ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

lunedì 5 ottobre 2020

Ricette a fumetti a Casa Artusi. Alberto Rebori rilegge «La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene»

Sul suo libro «La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene» si è plasmato un pezzo di identità nazionale. Nel 1891, Pellegrino Artusi (Forlimpopoli, 4 agosto 1820 – Firenze, 30 marzo 1911), intellettuale gourmet romagnolo di nascita e fiorentino d’adozione, pubblicava a sue spese, per i tipi dell’editore Landi, un manuale di cucina destinato a entrare nella storia.
Con buona pace del professor Francesco Trevisan -che, lette le bozze, pronosticò per il libro «poco esito»- il ricettario di Pellegrino Artusi, un vero e proprio Vangelo per gli chef stellati e le semplici massaie con la passione per i fornelli, vanta oggi oltre cento edizioni, più di un milione di copie vendute e traduzioni in svariate lingue, dall’inglese all’olandese, dal tedesco al russo, senza dimenticare il portoghese, lo spagnolo, il francese e persino il giapponese.
Il manuale, che raccoglie settecento e novanta ricette della cucina casalinga italiana (nella prima edizione erano quattrocento e settantacinque), dà conto, con uno stile arguto e graffiante, dell’enorme mosaico di tradizioni gastronomiche regionali del nostro Paese, proponendo un percorso tra fritture, ripieni, umidi, minestre, salse, arrosti, lessi, liquori, antipasti -anzi «principii»-, gelati e conserve.
L’opera, nata da oltre vent’anni di ricerche e viaggi dell’autore, è considerata di grande importanza dalla critica non solo per il suo apporto alla formazione culturale del nostro Paese, ma anche per il modello linguistico utilizzato, che contribuì alla diffusione dell’italiano standard nella penisola, insieme ad altri due libri molto letti come «I promessi sposi» di Alessandro Manzoni e «Pinocchio» di Collodi.
In occasione dei duecento anni dalla nascita di quello che viene unanimemente considerato «il padre della gastronomia moderna», la sua città natale promuove la mostra «Pellegrino Artusi 1820 - 2020. Ricette a fumetti di Alberto Rebori», a cura del libraio antiquario milanese Andrea Tomasetig. L’esposizione, in programma dal 9 al 2 novembre avrà per scenario Casa Artusi, realtà ubicata all’interno del complesso dell’ex Chiesa di Sant’Antonio abate, detta «dei Servi di Maria», un antico monastero della seconda metà del XV secolo, ristrutturato dall’Amministrazione comunale nel 2007, che si articola in oltre duemila e ottocento metri quadrati, suddivisi in diversi spazi: dalla biblioteca alla scuola di cucina, dal museo al ristorante, dalla cantina alla bottega con i prodotti dell’eccellenza enogastronomica italiana.
A tenere a battesimo l’evento sarà, nelle giornate di venerdì 9 e sabato 10 ottobre, il convegno «La ricetta liberata», disponibile anche in diretta streaming sulla pagina Facebook di Casa Artusi. Attraverso autorevoli e sfaccettati interventi, il simposio parlerà della lezione di Pellegrino Artusi che della cucina ha saputo fare un racconto di vita e racconterà di come il cibo sia oggi protagonista di diversi settori della nostra vita, dal cinema alla scrittura, dalla radio alla fotografia.
