ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

giovedì 28 maggio 2020

Beni culturali e digitale: il Covid-19 e le nuove modalità di fruizione del museo

Come il Covid-19 ha cambiato e cambierà il nostro modo di approcciarci al mondo dell’arte? Risponde anche a questa domanda la ricerca promossa dall'Osservatorio innovazione digitale nei beni e attività culturali della School of Management del Politecnico di Milano, presentata mercoledì 27 maggio, nell’ambito del convegno on-line «Dall’emergenza nuovi paradigmi digitali per la cultura».
In base allo studio, durante i lunghi mesi del lockdown, il livello di interesse degli italiani per le attività culturali in streaming o sul Web è aumentato. Lo testimonia l’aumento degli utenti che seguono le pagine social dei musei: la crescita maggiore si è registrata nel mese di marzo su Instagram (+7,2%), seguito da Facebook (+5,1%) e Twitter (+2,8%); un ulteriore incremento c’è stato in aprile, rispettivamente dell’8,4%, 3,6% e 2,4%. A parte pochi casi, il livello di interazione è, però, rimasto stabile.
Va, inoltre, segnalato che secondo il monitoraggio effettuato dalla School of Management del Politecnico di Milano, durante la «Fase 1» dell’emergenza, il livello di attività on-line da parte dei musei è significativamente aumentato e, in particolar modo, il numero di post sui canali social media è quasi o più che raddoppiato su tutti i canali nelle mese di marzo 2020, mantenendosi su valori elevati anche nel mese di aprile.
«Prima dell’emergenza sanitaria si potevano distinguere in modo relativamente nitido due percorsi: da un lato l’esperienza di visita on-site (talvolta supportata da strumenti digitali); dall’altro l’utilizzo degli strumenti on-line per attrarre e preparare il pubblico alla visita in loco, oppure ex-post per proseguire il rapporto con l’istituzione visitata, soprattutto tramite i social media, su cui è attivo il 76% dei musei» -ha dichiarato Michela Arnaboldi, responsabile scientifico dell’Osservatorio innovazione digitale nei beni e attività culturali-. «Se con i musei aperti il digitale ha rappresentato un complemento all’esperienza di visita (nelle sue molteplici sfaccettature), con la chiusura delle istituzioni culturali il digitale si è rivelato lo strumento necessario per poter offrire contenuti culturali. Questo ha portato inevitabilmente ad un uso diverso del canale on-line, social media in primis ma anche siti web, che sono divenuti da strumenti di comunicazione e di preparazione alla visita, quali erano fino ad ora, strumenti di vera e propria erogazione di contenuto».
A questo proposito va ricordato che l’85% dei musei ha un sito web, relativo alla singola istituzione o all’interno di altri siti, come quello del Comune. Qui si trovano informazioni su orari, biglietti, attività e percorsi di visita, ma durante il lockdown l’attività è aumentata (si pensi all’esperienza della collezione Peggy Guggenheim con le sue lezioni di storia on-line o a quella dei Musei civici veneziani, per rimanere sempre in Laguna, con le curiosità sulle opere delle proprie collezioni).
Per quanto riguarda l’esperienza di visita on-site, dall’indagine svolta su un campione di quattrocentotrenta musei, monumenti e aree archeologiche italiani, si osserva come le audioguide (32%), QR-code (31%) e installazioni interattive (28%) siano gli strumenti di supporto alla visita più diffusi. È importante anche contestualizzare questi dati rispetto alle infrastrutture disponibili: sempre dall’indagine emerge come ancora il 51% dei musei non sia dotato di wi-fi.
