ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

martedì 3 novembre 2015

«La Santissima Trinità», in mostra in Calabria un raro dipinto autografo di Mattia Preti

Tra i numerosi pittori nati nell’orbita di Caravaggio, Mattia Preti (1613-1699) fu probabilmente il più noto già durante quella straordinaria stagione dell’arte italiana che fu il Seicento. Originario di un piccolo paese della Calabria (Taverna), l’artista fu attivo principalmente a Roma, a Napoli e a Malta, dove, per conto dell’ordine dei Cavalieri decorò la cattedrale de La Valletta. A quest’ultima stagione si ascrive anche «La Santissima Trinità», in mostra dal 4 novembre al 10 dicembre nel museo diocesano di Oppido Mamertina, nella provincia di Reggio Calabria, dopo un accurato intervento di restauro a firma di Sante Guido e Giuseppe Mantella.
Il dipinto, esposto per la prima volta in Italia per la curatela dei due restauratori e di Paolo Martino e Stefania Russo, fu realizzato nel 1671 per l'altare di San Luca nella chiesa dei francescani minori de La Valletta, edificio di culto che venne interamente riedificato e decorato per volontà Gran maestro Gregorio Carafa.
La composizione raffigura Dio Padre che sorregge il corpo morto di Cristo; entrambi sono vegliati dalla colomba dello Spirito che scende dall’alto portando la luce della Grazia. Nel comporre l’immagine Mattia Preti si servì di un taglio diagonale, creando un cono prospettico che enfatizza la drammaticità della scena; le braccia aperte di Dio accolgono Cristo con un gesto che è insieme la rassegnata presa d’atto degli eventi, ma anche l’affettuosa condivisione del destino del Figlio. La costruzione in tralice consente, inoltre, di modulare gli effetti della luce con il digradare dei piani verso il fondo. Il volto del Padre o il busto nudo di Cristo appaiono così investiti da un chiarore diffuso, mentre suggestivi effetti di chiaroscuro caratterizzano la mano destra di Dio, che quasi si perde nell’ombra, o il volto di Gesù reclinato su un lato.
«La Santissima Trinità» appare, dunque, come un capolavoro assolutamente compiuto della maturità dell'artista e una «possente meditazione sui misteri del sacrificio e redenzione di Cristo», come ebbe a scrivere nel 1999 John Spike, il più attento studioso della materia, nel fondamentale catalogo generale delle opere del pittore calabrese.
Le recenti operazioni di restauro hanno confermato l’autografia del dipinto sia per la rilevanza della qualità pittorica, che grazie al rinvenimento dell’acronimo FMP sul retro della tela. La sigla -che sta per Fra’ Mattia Preti- costituisce la firma dell’artista, cavaliere dell’Ordine Gerosolimitano. Il dipinto rappresenta un rarissimo esempio di opera autografa: le iniziali sono accompagnate da un simbolo eseguito con un’unica pennellata che ripropone il «nodo di salomone» o una elaborazione grafico-decorativa del caduceo, simbolo della medicina e possibile riferimento alla figura di san Luca, protagonista della pala maggiore dell'altare dedicato alla Confraternita degli artisti, già esposto nel 2013 presso l'Accademia nazionale di san Luca a Roma.

Informazioni utili
«La Santissima Trinità. Un raro dipinto autografo di Mattia Preti da Malta». Museo diocesano, piazza Duomo - Oppido Mamertina (Reggio Calabria). Orari: martedì-mercoledì-venerdì, dalle ore 9.00 alle ore 13.00; giovedì, dalle ore 15.00 alle ore 18.00, sabato e domenica, dalle ore 9.00 alle ore 12.00 e dalle ore 15.00 alle ore 18.00; martedì 8 dicembre, dalle ore 9.00 alle ore 12.00 e dalle ore 15.00 alle ore 18.00.  Informazioni: tel. 0966.86513 o museodiop@gmail.com. Dal 4 novembre (inaugurazione alle ore 17.00) al 10 dicembre 2015. 