La mostra a Casa Artusi ha una storia che parte da lontano. Nel 2001 l’editore Maurizio Corraini, da sempre attento al mondo dell’arte (tanto da avere anche una galleria d’arte contemporanea a Mantova), decide di pubblicare una nuova edizione integrale dell’«Artusi» e invita a realizzare i disegni di accompagnamento Alberto Rebori (Chiavari, 1961 – Milano, 2016), eccellente illustratore e disegnatore di fumetti, dallo stile surreale e unico, premiato nel 2000 con l’Andersen per il volume «Piccolo re» di Mondadori e con all’attivo collaborazioni con importanti giornali, da «Vanity Fair» al «Corriere della Sera», da «Elle» a «Linus».
Il risultato di questa collaborazione editoriale sono più di cento disegni in bianco e nero e ottanta tavole a colori che vengono tutti pubblicati a corredo del ricettario di Artusi in una tiratura speciale stampata su carta pregiata, in sole tre serie numerate e firmate.
Da questo corpus di lavori, tutti realizzati a computer, sono state selezionate per la mostra di Forlimpopoli soltanto trentotto tavole, trentacinque a fumetti e tre libere, che raccontano con parole e immagini venti ricette artusiane. 
 Accanto a questo piccolo gruppo di disegni, Andrea Tomasetig - al lavoro su un progetto pluriennale dedicato alla cultura enogastronomica, che prossimamente farà tappa anche a Parigi- ha voluto esporre, in teca, alcune preziose edizioni de «La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene». Si tratta di una copia coeva di Pellegrino Artusi e di altre più recenti, tra le quali si segnalano la preziosa edizione critica a cura di Alberto Capatti, il più importante esperto sul gastronomo di Forlimpopoli, edita nel 2010 da Bur e la versione di Corraini del 2001.
Con uno stile divertente e allo stesso tempo rispettoso, Alberto Rebori ha saputo rapportarsi alle ricette originali, trascrivendo le frasi e le parole di Pellegrino Artusi in testa alle vignette e nelle nuvole presenti in ogni tavola.
Animali, verdure, cibi, stoviglie si animano di vita propria nei vari disegni ambientati nella cucina dove Rosa e Vittorio –gli zii dell’illustratore, eterni protagonisti delle sue storie– eseguono le varie ricette.
L’allestimento della mostra, ideato dall’architetto Leo Guerra, mette così in fila alcune vignette dal segno veloce e dalla battuta arguta: «Sandwichs, ricetta N. 114», dove il pane si lamenta di essere affettato, «Piccione coi piselli, ricetta N. 354», dove i piccioni si chiedono se davvero la loro fine migliore sia in umido con i piselli, o ancora «Salsa di pomodoro, ricetta N. 125», con un prete romagnolo dal lungo naso che, a furia di «mettere lo zampino» in «ogni affare domestico», viene trasformato in un grosso ortaggio. 
Come giustamente scrive Alberto Capatti nel testo introduttivo, l’artista traduce, dunque, «le ricette in animazione, distribuisce ruoli, scrive, per ognuna, il copione, le rivive dall’interno, con il cuore che batte, la bocca che ride e un disegno che stana i segreti gastronomici». Il tutto per raccontare l'attualità di un libro che ha fatto la storia d'Italia. 

