ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

martedì 30 maggio 2023

Quarantacinque anni dopo, il «caso Moro» e il teatro

È il 1979 quando l’istrionico Dario Fo (Sangiano - Varese, 24 marzo 1926 – Milano, 13 ottobre 2016), premio Nobel per la letteratura nel 1997, pensa di raccontare attraverso il linguaggio, immediato e fortemente emozionale, del teatro il «caso Moro», ovvero quell’insieme di vicende che nei cinquantacinque giorni tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978 precipitano l’Italia in una «notte buia della Repubblica», che si conclude con l’assassinio di Aldo Moro (Maglie, 23 settembre 1916 – Roma, 9 maggio 1978), allora presidente della Dc.

Dario Fo e «La tragedia di Aldo Moro»
Per l’attore e drammaturgo lombardo, moderno giullare che ha innovato il teatro comico italiano con spettacoli quali «Mistero buffo» (1969) e «Lu santo jullàre Françesco» (1999), ma che ha anche raccontato gli «anni di piombo» con la commedia «Morte accidentale di un anarchico» (1970) sulla storia di Giuseppe Pinelli, la vicenda dello statista pugliese è simile alla «solita fottuta tragedia classica antica». Aldo Moro diventa così, nella mente di Dario Fo, un moderno Filottete sofocleo, una vittima sacrificale tradita e abbandonata dai suoi compagni di partito, posti dalle Brigate rosse di fronte al dilemma di antigoniana memoria «polis o pietas?», «ragione di Stato o sacrificio di una vita umana?».

Dario Fo alla Mostra del cinema di Venezia nel 1985. Foto di dominio pubblico 

Non può, dunque, che essere un antico teatro greco, popolato da un folto gruppo di satiri e baccanti evocati dal rito dionisiaco di Coro e Corifeo, la scenografia che il drammaturgo pensa per lo spettacolo. Lo documentano gli schizzi che Dario Fo, da sempre attento a risvegliare la coscienza civile del Paese con la sua spietata ironia e la sua irriverente leggerezza, realizza al momento della stesura del primo atto, tutti pubblicati on-line dall’Archivio Dario Fo – Franca Rame, così come il resto del materiale documentale sul progetto teatrale «La tragedia di Aldo Moro» (appunti manoscritti, canovacci, articoli di giornali e disegni).

Al centro della scena è collocato, come un imputato, lo statista pugliese; mentre seduti nella cavea, una struttura «concentrica a cinque o sei gradoni», prendono posto «gli otto», personaggi «paludati» in nero, con il volto coperto da maschere di corda e cartapesta, che rappresentano i compagni di partito dello statista pugliese. Un buffone, narratore popolare della storia, orchestra l’intera azione scenica, che vede Aldo Moro ripetere a viva voce le parole affidate alle lettere scritte nella cosiddetta «prigione del popolo». Mentre «gli otto», spiegandosi e giustificandosi con le stesse dichiarazioni rilasciate nei giorni del sequestro, mettono in scena una grande «pupazzata», una lotta di «pupazzi» animati da una «cattiveria» malcelata, la stessa di cui lo statista pugliese scrive alla moglie Noretta in una lettera del 6 aprile 1978.

Copertina del libro «Fabulazzo» di Dario Fo (Kaos edizioni, Milano 1992),
all'interno del quale è pubblicato il copione dello spettacolo«La tragedia di Aldo Moro» 

Il testo del primo atto viene pubblicato il 2 giugno 1979 sul «Quotidiano dei lavoratori» e il 5 giugno dello stesso anno su «Panorama». Dario Fo propone, senza molto successo, anche alcune letture pubbliche e, alla fine, il progetto, raccolto in volume nel 1992 dalla milanese Kaos, viene chiuso in un cassetto e rimane solo sulla carta. Così come non conosce le luci della ribalta un’altra idea scenica di Dario Fo sul sequestro e l’omicidio dello statista pugliese, questa volta intitolata «Il caso Moro e le sue varianti» e ambientata – si legge negli appunti del drammaturgo - in «uno strano ufficio, piuttosto vasto e imponente, con tanto di scrivania, poltrone e anche un grande televisore».

L’intellettuale lombardo non riesce, dunque, a dare forma a una storia che, tra processi e commissioni parlamentari, continua a mutare sotto i suoi occhi, ma che – si legge in un’intervista a Chiara Valentini - considera «qualcosa di cui è necessario parlare».

Il «caso Moro» raccontato come «L’istruttoria» di Peter Weiss

Bisogna attendere il 1998, ventennale della scomparsa dello statista democristiano, un tempo necessario per far sedimentare le emozioni e i ricordi, perché i fatti della primavera del 1978 incontrino le assi di un palcoscenico con ben tre pièce.

Locandina del«Caso Moro» di Roberto Buffagni, spettacolo presentato a Parma nel 1998

Ma dieci anni prima, nel 1988, l’Accademia di studi storici Aldo Moro di Roma sceglie il linguaggio teatrale per ricordare il politico con il recital «Tempi nuovi si annunciano» di Cooperteatro 85 – Compagnia Il Baraccone, per la regia di Luigi Tani e con le musiche scelte da Antonio Di Pofi, che dà voce al pensiero del presidente della Dc sulla politica, i partiti, lo Stato, la società civile attraverso una selezione di suoi testi - articoli di giornali, interviste, discorsi per occasioni pubbliche e scritti in volume -, a cura di Andrea Ambrogetti, Mirella Belotti, Claudia Colonnello, Maria Paola Costantini, Andrea Declich e Rosanna Di Natale.

Nel mese di marzo del 1998 non solo il pensiero dello statista pugliese, ma anche i fatti della primavera del 1978 incontrano i legni di un palcoscenico e le luci della ribalta. Debutta a Parma, per iniziativa del locale teatro Stabile e della compagnia «La Contemporanea 83», «Il caso Moro» di Roberto Buffagni, per la regia di Cristina Pezzoli e con Sergio Fantoni nel ruolo del protagonista. Il dramma - concepito sul modello dell’oratorio in undici canti «L’istruttoria» (1965) di Peter Weiss, atto di denuncia contro i crimini nazisti e «teatro che racconta la Storia e fa la storia del teatro» – è basato sulla lettura di atti processuali, verbali di commissioni d'inchiesta parlamentari, lettere e scritti dello statista pugliese risalenti alla prigionia, fondi d'archivio televisivi, dibattiti e testimonianze audio e video sugli «anni di piombo». La materia – già allora «un mare di documenti», per usare le parole di Roberto Buffagni e Cristina Pezzoli in copione - è trattata anche in questo caso come una tragedia greca.