lunedì 2 novembre 2015

Festival Aperto, Hofesh Shechter danza alla Collezione Maramotti di Reggio

Era il 2009 quando, con il coinvolgimento della Trisha Brown Dance Company, la collezione Maramotti, Max Mara e la Fondazione I Teatri di Reggio Emilia iniziavano una collaborazione tesa a far dialogare coreutica ed arte visiva. Negli anni, in occasione del Festival Aperto, la città emiliana ha ospitato, con cadenza biennale, altri importanti artisti internazionali quali Shen Wei e Wayne McGregor. Ora è la volta di Hofesh Shechter, che sarà protagonista di un’esclusiva performance site specific negli spazi della collezione Maramotti, nonché della prima italiana dello spettacolo «deGeneration» al teatro Cavallerizza (il 7 e l’8 novembre).
Il primo appuntamento, in programma dal 3 al 5 novembre, si rivela unico. La sola precedente occasione in cui la compagnia del coreografo israeliano, direttore ospite del Brighton Festival nel 2014 e artista associato di Sadler’s Wells, si è confrontata con uno spazio non teatrale è stata, infatti, la presentazione di alcuni estratti di «Political Mother» adattati agli ambienti della Saatchi Gallery di Londra.
Le quattro repliche della creazione site specific di Hofesh Shechter per la collezione Maramotti (in cartellone martedì 3 novembre, alle ore 20.30; mercoledì 4 novembre, alle ore 16.30 e alle ore 20.30; giovedì 5 novembre, alla ore 20.30) nascono in relazione con lo spazio espositivo e la sua collezione, all’interno della quale si trovano opere di Acconci, Bacon, Basquiat, Burri, Clemente, Cragg, Fischl, Fontana, Gallagher, Manders, Manzoni, Merz, Ontani, Paladino, Sachs, Schifano, Schnabel, Twombly e Viola.
Accanto ai danzatori di Shechter Junior, su speciale richiesta del coreografo, ci sarà Sita Ostheimer, già danzatrice della Hofesh Shechter Company e direttore delle prove di Shechter Junior.

Al teatro Cavallerizza andrà, invece, in scena in prima ed esclusiva italiana «deGeneration», lavoro che si cmpone tre parti: «Cult» (2004), «Fragments» (2003) e il premiato «Disappearing Act» (2015).
I temi principali di «Cult» (2004) sono i giochi di potere nella società e le lotte da essi provocate, e riportano a dinamiche ricorrenti nell’opera del coreografo: l’individuo con o contro il gruppo, il tentativo di unirsi per dare senso alla vita e raggiungere un’armonia personale e sociale. «Fragments» (2003) è un duetto che esplora la relazione intima tra un uomo e una donna, in cui si alternano gravità e ironia, gioco di potere e di seduzione, pragmatismo e sensualità. «Disappearing Act» (2015) riprende i motivi dei due pezzi precedenti in uno slancio più corale basandosi su una creazione del 2012 appositamente riadattata a e ispirata dai giovani interpreti della nuova formazione Shechter Junior.

Hofesh Shechter è spesso definito «coreografo israeliano», anche se vive a Londra da oltre quindici anni. Lo stile che lo ha consacrato trae ispirazione dalla danza popolare mediorientale e nordeuropea, ripresa in chiave contemporanea attraverso vigorose coreografie di gruppo e contrappunti solistici permeati da un ritmo intenso e trascinante. Le spettacolari coreografie che porta in scena sono interpretate da danzatori «abitati» da un’energia elettrica, una fisicità quasi selvaggia, e sono accompagnate da musiche potenti, spesso a cura dello stesso Shechter, che le compone. «La musica per me –ha raccontato il coreografo- è una sorta di carburante emozionale. Agisce come una struttura, scandisce i ritmi e crea un’atmosfera, delle regole, dei pensieri. La musica è importante come la danza ed è un grande elemento di connessione. Essere capaci di vedere un lavoro come una totalità, visiva e sonora, significa che esso è più completo nel suo riuscire a trasmettere energia. La musica è la ragione per cui io mi occupo di danza».
Il lavoro intenso di Shechter, percorso dalle tensioni e dalle inquietudini che attraversano il mondo odierno, indaga gli aspetti oscuri dell’agire umano sul piano psicologico, sociale e antropologico. Le composizioni spesso evocano una necessità di protezione e riparo dell’individuo che, di fronte all’ostilità del mondo e alla propria insicurezza emozionale, tende a ripiegare su se stesso. Come forte risposta verso le scarse opportunità offerte ai giovani nel mondo della danza, nel 2015 Hofesh Shechter ha creato la Shechter Junior, una compagnia di danzatori internazionali tra i 18 e i 25 anni selezionati tra oltre mille, di cui è alla guida.
Il progetto, nato per la formazione professionale dei giovani più talentuosi, rappresenta per Shechter uno strumento formidabile per incanalare la vitalità giovanile dei danzatori e lo scambio reciproco di energia tra le due compagnie, la Hofesh Shechter Company e la Shechter Junior. Quest’ultima sarà la protagonista di entrambi gli appuntamenti in calendario a Reggio Emilia, per una precisa scelta del coreografo.

