ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

giovedì 27 luglio 2017

«Spartaco», la schiavitù nel mondo antico e oggi

La storia di Roma è la storia di una società, di una cultura e di un'economia essenzialmente schiaviste. Il nostro sguardo ammirato rivolto all'antico non deve nasconderci questa verità: l'impero romano e la sua organizzazione così avanzata, che in alcuni casi ha fatto parlare di proto-capitalismo, non avrebbe potuto reggersi senza lo sfruttamento, abilmente organizzato, delle capacità e della forza lavoro di milioni di individui senza libertà, senza diritti e senza proprietà, neppure quella del proprio corpo. Senza gli schiavi, motore silenzioso e quasi invisibile dell’impero, difficilmente si sarebbe sviluppato il latifondo a cultura intensiva. Il commercio non avrebbe potuto distribuire merci su scala globale solcando numerose rotte, così come l’industria tessile, le fabbriche dei laterizi, la produzione industriale della ceramica e le imprese estrattive di cava e di miniera non avrebbero potuto far fronte ai consumi delle grandi concentrazioni urbane sorte intorno al Mediterraneo. Persino il divertimento e il tempo libero –ovvero tutto quel sistema che comprendeva teatro, circo e terme– non avrebbe potuto sopravvivere senza una larga percentuale di lavoro servile. Basti pensare che stime recenti hanno calcolato la presenza tra i 6 e i 10 milioni di schiavi su una popolazione di 50-60 milioni di individui.
A questa storia rivolge la propria attenzione la mostra «Spartaco. Schiavi e padroni a Roma», ospitata fino al 17 settembre al Museo dell’Ara Pacis di Roma, che vede il coinvolgimento nella parte curatoriale di un team di archeologi, scenografi, registi e architetti, coordinato dal punto di visto scientifico da Claudio Parisi Presicce, Orietta Rossini e Lucia Spagnuolo.
Oltre duecentocinquanta reperti archeologici provenienti da importanti istituzioni italiane e straniere come il Louvre di Parigi, i Musei Vaticani, la Galleria Tretyakov di Mosca, il Maschio Angioino di Napoli e le Terme di Diocleziano (solo per fare qualche nome) ricostruiscono la complessità del mondo degli schiavi nell’antica Roma a partire dall’ultima grande rivolta guidata da Spartaco tra il 73 e il 71 a.C., una protesta che coinvolse oltre settantamila gladiatori della Scuola di Capua e che venne repressa nel sangue da una decina di legioni al comando di Crasso.
Le opere sono inserite in un racconto immersivo composto da installazioni audio e video che riportano in vita suoni, voci e ambientazioni del contesto storico, la cui regia visiva e sonora è stata curata da Roberto Andò.
Il percorso espositivo è, inoltre, arricchito da una selezione di dieci fotografie, selezionate da Alessandro Mauro di Contrasto e firmate da Lewis Hine, Philip Jones Griffith, Patrick Zachmann, Gordon Parks, Fulvio Roiter, Francesco Cocco, Peter Magubane, Mark Peterson e Selvaprakash Lakshmanan, che rappresentano forti denunce visive di forme di schiavismo dell’epoca post-industriale e contemporanea.
L’attenzione all’attualità in mostra è data anche dai contributi forniti dall’Ilo - Organizzazione internazionale del lavoro, agenzia specializzata delle Nazioni Unite nei temi della politica sociale, impegnata nell’eliminazione del lavoro servile e di altre forme di schiavitù legate al mondo del lavoro.
Il percorso si snoda attraverso undici sezioni, a partire da «Vincitori e vinti», in cui si racconta l’età delle conquiste e la riduzione in schiavitù di decine di migliaia di vinti in ogni campagna militare: 300.000 prigionieri a seguito delle guerre puniche, 30.000 dalla sola città di Taranto nel 209 a.C., 150.000 durante le razzie dell’Epiro, 40.000 arrivati dalla Sardegna nel 174 a.C., altri 50.000 da Corinto nel 146 a.C.., circa 150.000 presi tra i Cimbri e i Teutoni ai tempi di Caio Mario e, secondo alcune fonti, più di un milione, catturati dall’esercito di Giulio Cesare in Gallia.
A mantenere alto il numero degli schiavi nell’antica Roma era, fin dai tempi remoti, la loro riproduzione naturale, ovviamente favorita dai padroni, ma anche la povertà, che costringeva molti a vendere i propri figli e a farne così dei servi, o le pendenze con la legge.
