ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

domenica 17 giugno 2018

«Resistere»: con il crowdfunding un viaggio fotografico nel cuore terremotato del Centro Italia

Si intitola «Resistere. Nel cuore terremotato del Centro Italia» ed è un libro fotografico alla cui realizzazione potranno contribuire tutti. Il volume, realizzato da Alessio Pagani e Francesco Fiorello per le edizioni Seipersei di Stefano Vigni, è, infatti, da poco sbarcato su Ulule, la principale piattaforma di reward-based crowdfunding d’Europa.
Chiunque potrà sostenere il progetto e ricevere a casa il volume che, attraverso decine di fotografie in bianco e nero riunite sotto il nome Genziana Project, racconta i venti mesi successivi al sisma che, il 24 agosto 2016, ha cambiato il Centro Italia.
Amatrice, Accumoli, Arquata del Tronto, Visso, Ussita, Castelsantangelo sul Nera, Pescara del Tronto, Camerino, Norcia, Castelluccio sono alcuni dei paesi al centro del racconto, che permette di conoscere più da vicino la quotidianità delle zone terremotate sin dai primissimi momenti, la sua evoluzione e le situazioni di difficoltà in cui le persone sono costrette a vivere tutt'oggi.
Si tratta di un progetto importante che ha un solo obiettivo: portare in tutta Italia le immagini e le storie di chi, nonostante tutto, ha scelto di resistere e restare in piedi.
Lo raccontano bene le parole dei due fotoreporter autori delle immagini raccolte nel volume: «Ho un’immagine impressa del 24 agosto 2016 -spiega Alessio Pagani-. A Pescara del Tronto c’è distruzione totale, ma una porta è lì ferma che rimane in piedi. In quel momento ho pensato che non tutto fosse perduto, né per le persone né per noi fotografi: potevamo raccontare non soltanto il dramma, ma anche la grande voglia di riscatto».
«Il cuore del libro fotografico ‘Resistere’ -aggiunge Francesco Fiorello- è la gente dell’Appennino ferito: per questo con il nostro lavoro abbiamo cercato di essere più obiettivi possibile senza però dimenticare mai di stare dalla parte delle popolazioni e della loro resistenza».
«Nelle nostre foto -spiegano entrambi- ci sono le macerie ancora per le strade, la non ricostruzione, le difficoltà. Ma ci sono anche la forza di volontà delle persone che abbiamo conosciuto e fotografato, la loro voglia di restare o ritornare appena possibile, i loro sforzi per andare avanti nonostante tutto, le loro proteste, manifestazioni e marce sempre troppo poco prese sul serio».
Dall’attesa per le soluzioni abitative d’emergenza alla riapertura di una strada, passando per le piccole meraviglie quotidiane come la semina a Castelluccio e ogni tentativo di rinascita che, nonostante tutto, si prova a mettere in campo nei luoghi del terremoto: «Resistere» è la realtà del Centro Italia, «è la fotografia di un popolo indomito che nonostante tutto continua a camminare a testa alta. Chinandosi – chiosano i due autori- solo «per cogliere la genziana», come ci hanno insegnato gli abitanti di quelle terre».
Il lavoro di Alessio Pagani e Francesco Fiorello ha i ritmi lenti di chi ha continuato a scattare anche quando è terminata l’emergenza della quotidianità che si fa cronaca. La loro è una narrazione che non si è mai sottomessa alla pressione di qualche testata dai modi troppo frettolosi per far le cose come si deve, «per seguire – scrive Davide Burchiellaro, vice direttore di «Marie Claire»- l’avventura di una lenticchia che deve germogliare lì, proprio lì, nella Piana di Castelluccio a dispetto delle strade dissestate». Perché la vita vince sempre.

