ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

lunedì 1 aprile 2019

«Infinito Leopardi»: un manoscritto, un fotografo e duecento anni di poesia

Sono passati duecento anni da quando Giacomo Leopardi (Recanati 1798 – Napoli 1837) compose il manoscritto vissano de «L’Infinito», «la sua poesia -per usare le parole di Laura Melosi- più studiata, più letta e più tradotta».
In occasione dell’anniversario è stato ideato un ricco calendario di iniziative che, per un intero anno, proporrà al pubblico mostre, spettacoli, conferenze e pubblicazioni.
L’arco temporale dell’intera manifestazione sarà suddiviso in due momenti principali, corrispondenti alla realizzazione di rassegne di diversa natura prodotte da Sistema Museo, la società che gestisce i musei civici di Recanati, città natale dello scrittore.
La prima parte delle celebrazioni, in programma fino al 19 maggio, ha il suo cuore pulsante a Villa Colloredo Mels, dove Laura Melosi, direttrice della cattedra leopardiana all’Università degli studi di Macerata, ha curato l’esposizione «Infinità / Immensità», incentrata sul patrimonio leopardiano di manoscritti di proprietà del Comune di Visso, originariamente parte della collezione di Prospero Viani (1812-1892), tra i quali c’è appunto l’autografo de «L’infinito».
Questa poesia di grande armonia compositiva, costituita da quindici endecasillabi sciolti, fu composta in un anno della biografia di Giacomo Leopardi particolarmente difficile. Il 1819 fu, infatti, un vero e proprio annus horribilis per lo scrittore marchigiano, ridotto come era alla quasi completa cecità, impossibilitato allo studio e al pensiero, attanagliato da una disperazione profonda che lo portò a progettare una clamorosa fuga dal «natio borgo selvaggio».
È Leopardi stesso a indicare quel 1819 come l’anno della «mutazione totale», «privato dell’uso della vista e della continua distrazione della lettura, cominciai -scrive il poeta- a sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso, cominciai ad abbandonare la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose».
È proprio a queste traversie, in un contrasto notato da molti critici, «andrebbe ricondotta -racconta Laura Melosi- l’origine più intima dell’«Infinito», un componimento che in maniera implicita celebra la capacità del pensiero di trascendere il reale e i limiti concreti della vita, fino a valicare monti, campi e a naufragare nell’indeterminato e infinito spazio».
Della poesia esistono due manoscritti: uno più antico, conservato a Napoli, e un secondo, quello di Visso messo in mostra a Recanati, nel quale si tramanda una versione testuale molto vicina alla definitiva.
«Le correzioni che si osservano su questi manoscritti -racconta ancora Laura Melosi- sono effettivamente minime, sostituzioni di singole parole, aggiustamenti di punteggiatura, ma investono e riguardano altresì concetti filosofici e letterari sottilissimi, per cui anche la semplice mutazione di una virgola gioca un ruolo fondamentale nella conoscenza e nella comprensione di questa poesia».
La mostra a Villa Colloredo Mels non è, però, solo una semplice vetrina per il celebre manoscritto autografo, ma è anche un momento scientifico importante, come documenta il catalogo edito per l’occasione, che esce a distanza di quasi un secolo dal contributo più ampio finora dedicato ai manoscritti di Visso, quello scritto nel 1923 da Carlo Bandini per i tipi della Nicola Zanichelli di Bologna.
L’esposizione dell’intera collezione di autografi vissani, arrivati nel comune maceratese nel 1869 a seguito dell’acquisizione del deputato cavalier Giovan Battista Gaola Antinori per la cifra irrisoria di 400 lire (l’equivalente di circa 2000 euro odierni), permette, infatti, di ripercorrere alcune tappe dell’iter creativo leopardiano.
Il percorso espositivo, arricchito da strumenti multimediali, spazia dal manoscritto degli «Idilli» (con «L’Infinito», «La sera del dì di festa», «Alla luna», «Il sogno», «La vita solitaria» e il frammento «Odi, Melisso»), poesie ideati tra il 1819 e 1821, fino ad arrivare ad uno degli ultimi scritti del poeta recanatese, la nuova prefazione al commento delle «Rime» petrarchesche da ripubblicare per i tipi dell’’editore fiorentino David Passigli nel 1837, ma che avrebbe visto la luce solo due anni dopo.
Accanto al nucleo vissano, la mostra recanatese permette di ammirare altri documenti, manoscritti e cimeli del poeta, selezionati sempre da Laura Melosi, con la collaborazione di Lorenzo Abbate.
Tra le opere esposte meritano una segnalazione le carte donate nel 1881 dall’editore Le Monnier di Firenze, quelle relative alla pubblicazione della prima edizione dello «Zibaldone» e una commovente lettera che Giacomo spedì da Firenze il 7 luglio 1833 al padre Monaldo.
Questi documenti sono allineati accanto a una galleria di ritratti della famiglia Leopardi e dello stesso scrittore, tra cui si possono ammirare tre tele firmate da Giovanni Gallucci e Giuseppe Ciaranfi, un gesso di Antonio Ugo (Palermo 1870 – ivi 1950), un marmo di Americo Luchetti (Montecassiano 1909, – ivi 2006) e la maschera funeraria realizzata alla morte del poeta, il 14 giugno 1837, su incarico di Antonio Ranieri.