La ricerca, alla sua terza edizione, ha dimostrato, inoltre, che, prima del lockdown, circa l’86% dei ricavi dei musei derivava ancora dalla vendita di biglietti d’ingresso in loco e che l’investimento in sistemi di ticketing (presente solo nel 23% dei casi), di gestione delle prenotazioni e di controllo degli accessi era indicato come priorità per il futuro solo dal 6% delle istituzioni. Inoltre, tra i musei che hanno un sistema di controllo accessi (93%) prevaleva lo stacco del biglietto d’ingresso (71%), rispetto a sistemi automatizzati come lettori di codici a barre (11% su carta e 6% su display) e tornelli o varchi contapersone (7%). Questi dati sono inevitabilmente destinati a variare con l’emergenza sanitaria per il Covid-19, tenuto conto delle indicazioni fornite dal Comitato tecnico-scientifico per la riapertura dei musei e dei luoghi di cultura in Italia, che prevedono, tra l’altro, il contingentamento degli ingressi, la prenotazione via Web della propria visita e sistemi di controllo di quanto avviene all’interno dell’istituzione culturale.
Il periodo di lockdown ha portato, inoltre, a una rivalutazione dell’esperienza digitale. A inizio 2020 solo il 24% delle istituzioni culturali aveva redatto un piano strategico dell’innovazione digitale (il 6% come documento dedicato e il 18% all’interno di un più generale piano strategico).
Anche se va precisato che negli ultimi due anni l’83% dei musei, monumenti e aree archeologiche italiane aveva investito in innovazione digitale, concentrandosi prevalentemente su servizi di supporto alla visita in loco (48%) e catalogazione e digitalizzazione della collezione (46%).
Dalla ricerca emerge un altro dato interessante, che riguarda le persone e le attività di comunicazione del museo: attualmente il 51% dei musei non si avvale di nessun professionista, interno o esterno, con competenze legate al digitale. Il restante 39% dispone di competenze interne e ricorre a consulenti esterni per la gestione del digitale, ma solo il 12% ha un team dedicato composto da più persone.
Il convegno ha anche dato l’opportunità di riflettere sul futuro dei musei, su cui la crisi generata dall’emergenza sanitario avrà un impatto negativo sia sul numero dei biglietti staccati sia sulla possibilità di ottenere finanziamenti pubblici. Eleonora Lorenzini, direttore dell’Osservatorio innovazione digitale nei beni e attività culturali, ha spiegato che sarà importante per il futuro concentrarsi su fonti di ricavo alternativo. In particolare, è interessante soffermare l’attenzione su servizi come la vendita di immagini per finalità di ricerca, riproduzione e commerciali (già offerti dal 32% dei musei) e sui servizi di abbonamento per l’accesso a servizi tramite sito web e applicazione (2%). Questi ultimi, in particolare, sono tra i modelli che ultimamente sono stati proposti per ottenere introiti legati all’attività online dei musei. Diversi esponenti dell’ecosistema culturale, infatti, hanno sostenuto la necessità di studiare forme di abbonamento o biglietto più ricche di quelle attualmente a disposizione, che contemplino l’accesso a itinerari e percorsi tematici, in cui l’integrazione on-line-on-site permetterà di tornare più volte al museo e accedere a contenuti sul web on demand.
«Il contesto attuale si presenta particolarmente favorevole per sperimentazioni sia da parte delle istituzioni culturali che da parte del pubblico che manifesta interesse verso nuovi approcci, con preferenza verso quelli a maggior grado di interazione.» -ha concluso Eleonora Lorenzini- «Sebbene non possiamo ancora sapere con certezza quanto e in che modo questo contesto muterà vista la mancanza di paradigmi di riferimento, possiamo affermare che la flessibilità, la capacità di reinventarsi e di sfruttare le potenzialità delle nuove tecnologie rispondendo alle esigenze del pubblico saranno essenziali in un futuro più prossimo di quanto ci aspettavamo».