Informazioni utili 
Pellegrino Artusi 1820-2020. Ricette a fumetti di Alberto Rebori. Casa Artusi - Chiesa dei Servi, via Costa, 23-27 - Forlimpopoli (Forlì-Cesena). Orari: lunedì 15-18; martedì 9-12.30; mercoledì 15-18; giovedì 9-12.30; venerdì 9-12.30 e 15-18; sabato 9.30-12.30; domenica 9.30-12.30. Ingresso gratuito. Informazioni: info@casartusi.it | tel. 0543.743138 | cell. + 39.349.8401818. Dal 9 al 2 novembre 2020.  

venerdì 2 ottobre 2020

Rimini ha un nuovo museo. In mostra al Part la collezione d’arte della Fondazione San Patrignano

È un raffinato incontro tra antico e moderno quello che offre il Part, il nuovo sito museale di Rimini nato dalla riqualificazione di due edifici storici della città, il duecentesco Palazzo dell’Arengo e il trecentesco Palazzo del Podestà, che accoglie al proprio interno la collezione d’arte contemporanea della Fondazione San Patrignano.
Affacciato sulla centralissima piazza Cavour – arena del potere cittadino e cuore della vita sociale riminese con l'appena riqualificato teatro Amintore Galli, Palazzo Garampi (sede centrale della Municipalità) e l’antica Pescheria settecentesca- il nuovo museo è stato restaurato dallo studio milanese AR.CH.IT, guidato da Luca Cipelletti.
Il progetto di recupero architettonico e artistico ha bandito ogni falso storico per riportare alla luce volumi ed elementi medioevali, dalle grandi e luminose polifore ai soffitti lignei a capriate, senza dimenticare i pregevoli affreschi a parete, dalla suggestiva decorazione floreale, di epoca tardo ottocentesca e ormai storicizzati.
Al Medioevo risale anche il monumentale dipinto del «Giudizio Universale», attribuito a Giovanni da Rimini e considerato una delle più pregevoli testimonianze del Trecento riminese e della vitalità culturale della famiglia Malatesta, ora esposto in diagonale nella Sala dell’Arengo, con un basamento dello stesso materiale del parquet in rovere.
L’opera, di proprietà della Diocesi, ha una storia da romanzo. Con ogni probabilità fu realizzata tra il 1315 e il 1318 per la chiesa di Sant’Agostino, dove rimase visibile fino al 1719, quando in seguito a un restauro fu coperta da una pesante controsoffittatura. Solo nel 1916, a causa del terremoto che sconvolse la città romagnola, il «Giudizio Universale» riaffiorò sotto gli intonaci settecenteschi della chiesa. Gaetano Nave ne curò il distacco, il restauro, il riposizionamento su tela e la collocazione nella Sala dell’Arengo, dove il dipinto rimase quasi ininterrottamente dal 1926 al 1985, ‘vegliando’ sulle sedute del Consiglio comunale, per poi trovare parziale collocazione, nel 1991, nell’allestimento dell’allora nuovo Museo della Città di Rimini.
In questi spazi l’opera ritornerà tra circa diciotto mesi all’interno di un inedito percorso specificatamente dedicato alla pittura riminese del Trecento, con focus tematici e postazioni interattive e multimediali.
Vale, inoltre, la pena ricordare che il dipinto riminese incrociò anche la vicenda umana dello storico e filologo Augusto Campana, professore universitario di paleografia e diplomatica a Urbino e, poi, di letteratura umanistica e filologia medievale a Roma. Fu lui, nel 1944, a far trasportare temporaneamente l’opera alla Biblioteca Gambalunga di Rimini, «salvandola -raccontano nella città romagnola- da una sicura distruzione a seguito dell’utilizzo da parte delle truppe di occupazione, in tempi di guerra, di ogni tipo di materiale combustibile per riscaldarsi». È, dunque, anche grazie all’amore per il passato dello studioso di Santarcangelo -un vero e proprio «monument man» per la Romagna, insieme al bibliotecario Carlo Lucchesi- se ancora oggi possiamo ammirare la bellezza di questo dipinto «dominato -si legge nella scheda di presentazione- dalla teoria di apostoli che, ieratici, affiancano, con le loro plastiche figure, il Cristo, mentre dall'alto vibranti angeli in volo recano palme e corone agli eletti o cacciano all'inferno, armati di lance e scudi, i dannati».