Le sale di villa Colloredo Mels e l’omaggio al manoscritto de «L'Infinito» si aprono anche al contemporaneo con la mostra «Mario Giacomelli. Giacomo Leopardi, L’Infinito, A Silvia», a cura di Alessandro Giampaoli e Marco Andreani, che racconta, anche grazie al prezioso catalogo edito per l’occasione, uno dei capitoli più affascinanti e meno indagati della storia della fotografia italiana del Dopoguerra e dei rapporti tra letteratura e fotografia.
Mario Giacomelli (Senigallia, 1925-2000), marchigiano come Giacomo Leopardi, non poteva non confrontarsi con il poeta recanatese e le sue opere più celebri. Data, per esempio, al 1964 la trasposizione fotografica della lirica leopardiana «A Silvia», esposta a Villa Colloredo Mels nella sua versione originale, della quale fino ad oggi si erano perse le tracce.
La serie, composta da trentaquattro stampe di vario formato, faceva parte di un progetto più ampio di diffusione dei grandi capolavori della letteratura attraverso la loro trasposizione fotografica, che vide coinvolti, tra gli altri, i fotografi Ugo Mulas, Ferdinando Scianna e Toni Nicolini.
Questo lavoro fu sceneggiato da Luigi Crocenzi (Montenegro, 1923- Fermo 1984), in vista della proiezione televisiva all’interno della trasmissione Rai Telescuola, e ne mostra parecchie sue suggestioni, come nel trittico di ritratti che, come i fotogrammi della pellicola di un film, segnano il mutamento progressivo dell’espressione di Silvia da «lieta» a «pensosa».
Giacomelli si accostò nuovamente alla poesia «A Silvia» nel 1988 e vi lavorò in totale autonomia.
Nonostante il recupero di undici fotografie e due varianti dalla versione originale, su un totale di trenta stampe, l’esito complessivo fu totalmente diverso.
«Il fotografo -raccontano i curatori- fece, infatti, un ampio uso di doppie esposizioni, immagini mosse, sfocate e contrastate, tutti stilemi tipici del Giacomelli degli anni Ottanta e Novanta e quasi del tutto assenti nella versione del 1964. Soprattutto mutò radicalmente il rapporto col testo. Se la versione originale costituiva una traduzione fedele dei versi di «A Silvia», in quella del 1988 il filo logico e narrativo del testo non era più immediatamente rintracciabile, disciolto nel magma di immagini realizzate in luoghi e situazioni diverse, tenute insieme non da relazioni sintattiche, spaziali, temporali o di causa-effetto, ma da un sistema di associazioni a volte indecifrabili».
Nel 1988 Giacomelli lavorò anche alla trasposizione fotografica de «L’Infinito». La serie, presentata in mostra nella sua sequenza originale, costituisce uno degli esiti più alti a cui pervenne l’artista nell’ambito delle cosiddette «foto-poesie». In questo lavoro -raccontano ancora i curatori- «attraverso il meticoloso montaggio di immagini legate tra loro e ai versi della lirica leopardiana secondo un complesso sistema di libere associazioni e richiami metaforici, Giacomelli ci restituisce in termini visivi il rapporto tra finito e infinito, realtà e immaginazione caro al poeta di Recanati».
Le celebrazioni recanatesi continueranno, dal 30 giugno al 3 novembre (l’inaugurazione è prevista per il 29 giugno, giorno in cui cade il compleanno del poeta), con due mostre che ruotano attorno all’espressione dell’infinito nell’arte: «Infiniti», a cura di Emanuela Angiuli, e «Finito, Non Finito, Infinito», a cura di Marcello Smarrelli. Ma il programma, che nei giorni passati ha visto, in occasione della Giornata mondiale della poesia, un’intensa tre giorni di eventi con ospiti del calibro di Antonino Zichichi, Paolo Crepet, il ministro Marco Bussetti e molti altri, ha in serbo ancora tante sorprese per gli appassionati di Giacomo Leopardi e della sua poesia più conosciuta. Tante occasioni per rivivere un viaggio in versi tra la concretezza di un colle e la meraviglia di ciò che sta oltre, nell’infinito, un’esperienza sublime, totale, che toglie il respiro, come ben racconta il verso finale: «E il naufragar m’è dolce in questo mare».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Copertine realizzate in occasione delle prime due mostre del progetto «Infinito Leopardi»; [fig. 2] Giacomo Leopardi, «L’Infinito», manoscritto autografo
1819. Visso, Museo Comunale; [fig. 3] Giovanni Gallucci, Ritratto di Giacomo Leopardi. Olio su tela. Collezione del Comune di Recanati, Donazione Teresa Teja; [fig. 4] Giacomo Leopardi, manoscritto della prima edizione dello «Zibaldone di pensieri». Collezione Comune di Recanati; [fig. 5]  Maschera funeraria realizzata alla morte di Giacomo Leopardi, il 14 giugno 1837, su incarico di Antonio Ranieri. Collezione del Comune di Recanati, Donazione Felice Le Monnier; [fig. 6 e 7] Mario Giacomelli, «A Silvia», 1964. Gelatin Silver Print. © Archivio Mario Giacomelli - Rita Giacomelli; [fig. 8] Mario Giacomelli, L'infinito, 1986-88. Gelatin Silver Print. © Archivio Mario Giacomelli - Rita Giacomelli; [fig. 8] Americo Luchetti (Montecassiano 1909 – ivi 2006), Testa di Giacomo Leopardi, marmo. Collezione del Comune di Recanati