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mercoledì 27 maggio 2020

Parma, al Museo d’arte cinese sono di scena le «Mode nel mondo»

È tra i vincitori della open call «Cultura per tutti, cultura di tutti», lanciato da Parma - Capitale italiana della cultura, con l’intento di aprire le porte dei musei regionali, in un’ottica digitale e multiculturale, a particolari categorie di pubblico come giovani, famiglie, anziani, persone con disabilità fisica o cognitiva, stranieri e residenti. Insieme al Museo diocesano di Parma e grazie alla professionalità di Pshychè e dell’associazione italiana malati di Alzheimer, si è aggiudicato il secondo posto con il progetto «Insieme al museo», rivolto alle persone malate e ai loro caregiver, ovvero ai familiari assistenti, attestandosi dietro «Museo in Blu», l’iniziativa dell’associazione socioculturale Villa sistemi reggiana per gli individui affetti da autismo e per le loro famiglie. Stiamo parlando del Museo d’arte cinese ed etnografico di Parma, tra i primi spazi culturali italiani a riaprire le porte dopo il lockdown per il Covid-19, testimoniando così la grande voglia di rilancio della città emiliana, che si è vista rinnovare anche per il 2021, insieme con Piacenza e Reggio Emilia, il titolo di Capitale italiana della cultura. Il tema del «Tempo», oggi sospeso, recluso, iper-connesso, era e rimane il filo rosso del programma ideato, che sarà in grado di parlare anche al passaggio storico che stiamo vivendo.
Voluto nel 1901 da san Guido Maria Conforti, fondatore dei missionari saveriani, il museo rappresenta un contenitore artistico e documentario di eccezionale importanza per la città e non solo, frutto di un lungo percorso storico che vide padre Giovanni Bonardi ed altri saveriani in missione sul territorio cinese portare o spedire a Parma oggetti significativi di arte e vita locali.
Dagli anni Sessanta la sede di viale San Martino si è arricchita di materiale di natura etnografica proveniente da altri paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina, divenendo così testimonianza della vita e cultura di ben tre continenti.
Accanto alla collezione fatta di terrecotte, porcellane, paramenti, statue, dipinti, fotografie, oggettistica varia e monete rare provenienti dall’Estremo Oriente, nelle sale espositive parmensi sono, infatti, in mostra anche, e per esempio, oggetti del popolo Kayapò, un piccolo gruppo indio dell'Amazzonia che rappresenta le tante minoranze depositarie di un immenso bagaglio di valori, o maschere usate per i riti funebri dell’area Kivu, nel Congo.
Ristrutturato nel 2012, il museo ha riaperto i battenti martedì 19 maggio, osservando tutte le linee guida predisposte dal Mibact per la «Fase 2» (mascherina obbligatoria, dispenser per la sanificazione delle mani in ogni sala e almeno due metri di distanza tra i visitatori), con la mostra temporanea «Mode nel mondo: i vestiti raccontano la vita dei popoli», un vero e proprio atlante dell’abbigliamento che si dispiega lungo il percorso museale. Per quanto riguarda la Cina, abiti liturgici della tradizione taoista come il Qipao e il Fengguo, nati per difendersi dal vento delle steppe, “dialogano” metaforicamente con ricchi vestiti di corte e calzature femminili tipiche del Grande Impero, come le scarpette con tacco a zoccolo, e un inedito ornamento nuziale, un collare in tubolare a sezione rettangolare la cui faccia superiore rappresenta due draghi (simbolo di fertilità maschile). Dall’Indonesia arrivano, invece, scialli della cultura Batak dell’isola di Sumatra e abiti maschili tradizionali; dal Giappone, giacche Haori rigorosamente di seta, con gli stemmi di famiglia mon, un parasole di bambù e carta giapponese dipinta, oltre a kimono femminili e Obi per donne sposate.
Il Sudan è rappresentato con zucchetti, scarpe e babbucce tribali; il Ghana con tessuti cerimoniali in seta della tribù Ashant.
Dal Burkina Faso arriva un abito tradizionale composto di tunica e pantaloni; dal Bangladesh il burqa delle donne musulmane bengalesi e parure di gioielli; dal Camerun le collane Kweyma KJella e le cavigliere di alluminio decorate a testa di uccello.
Vasto è anche il repertorio proveniente dalla Repubblica democratica del Congo: la mostra ospita gli elementi di abbigliamento tradizionale che costituiscono il corredo classico, l’emblema di appartenenza,della misteriosa società segreta iniziatica Bwami. Ci sono i copricapo maschili nkumbu e sawamazembe, i muzombolo femminili, decorati con piume e bottoni, fasce decorate con le conchiglie-moneta conosciute come cauri, gonnellini in fibra vegetale, bandoliere mukoma, fasce pettorali e diademi. Sorprendente, infine, è l’angolo dedicato alle popolazioni amazzoniche, dove non manca nulla del corredo decorativo del popolo Kayapò.
Grazie all’abbigliamento e agli ornamenti è facile intuire, in qualsiasi popolo, l’appartenenza a una tribù, uno stato sociale, un’etnia. L’abbigliamento è una vera e propria forma di comunicazione codificata e facilmente interpretabile a livello sociale e al Museo d’arte cinese di Parma sarà possibile leggere tante storie impreziosite dai busti sartoriali in lino e manichini bimbo realizzati da Bonaveri, leader mondiale nella creazione di manichini d’eccellenza.
In questa fase il museo si arricchisce, inoltre, di un nuovo strumento per la trasmissione del sapere: ai visitatori viene offerta la possibilità di intraprendere un viaggio tra le collezioni, mediante l’impiego dell’app MuseOn. Facilmente scaricabile sul proprio dispositivo (smartphone o tablet) una volta arrivati in sede, l’applicazione funziona comodamente senza l’utilizzo del wi-fi, e permette di vivere una visita guidata personalizzata, tra schede didattiche, audio e video, per favorire l’incontro tra il visitatore e le molteplici culture del mondo che il museo ospita, permettendo inoltre di rimanere aggiornati sulle iniziative future. Uno strumento in più, questo, per rendere il museo parmense sempre più motore di ricerca, didattica, relazioni, creatività.