Informazioni utili 
https://it.ulule.com/resistere/

venerdì 15 giugno 2018

Francesco Tricarico in mostra a Bologna: quando le note diventano arte

L’arte sposa le sette note al Museo internazionale e biblioteca della musica di Bologna. Fino al 24 giugno le sale del cinquecentesco Palazzo Sanguinetti, che si affaccia su Strada Maggiore, aprono le porte a Francesco Tricarico, cantautore italiano, immaginifico e naif, che ha debuttato nel mondo del pop, all’inizio del millennio, con il singolo «Io sono Francesco» e che, da allora, ha regalato agli amanti della musica leggera italiana album dal sapore poetico, capaci di metterci davanti a tutta la felicità e la malinconia del mondo facendoti stare bene, come «Drago», «La pesca» e «Frescobaldo nel recinto».
Dal 2015 Francesco Tricarico si dedica anche alle arti visite e da questa sua nuova passione prende spunto il progetto espositivo «Quando la musica si mostra. Una nota al museo», curato da Olivia Spatola e organizzato con la galleria Fabbrica Eos di Milano.
L’esposizione, che si avvale anche della collaborazione di Musiche Metropolitane e Vittorio Corbisiero Management, ben si sposa con la storia di Palazzo Sanguinetti, al cui interno sono conservate le prestigiose collezioni di beni musicali della città di Bologna, in un percorso di visita che si snoda attraverso nove sale a ripercorrere sei secoli di storia della musica europea, con oltre un centinaio di dipinti, più di ottanta strumenti musicali antichi ed un'ampia selezione di documenti storici di grande pregio.
L’intento della mostra di Francesco Tricarico è quello di far dialogare l’arte con la musica all’interno di uno stesso spazio che è al contempo sia fisico che metaforico: il concetto della musica in quanto segno espresso - scritto, di contenitore di significanti e di significati che suonano anche quando gli strumenti non sono sfiorati dalle dita del musicista.
In questo spazio che potremmo definire del «silenzio cageano», in cui lo spettatore ha la sensazione di ascoltare qualcosa anche se tutto tace, le opere di Francesco Tricarico svelano in quale modo è possibile controllare e organizzare le nostre percezioni.
I lavori selezionati sono sette come il numero delle note musicali e le sale del museo in cui il percorso artistico si dispiega. Ed è così che le stanze abbandonano temporaneamente la loro consueta numerazione per diventare contrassegnate -attraverso i dipinti dell’artista- dai nomi delle note musicali: la «Stanza del Do», la «Stanza del Re», la «Stanza del Mi», la «Stanza del Fa», la «Stanza del Sol», la «Stanza del La» e la «Stanza del Si». Ma non solo.

In questo caso, il segno - ovvero la relazione tra significante e significato - rappresentato dalla denominazione delle stanze, diventa anche simbolo: vale a dire una realtà altra, che va oltre e da ricomporre; l’espressione dell’inconscio collettivo da cui emergono processi di trasformazione tra ciò che è noto e ciò che non lo è, coinvolgendo lo spettatore.
La «Stanza del Do», dunque, -in questo gioco fra segno e simbolo- non è soltanto la sala in cui Tricarico omaggia la prima nota musicale, ma anche del Do-minus; la «Stanza del Re» del Re-gnare; la «Stanza del Mi» del Mi-stero; la «Stanza del Fa» del Fa-re; la «Stanza del Sol» del Sol-o; la «Stanza del La» del La-voro e la «Stanza del Si» del Si-lenzio, che chiude concretamente e allegoricamente la mostra.
Cos'è l’arte per Francesco Tricarico? È un modo di tornare alla vita, un riscatto, una rivincita, una grande occasione di scoperta e di de-costruzione di tutti i sistemi dell’essere umano. La passione per la pittura nasce fra i banchi di scuola e precisamente durante le lezioni di educazione tecnico-artistiche alle scuole medie: «Ho un grande ricordo di quel periodo -racconta l’artista-. Mentre disegnavo linee diagonali e curve per poi riempirle di colore, mi trovavo a partorire pensieri enormi che forse avrei dovuto affrontare un po’ più avanti. Ma siccome già li affrontavo, la ritualità di quei disegni mi dava la giustificazione di assentarmi e allontanarmi momentaneamente da tutti i miei amici perché mi sentivo in difetto: avevo argomenti che non potevo condividere con loro, c’era la morte, la morte di mio padre, pensieri troppo difficili da gestire. Riempire gli spazi di colore era un modo per riflettere sulla mia solitudine. Per cui -l’arte come la musica- giustificava me stesso e la mia esigenza di prendermi del tempo. Quel mondo dava una sensazione di protezione che poi con il tempo ho rielaborato».
I suoi quadri sono frutto di una ricerca interiore unita alla necessità di produrre contenuti dal valore universale, che lo uniscano agli altri nel concetto di bellezza condivisa. Per Tricarico dipingere non è un tentativo di fuga dalla realtà ma un modo di esserci: «è un modo di essere nella realtà interpretandola. Osservandola in altri modi, osservandola su una tela, innesca un un modo diverso di pensare e l’atto creativo rappresenta un momento che altrimenti non si fermerebbe ed invece si ferma. Tutto ciò mi suscita stupore».
L’arte di Tricarico è un grande caos ordinato, come afferma l’artista stesso. I soggetti delle sue opere cambiano, non sono mai gli stessi. La sua è una ricerca continua, legata a tutti i sensi, alla vista e soprattutto a ciò che non si vede: Tricarico è affascinato dalle cose che non sono visibili ma che allo stesso tempo possiamo intuire, percepire.
I suoi quadri sono delle chiavi d’accesso, piccole magie che aprono altre porte: «la tela mi svela qualcosa che prima non c’era, aiuta a farmi capire cose che probabilmente ancora non so».