Informazioni utili 
«Infinito Leopardi» - prima parte. Museo civico Villa Colloredo Mels, via Gregorio XII - Recanati. Orari: martedì – domenica, ore 10.00 – 13.00 e ore 15.00 – 18.00; Lunedì chiuso. Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 7 (gruppi minimo 15 persone, gruppi accompagnati da guida turistica abilitata, possessori di tessera FAI, Touring Club, Italia Nostra, Coop, Alleanza 3.0 e precedenti Adriatica, Bordest, Estense) o € 5,00 euro (possessori Recanati Card, aderenti al Campus Infinito, gruppi scolastici da 15 a 25 studenti); omaggio per minori fino a 19 anni (singoli), soci Icom, giornalisti muniti di regolare tesserino, disabili e la persona che li accompagna. Informazioni: Ufficio IAT, tel. 071.981471, recanati@sistemamuseo.it. Fino al 19 maggio 2019.

sabato 30 marzo 2019

Da Botticelli a Della Robbia, Montevarchi e i suoi tesori

Figure dall'eleganza senza tempo, velate da un delicato senso di malinconia, scene oniriche illuminate da bagliori d’oro, ambientazioni dall'armonioso equilibrio compositivo e dalla sensibilità intima, quasi domestica: c’è lo stile, personalissimo, di Sandro Botticelli, (Firenze 1445 – 1510), uno dei maggiori esponenti del Rinascimento fiorentino, nella tela «Incoronazione della Vergine e Santi», grande protagonista della mostra «Botticelli, Della Robbia, Cigoli. Montevarchi alla riscoperta del suo patrimonio artistico», allestita negli spazi del recentemente restaurato Palazzo del Podestà di Montevarchi.
Ideata da Luca Canonici, direttore artistico del Museo di arte sacra di San Lorenzo, e curata da Bruno Santi, Lucia Bencistà e Felicia Rotundo, l’esposizione mette insieme per la prima volta dieci importanti opere d’arte -nove dipinti e una statua in terracotta- realizzate nella cittadina tra la fine del Quattrocento e gli ultimi decenni del Settecento, e in seguito allontanate, per circostanze diverse, dai luoghi per i quali erano state eseguite.
La rassegna, allestita fino al prossimo 28 aprile, prova così a ridisegnare una mappatura delle grandi committenze per gli enti religiosi di Montevarchi, quali il convento francescano di San Ludovico, il monastero benedettino di San Michele Arcangelo alla Ginestra, il monastero agostiniano di Santa Maria del Sacro Latte, la chiesa parrocchiale di Sant’Andrea a Cennano e la Collegiata di San Lorenzo.
L’ «Incoronazione della Vergine e Santi» di Sandro Botticelli -collocata al secondo piano del Palazzo del Podestà, a chiusura del percorso espositivo- torna a casa dopo due secoli. Era, infatti, il 1810 quando la tela, a seguito della soppressione napoleonica dei beni ecclesiastici, venne trafugata dalla chiesa di San Ludovico (ora Sant’Andrea a Cennano) per essere portata nei depositi fiorentini in piazza San Marco, giungendo, poi, nella chiesa di San Jacopo di Ripoli e finendo il suo viaggio, nel 1823, alla Villa La Quiete a Firenze, dove tuttora è conservata.
L’olio su tavola, di grandi dimensioni e presumibilmente realizzato tra il 1498 e il 1508, è diviso in due livelli, uno terreno e uno celeste, da un piano di nuvole. «Nella parte inferiore, in un prato fiorito, -scrive Maria Eletta Benedetti in catalogo- un’assemblea di Santi (Antonio da Padova, Barnaba, Filippo apostolo, Ludovico di Tolosa, Maria Maddalena, Giovanni Battista, Caterina d’Alessandria, Pietro, Bernardino, Francesco, Giacomo Maggiore e Sebastiano) rivolge il proprio sguardo al cielo, dove la Vergine viene incoronata da Dio Padre mentre un affollato coro di angeli musicanti celebra con antichi strumenti musicali (un organo portativo, un liuto, un salterio, una lira, un flauto, dei cimbali, un’arpa e un tamburello) il momento solenne, inondato di una luce dorata che filtra fino al cielo terrestre».
La ricchezza e la preziosità dell’abito di San Ludovico di Tolosa, la dolcezza lineare dei volti di Santa Caterina d’Alessandria e della Vergine sono caratteristiche riconducibili alla pittura matura del Botticelli. Ma insieme al maestro è ragionevole pensare che la tavola vide all’opera anche gli allievi della sua bottega. I tratti dei santi in seconda fila appaiono, infatti, impuri e grossolani, così come -racconta ancora Maria Elena Benedetti - «il terzetto di angeli cantatori in alto a sinistra sembra essere realizzato per la delicatezza del tratto, per la resa dei volti e per l’intensità espressiva, da un’altra mano rispetto a quella degli angeli eseguiti sommariamente nella parte destra».