Informazioni utili 
Museo d’Arte cinese ed etnografico, viale San Martino, 8 – 43123 Parma. Orari: da martedì a sabato, dalle ore 9 alle ore 13 e dalle ore 15 alle ore 19; domenica, dalle ore 11 alle ore 13 e dalle ore 15 alle ore 19. Informazioni: tel. 0521.257337 o info@museocineseparma.org. Sito web: www.museocineseparma.org

martedì 26 maggio 2020

Murano e «l’arte che resiste»: Marco Toso Borella realizza una favola in vetro per il Giappone

È un momento difficile per Murano, l’isola veneziana famosa in tutto il mondo per la sua tradizione millenaria del vetro soffiato, simbolo del made in Italy nel mondo.
L’emergenza sanitaria per il Covid-19 ha messo in ginocchio le oltre cento imprese vetraie presenti sul territorio e i loro negozi. Gli ordini nuovi sono molto pochi e il lavoro di questo ultimo scorcio di maggio è legato principalmente a commesse dei primi di marzo, quando il lungo lockdown di questi mesi sembrava un’ipotesi impossibile.
Ma Murano può raccontare anche una storia di resistenza e di speranza, quella di Marco Toso Borella, artista poliedrico la cui attività spazia dalla pittura alla scrittura di saggi e romanzi, senza dimenticare la passione per la musica, che lo vede vestire i panni di direttore, arrangiatore e coreografo del coro Vocal Skyline e dell’orchestra più numerosa d’Italia, la Big Vocal Orchestra, composta da oltre trecento voci.
In queste lunghe settimane di lockdown, l’artista muranese, che recentemente ha firmato anche la Via Crucis di vetro per la Basilica dei Santi Maria e Donato di Murano (quindici icone di vetro decorate a graffito su foglia d’oro e smalti raffiguranti le quattordici stazioni tradizionali più una quindicesima raffigurante la Resurrezione), ha lavorato su una commissione imponente da parte di un magnate giapponese, Yamanishi Hiromichi, per conto della vetreria artistica artigianale Mazzega.
Una volta terminata, l’opera sarà esposta all’interno del Kansai Nursing School, una struttura situata nella regione del Kansai, in Giappone, destinata a diventare una scuola per infermiere.
Il lavoro consta di venti piastre di vetro di Murano, della misura di 75 x 50 centimetri, decorate secondo l’antica tecnica del graffito su foglia d'oro, tradizione che appartiene alla famiglia di Marco Toso Borella da secoli.
Le incisioni riproducono in modo assolutamente fedele un’antica opera giapponese del X secolo, ossia la «Taketori Monogatari», ispirata alla leggendaria «Storia del tagliatore di bambù», considerata la più antica fiaba giapponese. Il racconto, noto anche come «La storia della Principessa Kaguya», narra di una bambina misteriosa scoperta all’interno di una canna di bambù splendente nella notte.
«L'estrema, elegante stilizzazione giapponese -racconta l’artista- è qui al suo massimo. Un piccolo segno leggermente obliquo diventa occhio, un tratto espressione.
Le immagini da cui ho tratto i miei pezzi sono antichissime e il tempo ha sbiadito le cromie originali. Per questo ho voluto usare degli smalti dai colori molto vivaci, lucenti come la «Principessa splendente», la storia animata del 2013 di Isao Takahata candidata all'Oscar.
Il supporto, ossia il vetro, diventa una base lucida che, colorata a smalti, richiama le antiche lacche giapponesi. Questo contesto ha quasi ‘obbligato’ i colori all'estrema sintesi e alla mancanza di ogni sfumatura. Il cromatismo, quindi, è stato portato alla radice, alla 'primarietà' elementare un po' come succede agli smalti araldici, chiaramente definiti, senza mezze misure. I colori diventano e delimitano gli spazi della fiaba e del sogno».
L’opera di Marco Toso Borella rappresenta così un piccolo fuoco di fornace acceso per Murano, un barlume di speranza per la storia unica dell’isola e il talento dei suoi tanti artigiani.

Per saperne di più 
www.marcotosoborella.it