Di sezione in sezione, il visitatore può scoprire, per esempio, che gli schiavi domestici -cuochi (praepositus cocorum), camerieri (ministratores), assaggiatori (praegustatores), barbieri (tonsores), pettinatrici (ornatrices), addetti al guardaroba (ad vestem) o ai gioielli (ab ornamentis) e portatori di lettighe (lecticarii)- avevano dei privilegi rispetto agli addetti ai lavori pesanti, concentrati principalmente nei campi e nelle miniere, e in alcuni casi creavano addirittura rapporti di affetto e intimità con i loro padroni.
Difficile era anche la situazione delle donne. «Prehende servam: cumvoles, uti licet», ovvero «Prenditi la schiava come vuoi, come è tuo diritto», è quanto si legge, per esempio, in un graffito pompeiano. I padroni utilizzavano, dunque, le loro serve come un bene su cui investire, mettendole incinte o favorendo il loro accoppiamento, vendendole a casa di piacere o destinandole ad ambienti particolari della propria casa, le cosiddette cellae meretricae. Non possiamo, però, escludere del tutto che talvolta le schiave-amanti acquisissero ruoli di rilievo nella vita familiare, come nel caso della schiava di Moregine, che poteva sfoggiare un dono prezioso come il bracciale d'oro serpentiforme, che riporta l’iscrizione «Dominus ancillae suae». A raccontare questo aspetto della vita servile ci sono anche le spintriae, dischi di bronzo, della dimensione di una moneta, che dovevano anche possedere un qualche valore, forse corrispondente al numero ordinale su di esse riportato.
Schiavi erano anche i professionisti dello spettacolo, a cominciare dagli aurighi e dai gladiatori, vere e proprie star del firmamento romano.
Chi calcava il palcoscenico -attori comici, tragici, mimi, cantanti e danzatori- aveva uguale la sua dose di gloria, pur facendo un lavoro considerato non rispettabile. L’affermazione del mimo, basato sulla capacità espressiva e acrobatica del singolo performer, consacrò, per esempio, nuovi idoli: ad esempio lo schiavo Publilio Siro, un contemporaneo di Giulio Cesare di grande arguzia e avvenenza, o la famosa mima Licoride, nata schiava quindi liberata, amante di grandi personalità politiche, come Marco Antonio, e amata da uno dei poeti più famosi del I secolo a.C., Cornelio Gallo.
Accanto a questi lavori che venivano bollati con il marchio di infamia ve ne erano, però, altri -oggi stimati, come quello del medico e del chirurgo- esercitati da schiavi, molto spesso greci, di particolare cultura e abilità.
La mostra documenta anche la manumissio, ovvero «la strada verso la libertà», vera e propria occasione offerta dal diritto romano agli schiavi più meritevoli e a quelli che erano riusciti, arricchendosi, a comprare la propria libertà. Si trattava, comunque, di una pratica diffusa e unica nella storia della schiavitù tanto che gli schiavi liberati, i liberti, potevano divenire a pieno titolo cittadini romani, con tutti i diritti connessi e poche limitazioni, che peraltro scomparivano per la generazione successiva. Con questa logica, paradossale, il sistema schiavistico romano metteva in moto un vero e proprio ascensore sociale su base, almeno teoricamente, meritocratica.
Interessante è anche la sezione dedicata alla schiavitù in epoca moderna, che presenta, tra l’altro, un’immagine di Fulvio Roiter, datata 1953, che ritrae dei lavoratori nella miniera di zolfo di Caltanisetta e uno scatto di Lewis H. Hine con due bambini intenti a riparare i fili spezzati di un telaio in una fabbrica tessile di Macon, in Georgia, nel 1909. Un invito a non dimenticare e a continuare e a impegnarci nella lotta contro le nuove schiavitù.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Frammento di mosaico figurato, Paris, Musée du Louvre Département des Antiquitès greques, étrusques et romaines Photo© RMN-Gran Palais (musée du Louvre)/Hervé Lewandowski; [fig. 2] Bracciale in oro con iscrizione incisa, Moregine. Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo - Soprintendenza Speciale Pompei; [fig. 3] Ritratto di auriga, Su concessione del ministero per i Beni e le Attività Culturali – Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma. Museo Nazionale Romano – Palazzo Massimo alle Terme; [fig. 4] Lanternarius addormentato, Su concessione del ministero per i Beni e le Attività culturali – Soprintendenza Speciale per i Beni archeologici di Roma. Museo Nazionale Romano – Museo delle Terme di Diocleziano; [fig. 5] Gerla per lavoro in miniera. Madrid, Museo Arqueòlogico Nacional