Informazioni utili
Mostra personale di Francesco Tricarico. Museo internazionale e biblioteca della musica, Strada Maggiore, 34 – Bologna Orari di apertura: da martedì a domenica (festivi compresi), ore 10.00 – 18.30; lunedì chiuso. Ingresso (comprende l'accesso al museo): intero € 5,00, ridotto € 3,00, gratuito per possessori Card Musei Metropolitani Bologna e ogni prima domenica del mese. Informazioni: Museo internazionale e biblioteca della musica, Strada Maggiore, 34 – Bologna, tel. +39 051 2757711 o museomusica@comune.bologna.it. Sito internet: www.museibologna.it/musica. Fino al 24 giugno 2018. 

mercoledì 13 giugno 2018

Venezia, in mostra a Palazzo Fortuny la «stanza di Zoran»

Nel 1950 Zoran Music (Bocavizza, 1909 - Venezia, 2005) ricevette, da parte delle sorelle Charlotte e Nelly Dornacher, l’incarico di decorare il seminterrato della loro villa a Zollikon, nei pressi di Zurigo.
L’insieme doveva costituire un esempio di opera d’arte totale: oltre alle pitture su intonaco, tela di lino e juta, l’artista disegnò i motivi decorativi ricamati sulle tende e sulla tovaglia che ornavano la sala. Alcuni mobili, seppure non progettati da lui, furono scelti con il suo accordo a completamento dello spazio destinato a riunioni conviviali.
La maggior parte dei dipinti furono eseguiti direttamente sull’intonaco murario, cinque composizioni erano su tela di lino tesa su supporti fissati al muro, mentre per la decorazione della porta d’entrata fu utilizzata la tela di iuta: lo stesso tessuto delle tende e di una tovaglia ricamata su disegno dell’artista, che ne scelse i colori e i differenti punti di ricamo.
Dopo anni di incuria e abbandono la stanza è stata recuperata grazie all’intervento di Paolo Cadorin, cognato di Music, direttore del dipartimento di restauro del Kunstmuseum di Basilea, che ha supervisionato lo stacco degli intonaci, il loro trasferimento su pannelli alveolari in alluminio e il recupero delle tele e degli arredi.
Un complesso lavoro portato a termine dai suoi allievi, restituisce finalmente al pubblico la «stanza di Zoran», ricomposta ora a Palazzo Fortuny come elemento centrale di una mostra omaggio al suo autore, curata da Daniela Ferretti e promossa dalla Fondazione Musei civici di Venezia con il sostegno di Charlotte und Nelly Dornacher Stiftung.
L'esposizione presenta, inoltre, un’ampia e accurata selezione di opere realizzate tra il 1947 e il 1953, provenienti da collezioni private e dall’archivio dell’artista.
Sono gli anni del ritorno alla vita dopo le sofferenze dell’esilio e del campo di concentramento; gli anni dell’approdo, tanto agognato, nella solare Venezia. Ed è allora che accetterà di dipingere per le amiche di Paolo Cadorin -come aveva fatto nel suo studio, a quel tempo all’ultimo piano di Palazzo Pisani- le pareti e il soffitto di una cantina, come si usava nel dopoguerra nelle caves di Parigi, per rifugiarsi a ballare o a scaldarsi.