Didascalie delle immagini
[Figg. 1, 2, 3 e 4] Shechter Junior, deGeneration. Ph. Victor Frankowski

Informazioni utili
Progetto Hofesh Shechter. Una collaborazione tra Collezione Maramotti, Max Mara e Fondazione I Teatri - Festival Aperto. Reggio Emilia, sedi varie. Informazioni: www.iteatri.re.it/Sezione.jsp?titolo=festival-aperto-2015&idSezione=3731. Dal 3 all'8 novembre 2015. 

A Site Specific Performance @ Collezione Maramotti, Via Fratelli Cervi, 66 - Reggio Emilia. Coreografia di Hofesh Shechter, interpretata da Shechter Junior. Quando: Martedì 3 novembre, ore 20.30; mercoledì 4 novembre, ore 16.30 e ore 20.30; giovedì 5 novembre, ore 20.30. Ingresso: posto unico € 20,00.

degeneratorion@ Teatro Cavallerizza, Viale Antonio Allegri, 8/a - Reggio Emilia. Coreografia e musica di Hofesh Shechter, interpretata da Shechter Junior. Quando: sabato 7 novembre, ore 20.30; domenica 8 novembre, ore 18.00. Ingresso: posto unico € 15,00. 

Dal nuovo Fondo Vinicio Vianello a una borsa di studio sulla produzione vetraria: tutte le novità della Fondazione Cini di Venezia

Si arricchisce di un nuovo importante tassello il Centro studi del vetro, costituito nel 2012 all’interno della Fondazione Giorgio Cini di Venezia. Lo scorso 29 ottobre è stato, infatti, firmato sull’Isola di San Giorgio Maggiore l'atto formale con cui l’architetto Toni Follina, nipote di Vinicio Vianello (1923-1999), ha donato al centro l’archivio del pittore e designer veneziano, vincitore di una Medaglia d’oro alla IX Triennale di Milano nel 1951 e del Compasso d’oro nel 1957, che, a fianco di Franco Albini e Carlo Scarpa, fu anche tra i fondatori del primo Corso sperimentale di progettazione per disegnatori industriali e artigiani di Venezia.
Il fondo Vianello -consultabile previo appuntamento nei giorni feriali, dal lunedì al venerdì, dalle ore 9.30 alle ore 13 e dalle ore 14 alle ore 17- costituisce un importante nucleo di documentazione: oltre milletrecento esemplari in originale, fogli relativi alla progettazione e produzione di vasi, lampade, progetti d'illuminazione su interventi architettonici e urbanistici realizzati in Italia e all'estero, circa cinquecentocinquanta riproduzioni fotografiche, numerosi cataloghi e brevetti, articoli di rassegna stampa e pubblicazioni del maestro Vinicio Vianello relativa al settore del vetro.
Nello specifico l’archivio comprende i disegni originali realizzati anni Cinquanta, quando Vinicio Vianello produce e brevetta lampade in vetro soffiato, ma concepite come oggetti industriali di serie, tra le quali si annovera la famosa lampada «Nelson» (1957), pubblicata più volte da riviste prestigiose come «Domus».
Si trovano, inoltre, conservati nel fondo i disegni progettuali di elementi di illuminazione per interventi architettonici urbani, la documentazione originale dei vasi asimmetrici «Torre vegetale», «Scoppio a Las Vegas» e «Reazione nucleare», i progetti per prototipi di elementi di illuminazione pensati per lo sfruttamento delle fonti alternative di energia, studiati negli anni Settanta e purtroppo mai realizzati. È, poi, possibile consultare anche disegni di opere in scala architettonica come la bandiera ziggurat in vetro di Murano del Monumento al milite ignoto di Baghdad, realizzato tra il 1979 e il 1982, in collaborazione con Marcello d’Olivo, e ancora esistente.