Informazioni utili
«Spartaco. Schiavi e padroni a Roma». Museo dell’Ara Pacis, lungotevere in Augusta – Roma. Orari: tutti i giorni, dalle ore 9.30 alle ore 19.30; la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso: intero € 11,00, ridotto € 9,00; speciale scuola ad alunno € 4,00 (ingresso gratuito a un docente accompagnatore ogni 10 alunni); speciale Famiglie € 22,00 (2 adulti più figli al di sotto dei 18 anni). Informazioni: 060608 (tutti i giorni, dalle ore 9.00 alle ore 19.00). Sito internet: www.arapacis.it, www.museiincomuneroma.it. Fino al 17 settembre 2017.

martedì 25 luglio 2017

«L’offensiva su carta», la Grande guerra raccontata dal Fondo Luxardo

Con i suoi cinquemilasettecento pezzi tra giornali, periodici, bollettini, manifesti, volantini e pubblicazioni relativi alla Grande Guerra, il Fondo Luxardo, conservato nei Civici musei udinesi, è tra i più importati al mondo per ripercorrere la storia della prima guerra mondiale attraverso il linguaggio dell’arte e della comunicazione. Si rivela, dunque, preziosa la mostra «L’offensiva su carta», allestita negli spazi dell’istituzione friulana per la curatela di Giovanna Durì, Luca Giuliani e Anna Villari, che si sono avvalsi dell’aiuto di Sara Codutti e Fernando Orlandi. La rassegna, visibile fino al 7 gennaio, non si limita a presentare i soli materiali della Luxardo, utili anche per ricostruire il costume e la storia dell’arte di quel periodo storico, ma si estende al cinema d’epoca per arrivare ad illustratori contemporanei quali Hugo Pratt e Gipi.
Anna Villari, che di questa ricognizione storico artistica sui tesori della Luxardo è la responsabile, evidenzia come «l’illustrazione e la grafica italiane degli anni della Prima guerra mondiale, sulla scia di studi passati e anche delle diverse occasioni espositive legate alla ricorrenza del centenario, continuino a rivelarsi un settore particolarmente ‘generoso’ e ancora in parte inesplorato, sia nella quantità e varietà dei materiali che nella analisi e riflessione critica».
Quando l’Italia entra in guerra, dal punto di vista artistico si stanno ancora assaporando le delizie e i compiacimenti del gusto art nouveau, con l’eleganza del segno e la leggerezza delle atmosfere come chiavi di volta. In un versante culturale più raffinato ed esclusivo, l’inizio del secolo vede anche il manifestarsi di un altro e ben diverso versante espressivo, attraversato e da inquiete correnti tardo simboliste, in parte vicine a influenze mitteleuropee e secessioniste, e da fermenti futuristi e d’avanguardia, ancor più audaci e rivoluzionari. Allo scoppiare della guerra, sia le raffinate atmosfere Liberty sia le più innovative sperimentazioni avanguardiste, appaiono improvvisamente inadeguate a comunicare attraverso i vecchi e nuovi canali della illustrazione popolare, ora utilissimo veicolo di propaganda per parlare, con un linguaggio efficace e insieme rassicurante, tanto ai soldati che alla popolazione, sempre più invitata a sostenere, emotivamente e economicamente, il conflitto in corso. Questo avviene in misura ancora maggiore durante l’ultimo anno di guerra, quando l’istituzione da parte dello Stato maggiore dell’Esercito di un apposito servizio dedicato alla propaganda si preoccupa di confortare e rinvigorire la fede patriottica delle truppe anche attraverso la diffusione di giornali illustrati.