Ne farà un inno alla vita, ricoprendo la cantina di pitture a fresco con quella stessa tecnica usata prima della guerra per decorare le chiese distrutte del Friuli. Un inno in cui egli inserisce tutto il suo universo.
I motivi profusi da Music in questa sala -di una ricchezza quasi vertiginosa– costituiscono, infatti, nel loro complesso, una sorta di summa iconografica della produzione artistica di quegli anni: dai motivi dalmati di donne a cavallo, col parasole, agli asinelli e cavallini nel paesaggio roccioso o danzanti nel vuoto; dai traghetti affollati di cavalli o bovini alle fasce decorative a losanghe, righe, tondi o scandole; dai volti incorniciati e ieratici che ricordano Campigli a un ritratto iconico di Ida allo specchio e al proprio autoritratto.
E poi le vedute di Venezia: le cupole e la facciata della Basilica, Palazzo Ducale, balaustre, archi, i portici della piazza, il Bacino di San Marco, San Giorgio, la Dogana, i bragozzi.
Soni gli stessi temi che ricorrono nelle altre opere in mostra: acquerelli, tempere su carta, oli su tela, pastelli in una pittura dominata da colori minerali e polverosi, che richiama Bisanzio e il mondo ingenuo dell’infanzia; ma anche incisioni e opere realizzate a puntasecca.
Di grande interesse, provenienti dall’Archivio Cadorin Barbarigo Music, sono anche gli studi preliminari per un arazzo intitolato «Storia di Marco Polo», di dimensioni notevoli (2,5 m di altezza su una base di 8 circa, formato al centro in basso «Music 1951») destinato in origine al soggiorno di prima classe del transatlantico Augustus. È una narrazione, una sorta di fregio, diviso in nove episodi. Disegni ricchi di particolari che in realtà si perderanno nella tessitura in un processo di rarefazione delle forme.

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Zoran Mušicˇ, Veduta di San Giorgio Maggiore e bragozzi. Dettaglio del soffitto, Olio su intonaco. Collezione privata; [fig. 2] Zoran Mušicˇ, Veduta di Venezia: Bacino di San Marco con l’Isola di San Giorgio Maggiore. Dettaglio di parete. Olio su tela di lino. Collezione privata; [fig. 3] Zoran Mušicˇ,Motivo dalmata, 1947 Tempera su cartone Collezione privata Foto Claudio Franzini,  Venezia, Archivio Cadorin Barbarigo Mušic

Informazioni utili 
Primavera a Palazzo Fortuny. Museo di Palazzo Fortuny, San Marco - San Beneto - 30124 Venezia. Orari: 10.00-18.00; chiuso il martedì. Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8.00. Informazioni: www.fortuny.visitmuve.it | info@fmcvenezia.it | 848082000 (dall’Italia) | +3904142730892 (dall’estero). Fino al 23 luglio 2018. 