Un altro capolavoro presente in mostra, al primo piano, è l’imponente «Miracolo della mula» di Giovanni Martinelli (Montevarchi 1600 – Firenze 1659), uno degli artisti più affascinanti ed enigmatici della pittura del Seicento, anche se, allo stesso tempo, tra i meno conosciuti.
Questo dipinto -commissionato per la Chiesa di San Ludovico e oggi custodito nella chiesa di San Francesco a Pescia- è stato realizzato nel 1632 probabilmente proprio a Montevarchi con il pittore «suggestionato -spiega Luca Canonici in catalogo- da ciò che il territorio gli suggeriva».
Sullo stesso piano è esposta anche una tela ritrovata da Lucia Bencistà proprio in occasione della mostra a Montevarchi: «Santi francescani in adorazione della Vergine» di Giacomo Tais (Trento 1685 - Pescia 1750).
Oggi conservato nel deposito del Museo del cenacolo di Andrea del Sarto a Firenze, quest’olio su tela, realizzato per la chiesa di San Ludovico nel 1739, è stato recentemente restaurato da Stefania Bracci, il cui lavoro ha restituito al dipinto la sua cromia accesa e luminosa, portando alla ribalta una tavolozza incentrata non solo su toni grigi e bruni, ma anche sulle tonalità del rosso, del giallo e del blu.
«L’opera -racconta Lucia Bencistà in catalogo- è dominata nel registro superiore da due angeli circondati da cherubini e puttini festanti e, più in basso, da quattro santi francescani che attorniano il vano centrale, in atteggiamento di venerazione». I santi sono Margherita da Cortona, Bonaventura da Bagnoregio, autore della «Legenda Maior» (la prima biografia ufficiale di San Francesco), San Pietro d’Alcantara e San Pasquale Baylon, «la cui vita -racconta ancora Lucia Bencistà- fu caratterizzata dall’amore per l’Eucaristia rappresentata nel calice poggiato sulla nuvoletta soprastante».
Sempre dal capoluogo fiorentino, o meglio dal Museo provinciale dei cappuccini toscani, provengono il «San Fedele da Sigmaringen in adorazione della Vergine col Bambino» di Fra’ Felice da Sambuca (Sambuca 1734 – Palermo 1805) e il «San Francesco» di Violante Siries Cerroti (Firenze 1710 - 1783), dipinto nel 1765 per l’altare del santo nella chiesa di San Ludovico.
Nella mostra, al piano terra, è possibile ammirare un altro capolavoro recuperato: un bellissimo dipinto del pittore Jacopo Vignali (Pratovecchio 1592 - Firenze 1664) per il convento dei frati cappuccini di Montevarchi, oggi conservato a Firenze, che raffigura il «Beato Felice da Cantalice che riceve il Bambino Gesù dalle mani della Vergine».
Dalla chiesa del Monastero benedettino di San Michele Arcangelo alla Ginestra a Montevarchi provengono, invece, altre due opere di primissimo piano, entrambe conservate al Museo nazionale d’arte medievale e moderna di Arezzo: la «Resurrezione di Cristo» di Ludovico Cardi detto il Cigoli (Cigoli di San Miniato 1559 – Roma 1613), firmata dal pittore e datata 1591, e l’intima «Natività della Vergine» di Santi di Tito (Firenze 1536 - 1603).
La mostra presenta, inoltre, altre interessanti sorprese come «Il miracolo di Sant’Antonio taumaturgo» di Mattia Bolognini (Montevarchi 1605 - Siena 1667), pittore nato a Montevarchi al pari del Martinelli, che dipinse quest’opera, oggi nella raccolta di arte sacra della chiesa di San Clemente di Pelago (Firenze), nel 1647 per l’ex Monastero di Santa Maria del Latte.
La mostra è, infine, arricchita da una terracotta policroma invetriata raffigurante «Sant’Antonio Abate», attribuita a Luca della Robbia il giovane e proveniente dall’antica Compagnia di Sant’Antonio abate.
Un percorso espositivo, dunque, di grande fascino quello visitabile a Montevarchi, che permette di riannodare i fili ormai recisi di una storia in cui si intrecciano le decisioni di committenze illuminate e il lavoro di artisti dall'abile mano. Una storia grazie alla quale, nell’Ottocento, la cittadina toscana -ricorda Lucia Bencistà in catalogo- venne inserita tra le «Cento città d’Italia» nell'impresa editoriale del «Secolo» di Milano, che per la prima volta diffondeva tra gli italiani la conoscenza e la bellezza del patrimonio culturale della penisola.