Ma come rispondono a questa nuova urgenza gli artisti e i professionisti dell’illustrazione, coinvolti e chiamati a comunicare, in un certo senso anche a vendere, la guerra? Molti degli illustratori attivi nelle redazioni di riviste come «San Marco», «La Trincea», «La Tradotta», «Il Montello», «La Ghirba» e «Signorsì» provengono dal mondo della grafica editoriale, dei giornali e dell’illustrazione di libri per l’infanzia, un genere che si era sempre più consolidato nell’Italia post risorgimentale, e il cui stile ora appariva utile per sostenere il carattere eminentemente educativo delle attività coordinate dal cosiddetto «Servizio P», che vedeva tra le fila dei suoi intellettuali e animatori un pedagogista del calibro di Giuseppe Lombardo Radice. La vocazione edificante, i toni di monito, incitamento, scherzoso supporto psicologico usati di volta in volta nelle diverse rubriche, negli articoli e, in modo ancora più immediato e empatico, attraverso le immagini, erano del resto dopo Caporetto chiare direttive dello Stato maggiore, e obiettivo primario dei giornali destinati ai soldati.
Uno stile giocoso e fantastico ereditato da quel mondo e il ricorso a caricature e deformazioni satiriche che rappresentano appena una leggera evoluzione di gusto rispetto a ciò che si ritrova nei giornali del tardo Ottocento caratterizzano questa fase comunicativa, nella quale emergono nuove esperienze figurative come quelle di Umberto Brunelleschi e Antonio Rubino.
In mostra è possibile vedere anche vignette pressoché sconosciute del grande cartellonista Leonetto Cappiello e le produzioni di autori meno noti al grande pubblico come Enrico Sacchetti, Filiberto Mateldi, Bruno Angoletta e Primo Sinopico. Sono esposte anche le prime prove pubbliche di giovanissimi soldati come Giorgio De Chirico, Carlo Carrà e Ardengo Soffici, che pubblicano sulla rivista «La Ghirba», ma anche i lavori di Mario Sironi, autore qui di vignette dai tratti brutali e dai toni scurissimi e tetri che saranno propri della sua successiva produzione, e del poeta paroliberista Francesco Cangiullo.
Mentre sulla «Trincea» e sul «Signorsì» è protagonista il disturbante e poco classificabile Aroldo Bonzagni, illustratore sospeso tra un simbolismo «maledetto» e un crudo realismo di matrice quasi espressionista,già firmatario nel 1910 del Manifesto dei pittori futuristi.
«Dalle migliaia di illustrazioni e vignette pubblicate in quei mesi di guerra, dalle decine e decine di nomi di artisti più o meno noti al pubblico, emerge, dunque, una varietà e ricchezza di esiti e ricerche che rende singolarmente feconda l’esperienza della illustrazione di guerra, -afferma ancora Anna Villani- e il Fondo Luxardo una miniera di materiali e di fonti il cui interesse e il cui valore figurativo e di testimonianza superano la contingenza storica per arrivare – intatti – fino a noi».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Luigi Daniele Crespi, «Cravatte», copertina de «La Trincea», n.35 (ultimo numero), 16 gennaio 1919; [fig. 2] Antonio Rubino, «L’ardito si diverte», «La Tradotta», n.18, 15 ottobre 1918; [fig. 3] Ardengo Soffici, «Trecentomila morti in un mese Generale!... » , copertina de «La Ghirba», n.3, 21 aprile 1918[fgi. 4] Leonetto Cappiello, «L’uragano dell’ovest», «Sempre avanti», 1918, n. 8, 27 ottobre 1918

Informazioni utili 
«L’offensiva su carta». Musei civici udinesi - Castello di Udine, piazzale del Castello, 1 - Udine. Orari: fino al 30 aprile 2017 e dal 1° ottobre 2017, da martedì a domenica, dalle ore 10.30 alle ore 17.00; dal 1° maggio al 30 settembre 2017, da martedì a domenica, dalle ore 10.30 alle ore 19.00; chiuso il lunedì. Ingresso: intero € 8,00, ridotto € 4,00. Informazioni utili: tel. 0432.1272591 o civici.musei@comune.udine.it. Fino al 7 gennaio 2018.