In questi giorni il Centro studi del vetro sta facendo parlare di sé anche per l’indizione di una nuova borsa di studio residenziale finalizzata allo studio della produzione vetraria a Venezia nel Novecento.
Mentre lo studioso francese Guillaume Serraille continua il suo progetto di ricerca dal titolo «Il repertorio ornamentale del vetro di Murano: usi e trasformazioni della filigrana e della murrina», la Cini lancia un nuovo bando destinato a dottorandi o a post-doc italiani o stranieri che intendano trascorrere sei mesi di ricerca (da aprile a dicembre 2016) sull’Isola di San Giorgio.
La borsa di studio del valore di 12.500 euro è finanziata grazie al contributo di Pentagram Stiftung e le iscrizioni al bando, consultabile on-line sul sito http://www.cini.it/centro-branca/borse-di-studio-centro-vittore-branca, rimarranno aperte fino al prossimo 31 gennaio.
I candidati dovranno proporre un tema di ricerca in relazione con i fondi archivistici custoditi all'interno della Fondazione Cini. La residenza nel campus del centro «Vittore Branca» offre, inoltre, l'opportunità di un confronto interdisciplinare tra gli studiosi e la comunità scientifica della Fondazione Cini, oltre all'accesso alle biblioteche e alla fototeca a un servizio di tutorship e la partecipazione alle iniziative culturali della fondazione.
La borsa di studio rientra nella serie di azioni promosse dal Centro studi del vetro finalizzate all’incremento progressivo di un Archivio generale del vetro veneziano - a disposizione della comunità scientifica nazionale e internazionale - nonché alla valorizzazione e al rilancio dell’arte vetraria, in particolare del Novecento. All’interno di questo archivio sono stati da poco digitalizzati per la consultazione fondi di artisti contemporanei attivi a Murano, quali Ginny Ruffner, Peter Shire ed Emmanuel Babled, e un cospicuo corpus di disegni di Dino Martens per la vetreria Aureliano Toso. L’importante lavoro di elaborazione e divulgazione on-line dei materiali depositati, avviatosi dal 2014, sta procedendo anche per il prezioso archivio della Seguso vetri d’arte, di cui il Centro studi del vetro conserva, tra i materiali vari, più di 20.000 disegni e oltre 25.000 foto d’epoca.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Vinicio Vianello, Vasi asimmetrici, 1952; [fig. 2] Vinicio Vianello, Disegno per vaso, 1956; [fig. 3] Centro Studi del Vetro, Isola di San Giorgio Maggiore. Ph. Matteo De Fina

Informazioni utili 
Centro studi del vetro - Istituto di storia dell’art, tel. 041.2710306, centrostudivetro@cini.it. Sito web: www.cini.it 

domenica 1 novembre 2015

«Biscotti P. Gentilini», in un libro centoventicinque anni di bontà e grafica pubblicitaria