Spettacolo del teatro Stabile di Parma

Una decina di attori mettono in scena, in un ambiente che ricorda il cantiere di un edificio in costruzione con ponteggi e calcinacci, le differenti voci di questo dramma umano, da quella di Aldo Moro a quella dei terroristi accorpati nei cori degli «uomini rossi» e della «domanda insanguinata», da quella del presidente del Consiglio e dei parlamentari del tempo a quella di papa Paolo VI, senza dimenticare il punto di vista delle vittime della scorta e dei loro familiari.

A chiudere il racconto, prima dell’entrata in scena dell’angelo custode d’Italia, un personaggio di fantasia che è coscienza nostra e del Paese, sono alcune delle parole più conosciute di Aldo Moro, quelle citate nell’ultima lettera alla moglie dal carcere brigatista, datata 5 maggio 1978: «Tutto è inutile quando non si vuole aprire la porta…Vorrei capire con i miei piccoli occhi mortali…come ci si vedrà dopo…se ci fosse luce sarebbe bellissimo».

Aldo Moro attraverso lo sguardo delle figlie Agnese e Maria Fida 
Nel 2007 questa frase solleciterà anche la fantasia di un altro attore e drammaturgo, Giancarlo Loffarelli, che porterà in scena «i misteri del ‘caso Moro’» con la compagnia laziale «Le colonne» nel suo «Se ci fosse luce», spettacolo in parte mutuato dalle dichiarazioni del brigatista Alberto Franceschini (fondatore insieme a Renato Curcio delle Brigate rosse), in parte dalle testimonianze di Agnese Moro, una dei quattro figli del leader democristiano.

Giancarlo Loffarelli in «Se ci fosse luce (I misteri del 'caso Moro'»

In questo lavoro, che ha ricevuto una segnalazione della Giuria della XV edizione del Premio «Ugo Betti per la drammaturgia» di Camerino (2008) come «ottimo esempio di teatro-inchiesta», le vicende storiche si intrecciano a un ritratto intimo e privato dello statista, ben condensato in questa affermazione scritta per la presentazione del libro «Un uomo così» (Rizzoli, Milano 2008): Aldo Moro «era semplicemente mio padre, quello che mi portava l’acqua la sera quando ero a letto, quello che non era capace di aggiustare una lampadina e che, quando era lontano da casa, ci ricordava sempre di spegnere il gas. Era un tipo riservato e, quando andavamo al mare a Terracina, scendeva in spiaggia con la giacca e la cravatta».

Aldo Moro con la figlia Maria Fida e il nipote Luca. Foto di dominio pubblico

È una geografia dei sentimenti anche quella che, nel giugno del 1998, propone il teatro Biondo di Palermo con l’atto unico «L’ira del sole, un 9 di maggio» di Maria Fida Moro e Antonio Maria Di Fresco, per la regia di Antonio Raffaele Addamo. La primogenita dello statista democristiano, in scena con il figlio Luca Bonini Moro, che aveva appena due anni al momento del delitto e che sul palco canta la sua canzone «Venti di ricordi», conduce un dialogo ideale con il padre, rievocato grazie a una voce fuori campo. Mentre un coro da tragedia greca, che rappresenta i cinque agenti della scorta massacrati nell'agguato di via Fani, interseca il piano dei ricordi e del dolore personale con la dimensione del dramma sociale, sottolineando i momenti salienti dei cinquantacinque giorni più cupi della nostra storia attraverso le parole dei giornali. Il risultato è «un inventario di emozioni» – scrive Antonio Maria Di Fresco nel programma di sala -, che sceglie di raccontare «la cifra intima dell’uomo» Moro.

«Corpo di Stato», Marco Baliani racconta il delitto Moro
È del 1998 anche il debutto di uno degli spettacoli teatrali più conosciuti e apprezzati sul sequestro e sulla morte del politico democristiano, che vede in scena uno dei maggiori interpreti del teatro di narrazione italiano: «Corpo di Stato - Il delitto Moro: una generazione divisa», di e con Marco Baliani, per la regia di Maria Maglietta, trasmesso per la prima volta su Rai 2, in diretta televisiva, dai Fori imperiali di Roma e, in seguito, adattato per la scena.


Il monologo, corredato da un libro pubblicato nel 2003 da Rizzoli, racconta, con una prosa lucida e secca, la vicenda attraverso gli occhi dello stesso autore, un giovane militante di estrema sinistra con in testa il sogno di un mondo migliore, che ha addirittura avuto un momento di adrenalina alla notizia del rapimento, credendo imminente il «ribaltamento dello Stato borghese», ma che, con il passare delle settimane, deve fare i conti con i propri conflitti interiori. Dentro la coscienza di Marco Baliani, e di molti giovani della sua generazione, l’ideale della lotta rivoluzionaria non si concilia con la morte di un uomo. «Né con lo Stato, né con le Brigate rosse» è il vano tentativo di trovare una via d’uscita all’angoscia di quei giorni.

Copertina del libro «Corpo di Stato» di Marco Baliani (Rizzoli, Milano 2003)

Il testo intreccia la narrazione, ricca di ricordi personali e di «piccole storie che tentano di illuminare una storia più grande», con filmati d’epoca, testimonianze video, titoli di giornali, citazioni, canzoni, restituendo il clima degli anni Settanta: università occupate, manifestazioni, cortei, assemblee, lacrimogeni, posti di blocco e, infine, la telefonata di rivendicazione dell’uccisone di Aldo Moro.

Marco Baliani. Foto di Ivan Nocera

Il corpo senza vita del politico democristiano sulla Renault 4 parcheggiata in via Caetani, a Roma, diventa il simbolo della morte di un sogno, la definitiva parola «fine» alle speranze di poter creare una società diversa. È il 9 maggio 1978 e un filo rosso collega quella strada del centro storico capitolino a Cinisi, un comune della cinta metropolitana di Palermo, dove nello stesso giorno viene trovato morto, per mano della mafia, Peppino Impastato, giovane militante di sinistra e conduttore radiofonico che, dalle frequenze di radio «Aut Aut», denunciava i crimini di «Cosa nostra» nella sua città. Uno dei tanti «fantasmi», con Aldo Moro, «a cui questo paese – racconta Marco Baliani nella presentazione - non è riuscito a dare vera sepoltura, dai morti della banca dell’Agricoltura, a quelli della stazione di Bologna, a quelli di Ustica e molti altri ancora. E per questo occorre continuare a dare voce e respiro al nostro passato prossimo».

