulata negli anni Cinquanta, e l’attenzione sempre maggiore al rapporto con lo spazio, grazie a composizioni sempre più concentrate. Mentre gli acquerelli, ai quali il «pittore delle bottiglie» inizia a lavorare solo quando abbandona l’attività incisoria, presentano forme ormai quasi disfatte, definite da macchie colorate che si avvicinano all’astrazione senza mai abbandonare l’oggetto, anche se dissolte nel colore e nella luce, sempre più chiara e dilagante. La stessa luce che, ancora più forte, ritroviamo nei disegni a matita degli ultimi anni, nei quali si ravvisano forme incompiute, contorni oscillanti, molto più vicini ai valori della pittura che a quelli, più saldi, del disegno tradizionale.
Felice Casorati sarà, invece, in mostra, al primo piano dell’Istituto di cultura, con oli su tela e su tavola, di diversa datazione, che spaziano dal ‘29 al ‘44, nei quali è protagonista la figura femminile, sintetizzata nei volumi, concettualizzata. Sarà, inoltre, esposta, una selezione degli schizzi progettuali dell’artista, tratti dagli album di collezione De Fornaris. Si tratta di una serie di fogli scelti per la ricchezza e la qualità del segno grafico, di datazione incerta (ad eccezione di un solo caso), che appartengono a diversi periodi della produzione del pittore e che testimoniano la sua tipica attenzione per la figura e la composizione già nel piccolo formato di studio. Quella di Casorati è, infatti, una forma già compiuta, costruita per volumi, con chiara ispirazione quattrocentesca, e alcuni rimandi alla metafisica, fino a rasentare, anche in questo caso, l’astrazione, nel senso di sintesi geometrica.
Giovedì 13 dicembre ci si sposterà, infine, nei locali di Industria Superstudio, ampi spazi ex industriali, riconvertiti da sede di un’autorimessa a luoghi per eventi culturali, che hanno sede in Meatpacking District, a poca distanza dalla High Line newyorkese. Qui aprirà al pubblico la mostra «Dalla De Fornaris alla GAM – Arte italiana: protagonisti contemporanei», con un ampio omaggio all’Arte povera, movimento nato a Torino e teorizzato nel 1967 da Germano Celant, del quale la Fondazione De Fornaris possiede alcune opere simbolo, come «Torsione» di Giovanni Anselmo (1968) o «Che fare? » di Mario Merz (1968).
Nella piccola, ma ben studiata rassegna saranno presenti anche lavori di Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio, Giovanni Anselmo e Giuseppe Penone, del quale sarà esposta la serie fotografica «Lavorare sugli alberi – Alpi marittime» (1968) e il wall-painting site-specific «Propagazione» (1995-2012), realizzato direttamente sulla parete di Industria. Non mancherà, infine, un omaggio ad altri due artisti importanti per l'arte torinese dagli anni Sessanta in poi: Giorgio Griffa e Luigi Mainolfi.
Riflettori, dunque, puntati su Torino, sulla sua storia artistica e sulle sue collezioni a New York, in quella che viene unanimemente considerata la capitale dell’arte mondiale.

Didascalie delle immagini
[fig.l] Giorgio Morandi, «Bottiglia (composizione di oggetti)», (1956). Acquerello su carta, 15.9 x 23.8 cm.Torino, Collezione De Fornaris; [fig. 2] Giorgio Morandi, «Natura morta», (1950). Olio su tela, 35.5 x 42.5 cm. Torino, Collezione De Fornaris; [fig. 3] Felice Casorati, «Fanciulla con libro», (1944). Olio su tela, 76 x 41.5 cm.Torino, Collezione De Fornaris; [fig. 4] Michelangelo Pistoletto, «Pericolo di morte», 1973. Serigrafia su acciaio lucidato a specchio, cm 125.2 x 125.2. Torino, Collezione De Fornaris; [fig. 5] Giorgio Griffa, «Azzurro barbarico (azzurro barbaro)», 1987. Acrilico su tela grezza, cm 286 x 189.5. Torino, Collezione De Fornaris 