Didascalie delle immagini
[Figg. 1 e 2] Sandro Botticelli e bottega (Alessandro di Mariano di Vanni Filipepi, Firenze 1445 - 1510), «Incoronazione della Vergine e Santi», 1500-1508. Particolare. Olio su tavola di pioppo bianco, cm 350x159. Firenze, Villa La Quiete Provenienza: Montevarchi, chiesa di San Ludovico; [fig. 3] Jacopo Vignali (Pratovecchio 1592 - Firenze 1664), «Il beato Felice da Cantalice riceve il Bambino dalle mani della Madonna». Olio su tela, cm 200x142. Firenze, Convento Cappuccini, Museo Provinciale dei Cappuccini Toscani Provenienza: Montevarchi, chiesa di San Lorenzo dei Padri Cappuccini; [fig. 4] Giovanni Martinelli (Montevarchi 1600 - 1659), «Il miracolo della mula», 1632. Olio su tela, cm 250x200. Pescia (Pistoia), Chiesa di San Francesco Iscrizioni: Io.Es Martinellius Floren. Fecit MDCXXXII; [fig. 5] Fra’ Felice da Sambuca (Sambuca 1734 – Palermo 1805), «San Felice da Sigmaringen ed altri santi cappuccini in venerazione della Madonna col Bambino», 1777 ca. Olio su tela, cm 202x145. Firenze, Convento Cappuccini, Museo Provinciale dei Cappuccini Toscani Provenienza: Montevarchi, chiesa di San Lorenzo dei Padri Cappuccini; [fig. 6] Santi di Tito (Firenze 1536 - 1603), «Natività della Vergine». Olio su tavola, cm 129x138. Arezzo, Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna Provenienza: Montevarchi, chiesa di San Michele Arcangelo alla Ginestra; [fig. 7] Violante Siries Cerroti (Firenze 1710 - 1783), «San Francesco d’Assisi», 1765. Olio su tela, cm 178 x 92,5. Firenze, Convento Cappuccini, Museo Provinciale dei Cappuccini Toscani Provenienza: Montevarchi, chiesa di San Ludovico Iscrizioni: VIOLANTE SIRIES CERROTI FECIT/ EX ELEMOSINIS A. R.P. M. FELICIS ANTONII BICILIOTTI EX VOTIS (in basso a destra); PROPOSTO NEPI 1898/ PROPOSTO CORSI 1921/ 1921 7° CENTENARIO 7 AGOSTO (sul retro)