Il «caso Moro» secondo Corrado Augias e Vladimiro Polchi
La stessa urgenza narrativa anima, nel 2007, Corrado Augias che, con Vladimiro Polchi, scrive, su invito dell’Istituto italiano di cultura in Parigi, «Aldo Moro. Una tragedia italiana». 

Lo spettacolo vede la luce dopo due piccole produzioni: «Il corpo di Moro» (2003), lettura di una selezione di poesie di Rino Mele, per la regia di Nuccio Siano, e «La tragedia negata. Le Br, Moro e gli altri» (2005), una rielaborazione e adattamento di pagine scritte da ex-brigatisti e non solo, a cura di Luigi Albert, Nicola Pannelli, Francesco Ferrieri, per la regia di Nicola Pannelli e la produzione dell’associazione culturale «Narramondo» di Genova.  

Corrado Augias e Vladimiro Polchi compongono una vera e propria lezione di educazione civica, ma anche un reportage teso a ricostruire la storia drammatica dei «cinquantacinque giorni che hanno cambiato l’Italia». Firma la regia dello spettacolo, prodotto dai teatri Stabile della Sardegna e Eliseo di Roma, Giorgio Ferrara, uomo avvezzo alla scena che vanta collaborazioni con Luchino Visconti e Luca Ronconi.

«Aldo Moro. Una tragedia italiana» di Corrado Augias e Vladimiro Polchi. Foto di Tommaso La Pera

Alle lettere scritte dallo statista ai familiari e agli «amici» di partito nella cosiddetta «prigione del popolo», la pièce alterna i comunicati ufficiali delle Br, i punti di vista dei politici del tempo, i commenti e gli interrogativi di Leonardo Sciascia, autore del libro «L’affaire Moro», e di Pier Paolo Pasolini, che poco prima di morire, il 24 agosto 1975, dalle colonne de «Il Corriere della Sera», aveva invitato a processare la Democrazia cristiana. Il tutto è scandito da immagini tratte dai telegiornali d’epoca e da spezzoni di film come «Il caso Moro» (1986) di Giuseppe Ferrara, «Piazza delle Cinque Lune» di Renzo Martinelli (2003) e «Buongiorno notte» (2003) di Marco Bellocchio

«Aldo Moro. Una tragedia italiana» di Corrado Augias e Vladimiro Polchi. Foto di Tommaso La Pera

Nello spettacolo di Corrado Augias e Vladimiro Polchi, Aldo Moro è interpretato da Paolo Bonacelli, navigato attore specializzato in personaggi del Teatro dell’assurdo e nelle tematiche dell’alienazione e dell’incomunicabilità care al Novecento pirandelliano, che, chiuso all’interno di una metaforica gabbia realizzata dallo scenografo Gianni Silvestri, restituisce il dramma umano dello statista pugliese, animato dalla speranza e dalla disperazione, dalla nostalgia per la famiglia e dalla lucida rabbia nei confronti dei suoi colleghi di partito. Mentre Lorenzo Amato è la voce narrante, l'imparziale cronista di una vicenda che, ieri come oggi, lascia aperti troppi interrogativi, uno su tutti: Aldo Moro poteva essere salvato?

«Polis o pietas?» Aldo Moro come Antigone
Questa domanda sottende anche alla trama dell’emozionante e coinvolgente monologo «Roma, Via Caetani, 55º giorno» del 2009, scritto e interpretato dalla giovane attrice e cantante Lucilla Falcone, nel quale la vicenda del sequestro e dell’omicidio del politico democristiano - ma anche la sua vita di professore universitario, di padre e di presidente del Consiglio ai tempi dell’alluvione di Firenze - viene raccontata attraverso lo sguardo pacato di tre donne alla ricerca della verità - «la figlia, la studentessa e la bambina» -, colpite dall’intensità emotiva delle lettere scritte nella cosiddetta «prigione del popolo».


Può la pietas verso un individuo prevalere sulle regole politico-giuridiche su cui si fonda lo Stato? Può un ricatto, quello delle Brigate rosse che vogliono fuori dal carcere alcuni loro compagni, essere accettato in nome della sacralità della vita? Queste domande sono al centro anche di «Dal buio un grido (Aldo Moro come Antigone)», un recital per l’adattamento e la regia di Giuseppe Emiliani, con Virgilio Zernitz, Cristina Sarti e Antonio Salines, nella parte dello statista, che va in scena in anteprima, nel novembre del 2011, al teatro Da Ponte di Vittorio Veneto.


Attraverso le lettere dalla cosiddetta «prigione del popolo», pagine tratte dei libri della figlia Agnese Moro e della brigatista Anna Laura Brighetti, documenti d’epoca (tra cui alcuni filmati), punti di vista dei politici del tempo e stralci dell’«Antigone» di Sofocle, collegati da brevi racconti cronachistici scritti da Giuseppe Emiliani, vengono ripercorsi gli ultimi giorni di vita del politico democristiano, ma soprattutto si riflette sulla «dicotomia tra legge di Stato e legge morale».

Il «caso Moro» tra opera lirica e musical
In quegli stessi anni in cui nel racconto teatrale è centrale l’annoso quesito «polis o pietas?», ovvero nel decennio tra il trentennale e il quarantennale della morte dello statista, vengono scritte anche tre opere liriche e un musical.