domenica 23 luglio 2017

Piranesi e le antichità romane

«È così pieno dell'aria, del cielo, del suolo di Roma, da ritrarla con prodigiosa fedeltà e da farla comparire come per incanto innanzi agli occhi di chi non l'ha ancora veduta». È ben raccontato in queste parole dello scrittore Giuseppe Rovani l'innamoramento a prima vista per la Città Eterna del giovane Giovan Battista Piranesi (Mogliano Veneto, 4 ottobre 1720 – Roma, 9 novembre 1778), qui giunto a soli vent'anni, nel 1740, al seguito dell'ambasciatore veneziano Francesco Venier. Con le «parlanti ruine» dell’Urbe l’architetto veneto instaura subito un dialogo personalissimo: le analizza, le studia, le reinventa dando vita a una miriade di strepitose opere grafiche che cristallizzano nel tempo la grandezza dell’antico passato capitolino.
Il Ponte e Castel Sant’Angelo, piazza di Spagna, il Campidoglio e la sua scalinata, il Pantheon, le grandi basiliche cittadine, il porto di Ripetta con i velieri che navigano lungo il Tevere: sono solo alcune delle bellezze architettoniche che l’artista fissa in un numero impensabile di schizzi, disegni, incisioni e acqueforti con l’intento di tutelare e salvaguardare la memoria di un mondo che sta scomparendo ed è sempre più al centro di quel viaggio di iniziazione e crescita culturale che è il Grand Tour internazionale.
È lo stesso Giovan Battista Piranesi a parlare, nel 1756, di questo suo intento documentarista: «vedendo che i resti degli antichi edifici di Roma, sparsi in gran parte negli orti e in altri luoghi coltivati, -si legge nel volume «Antichità romane»- diminuiscono giorno per giorno o per l’ingiuria del tempo o per l’avarizia dei proprietari che con barbara licenza li distruggono clandestinamente e ne vendono i pezzi per costruire edifici moderni, ho deciso di fissarli nelle mie stampe».
Quelle stesse stampe, dalle ardite visioni prospettiche e dai volenti effetti luministici, sono al centro della mostra «Piranesi. La fabbrica dell’utopia», a cura di Luigi Ficacci e Simonetta Tozzi, allestita fino al 15 ottobre a Roma, negli spazi di Palazzo Braschi.
Si tratta di oltre duecento opere grafiche, equamente ripartite tra la Fondazione Giorgio Cini di Venezia e le collezioni del museo romano, che ricostruiscono la parabola creativa di questo importante artista settecentesco, noto per aver applicato la matrice vedutistica della propria formazione veneta a una forte passione per l’archeologia e le antichità romane, delle quali rivendica la superiorità sia su quella dei barbari, sostenuta dall'inglese Ramsay, sia su quella greca, sostenuta dal tedesco Johann Joachim Winckelmann. Accanto a questi lavori grafici sono esposti anche i marmi, oggi conservati nelle collezioni della Sovrintendenza capitolina, derivati dalla celebre Forma Urbis severiana, la prima pianta di Roma fatta scolpire su pietra da Settimio Severo, che Giovan Battista Piranesi tentò di ricostruire nella sua originaria composizione. A completamento della mostra è, inoltre, possibile vedere delle immagini fotografiche di Andrea Jemolo dell’unica ed effettiva realizzazione architettonica lasciataci dall’artista veneto, ovvero la chiesa di S. Maria del Priorato, in cima al colle Aventino.
Tra le serie grafiche, il percorso espositivo, del quale rimarrà documentazione in un catalogo di De Luca editori d’arte, vede esposte, nello specifico, le grandi «Vedute di Roma», dalle amplificate prospettive architettoniche, i fantasiosi «Capricci», eseguiti ancora sotto l’influsso di Tiepolo, le celeberrime e suggestive visioni della serie delle «Carceri», fino alle varie raccolte di antichità romane, rese con prospettive fedeli, quasi fotograficamente perfette e attente ai più minuti dettagli.
Dalla Fondazione Cini provengono, inoltre, le realizzazioni tridimensionali di alcune invenzioni piranesiane mai realizzate e ricavate dal ricchissimo repertorio delle «Diverse Maniere di adornare i Cammini» (1769) o di alcuni pezzi antichi, riprodotti e divulgati da Piranesi nella serie dei «Vasi candelabri cippi sarcofagi tripodi…» (1978), come il celeberrimo tripode del Tempio di Iside a Pompei, vero e proprio masterpiece dell’arredo neoclassico e Impero. Le ri-creazioni piranesiane tridimensionali sono state realizzate dall’Atelier Factum Arte di Madrid, diretto da Adam Lowe, tramite modellazione in 3D e procedimento stereolitografico, in occasione della mostra «Le arti di Piranesi. Architetto, incisore, antiquario, vedutista, designer», organizzata dalla Fondazione Giorgio Cini nel 2010.
Dall’intera mostra emerge il volto di un artista che, stando alle parole di Luigi Ficacci, «fu un innovatore decisivo per la storia dell’acquaforte e tale è riconosciuto, nello specifico scientifico: il suo lessico calcografico, per l’inedita varietà tonale delle morsure e gli effetti dell’inchiostrazione, così come per la sconosciuta qualità del cromatismo grafico, produssero conseguenze determinanti presso le individualità artistiche che, nei secoli e fino all’attualità, vi si riferirono, restandone segnate secondo modalità assolutamente proprie e spesso non coincidenti con lo sviluppo storico complessivo della storia del gusto».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Giovanni Battista Piranesi Mausoleo di Cecilia Metella, 1762, acquaforte, Museo di Roma; [Fig. 2] Giovanni Battista Piranesi , Veduta del Campidoglio e di S. Maria d'Aracoeli,1746-1748, acquaforte, Museo di Roma; [fig.3] Giovanni Battista Piranesi, Basilica di San Sebastiano, 1750-1760, acquaforte, Museo di Roma; [fig. 4] Foto di Andrea Jemolo, Tempio di Giano, da Vedute di Roma, 1745-1778