All’interno di questo suggestivo contesto -interessato da un primo intervento di restyling, caratterizzato dall’adeguamento degli impianti, dalla sostituzione dei serramenti, dall’ammodernamento dei materiali di pavimentazione e dalla tinteggiatura degli spazi- ha trovato casa la collezione della Fondazione San Patrignano. Si tratta di una settantina di opere firmate dal gotha dell’arte contemporanea -da Mimmo Paladino a Sam Falls, da Carsten Höller a Julian Schnabel, da Ettore Spalletti a Michelangelo Pistoletto, da Sandro Chia a Mario Schifano - donate, a partire dal 2017, da collezionisti, galleristi e artisti alla comunità terapeutica di recupero per tossicodipendenti, fondata nel 1978 da Vincenzo Muccioli a Coriano, sulle colline riminesi.
Tele, sculture, fotografie e installazioni, di cui ne sono state selezionate sessantadue per l’esposizione al Part, sono state elargite con la clausola dell’endowment: un modello ereditato dal mondo anglosassone, innovativo nel contesto italiano, che permetterà a San Patrignano di avere una risorsa patrimoniale in caso di futuri investimenti strutturali. Le opere della raccolta -nata grazie alla tenacia e alla lungimiranza di Letizia e Gian Marco Moratti- sono, infatti, state date con atti che impegnano la fondazione romagnola a non alienarle per un periodo minimo di cinque anni, rendendole nel frattempo visibili al pubblico; successivamente queste donazioni potranno essere cedute, ma solo in caso di reali esigenze economiche della comunità, che oggi ospita mille e trecento ragazzi.
Il progetto museografico -anche questo a cura di Luca Cipelletti, che si è avvalso per lo studio illuminotecnico della professionalità di Alberto Pasetti Bombardella- ha dovuto tener conto della natura disomogenea della collezione, a cui fanno da filo conduttore unicamente i temi del dono e della solidarietà. Quello che poteva essere un apparente limite è stato, invece, interpretato come un’ulteriore opportunità: «evitando la rigidità della ‘scatola nella scatola’, -racconta Luca Cipelletti- sono state favorite la reversibilità, la percezione dell’architettura e una libera collocazione delle opere, in modo che siano in dialogo soprattutto con lo spazio, più che tra loro».
Contemporaneo e medioevale si confrontano così in un dialogo pacato e intenso, che lascia libero il visitatore di crearsi un percorso di visita indirizzato dal gusto personale e dall’emozione del momento.
Ad accogliere il visitatore nel nuovo museo è l’intervento site-specific fatto dall’anglo-svizzero David Tremlett con i ragazzi dei laboratori artistici di San Patrignano: «From the ceiling, down» («Dal soffitto in giù», 2020), un’opera murale con stendardi di ispirazione medioevale -dalle tonalità ocra, cenere e mattone-, che sembra strizzare l’occhio alla lezione di Giotto e Piero della Francesca
 Sala dopo sala incrociamo, tra l’altro, la grande «Bibbia di vetro» (1994), anzi di cristallo curvato, firmata da Emilio Isgrò, la gigantesca testa dalle fattezze classiche («Luci di Nara», 2014) di Igor Mitoraj, il ricamo su tela «Madonna con lacrima cubista» (2019) di Francesco Vezzoli e il cavallo bronzeo con in groppa il naso di Napoleone di Willam Kentridge («Nose on horse: Napoleon», 2007). Ma ci sono anche, tra le sale del Part, le farfalle smaltate di Damien Hirst («Beautiful black and white love charity painting», 2008) la toccante maternità di Vanessa Beecroft(«VBSS.002», 2006-2018), con una Madonna bianca che allatta due bambini neri, lo specchio coperto da una tenda di velluto di Shilpa Gupta («I look at things with eyes different from yours», 2010) e l’opera «Persepoli» (2014) di Luca Pignatelli, con un volto di donna greca che emerge dalla trama di un tappeto persiano. 
Non manca, infine, lungo il percorso espositivo il grande ritratto in bianco e nero del cinese Yan Pei Ming (2018) raffigurante Vincenzo Muccioli, il carismatico fondatore di San Patrignano, l’uomo che «nel suo operato -ricorda Letizia Moratti in catalogo- ha fatto proprie le parole di Pierre-Auguste Renoir al giovane Henri Matisse»: «la sofferenza passa, la bellezza resta». La bellezza, come avviene a Rimini, può essere anche racchiusa tra le mura di un museo per raccontare la forza straordinaria dell’arte: testimonianza di ciò che è stato, strumento di riscatto sociale e balsamo curativo per l’anima.