Nel 2008 debutta, al teatro dell’Elfo di Milano, «Non guardate al domani» di Filippo del Corno, oratorio su libretto del giornalista Angelo Miotto, che racconta i fatti della primavera del 1978 con lo stile della tragedia classica attraverso le sole parole dette e scritte all’epoca (lo stesso titolo è mutuato da una lettera a Benigno Zaccagnini del 24 aprile 1978). Lo spettacolo, coadiuvato dalla proiezione di immagini di repertorio scelte da Francesco Frongia, vede sul palco l’ensemble «Sentieri selvaggi», sotto la bacchetta di Carlo Boccadoro, insieme con i cantanti Roberto Abbondanza (Aldo Moro), Luigi Petroni, Mirko Guadagnini, Valentina Coladonato, Anna Maria Calciolari, Enrico Bava, Filippo Tuccimei e Giuseppe Maletto. Il progetto operistico ha una lunga gestazione; nella sua forma di studio l’oratorio «Non guardate al domani» era, infatti, stato selezionato, nel 2001, per la fase finale del concorso internazionale «Genesis Prizes for Opera» ed era stato presentato a Londra.


Nel 2011 è la volta di «Moro», «opera tragica in un atto e undici scene» su libretto di Marco Ongaro e con le musiche di Andrea Mannucci, presentata per la prima volta a Parigi, all'Eglise Réformée des Batignolles, con la regia di Luigi Cerri e per la direzione musicale di Andrea Battistini. Sul palco salgono Vincent Billier (Aldo Moro), Eva Ganizate, Xavier Mauconduit e Elisabetta Dambruoso. Lo spettacolo, che è anche una riflessione sulla solitudine di tutti noi davanti alla morte, vede lo statista pugliese rinchiuso nel covo delle Br, mentre duetta con un soprano-Cassandra e un tenore-Angelo, personificazioni rispettivamente della cultura laica e di quella religiosa. Tra sonorità atonali e note dagli echi rinascimentali, il racconto in musica, che dà, dunque, voce al «passaggio umano dalla prigionia corporale all’infinita libertà dell’essere», si chiude con l’ultima lettera di Aldo Moro alla moglie Noretta, «simbolo – raccontano gli autori - di un viaggio verso l'alto, che vede nell'Amore, l'unico elemento davvero importante».


In ordine di tempo, l’ultima opera lirica dedicata al «caso Moro» porta la data del 2016 e si intitola «Un’infinita primavera attendo». A scriverla è Sandro Cappelletto, mentre lo spartito è firmato da Daniele Carnini. La sera del 9 dicembre 2016 salgono sul palco del teatro Auditorium di Roma, per il debutto, i cantanti Daniele Adriani (Aldo Moro), Sabrina Cortese, Chiara Osella, Luca Cervoni, Clemente Daliotti, Giorgio Celenza, Giulia Balossino, Simone Ruggiero e Chiara Vinci, con la Roma Tre Orchestra, diretta da Gabriele Bonolis.


Presentato per iniziativa dell’Accademia filarmonica di Roma e dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana Giovanni Treccani, in occasione dei cento anni dalla nascita del politico democristiano, il lavoro, che si avvale della regia di Cesare Scarton e che ha un disegno di Mimmo Paladino come immagine promozionale, «non è tanto la pedissequa ricostruzione della storia — spiegano gli autori - quanto la vicenda di un uomo politico in lotta contro un sistema di potere non interessato a soddisfare le vere e autentiche esigenze e aspirazioni del Paese».

Locandina dell'opera lirica «Un’infinita primavera attendo» di Sandro Cappelletto e Daniele Carnini, con disegno di Mimmo Paladino

L’opera lirica in un atto, dal forte impegno civile, non si sofferma, dunque, su quell’«inverno della politica italiana» che è stata la prigionia di Aldo Moro nel covo delle Brigate rosse, ma racconta la modernità di un pensiero, plasmato dall’idea del «compromesso storico» e dal costante interrogarsi sul senso del proprio impegno per il bene della Repubblica, attraverso discorsi, interviste, lettere e appunti, inviati e ricevuti, conservati all’Archivio centrale di Stato.

«Un’infinita primavera attendo». Foto di Giusto Carabella

«Nel palcoscenico - raccontano i due autori nel testo scritto per il programma di sala - ricostruiamo in piccolo una comunità che si sfalda, che volta le spalle al suo capo. Nessuno dei personaggi ha un nome. Ognuno ha sicuramente un lontano modello, che lo spettatore può cercare di indovinare. Tutti sono una funzione, sono le forze che hanno modellato la storia […] C’è una Segretaria, che incanala nel mondo reale l’attività intellettuale del Presidente. C’è uno Studente che cerca di avvicinarsi alla politica con ammirazione e diffidenza insieme. C’è un Senatore americano che crede – prima con blandizie, poi con ira – di poter disporre […] dell’Italia. C’è un Cardinale che mette il Presidente di fronte alle contraddizioni del suo essere cattolico […]. C’è un Politico italiano cui è affidata la definitiva archiviazione di quell’uomo e del suo linguaggio. C’è poi, più temibile di tutti, l’integerrimo Intellettuale […] con un vertiginoso atto d’accusa cui (forse) non è possibile rispondere se non con parole di dialogo, di apertura. Di fiducia. Anche mentre il mondo gli si rivolta contro, il Presidente non cede; attende un’infinita primavera, che va ben oltre la prigionia, tra marzo e maggio, del suo alter ego storico».

«Un’infinita primavera attendo». Foto di Giusto Carabella

L’anno successivo al debutto dell’opera «Un’infinita primavera attendo», il 2017, va in scena il musical «Piombo. Una canzone vi seppellirà» di Gipo Gurrado, che firma libretto, musiche, testi e regia.
Punto di partenza dello spettacolo, realizzato dalla compagnia Odemà di Milano con Tiktalik Teatro, sono alcuni quesiti di difficile risposta: «Cosa avrei fatto io se avessi avuto venticinque o trent’anni nel 1978? Cosa avrei fatto se fossi stato un operaio della Siemens? Mi sarei unito alle proteste e alle lotte operaie? E se fossi stato un politico da che parte mi sarei schierato durante il caso Moro, con il fronte della fermezza o con chi chiedeva una trattativa? E se fossi stato un militante della lotta armata avrei avuto il coraggio di darmi alla clandestinità o sarei rimasto con la mia famiglia? E se fossi stato un ostaggio avrei implorato pietà o mi sarei mostrato forte e coraggioso? E se avessi avuto una pistola in mano alla fine avrei avuto il coraggio di sparare?». Queste domande, scritte dall’autore nella presentazione del musical, si trasformano in una rappresentazione, con cinque attori e due musicisti, che cerca di ricostruire la storia del sequestro e della morte di Aldo Moro attraverso i punti di vista di chi quella vicenda l’ha vissuta in prima persona: lo stesso statista e la moglie Noretta, ma anche i brigatisti Anna Laura Braghetti e Mario Moretti (sempre in scena con la sua macchina da scrivere, quella con cui redigeva i comunicati), un giornalista, dal fare macchiettistico, e un operaio, che vede tradito dalla violenza il suo sogno di un mondo migliore.
Una scena del musical «Piombo»