Compie centoventincinque anni una delle più prestigiose aziende dolciarie italiane, fiore all’occhiello per l’eccellenza del made in Italy con i suoi fatturati in controtendenza a quella che è la crisi economica italiana. Si tratta dell’azienda «Biscotti P. Gentilini», esempio nei decenni di successo, serietà, tradizione, romanità e autorevolezza, la cui affascinante storia è ora raccontata in un libro scritto da Daniela Brignone per i tipi della Palombi Editori.
Difficile dare una classificazione al volume che si configura ora come un saggio ora come una biografia, ma che è anche un catalogo d’arte e una raccolta di preziosi documenti d’archivio e dati economici, nel quale vengono ricordati gli inizi di una realtà imprenditoriale, ora capitanata da Paolo Gentilini, nata grazie alle speranze di successo di un giovane partito dalla provincia di Bologna verso la capitale. Il ragazzo è Pietro Gentilini che, lasciata la sua Vergato, ha reso realtà un sogno grazie al sudore di un sano lavoro, a una volontà ferrea, a una fantasiosa creatività e a una lungimirante mentalità imprenditoriale.
Il libro ripercorre questa storia, ricostruendo in dettaglio – tra eventi e contesti storici diversificati, carteggi epistolari e racconti familiari - l’eroica sfida di un uomo che ha speso la propria vita nel creare specialità gastronomiche che hanno accompagnato la vita degli italiani per oltre un secolo: dolcetti composti da farina, zucchero, burro, miele e vaniglia sapientemente miscelati (la ricetta è ancora segreta) e confezionati in scatole di lusso per pochi privilegiati, ma diventati nel tempo un prodotto ricercato da famiglie di ogni estrazione sociale. Una storia semplice e pulita, quella narrata dall’autrice, che abbraccia un modello di tradizione alimentare italiana tracciando un ritratto sull’evoluzione dei consumi e dell’immaginario collettivo ad essi connesso, oltre che sulla storia di Roma legata alle sue attività commerciali, industriali e iconografiche da fine Ottocento ai giorni nostri.
In ogni cofanetto di biscotti è raffigurato un pezzo della Città eterna, un elemento bucolico o uno stereotipo grafico atto a generare ricordi e visioni collegati all’infanzia: un packaging d’immagine che nel corso degli anni si è adeguato con originale creatività anche alle logiche del marketing pubblicitario.
Insieme alla fotografia sociale di un’epoca che cambia con i suoi prodotti di consumo alimentare, si racconta delle profonde relazioni affettive di una famiglia numerosa che mai si scoraggia di fronte ad eventi imprevedibili e vince la partita con il consumatore il quale, più che cliente, risulta un affezionato e costante seguace, innamorato da più generazioni di sapori genuini ed inequivocabili.
Le tracce legali e contabili dell’evoluzione dell’azienda – anno per anno – sono frutto di una ricerca d’archivio che, accorpata a inedite immagini d’epoca, sia private che pubblicitarie, e a una scorrevolezza testuale che accresce la curiosità di fatti storici come di aneddoti personali, fanno di quest’opera una testimonianza completa di una vicenda aziendale unica nel suo genere.
Oltre al libro, la Biscotti P. Gentilini, festeggerà il suo centoventicinquesimo anniversario con l’emissione di un folder, realizzato in collaborazione con Poste Italiane Filatelia, contenente due cartoline con francobollo, personalizzate e timbrate con bollo speciale dell’evento.

Informazioni utili 
Daniela Brignone, Biscotti P. Gentilini 125 anni di bontà (1890 – 2015), Palombi Editori, Roma 2015. ISBN 9788860606921. Note: 192 pagine, 50 fotografie in bianco e nero, 250 fotografie a colori. Prezzo: € 39,00. Informazioni: Triumph Italy, via Lucilio, 60 - 00136 Roma, tel. 06.35530334, e-mail gentilini125@thetriumph.com. Sito internet: www.biscottigentilini.it