Informazioni utili 
«Botticelli, Della Robbia, Cigoli. Montevarchi alla riscoperta del suo patrimonio artistico». Palazzo del Podestà di Montevarchi, piazza Varchi, 8 – Montevarchi (Arezzo). Orari: dal giovedì alla domenica, dalle ore 10 alle 13 e dalle ore 15 alle ore 19. Ingresso: intero € 5,00, ridotto € 3,00. Informazioni: Ufficio cultura -Comune di Montevarchi, tel. 0559108230, 0559108314, e-mail: ufficio.cultura@comune.montevarchi.ar.it. Sito web: www.comune.montevarchi.ar.it. Fino al 28 aprile 2019

giovedì 28 marzo 2019

Duchamp e la sua «Scatola in una valigia»: viaggio da Venezia a Firenze per il restauro

Prosegue la collaborazione tra la collezione Peggy Guggenheim di Venezia e l’Opificio delle pietre dure e Laboratori di restauro di Firenze. Dopo l’intervento conservativo dell’opera «Alchimia» di Jackson Pollock, avvenuto nel 2013, tocca ora all’opera «Scatola in una valigia (Boîte-en-Valise)», realizzata da Marcel Duchamp nel 1941, essere oggetto di un importante intervento di studio e conservazione.
Il lavoro è il primo di un’edizione deluxe di venti valigette da viaggio di Louis Vuitton, che raccolgono ciascuna sessantanove riproduzioni e miniaturizzazioni di celebri lavori del poliedrico e dissacrante artista francese. Con la «Boîte-en-Valise», Duchamp intraprese uno dei suoi progetti più ambiziosi: un museo portatile di repliche creato con l'aiuto di elaborate tecniche di riproduzione come il pochoir, simile allo stencil. In questo modo l’artista condusse fino alle ultime battute la rivoluzionaria operazione avviata attraverso i ready-made, dando il via a una parodia estrema dell'arte e dei meccanismi creativi, che colpisce al cuore l'idea stessa di museo.
Nell’edizione deluxe le venti valigie contengono, oltre alle riproduzioni in miniatura delle sue opere, un «originale» diverso per ogni valigetta, e differiscono tutte tra di loro per piccoli dettagli e varianti nel contenuto. L’ «originale» della valigia di Peggy è una riproduzione de «Le roi et la reine entourès de nus vites» (1912), colorata ex-novo per la valigia dallo stesso artista («coloriage original»). Si tratta di una dedica a Peggy Guggenheim, che sostenne economicamente Duchamp in questa sua produzione. L’opera include al suo interno, tra le varie riproduzioni, anche una miniatura del famoso orinatoio rovesciato, «Fontana», del 1917, e una riproduzione di un «ready-made rettificato» del 1919 raffigurante la Gioconda di Leonardo da Vinci, con barba e baffi e l’iscrizione «L.H.O.O.Q.». La sequenza delle lettere pronunciate in francese formano la frase «elle a chaud au cul», convenientemente tradotta da Duchamp come «c’è il fuoco là sotto». Nel corso della sua vita, Duchamp creò trecentododici versioni de «Boîte-en-Valise».
L’idea di creare delle scatole contenenti facsimili e schizzi risale già al 1914: esistono tre o cinque copie di questa prima edizione di scatole, le quali contengono i primi schizzi su carta fotografica di «La mariée mise à nu par ses célibataires, même (Le Grand Verre)» (1915-23). Al momento si conosce l’ubicazione di solo due di queste scatole, una al Centre Pompidou a Parigi e l’altra al Philadelphia Museum of Art.
Prima che l’artista francese iniziasse a dedicarsi alle edizioni principali delle sue «Boîtes en Valise», creò un’ulteriore scatola contenente 93 documenti riguardanti le sue idee su «La mariée mise à nu par ses célibataires, même (Le Grand Verre)» negli otto anni prima del suo completamento. Questa scatola si chiama «La Boîte Verte» (1934) e si trova al Tate Modern a Londra.