«Aldo Mor(t)o - Tragedia», la «miglior novità italiana» del 2012
Sempre nel decennio tra il trentennale e il quarantennale della morte dell’onorevole democristiano, il «caso Moro» viene raccontato da un punto di vista inedito, addirittura coraggioso. È il 2012 e un giovane interprete, che all’epoca dei fatti aveva poco meno di quattro anni, mette in scena uno degli spettacoli più originali sul sequestro e l’omicidio del politico democristiano. Quell’anno vede la luce il caustico «Aldo Mor(t)o - Tragedia» che l’attore e drammaturgo Daniele Timpano, classe 1974, scrive con la compagna Elvira Frosini a chiusura della trilogia «Storia cadaverica d’Italia», pubblicata da Titivillus editore, per la curatela di Graziano Graziani, e contenente anche i copioni degli spettacoli «Dux in scatola» (2005), su Benito Mussolini, e «Risorgimento pop» (2008), su Giuseppe Mazzini.

Una scena di «Aldo Mor(t)o - Tragedia», con Daniele Timpano. Foto di Laila Pozzi 

In occasione dei trentacinque anni dalla morte dello statista pugliese, lo spettacolo viene corredato da un progetto inusuale, «Aldo Moro 54», che vede il performer capitolino rinchiudersi, dal 16 marzo all’8 maggio 2013 (molto prima della pandemia da Coronavirus), all’interno del teatro dell’Orologio di Roma, in una finta cella tre metri per uno (le stesse dimensioni di quella che avrebbe accolto il politico democristiano), connessa al mondo via web cam e social network. L’idea vale all’attore il premio Nico Garrone, che va ad aggiungersi ai due riconoscimenti ottenuti dallo spettacolo «Aldo Mor(t)o - Tragedia»: il Premio Rete critica 2012 e la candidatura al Premio Ubu 2012 quale «miglior novità italiana dell’anno».

Una scena di «Aldo Mor(t)o - Tragedia», con Daniele Timpano. Foto di Michele Tomaiuoli

Nella pièce, che è ancora oggi in cartellone, Daniele Timpano non ricostruisce i fatti accaduti tra il sequestro di via Fani e il ritrovamento del corpo senza vita in via Caetani, ma si confronta con l’impatto che il «caso Moro» ha avuto nell’immaginario collettivo e, mentre gioca con una piccola Renault 4 rossa telecomandata, simbolo dei cinquantacinque giorni, racconta, senza pietismo o attitudini agiografiche, le tante verità di una vicenda che ha segnato gli «anni di piombo». L’attore veste, di volta in volta, i panni degli sbadati cronisti sul luogo del sequestro, di una brigatista pentita diventata scrittrice di successo, di un figlio di Aldo Moro, dei parenti delle vittime e persino di Renato Curcio, l’«ideologo» delle Br, che si copre il volto con una maschera di Mazinga Zeta, offrendo così una riflessione sullo sciacallaggio postumo, a tratti morboso, a tratti opportunista, di cui è stato vittima il politico democristiano, trasformato dai suoi tanti narratori in una sorta di «santino della Repubblica».


Il «caso Moro» e le teorie complottistiche
 
Nello stesso anno del debutto di «Aldo Mor(t)o», il 2012, compare nei cartelloni teatrali anche «moro: i cinquantacinque giorni che cambiarono l’Italia» del magistrato Ferdinando Imposimato e dell’attore Ulderico Pesce, «con la ‘m’ minuscola nel titolo – si legge nella sinossi - a voler sottolineare che nel cognome del grande statista c’è la radice del verbo ‘morire’. Come se la morte di Aldo Moro fosse stata ‘scritta’».


Nell’intenso monologo, una summa di tutte le «teorie complottistiche» sull’«affaire», la voce narrante è quella di Ciro, il fratello di Raffaele Iozzino, l’unico poliziotto della scorta del politico democristiano che, secondo le indagini balistiche, «riuscì a sparare due colpi contro i terroristi», prima di essere investito da diciassette spari e di morire nell’agguato di via Fani. Insospettito dalla versione ufficiale dei fatti e supportato da Arianna, la sorella di Francesco Zizzi, un altro uomo della scorta di Aldo Moro che la mattina del 16 marzo 1978 era al suo primo giorno di lavoro, il giovane inizia, nella finzione scenica, una sua personale inchiesta che lo porta a parlare con Ferdinando Imposimato, il giudice che ha seguito le prime inchieste sul sequestro e sulla morte del politico democristiano. La matassa da dipanare è intricata, ma ne esce una verità: «non l’hanno ucciso solo le Brigate rosse, Moro e i ragazzi della scorta furono uccisi anche dallo Stato». Furono uccisi – ci racconta Ulderico Pesce – dalla volontà strategica di Francesco Cossiga e di Giulio Andreotti, in linea con l’ostracismo statunitense verso il dialogo del politico democristiano con i comunisti di Enrico Berlinguer.

Ulderico Pesce in «moro: i cinquantacinque giorni che cambiarono l’Italia»

Alle «teorie complottistiche» guarda anche un altro spettacolo che fa il suo debutto nel 2012: «Moro, la verità negata», di e con Carlo Infanti, un racconto lungo due ore, tra «intrighi» e «misteri mai svelati», scandito dalle canzoni di Fabrizio de Andrè, Vinicio Capossela, Federico Salvatore, Danilo Amerio e Giorgio Gaber (il cantautore di «Se io fossi Dio», un singolo del 1980, che fece scalpore per le dure critiche post mortem al politico democristiano).