Informazioni utili 
«Piranesi. La fabbrica dell’utopia». Museo di Roma - Palazzo Braschi, piazza Navona, 2 o piazza San Pantaleo, 10 – Roma. Orari: dal martedì alla domenica, dalle ore 10.00 alle ore 19.00 (la biglietteria chiude alle ore 18.00); chiuso il lunedì. Ingresso (solo alla mostra): intero € 9,00; ridotto € 7,00; speciale scuola € 4,00 ad alunno (ingresso gratuito ad un docente accompagnatore ogni 10 alunni); speciale famiglia € 22,00 (2 adulti più figli al di sotto dei 18 anni); per altre tariffe è possibile consultare il sito www.museodiroma.it. Informazioni: tel. 060608 (tutti i giorni ore 9.00 - 19.00). Sito internet: www.museodiroma.it. Fino al 15 ottobre 2017.

venerdì 21 luglio 2017

Call for Artist, nel Nord-est interventi site-specific per la valorizzazione territoriale

Lupi disegnati, scolpiti, grafitati o riprodotti in installazioni: ecco quanto cerca il concorso di idee «Lupi in città!» lanciato dal Muse di Trento, in collaborazione con il Mart di Rovereto e Palazzo Strozzi di Firenze, per «Life Wolfalps», progetto cofinanziato dall’Unione Europea nell’ambito della programmazione «Life+ 2007-2013», con l’intento di realizzare azioni coordinate per la conservazione a lungo termine della popolazione alpina del lupo.
Il bando, la cui scadenza è fissata al 1° settembre, richiede la presentazione di progetti artistici che declinino il rapporto uomo-lupo o che individuino strategie funzionali ad assicurare una convivenza stabile tra il lupo e le attività economiche tradizionali, sia nei territori dove questo animale è già presente da tempo, sia nelle zone in cui il processo di naturale ricolonizzazione è attualmente in corso.
Le opere d'arte/installazioni ispirate ai contenuti e agli obiettivi del progetto selezionate, in tutto otto, verranno esposte a partire dal tardo autunno nel centro storico di Trento, en plein air. La loro realizzazione sarà preceduta da un primo periodo di residenza degli artisti al Muse.
Nella prima fase di selezione, non si richiede l’invio di progetti di opere dettagliati o specifici. Si richiede, invece, l’invio di materiali che contengano le linee guida secondo le quali i candidati intendono sviluppare le loro opere. Le idee progettuali inviate dovranno essere decontestualizzate (non ideate, dunque, per essere esposte in un luogo specifico). La scelta delle opere d’arte avverrà nell’ottica di una successiva itineranza della mostra.
Possono partecipare alla selezione artisti italiani che, al momento della presentazione della domanda, non abbiano compiuto i quaranta anni di età. Street art, videoarte, new media art, scultura, pittura, disegno e installazione sono le discipline ammesse. La giuria sarà formata da un rappresentante per ciascun ente coinvolto nel progetto, affiancati da Adriana Polveroni e Arturo Galansino.
Un premio per la valorizzazione territoriale è stato lanciato anche da Ca’ Corniani, la storica tenuta di Genagricola che con i suoi millesettecento ettari di estensione nell’entroterra di Caorle, in provincia di Venezia, è una delle più grandi aziende agricole italiane. Il bando, a invito e a cura di Eight Art Project, vedrà cinque artisti europei invitati Elena Tettamanti e Antonella Soldaini -Monica Bonvicini, Alberto Garutti, Carsten Höller, Tobias Rehberger e Remo Salvadori- a ideare per i tre punti di accesso della residenza veneta altrettanti interventi site-specific con l’obiettivo di raccontare la ricchezza di quest’area dalla vocazione fortemente agricola e produttiva.
Gli artisti invitati ragioneranno sul concetto di soglia, a partire dagli ingressi via terra e via acqua alla tenuta: tre Soglie, fisiche e simboliche, il cui significato è da interpretare nell’accezione data da Robert Venturi di «punto di tensione tra due polarità».
La cerimonia di premiazione è prevista per il 12 ottobre negli spazi della Triennale di Milano; mentre il progetto vincitore -selezionato da una giuria composta, tra gli altri, da Gabriella Belli, Beatrice Merz, Pippo Ciorra e Vicente Todolì- verrà inaugurato nel maggio 2018, in occasione della sedicesima Mostra internazionale di architettura della Biennale di Venezia.