Nel 1935 Duchamp comincia a creare le versioni principali delle «Boîtes en Valise», che sono suddivise in sette serie. Nel 1966 creò un’ultima scatola che non è parte delle edizioni principali, «La Boîte Blanche». Si tratta di una scatola in plexiglas con una serigrafia di «Glissière Contenant un Moulin à Eau». Al suo interno ci sono settantanove facsimili realizzati tra il 1914 e il 1923. Questa scatola si trova al Philadelphia Museum of Art.
Ritornando all’opera-compendio conservata alla Peggy Guggenheim di Venezia, questo particolarissimo lavoro è stato realizzato su supporti molto diversi tra loro: pelle, carta fotografica con aggiunte a matita, acquerello e inchiostro. L’intervento sull’opera di Duchamp, dato il carattere polimaterico, sarà coordinato dal dipartimento di conservazione della Collezione Peggy Guggenheim e dal Settore materiali cartacei e membranacei dell’Opificio delle pietre dure e Laboratori di restauro di Firenze, i cui restauratori condurranno le varie fasi di interventi coadiuvati da esperti dei diversi settori dell’istituto che, a vario livello, saranno coinvolti per consulenze e per interventi mirati sui singoli elementi, presenti all’interno.
È prevista una campagna di indagini per l’identificazione delle tecniche grafiche e pittoriche usate, così come sul metodo di assemblaggio dei pezzi.
Trattandosi della prima della celebre serie di valigie deluxe della fine degli anni ‘30 del Novecento, obiettivi dell’intervento saranno, oltre alla risoluzione delle problematiche inerenti la conservazione e l’esposizione di un oggetto molto delicato quale essa è, conoscere meglio il modo di lavorare di Duchamp e il sistema «quasi industriale» che da questo momento attiverà per realizzare le altre serie prodotte.
Particolarmente interessante sarà anche, data la complessità dell’oggetto e la sua stratificazione di contenuti, studiare la resa tridimensionale e la modellizzazione virtuale dell’oggetto, così da permettere una visione «in differita» dell’opera, da offrire al grande pubblico che altrimenti non potrebbe apprezzarlo nella sua completezza.
Come è consuetudine, l’Opificio delle pietre dure si avvarrà, per le indagini diagnostiche e la restituzione virtuale dell’opera, della rete di istituti di ricerca, universitari e del Cnr, che collaborano con l’istituto fiorentino alla ricerca sui materiali dell’arte.
La collezione Guggenheim rinsalda così i fili di un’amicizia durata quasi una vita, quella tra la collezionista americana e Duchamp. I due si conobbero a Parigi, negli anni ’20, quando la mecenate si trovava in Europa insieme al marito, l’artista Laurence Vail.
Quando nel 1938 Peggy Guggenheim aprì la galleria d'arte Guggenheim Jeune a Londra, diede ufficialmente inizio a una carriera che avrebbe influenzato significativamente il corso dell'arte del dopoguerra. Fu Duchamp a presentarle gli artisti e a insegnarle, come lei stessa ebbe a dire nella sua autobiografia «Una vita per l’arte» (Rizzoli Editori, Milano 1998), «la differenza tra l'arte astratta e surrealista». Nello stesso libro, Peggy Guggenheim parlava anche dell’opera dell’artista francese, oggetto oggi di restauro: «Spesso pensavo che sarebbe stato molto divertente andare a trascorrere un fine settimana portandosi dietro quella valigia invece della solita borsa che si riteneva indispensabile».

Per saperne di più
www.guggenheim-venice.it