«Mia carissima Noretta», un «racconto emotivo» sul «caso Moro»

Proseguendo il percorso tra le rappresentazioni dedicate al «caso Moro», usando come filo conduttore l’ordine cronologico, si incontra, nel 2016, lo spettacolo «Mia carissima Noretta» della compagnia ArtiVarti di Portogruaro, con le musiche e per la regia dell’attore Max Bazzana, in scena con Stefano Rota, Marta Riservato e Martina Boldarin. Lo spettacolo ripercorre la storia degli «anni di piombo», anche grazie a filmati in bianco e nero, raccontando le lotte operaie, gli scontri studenteschi e il rapimento Moro. «La scena – spiega l’autore – è un non luogo, dove il politico si trova faccia a faccia con lo studente, il brigatista con i familiari delle vittime, l’operaio con il magistrato». Di grande suggestione è la scelta registica di intervallare la narrazione con lo spegnimento di cinquantacinque lumini, uno per ogni giorno del sequestro.
Nel 2016 viene proposta anche l’orazione civile «L’agguato – Del perché rapimmo Aldo Moro», di e con il giornalista Pino Casamassima, uno dei più lucidi studiosi dell’eversione di sinistra, autore in quegli anni dei libri «Troveranno il corpo» (Sperling & Kupfer, Milano 2015) e «Attacco al cuore dello Stato» (Salerno editrice, Moro 2016), che racconta la morte del politico pugliese, «un regicidio che continua a inquietare». 


Mentre nel 2017 vede la luce il monologo «Chi ha paura di Aldo Moro», una produzione del Collettivo Teatro Prisma di Bari, scritto e diretto da Giovanni Gentile, con in scena Barbara Grilli. Lo spettacolo non è una fredda ricostruzione dei fatti, ma un racconto emotivo composto da più punti di vista, quelli – si legge nella presentazione - di «un padre di famiglia, politico per professione e per passione, una ragazza appena laureata in Filosofia, un operaio della Siemens, un maresciallo dei carabinieri ligio al suo dovere, un governo che ‘non s’ha da fare’». Ne esce il ritratto di una generazione, che «da una parte e dall’altra della barricata, sconta ancora oggi lutti e dolori». 

«55 giorni», la primavera del 1978 per Massini e Zingaretti
Il 2018, l’anno del quarantennale della morte del politico democristiano, vede sotto i riflettori un numero impressionante di spettacoli, quasi tutti ancora in cartellone, che raccontano i fatti della primavera 1978 da più punti di vista, alcuni dei quali inediti e originali.

Luca Zingaretti nell'orazione civile «55 giorni»

È il caso dell’orazione civile «55 giorni: l’Italia senza Moro», tratta dall’omonimo libro di Stefano Massini, edito dalla casa editrice Il Mulino di Bologna, che Luca Zingaretti, nella duplice veste di attore e regista, propone nella sera dell’8 maggio 2018 su Rai 1. Lo spettacolo, che vede in scena anche l’attrice Alessia Giuliani e Arturo Annecchino al pianoforte, è ambientato simbolicamente in una silenziosa e vuota via Caetani e si chiude con l’ultima lettera dello statista pugliese alla moglie Noretta, quella con le parole «bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli», recitata accanto alla Renault 4 (oggi conservata dalla Polizia di Stato) in cui fu trovato il corpo senza vita del politico democristiano.

Luca Zingaretti nell'orazione civile «55 giorni»

L’orazione civile, che si apre con immagini di repertorio e la registrazione della telefonata al giurista Francesco Tritto nel corso della quale Valerio Morucci annuncia la morte di Aldo Moro, riavvolge il nastro e ripercorre i cinquantacinque giorni dal 16 marzo al 9 maggio 1978 con uno sguardo nuovo, tratteggiando un affresco di quello che avviene nel nostro Paese mentre il presidente della Dc è chiuso nella cosiddetta «prigione del popolo».


In quelle settimane, raccontate anche attraverso fotografie e filmati d’epoca, Corrado continua a fare compagnia agli italiani dagli studi di «Domenica In». Maurizio Costanzo chiede a tutti «che cosa c’è dietro l’angolo?». Alighiero Noschese fa sorridere con le sue imitazioni nello show «Ma che sera». In Parlamento si vota la legge sull’aborto e si discute la legge Basaglia sulla chiusura dei manicomi. Rino Gaetano, in frac e scarpe da tennis, canta «Gianna», mentre Raffaella Carrà intona «come è bello far l’amore da Trieste in giù». Nanni Moretti porta al cinema il suo «Ecce bombo» e sul piccolo schermo vengono trasmesse «Le avventure di Pinocchio» di Luigi Comencini. Sui campi di calcio primeggia la Juventus. Nei cieli si avvistano gli Ufo e Alan Sorrenti canta «Figli delle stelle». Una nota di cronaca riporta – sempre il 9 maggio 1978 – la notizia di un’esplosione sui binari della ferrovia tra Cinisi e Palermo, forse un attentato terroristico. C’è un morto. È Peppino Impastato. Ci vorranno vent’anni per scoprire il colpevole: la mafia. L’Italia, concludendo, continua a vivere pur sentendosi sospesa in una parentesi di tempo.


L’orazione civile, prodotta da Bibi Film Tv – Zocotoco, propone allo spettatore anche l’«Inno alla carità» di San Paolo di Tarso (la prima lettera ai Corinzi, quella sull’amore e sullo stile del servizio cristiano), alcuni articoli profetici di Mino Pecorelli per «Op» e la lettera che Pier Paolo Pasolini invia, il 14 novembre 1974, a «Il Corriere della Sera», nella quale scrive, denunciando un’intera classe politica: «Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (..). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so […] Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi».

Riflettori puntati sulla scorta di Moro

Aldo Moro con il capo-scorta Oreste Leonardi. Foto di dominio pubblico

Nel 2018, un altro punto di vista originale è quello offerto dallo spettacolo «L’ombra di Moro» di Patrizio J. Macci, reading diretto e interpretato da Pino Calabrese, con le musiche originali di Roberto Formentini e le video proiezioni di Gianluca Abbate, dedicato alla storia di Oreste Leonardi, il capo-scorta di Aldo Moro, «il suo uomo di fiducia nei momenti di lavoro e di tensione come negli attimi di svago», scrive Mario Calabresi. «L’intento dello spettacolo - si legge nella presentazione - è quello di dar voce attraverso di lui a tutti gli altri, poliziotti, carabinieri e uomini di ogni arma che hanno fatto della loro vita l’ultimo baluardo della difesa di qualcosa nella quale hanno creduto o hanno dovuto credere, cosicché il loro eroico sacrificio non venga mai dimenticato».