Informazioni utili
Fondazione De Fornaris, trent'anni d'arte da Torino a New York. Il calendario degli appuntamenti: lunedì 10 dicembre 2012, ore 17.30 c/o Guggenheim Museum, New yotk, New Media Theatre, tavola rotonda «Musei e Collezioni in  Italia negli ultimi 30 anni»; martedì 11 dicembre 2012, ore 18.00 c/o Italian Cultural Institute, 686 Park Avenue - New York, inaugurazione della mostra «Morandi e Casorati in Collezione De Fornaris. Dal laboratorio all’opera» (l'esposizione rimarrà aperta dal 12 dicembre 2012 all'11 gennaio 2013, con i seguenti orari: lunedì-venerdì, ore 10.00-16.00); giovedì 13 dicembre 2012 c/o Industria Superstudio, Meatpacking District, 775 Washington Street - Nwe York, inaugurazione della mostra «Dalla De Fornaris alla GAM - Arte italiana»: protagonisti contemporanei (l'esposizione rimarrà aperta all'11 gennaio 2013, con i seguenti orari: lunedì-venerdì, ore 10.00-18.00). Informazioni: Fondazione De Fornaris, via Magenta 31 - Torino, tel. 011.542491, e-mail fdf@fondazionedefornaris.org. Sito internet: www.fondazionedefornaris.org. 