lunedì 11 giugno 2018

Arezzo, sessant'anni di moda italiana alla Basilica di San Francesco

Dalle linee sinuose degli abiti della Belle Époque a quelle scivolate e audaci dell'epoca Decò, dalla moda austera del periodo bellico alla rivoluzionaria minigonna degli anni Sessanta: racconta l’evoluzione dello stile italiano, nei primi decenni del Novecento, la mostra «Moda e Modi. Stile e costume in Italia 1900-1960», ospitata fino al 4 novembre ad Arezzo, negli spazi della Basilica di San Francesco. L’esposizione, per la curatela di Mariastella Margozzi e Laura Mancioli, allinea una ricca selezione di abiti d’epoca, accessori di moda, oggetti, dipinti, disegni, acquerelli e fotografie, che raccontano non solo la moda indossata in quegli anni, ma anche quella che si ammirava sulle riviste o che veniva rappresentata da artisti reporter come Ottorino Mancioli o da pittori come Fazi, Sobrero, Avenali, ritrattisti della «vita quotidiana».
A raccontare lo stile italiano nella rassegna sono anche oggetti che hanno segnato il Novecento come il grammofono, la radio, il telefono e la televisione.
Il ventesimo secolo ha visto cambiamenti incredibili in ogni campo e ha significato per tutte le classi sociali, ma soprattutto per quelle medio basse, una integrazione continua all'ambiente della vita, ai cambiamenti epocali delle modalità del lavoro, a quelli che inevitabilmente si registrano nei costumi, nelle abitudini, nelle mode e nei modi di rappresentarsi da parte della società a tutti i suoi livelli.
Le città si caratterizzano sempre più come luoghi della modernità, delle fabbriche che impiegano operai, degli alloggi collettivi nei palazzoni, delle ferrovie e della viabilità automobilistica. La vita è frenetica, i tempi dell’esistenza sono ritmati dagli orari di lavoro ancora troppo lunghi, la vita familiare risente moltissimo di questo cambiamento, soprattutto quando le donne lavorano e c'è ancora pochissimo a disposizione per organizzare la giornata dei bambini.
La moda, quella comune e di tutti i giorni, cambia per esigenze di praticità e molto del lavoro femminile ha come prodotto gli indumenti perché con la diffusione dei grandi magazzini destinati agli acquisti delle classi medie, nascono numerosi laboratori sartoriali, nei quali vengono confezionati a cottimo con taglie prestabilite i vari capi.
Non è una moda nel senso del lusso e dell'esclusività quella che si vuole raccontare ad Arezzo attraverso abiti, accessori, dipinti e fotografie; è il gusto condiviso dalla maggioranza delle persone, che non disdegnano di vestire e comportarsi come gli altri, anzi cercano di appartenere a un gruppo, a una categoria, omologandosi nella scelta dei capi d'abbigliamento, nell’arredo della casa, nei comportamenti sociali, nei modi di essere. È la moda della musica ascoltata al grammofono e dei balli sfrenati come il charleston, delle comunicazioni attraverso il telefono, delle trasmissioni della radio e poi della televisione.
Tutti gli oggetti che vengono presentati hanno accompagnato nei sei decenni in esame soprattutto la vita delle donne e hanno fatto parte del loro mondo: borsette e cappelli, abiti per ogni ora importante della giornata, accessori frivoli, ma anche oggetti essenziali per il loro tempo libero: ricami, letture, giochi. E ci sono anche quelli legati ai loro affetti: ai bambini e al loro piccolo universo di abiti e giochi; agli uomini, che pure si rappresentano con i loro cappelli e smoking, con i loro sport, descritti negli anni '30 da Ottorino Mancioli, artista attento a rappresentare la società a lui contemporanea anche nei divertimenti come il ballo o le chiacchiere in spiaggia, mentre Emilio Sobrero restituisce l’intimismo del ritratto degli anni ’30. Nei più problematici e difficili anni '40 la moda e i modi di differenti femminilità sono raccontate da Rolando Monti e da Marcello Avenali, capaci di leggere il profondo legame con il mondo che li circonda attraverso l'immagine di una casalinga o di una donna alla moda.
Le fotografie dell’album di famiglia dai ritratti in posa dei primi decenni del secolo, singoli o di gruppo, teatrini dell'apparire, sorta di biglietto da visita da lasciare come testimonianza di avvenimenti particolari e per essere ricordati, si arricchiscono negli anni ’50 e ’60 di immagini estemporanee, di pose spontanee, di espressioni non convenzionali. Sempre di memoria tuttavia si tratta, di quel senso del tempo, del qui e ora, che solo la fotografia può restituire, con quel suo essere immagine apparentemente immota, eppure generatrice della riappropriazione di un attimo, del recupero di un ricordo. E proprio perché i ricordi siano più reali, negli anni ’60 essi si affidano anche alla cinepresa, oggetto divenuto in quegli anni un must, come il suo uso è divenuto uno degli hobby più praticati dagli uomini.
La «vita come racconto» attraverso i ricordi è l’idea che percorre questa mostra; ogni oggetto evoca non solo momenti che un tempo sono stati personali, ne sottolinea oggi il comune sentire delle epoche, l’appartenenza di mode e modi a intere generazioni che in essi si sono identificate.
La rassegna è arricchita da una sezione speciale con tre abiti riproducono le vesti della Vergine nell’Annunciazione, della Regina di Saba nell’episodio dell’incontro con Re Salomone e di un’ancella nella scena dell’Adorazione del Sacro Legno, raffigurati negli affreschi di Piero della Francesca. Le opere, realizzate dagli studenti della sezione di Design della moda e del costume teatrale del Liceo artistico, coreutico e scientifico Internazionale «Piero della Francesca», annesso al Convitto nazionale «Vittorio Emanuele II» di Arezzo, consentono un suggestivo confronto tra le rappresentazioni pittoriche rinascimentali e le ricostruzioni, realizzate quasi 600 anni dopo, di quegli stessi abiti, tessuti, decorazioni e ornamenti.