Copertina del libro «Gli eroi di via Fani» di Filippo Boni

Nel 2018, agli uomini che persero la vita in via Fani - Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi, due carabinieri e tre poliziotti - è dedicato anche «Gli eroi dimenticati», spettacolo per la regia di Roberto Vitale, con Sofia Vitale, Federico Zovva e Filippo Boni. I fatti della primavera del 1978 vengono raccontati attraverso la figura di un anziano poliziotto, Francescantonio Vitale, comandante, negli «anni di piombo», della Polizia frontiera marittima di Trieste e, nella seconda metà degli anni Cinquanta, agente in servizio al Commissariato Vescovio di Roma, dove «incrociava Aldo Moro, un uomo – si legge nella presentazione - che in molti poliziotti chiamavano ‘penna bianca’ per il suo precoce ciuffo bianco tra i capelli».

Una scena dello spettacolo «Lo stato delle cose: Gli eroi di via Fani», per la regia di Teresa Cerere.
Foto di Francesco Schiavone 

La pièce è mutuata dal libro «Gli eroi di via Fani» (Longanesi, Milano 2918) del giornalista e storico di formazione Filippo Boni, che restituisce voce agli uomini della scorta di Aldo Moro e alle loro storie fatte di «povertà, fatica, lavori manuali e sveglie all’alba», attraverso i ricordi dei familiari, «componendo – si legge nella presentazione - uno straordinario affresco di un’Italia semplice e vera, che resistendo alle atrocità della storia si ostina a guardare al futuro».

Questo volume, con prefazione di Mario Calabresi, è lo spunto anche per lo spettacolo «Lo stato delle cose: Gli eroi di via Fani», per la regia di Teresa Cerere, con Federico Vigorito e David Marzi, quest’ultimo autore anche della riduzione scenica, che è stata rappresentato, in anteprima, nel marzo 2023 al teatro Sociale di Fasano, in Puglia, per iniziativa dell’associazione SenzaConfine.

«Spiriticchio», in scena il fioraio di via Fani
Una scena di «Spiriticchio. Il fioraio di via Fani». Foto: Manuela Giusto

Tra le rappresentazioni sceniche che offrono nuovi sguardi sui fatti della primavera del 1978 c’è anche «Spiriticchio. I fiori di Aldo Moro» (2022), spettacolo per ragazzi di Giovanni Chianelli e Giovanni Conforti, per la regia di Maurio Autore, con Ettore Nigro e il musicista Francesco Capriello, prodotto da Piccola Città Teatro – Associazione culturale Teen Theatre di Napoli.
A raccontare i fatti è Antonio Spiriticchio, un fioraio ambulante di Roma che tutte le mattine, a eccezione del lunedì (il suo giorno di riposo), si reca in prossimità dell'incrocio tra via Fani e via Stresa con il suo furgone Ford Transit, targato Roma R62867, per vendere fiori. Ma la mattina del 16 marzo 1978 il fioraio non è tra i testimoni del sequestro di Aldo Moro perché, la notte precedente, le ruote del suo veicolo sono state tutte e quattro tagliate. «Vandali, pensa» all’alba di un giorno senza lavoro. Ma la cosa, come capirà qualche ora dopo, è più grave: qualcuno ha cercato di non farlo essere d’intralcio durante quella che passerà alla storia come l’«operazione Fritz», il nome in codice dato dalle Brigate rosse al rapimento di Aldo Moro.

Una scena di «Spiriticchio. Il fioraio di via Fani». Foto di Manuela Giusto

Circondato dai fiori che gli fanno compagnia ogni giorno, Antonio Spiriticchio, un uomo, semplice, mite e dagli occhi ingenui, interpretato in scena da Ettore Nigro, racconta al pubblico «il suo mestiere, fatto di routine dura e poco redditizia, a contatto con le persone normali, mentre serve i clienti spiegando cosa significhi davvero un crisantemo o un narciso». Il fioraio ascolta la radio. Legge i giornali. Racconta i fatti di quei giorni angosciosi e, con il suo romanesco popolare, si interroga: «Chissà moando’ stà por omo, perché sarà pure presidente, ma dico, è pur sempre n’omo?».

Una scena di «Spiriticchio. Il fioraio di via Fani». Foto di Manuela Giusto

Il linguaggio simbolico dei fiori diventa così la chiave per narrare una storia di cui ancora oggi ci sfuggono i particolari, perché i fiori, come una premonizione, ci sono sempre stati nel «caso Moro». Raffaele Fiore è il nome di uno dei brigatisti in via Fani. Un mazzo di fiore è il segnale con cui una giovane militante, Rita Algranati, indica il passaggio delle automobili della scorta e dà il via al rapimento. «Dei petali vengono trovati sul corpo senza vita» dello statista pugliese. E i fiori sono l’unico modo in cui Antonio Spiriticchio, simbolo di tutti quelli che non c’erano in via Fani, può intrecciare la sua «piccola storia» alla «storia grande, che – raccontano Giovanni Chinelli e Giovanni Conforti nella presentazione - si mette in moto, inesorabile, calpestando tutti come schiacciasassi su un prato fiorito».

La nuova generazione di drammaturghi e il «caso Moro»
Una scena dello spettacolo «Io ci sarò ancora» di Marco Bellelli, con Paolo Sideri e Marco Bellelli

Dal linguaggio poetico ed emotivo del lungo «soliloquio» di Ettore Nigro si passa, sempre nel 2022, a quello fantasioso di «Roma N5. Aldo Moro: un’altra storia», spettacolo per la regia e la riduzione scenica di Salvatore Poleo, con Francesca Rifici, Beppe Bianchi, Riccardo Grilli e Fabrizio Orlandini, prodotto dall’associazione Astrolabio di Vigevano. La pièce, liberamente tratta dall’omonimo libro auto-pubblicato di Stefano Bellati, riscrive la storia. Siamo nell’aprile del 1986. Aldo Moro è stato liberato dalle Brigate rosse e ora sta per essere eletto presidente della Repubblica. In un penitenziario incontra due suoi carcerieri e, tra slogan ed emozioni, rivive con loro i fatti della primavera del 1978. Emerge chiara la tragedia di un uomo che ha visto crollare il suo ideale di politica come servizio per gli altri.