Per saperne di più

Didascalie delle immagini
[Figg.1,2,3,4,5,7] Allestimento della collezione d'arte della Fondazione San Patrignano al Part di Rimini. Courtesy: PART, ©HenrikBlomqvist; [fig. 6] David Tremlett installa la sua opera site-specific con i ragazzi della comunità San Patrignano. Courtesy Fondazione San Patrignano e il Comune di Rimini 

Informazioni utili 
Part, Piazza Cavour, 26 - Rimini. Orari di apertura: dal martedì al venerdì, dalle ore 9.30 alle ore 13 e dalle ore 16 alle ore 19 | sabato, domenica e festivi, dalle ore 10 alle ore 19 |chiuso i lunedì non festivi. Ingresso: intero € 8,00, ridotto € 6,00. Informazioni: tel. 0541.793879 e part@comune.rimini.it. Sito internet: https://palazziarterimini.it

Appuntamenti on-line (aggiornamento del 28 aprile 2021)
«Una voce a Part», progetto digitale. Calendario: Emilio Isgrò (podcast e minivideo 28 aprile)Flavio Favelli (trailer lunedì 3 maggio | podcast mercoledì 5 maggio | minivideo venerdì 7 maggio), Claudia Losi (trailer lunedì 10 maggio | podcast mercoledì 12 maggio | minivideo venerdì 14 maggio), Roberto Coda Zabetta (trailer lunedì 17 maggio | podcast mercoledì 19 maggio | minivideo venerdì 21 maggio), Elisa Sighicelli (trailer lunedì 24 maggio | podcast mercoledì 26 maggio | minivideo venerdì 28 maggio) e Alberto Garutti (trailer lunedì 31 maggio | podcast mercoledì 2 giugno | minivideo venerdì 4 giugno). Note: i singoli podcast, della durata di circa sei/sette minuti ciascuno, introdurranno il visitatore nelle sale dei medievali del nuovo museo e all'interno della sua raccolta, offrendo la possibilità di incontrare virtualmente gli artisti. Ogni episodio è modellato sulla durata dell’esperienza di visione reale di chi voglia approfondire la conoscenza di un'opera. Le pillole video, invece, saranno l’occasione per poter vedere l’opera nella sua interezza, con immagini di dettaglio insieme al contesto in cui è esposta e con l’accompagnamento eventuale di materiali di archivio.  Oltre a essere pubblicati sul sito web www.palazziarterimini.it, i podcast saranno caricati sulla pagina Spotify di Part, mentre i brevi video saranno visibili sul canale YouTube.