Informazioni utili
«Moda e Modi. Stile e costume in Italia 1900-1960».Basilica di San Francesco / Affreschi di Piero della Francesca, piazza S. Francesco – Arezzo. Orari: dal lunedì al venerdì, dalle ore 9:00 alle ore 19:00, sabato dalle ore 9:00 alle ore 18:00 e la domenica dalle ore 13:00 alle ore 18:00. Ingresso: intero € 6,00, ridotto € 4,00, scuole gratuito. Informazioni: tel. 0575 352727. Sito internet: www.pierodellafrancesca-ticketoffice.it; www.munus.com. Fino al 4 novembre 2018.

sabato 9 giugno 2018

La collezione Magnani-Rocca tra le pagine di un libro

È un punto fermo nel panorama dell'arte internazionale e una meta imprescindibile per chi non può fare a meno della bellezza. Stiamo parlando della Fondazione Magnani-Rocca di Mamiano di Traversetolo, in provincia di Parma, al cui interno sono ospitati capolavori di celeberrimi maestri antichi e contemporanei, testimoni della grande storia d’Europa.
Ora quella raffinata collezione ideata da Luigi Magnani come un Pantheon dell'arte prima per il godimento della propria anima poi per tutti, per sempre, rivive nelle pagine di un libro appena pubblicato per i tipi di Silvana editoriale.
Un dipinto da solo varrebbe il viaggio verso questa magica villa, immersa nel verde: è il grande quadro «La famiglia dell'infante don Luis» (1783-1784) di Francisco Goya, uno dei ritratti di corte più affascinanti di tutta la storia della pittura. Eccezionali sono anche le tre Madonne col Bambino di Filippo Lippi, Albrecht Dürer e Domenico Beccafumi, dipinte a cinquant’anni l’una dall’altra. La collezione ospita, poi, altre opere imperdibili del Carpaccio, del Ghirlandaio, di Rubens, dei Van Dyck, dei Tiepolo e di Füssli. Ma unici sono lavori come «Stimmate di San Francesco» di Gentile da Fabriano, opera rarissima, e l’indimenticabile «Sacra conversazione» di Tiziano (1513), col predominio della costruzione cromatica, tipicamente veneta, rispetto ai valori disegnativi. L’eccellenza dei capolavori pittorici si traduce in scultura con «Tersicore» di Antonio Canova, due figure femminili di Lorenzo Bartolini e i più recenti Leoncillo e Manzù.
Il nucleo contemporaneo è dominato dalle cinquanta opere di Giorgio Morandi, riunite durante la vita del pittore all’interno di un rapporto di stima e di amicizia con Magnani, che illustrano, al massimo livello qualitativo, tutta l’attività del grande artista bolognese. Altro pittore emiliano presente nella collezione è Filippo de Pisis, con un gruppo di dipinti della maturità, intensi e drammatici. Tra le altre opere di artisti italiani una «Danseuse» futurista di Gino Severini, una piazza metafisica di Giorgio de Chirico e alcuni lavori di Renato Guttuso. Importantissimo è anche il «Sacco» di Alberto Burri del 1954, che Magnani considerava il proprio baluardo avanguardistico. Fra i non italiani, Cézanne è rappresentato da un olio con «Bagnanti» e da cinque acquarelli contraddistinti da un'incredibile trasparenza dei colori; splendide poi sono le opere di Renoir, Matisse, de Staël, Fautrier, Hartung, oltre a un incantevole Monet raffigurante un paesaggio marino della Normandia, emblematico della sperimentazione degli impressionisti sulle infinite variazioni dei colori sottoposti ai mutamenti della luce.
Si tratta di capolavori che continuano a suscitare emozioni profonde, altissima espressione dell’intimo e commosso stupore dell’uomo di fronte al segreto della bellezza.