Informazioni utili
«Lupi in città!». Informazioni e bando completo su www.muse.it e www.lifewolfalps.eu. Deadline: 1° settembre 2017
«Tre soglie». Concorso ad invito. Informazioni e bando completo su cacorniani.genagricola.it/. Premiazione: 12 ottobre 2017

mercoledì 19 luglio 2017

Pistoia omaggia Giovanni Pisano

L’arte antica fa il suo debutto a Palazzo Fabroni. In occasione di Pistoia capitale italiana della cultura, l’edificio trecentesco fatto costruire dalla famiglia Dondori, che dal 1990 è sede di numerose esposizione d’arte contemporanea, apre le porte al genio di Giovanni Pisano, scultore vissuto a cavallo tra Duecento e Trecento che proprio a Pistoia, negli spazi della pieve romanica di Sant’Andrea, ha lasciato una delle sue opere più importanti: il famoso pulpito marmoreo terminato nel 1301. La rassegna, nata da un’idea di Giovanni Agosti, si avvale della curatela di Roberto Bartalini e Sabina Spannocchi, che hanno selezionato poche opere, dalle quali risulta la straordinaria gamma creativa e l’inventività iconografica dell’artista, oltre al suo dominio di materie diverse come pietra e legno.
Si parte con un preludio: il rilievo con le «Stimmate di San Francesco» di Nicola Pisano, padre di Giovanni. È quanto resta di un monumento funebre risalente agli anni Settanta del Duecento, molto probabilmente eretto nella chiesa di Santa Maria del Prato, prima chiesa francescana di Pistoia, in luogo della quale fu poi costruita l’attuale chiesa di San Francesco. Il destinatario di questo sepolcro era probabilmente Filippo da Pistoia, già vescovo di Ferrara, di Firenze e arcivescovo di Ravenna.
Le altre otto stanze sono dedicate a Giovanni Pisano. Nella seconda trova spazio una «Madonna con Bambino», tondo in marmo che rappresenta uno dei vertici dell’opera del giovane scultore, proveniente dalla collegiata di Sant’Andrea e attualmente conservato al Museo di Empoli. Le forme armoniche mostrano come l’artista avesse iniziato a muovere i primi passi sotto la guida paterna, ma la torsione del volto della Vergine permette di cogliere, in fieri, quell’idea di movimento che Pisano svilupperà nell’arco della sua carriera.
Per tutto il Medioevo fu frequente la pratica di riutilizzare le opere d’arte a seconda di nuove esigenze del culto: ne è un probabile esempio l’opera lignea esposta nella terza stanza, un «Angelo in veste di diacono che ostende la testa di San Giovanni Battista». Il delicatissimo Angelo, che regge una grande e drammatica testa del Battista, presenta dissonanti aspetti stilistici: l’Angelo, in tutto corrispondente ai più noti esempi di scultura gotica francese della metà del Duecento, reggeva probabilmente in mano un oggetto più piccolo. Il volto del Battista, molto grande e dalle palesi differenze stilistiche rispetto al corpo della statua, è sicuramente attribuibile a Giovanni Pisano, all’epoca ancora giovane.