mercoledì 5 dicembre 2012

Alighiero & Boetti, uno «Shaman-showman» tra mappe, lettere e virgole

Mappe geopolitiche puntellate da bandiere, arazzi variopinti con lettere dell’alfabeto, tavole celesti costellate da piccoli aeroplani, grandi lavori a biro ritmati da virgole nere, cartoline postali e ricalchi di giornali e riviste: il ricco universo figurativo di Alighiero Boetti (Torino, 1940 – Roma, 1994), considerato uno dei più affascinanti e «seminali» protagonisti dell'arte del secondo dopoguerra, va in scena a Milano, nelle sale dello Studio Giangaleazzo Visconti, ubicato nello storico Palazzo Cicognani Mozzoni, dove aveva sede l’atelier di Lucio Fontana.
Trentasei opere, realizzate tra il 1967 e il 1994 (dalla prima personale torinese alla prematura scomparsa), ripercorrono l’eccentrica e caleidoscopica parabola creativa del maestro torinese, figura chiave del poverismo e protagonista indiscusso del concettualismo, recentemente celebrato da un’importante retrospettiva che ho toccato tre prestigiose sedi espositive estere: il Reina Sofia di Madrid, la Tate Modern di Londra e il MoMA di New York.
Emergono dai lavori selezionati per la mostra milanese, aperta fino a venerdì 22 marzo 2013, tutti quei temi che rendono ancora attuale la filosofia di Alighiero Boetti: la complessità del rapporto con l'altro e lo straniero, la mescolanza dei linguaggi e delle culture, il superamento dei confini, il ruolo della comunicazione e dell'immagine nella civiltà della riproduzione, la relazione tra locale e globale, tra microcosmo e macrocosmo.
L’artista torinese è stato capace di cogliere la complessità del mondo contemporaneo e di restituircela attraverso una pluralità di tecniche e di materiali che vanno dai disegni ai ricami, dai collage alle matite su carta, dagli acquerelli agli arazzi, icona più riconoscibile della sua versatile creatività. Non meno nota è quella firma ‘storpiata’, «Alighiero & Boetti», scelta come titolo della mostra milanese, che l’artista iniziò ad usare tra la fine del 1972 e il 1973 e che è cifra simbolica della sua ricerca sull’identità e sul suo doppio, del quale è noto il lavoro «Gemelli» del 1968.
«Alighiero -affermava lo stesso Boetti- è la parte più infantile, più estrema, che domina le cose familiari, Alighiero è il modo in cui mi chiamano e mi nominano le persone che conosco, Boetti è più astratto, appunto, perché il cognome rientra nella categoria, mentre il nome è unico il cognome è già una categoria, una classifica. Questa è una cosa che riguarda tutti. Il nome dà certe sensazioni di familiarità, di conoscenza, di intimità. Boetti, per il solo fatto di essere un cognome, è già un’astrazione, è già un concetto».
Acutissimo teorico senza per questo amare le teorie, pensatore zen, cantastorie di piccole verità in forma di enigma, e, soprattutto, titolista nato (rimane leggendario il suo «Mettere al mondo il mondo» del 1973-1979, diventato lo slogan del primo movimento femminista), il maestro torinese ha attraversato l'universo dell'arte e la vita stessa con la forza di un ciclone, come se sapesse di avere poco tempo a disposizione per lasciare la propria impronta, ironica e svincolata dalle convenzioni, nella storia del Novecento.
Qualche anno prima di morire, con il suo «Non parto, non resto» (1984), Alighiero Boetti aveva lasciato il suo testamento personale e aveva colto nel segno. La sua leggerezza creativa, la sua libertà di pensiero, il suo fare compositivo, comprensivo di tutti i fenomeni del vivere e intriso di elementi personali, ha trovato ‘seguaci’ in Stefano Arienti, Rirkrit Tiravanija, Felix Gonzales-Torres, Philippe Parreno e in tanti altri giovani artisti. 
Il percorso espositivo allo Studio Gian Galeazzo Visconti prende, cronologicamente, avvio dal tessuto «Mimetico» (1967), per presentare, poi, altre opere storiche come «Postale» (1974), una serie di buste affrancate e timbrate messe le une accanto alle altre, «Aerei» (1989), un acquerello blu su cui sfrecciano vievoli di varie dimensioni, o ancora «Direzioni suggerite» (1974) e «Piano inclinato» (1981/82), lavori realizzati in penna biro, strumento grazie al quale l’artista creava una complessa e fitta texture, ovvero «un sistema di trasposizione delle parole in immagini, con la segreta speranza» di trovare, un giorno, «quella che disegnerà se stessa».
I veri protagonisti dell’esposizione sono, però, gli arazzi, che Alighiero Boetti fece realizzare in Afghanistan, Paese dove visse, periodicamente, dal 1971 fino all'invasione russa e dove aprì anche un piccolo albergo, lo «One Hotel». Accanto alle mappe, planisferi politici in cui ciascun territorio viene ricamato con i colori e i simboli della bandiera di appartenenza, ci sono i celebri ricami su tela con lettere dell’alfabeto, opere ricche di colori e di frasi che l’artista sceglieva personalmente, per poi farle tessere alle donne di Kabul.«Scrivere -era solito affermare- è disegnare. Le mie scritture sono tutte fatte con la sinistra, una mano che non sa scrivere, mostrano quindi anche una punta di sofferenza fisica, ma scrivere è un gran piacere. Ci sono parole che uccidono, parole che fanno un male tremendo, parole come sassi, parole leggerissime, parole reali come in numeri. Ma se vuoi veramente qualcosa mettilo per iscritto».
«Le infinite possibilità di esistere», «Nella tua vita errante o fratello mio fisso abbi sempre l'occhio alla ciambella e non al foro», «Sciogliersi come neve al sole», «Sragionare in lungo e in largo», «L'insensata corsa della vita delle parole e dei pensieri in giro per il mondo» sono alcuni dei titoli che Alighieri Boetti sceglie per questi suoi lavori, dimostrando quella sua doppia vocazione di «Shaman-showman» dell'arte: «sciamano perché sei sempre uno stregone quando lavori con la mano e la testa (…) showman perché ogni tanto ti tocca fare anche questo», come ebbe a dire a Maurizio Fagiolo dell'Arco in un’intervista per le pagine de quotidiano «Il Messaggero» (marzo 1977). Inarrivabile Boetti!


Didascalie delle immagini
[fig. 1] Alighiero Boetti, «Nella tua vita errante o fratello mio fisso abbi sempre l'occhio alla ciambella e non al foro», 1994, ricamo su tela, 40x40 cm; [fig. 2]  Alighiero Boetti, «Mappa», 1979, ricamo su tela, 131x93 cm; [fig. 3] Alighiero Boetti, «Direzioni suggerite», 1974, 2 elementi, 100x140 cm, penna biro blu su carta intelata; [fig. 4] Alighiero Boetti, «Aerei», 1989, acquerello e spray oro su carta fotografica intelata, 68x32,5 cm, 3 elementi

Informazioni utili
 «Alighiero & Boetti».Studio Gian Galeazzo Visconti, corso Monforte, 23 - Milano. Orari: lunedì-venerdì, ore 11.00-19.00. Ingresso libero. Informazioni: tel. 02.795251 o info@studiovisconti.net. Sito web: www.studiovisconti.net. Fino a venerdì 22 marzo 2013.