Della capacità dell’arte di conchiudere significati assoluti Magnani era convinto, come pure del suo afflato metafisico; per questo, dopo un lungo soggiorno romano dedicato all’insegnamento, si era ritirato nella sua Villa di Mamiano di Traversetolo, in quiete operosissima, fra non molti amici e le amate opere d’arte, tutte scelte con lenta e infallibile cura. Resta fra esse, come fu per Magnani e come ora per noi tutti, la gioia silenziosa del vedere e del capire, del posare lo sguardo, così spesso affaticato da inezie quotidiane, su questi sublimi frammenti della vicenda umana, raccolti fino alla morte, avvenuta nel 1984, a settantotto anni.
Il percorso della fondazione, ora presieduta da Giancarlo Forestieri, era stato avviato con l’istituzione da parte di Magnani nel 1977, nell’esplicito disegno di destinare i suoi tesori d’arte al godimento di tutti, nel ricordo dei propri genitori. Proseguì nel 1978 con il riconoscimento da parte dello Stato italiano e con l’apertura al pubblico della Villa divenuta sede museale nell’aprile 1990; venivano così definitivamente svelate le opere di una raccolta quasi leggendaria appartenuta a una delle più eclettiche personalità culturali del XX secolo: Magnani fu, infatti, scrittore, saggista, storico dell’arte, compositore, critico musicale e, con le sue ricerche e i suoi scritti su Beethoven, Proust, Stendhal e Morandi, seppe, come pochi, ricongiungere le ragioni del sentimento e quelle dell’intelletto.
Nonostante i cambiamenti avvenuti nella trasformazione museale, quella che fu la Corte di Mamiano, conserva ancora il ricordo del raffinato studioso e collezionista che «amava spostare le opere per creare dialoghi inediti tra artisti e forme, luce e materia, spazio e idee».
A quarant’anni dall’istituzione e dal riconoscimento della fondazione viene pubblicato il volume «Fondazione Magnani-Rocca. La Villa dei Capolavori» (Silvana Editoriale), a cura di Stefano Roffi, direttore scientifico della fondazione stessa. Molte delle schede delle opere sono quelle elaborate dal giovanissimo Vittorio Sgarbi per Magnani nel 1984, altre derivano dall’edizione del catalogo generale del 2001.

Nel nuovo volume numerosi sono gli aggiornamenti per novità di studi, in particolare per il grande dipinto di Goya, e le aggiunte di schede di nuove opere, dallo stesso Goya a Matisse fino a Manzù. Finalmente la collezione di Luigi Magnani viene così presentata nella sua interezza. A dipinti, sculture e lavori grafici si uniscono arredi e oggetti, prevalentemente di gusto Impero, che Magnani volle come contesto ideale della propria raccolta. I testi introduttivi di storici dell’arte – quali Lucia Fornari Schianchi, Andrea Emiliani e lo stesso Vittorio Sgarbi - che hanno conosciuto e frequentato Magnani, possono evocarne la figura non solo attraverso le opere che ha raccolto ma anche attraverso ricordi di brani di vita; a questi contributi si affianca quello di Stefano Roffi, che ragiona sulla ricerca e sul lascito del fondatore. Insieme agli interventi di Carlo Mambriani sulla storia della dimora e del giardino, e di Mauro Carrera sulla preziosa biblioteca di Magnani, al racconto biografico, frutto di accurati studi d’archivio, e a un ricco apparato iconografico, si viene così a realizzare un vero e proprio libro della Fondazione Magnani-Rocca, che intende principalmente e doverosamente rendere onore alla grande impresa culturale e filantropica di Luigi Magnani.

Informazioni utili
www.magnanirocca.it