Il momento in cui l’arte di Giovanni Pisano inizia a distinguersi nettamente da quella del padre Nicola è esemplificato, in mostra, da una delle cosiddette «Ballerine», figure ideate per le ghimberghe del Battistero di Pisa. Si tratta di statue che dovevano risultare visibili a distanza e quindi erano scolpite con fare rapido e abbreviato. Queste figure femminili danzanti, che sembrano originate e tenute in vita da un soffio d’aria, offrono i primi saggi del dinamismo impetuoso e dell’espressionismo caratteristici del Pisano. «Fu solo dopo la guerra, quando le grandi figure furono tirate giù dalle nicchie e poste nel Battistero [a Pisa], che io potei vederle da vicino e fu allora che fui colpito dalla tremenda forza drammatica che avrei poi indicato come la caratteristica qualità scultorea, lo stile e la personalità di Giovanni» scrisse nel 1969 lo scultore britannico Henry Moore.
Nelle successive quattro stanze, quattro Crocifissi diversi, ciascuno testimone di una diversa maturazione artistica dello scultore. Il Crocifisso della chiesa di San Bartolomeo in Pantano, opera monumentale sconosciuta ai più, va ascritto all’ultima, straordinaria fase creativa: è molto diverso dagli altri suoi crocifissi lignei, sia per le dimensioni che per la resa formale. Privo dell’effetto di torsione e del dinamismo di altri lavori, è concepito non come oggetto processionale, ma per essere posto in relazione simbolica con la mensa dell’altare.
Il Crocifisso della Cattedrale di Siena è l’unico tra quelli processionali a conservare ancora la croce originale ed è un’opera della prima maturità dell’artista, databile al 1285-90. Il corpo presenta un netto stacco rispetto alla croce ed esprime tensione drammatica attraverso un movimento articolato: a differenza delle forme abbreviate che Giovanni Pisano prediligeva nello scolpire il marmo, quest’opera lignea si contraddistingue per un alto grado di finitezza nell’intaglio.
Il Crocifisso della pieve di Sant’Andrea mostra, invece, un’evoluzione rispetto al precedente nel movimento tormentato, che riguarda ogni fibra del corpo e che induce nello spettatore un forte sentimento di compassione. Tra i Crocifissi realizzati nella maturità da Pisano questo è il meno spigoloso, anche per la qualità del legno di noce impiegato.
Mentre l’ultimo crocifisso ad essere presentato è quello della chiesa di Santa Maria a Ripalta, conservato oggi nella pieve di Sant’Andrea, venerato per i miracoli che gli si riferirono durante la pestilenza di fine Trecento e concepito per essere portato in processione.
L’ultima opera esposta è marmorea: una sobria figura allegorica della «Giustizia», che faceva parte del monumento funebre di Margherita di Brabante, moglie dell’imperatore Enrico VII, morta di peste nel 1311. L’incarico di realizzarlo fu affidato al quasi settantenne Giovanni Pisano, considerato il miglior scultore di allora in Italia. Pur anziano, Giovanni dà prova di un’ulteriore, inaspettata evoluzione del suo stile, raggiungendo con quest’opera le vette di un’espressività meno stridente, più armonica, con la dolce mestizia del volto della «Giustizia».

Informazioni utili
Omaggio a Giovanni Pisano. Palazzo Fabroni, via Sant’Andrea 18 – Pistoia. Orari: dal martedì alla domenica e festivi, lunedì 24 luglio e lunedì 14 agosto, ore 10.00-18.00; chiuso il lunedì. Ingresso: intero € 6,00 - ridotto € 3,00. Giornale della mostra: € 4,00. Informazioni: 0573 371214. Sito internet: www.pistoia17.it | www.palazzofabroni.it. Fino al 20 agosto 2017.