mercoledì 5 agosto 2015

«Lino, lana, seta e oro», la storia del ricamo rivive a Torino

«Ho voluto dare spazio alle straordinarie risorse di perizia e di pazienza di un certo artigianato, grande e unico. Così, per esempio, miriadi di cristalli sono ricamati con effetti bajadère su tuniche assolutamente stupefacenti». Così Gianfranco Ferré, nel 2002, descriveva l’elegante abito concesso in prestito dalla sua fondazione per la mostra «Lino, lana, seta e oro», allestita fino al 16 novembre a Torino, nella sala Atelier di Palazzo Madama.
Oltre sessanta manufatti della prestigiosa collezione museale piemontese ripercorrono otto secoli di storia del ricamo, dai disegni ad ago del Medioevo agli abiti danzanti degli anni Venti, vibranti di perline e conterie in vetro.
Ci sono in mostra delle vere e proprie preziosità come un ricamo in lana svizzero tedesco del 1580 che unisce la raffigurazione della parabola delle «Vergini sagge e delle vergini stolte» a quella degli evangelisti e delle stagioni, una raffinata tovaglia ricamata da Caterina Cantoni tra 1590 e 1610, e un frammento di stolone di piviale con allegri teschi infiocchettati ispirato a un’opera raffigurata da El Greco nel 1586.
Lungo il percorso espositivo sono, poi, rappresentati splendidi ricami in seta e oro, con un prezioso san Cosma in or nué, ricami in lino bianco dei monasteri svizzero tedeschi e altri in lana colorata per i tessuti da arredo, particolari della zona di Zurigo e Sciaffusa nel Cinque-Seicento. Fiori e rocailles decorano con leggerezza i tessuti e gli accessori di abbigliamento settecenteschi: pettorine e borsette femminili, o i corpetti a trapunto, ma anche le marsine, i gilet, i copricapo da uomo.
Palazzo Madama espone, inoltre, un oggetto assai raro: un quaderno manoscritto di disegni per ricami ad inchiostro e tempera, dedicato alla «mirabile matrona Marina Barbo» nel 1538. Assolutamente preziosa è anche la collezione di agorai, in smalto, avorio, microintaglio ligneo, dal XVII al XIX secolo: oggetti d’uso raffinatissimi compagni di lavoro di donne agiate.
Ad illustrare l’antico uso di «imparar l’arte» del ricamo è presente in mostra, poi, una bella raccolta di imparaticci, noti anche come samplers, i riquadri di tela lavorati nei secoli dalle ragazzine per esercitarsi e raccogliere modelli di punti per ricamo e rammendo. L’imparaticcio più antico è firmato da Maria Teofine, che aveva tredici anni quando lo terminò nel 1617, ma gli stessi segni -l’alfabeto, i numeri, la croce, la chiave, i piccoli animali, i simboli della passione- si ritrovano nei lavori delle ragazze di due, tre secoli dopo.
Ricamo deriva dall’arabo raqm: segno. Disegnare ad ago è una pratica antichissima nel bacino del Mediterraneo e in Oriente e, dal Medioevo, diffusa in tutta Europa. Si usano tutti i filati di origine vegetale o animale naturali o tinti, arricchiti da materiali preziosi, quali oro, argento, perle, coralli, o conterie in vetro, paillettes metalliche, in plastica o di gelatina.
Il ricamo è, nella storia, lavoro di uomini e donne: alla fine del XIII secolo a Parigi lavorano duecento mastri ricamatori, al 50% uomini e 50% donne. Nei secoli successivi, l’organizzazione corporativa dei mestieri affida agli uomini la titolarità delle botteghe, dove continuano a lavorare persone di entrambi i sessi. Oltre ai laboratori professionali, luoghi di produzione organizzata di ricami sono anche i monasteri femminili mentre, nel XVI secolo, il ricamo si diffonde come attività domestica, intrattenimento di nobildonne ed esercizio pratico ed educativo per le ragazze. Libri di modelli a stampa diffondono i disegni utilizzati per decorare tovaglie, biancheria, camicie.
Oggi, è il ricamo di alta moda che più dimostra la vitalità e potenzialità di quest’arte. I campioni di ricamo di Pino Grasso proposti per le creazioni dei grandi stilisti italiani aprono la prospettiva sul futuro, un alto artigianato che affonda saldamente le radici nella propria storia. Una storia che ha il sapore della pazienza e della meraviglia.

Didascalie delle immagini 
[Fig. 1] Abito baiadera. Foto: Graziano Ferrari. Credit: Fondazione Ferré; [fig. 2] Frammento di stolone di piviale raffigurante «San Cosma in trono». Firenze, 1470-1490; [fig. 3] Telo raffigurante la parabola «Le Vergini sagge e le vergini folli». Sciaffusa, 1580-1600 

Informazioni utili 
«Lino, lana, seta e oro. Otto secoli di ricamo». Palazzo Madama - Museo civico d’arte antica / Sala atelier, piazza Castello – Torino. Orari: lunedì – sabato, ore 10.00-18.00; domenica, ore 10.00-19.00; martedì chiuso; la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso: intero mostre e collezioni € 12,00, ridotto € 10,00, gratuito ragazzi fino ai 18 anni e abbonati Musei Torino Piemonte. Informazioni: tel. 011.4433501. Sito internet: www.palazzomadamatorino.it. Fino al 16 novembre 2015.