giovedì 1 ottobre 2020

Una mostra e un libro da collezionare per la Patagonia di Lorenzo Mattotti

Il suo segno immaginifico e penetrante è conosciuto in tutto al mondo grazie alla collaborazione con quotidiani e riviste come «The New Yorker», «Le Monde», «Das Magazin», «Suddeutsche Zeitung», «Nouvel Observateur» e «Vanity Fair», senza dimenticare gli italiani «Corriere della Sera» e «Repubblica». Lorenzo Mattotti (Brescia, 1954), uno dei più grandi illustratori italiani del nostro tempo, da più di vent’anni residente a Parigi, non è però solo un fuoriclasse del disegno. È anche un versatile fumettista, premiato nel 1993 con il Grand Prix di Bratislava per il suo «Eugenio», e, da poco, anche un regista di talento, consacrato dal successo del film di animazione «La famosa invasione degli orsi in Sicilia», tratto dall’omonimo romanzo di Dino Buzzati.
Al 2003 risale la sua avventura «alla fine del mondo», in quella terra mitica che è la Patagonia, dove si reca con l’amico Jorge Zentner, scrittore argentino, di stanza a Barcellona, che con Lorenzo Mattotti ha pubblicato per Einaudi «Il rumore della brina». 
Partendo da Buenos Aires in macchina i due scendono per un mese lentamente a sud per arrivare fino alla Terra del Fuoco.
Mentre si susseguono sotto i suoi occhi gli immensi e mutevoli paesaggi di questo luogo, che tanto ha suggestionato esploratori e viaggiatori, l'artista prende appunti visivi. Per catturare la vastità delle steppe e la maestosità delle montagne, quando ha la possibilità, Lorenzo Mattotti realizza degli schizzi veloci su un classico taccuino da viaggio moleskine utilizzando i propri pastelli, altrimenti si affida alla fotografia o al video per catturare le immagini che colpiscono il suo sguardo. 
Rientrato a Parigi attende sei mesi prima di rielaborare le proprie suggestioni e trasferirle in una serie di tavole. Trovato un taccuino di carta nepalese fatta a mano dalla forma allungata fa rivivere, utilizzando unicamente un pennello, della china, e il suo tratto inconfondibile, le sinuosità e le profondità della Patagonia. 
Per riuscire a restituire questi due aspetti concepisce i disegni sviluppandoli direttamente su doppie pagine, sfruttando al massimo la larghezza offerta del quaderno aperto, in modo anche da creare un effetto panoramico e di continuità.
A distanza di anni quel diario di viaggio diventa un libro da collezionare, pubblicato dalla casa editrice Lazy Dog Press, con ventiquattro tavole in bianco e nero e una selezione di disegni a colori, accompagnati dalle parole dello stesso illustratore, di Jorge Zentner e di Melania Gazzotti.
In occasione della pubblicazione, in uscita il prossimo 5 ottobre, il libro diventa anche una mostra nei suggestivi spazi di Mutty, realtà culturale pluridisciplinare di Castiglione delle Stiviere, a pochi chilometri dal lago di Garda, che è spazio espositivo, libreria indipendente e caffè ristorante.
Non è la prima volta che Lorenzo Mattotti, agli onori delle cronache in questi giorni anche per la realizzazione del manifesto per la cinquantaduesima edizione della Barcolana di Trieste (11 ottobre 2020), sente il bisogno di realizzare un diario illustrato di viaggio. Lo aveva già fatto nel 2014, raccogliendo una serie di disegni che documentavano la sua scoperta del Vietnam in un prezioso travel book, poi pubblicato da Louis Vuitton.
Sulla Patagonia l'artista non ha, però, voluto realizzare un vero e proprio reportage; ad interessarlo di questo luogo è stato un solo aspetto: la sua natura sconfinata e vergine e non i suoi abitanti e le loro storie che tanto avevano affascinato narratori come Bruce Chatwin e Luis Sepulveda.
Per Lorenzo Mattotti la Patagonia è prima di tutto un luogo della mente e a spiegarlo è lo stesso illustratore: «Laggiù mi sono confrontato con spazi, distese che mi hanno enormemente scosso: è lo spazio a perdita di vista, lo spazio infinito, ma dove l’armonia delle forme apre spazi, dà profondità… Ho cercato di ricostruire questo, di ricostruirlo a memoria. Con l’aiuto del pennello ho cercato di ritrovare l’armonia dello sguardo che avevo sentito mentre viaggiavo. Era una specie di musica. Sei mesi dopo ho trovato un album di carta orientale, e ho iniziato a disegnare una sorta di spartito paesaggistico. Ho cercato di ritrovare questa musica delle forme, ho cercato la mia Patagonia dalla Patagonia che avevo attraversato».
Lorenzo Mattotti rinuncia al colore. Sintetizza le forme, ponendo attenzione alle linee. Rende ciò che vede quasi astratto con l’intento di restituirci prima che un'immagine una sensazione, quella che prova ogni uomo quando si trova in una terra estrema, in una terra alla fine del mondo. Distese sconfinate, spazi e cieli a perdita di vista, vento, vuoto totale, «montagne che paiono a portata di mano e che invece non raggiungi mai» vengono raccontate con un personalissimo alfabeto grafico, che mette al centro l’immensità della natura madre e matrigna.

Informazioni utili
Lorenzo Mattotti. Patagonia. Mutty, viale Maifreni, 54 - Castiglione delle Stiviere (Mantova). Orari: ore 11.00-20.00, chiuso martedì e domenica.Ingresso libero. Inaugurazione: domenica 4 ottobre,  ore 18 | per partecipare all'inaugurazione, a causa numero limitato di posti previsti per le normative anti-Covid 19, è necessario prenotarsi scrivendo una mail a info@mutty.it. Dal 5 ottobre al 28 novembre 2020.