Una scena dello spettacolo «Io ci sarò ancora» di Marco Bellelli, con Paolo Sideri e Marco Bellelli

Ritornando al 2018, l’anno del quarantennale dalla morte di Aldo Moro, debutta anche «Io ci sarò ancora», spettacolo della compagnia «Il piccolo resto» e dell’associazione «L’AltraItalia» di Lanciano, per la regia di Eva Martelli e le musiche di Armando Minutolo, con in scena Paolo Sideri e Marco Bellelli, quest’ultimo autore anche del testo drammaturgico.

Una scena dello spettacolo «Io ci sarò ancora» di Marco Bellelli, con Paolo Sideri e Marco Bellell

La pièce, che gode del patrocinio del Senato della Repubblica, si configura come un dialogo sui cinquantacinque giorni che mette a confronto due differenti generazioni, quella di un giovane di oggi e quella di un bambino degli anni Settanta, per raccontare il trauma di un Paese di fronte a quella che Mario Luzi chiama «la sconcia stiva», il bagagliaio della Renault 4 targata Roma N57686.

Una scena dello spettacolo «Io ci sarò ancora» di Marco Bellelli, con Paolo Sideri e Marco Bellell

Il titolo dello spettacolo è mutuato da una lettera del politico democristiano a Benigno Zaccagnini del 24 aprile 1978: «[…] Non creda la Dc di aver chiuso il suo problema, liquidando Moro. Io ci sarò ancora come un punto irriducibile di contestazione e di alternativa, per impedire che della Dc si faccia quello che se ne fa oggi».


Sempre nel 2018 la compagnia Teatro Boxer di Padova, guidata da Andrea Pennacchi, firma la produzione dello spettacolo «La ferita nascosta, come ho conosciuto Aldo Moro, i suoi assassini e quella foto lì», per la regia di Gigi Dall’Aglio, storico fondatore del teatro Stabile di Parma, con il  musicista Matteo Campagnol e l'attore Francesco Gerardi, quest’ultimo autore anche della drammaturgia.

La rappresentazione, che si avvale della consulenza del giornalista e politico Gero Grassi, ex membro della seconda Commissione parlamentare d'inchiesta sul rapimento e sull'uccisione di Aldo Moro, racconta – si legge nella presentazione - «esclusivamente fatti accertati e comprovati dalla Magistratura» per condurre il pubblico «nel vortice di una storia in cui è difficile fare chiarezza».

Una scena de «La ferita nascosta, come ho conosciuto Aldo Moro, i suoi assassini e quella foto lì»

L'espediente narrativo è curioso: capitato per caso sul set di un film su Aldo Moro, il protagonista rivive il disagio che tanti anni prima, da bambino, viveva alla vista della famosa fotografia con la stella a cinque punte. In un clima inizialmente leggero, decide di raccogliere informazioni sulla storia di quell’immagine e in breve tempo si rende conto che – si legge nella presentazione - «la sua ferita nascosta è la «ferita nascosta di un intero Paese».

Dal monologo si passa alla forma dialogica con «Aldo Moro: una vita per la democrazia compiuta» (2021) di Salvatore Tomai, un docu-reading con musiche dal vivo a cura di Andrea Paciletti, prodotto da Terra Magica Arte Cultura di Taranto, che vede sul palco il regista Massimo Cimaglia, nel ruolo dello statista pugliese, e Alessandro Calamunci Manitta, nelle vesti di un giovane brigatista.

Una scena de «La ferita nascosta, come ho conosciuto Aldo Moro, i suoi assassini e quella foto lì»

La scena teatrale, ideata da Paolo Iraci, è «volutamente scarna e simbolica», e «distingue – si legge nella presentazione - due spazi: una sorta di gabbia di legno che rappresenta il luogo claustrofobico della prigionia e un tavolo in cui sono raccolti elementi passati alla storia come la Polaroid, la macchina da scrivere e il registratore delle Brigate rosse».

Lo spettacolo - che traccia una sorta di «Memoriale ideale» di Aldo Moro attraverso le sue lettere, i suoi scritti e i suoi discorsi - non si sofferma solo sui fatti della primavera del 1978, attraverso video storici e scene recitate, ma rievoca anche i luoghi in cui, a Taranto, è avvenuta la formazione intellettuale e spirituale dello statista pugliese. Quell’educazione che lo ha, poi, portato a dare vita – si legge nella presentazione – a «un laboratorio politico in cui le parole chiave erano: dialogo, ascolto, inclusione, democrazia, partecipazione, bene comune».

Massimo Cimaglia in «Aldo Moro: una vita per la democrazia compiuta»

Le parole dello statista pugliese sono al centro anche di «55 lettere» (2019), spettacolo scritto, diretto e interpretato da Alessio Binetti, che racconta «Moro tra fede e amore». Mentre «La solitudine del re» (2022) di Mauro Monni mette sotto i riflettori la consapevolezza dell’uomo di potere abbandonato al proprio destino tracciando un ritratto quasi shakespeariano dello statista. In questa lettura, il deputato pugliese è descritto – si legge nella presentazione - come «un Riccardo III dei giorni nostri destinato al martirio nel nome della fermezza istituzionale, condannato da una giustizia miope cercata nell’uso di armi e violenza destinata inevitabilmente alla sconfitta e all’oblio».

Mauro Monni in «La solitudine del re» 

In questo ultimo periodo, dal 2021, la storia del «caso Moro» è stata raccontata anche attraverso visite guidate teatralizzate, per la regia del quarantenne Luca Basile, promosse da «I viaggi di Adriano» con la compagnia «Fenix1530 Luca Basile Production». Attraverso registrazioni audio, stralci di telegiornali, letture di lettere, musiche dei Virginiana Miller e «nuove scottanti rivelazioni» si offre allo spettatore un’esperienza di teatro en plein air nella Roma del ghetto ebraico, a pochi passi da via Caetani, «dove – raccontano gli organizzatori -, negli «anni di piombo» e della «guerra fredda», avevano sede i servizi segreti di tutti Paese».


Di tappa in tappa, da largo Argentina a piazzetta Mattei, la scena si fa sempre più carica di pathos e si affolla di tanti nuovi personaggi: l’ambasciatore americano Alan Campbell, il boss della mafia italo-americana Frank Coppola, esponenti dello Ior (la banca del Vaticano), il criminale comune Giustino De Vuono e anche qualche brigatista, tutti contro Aldo Moro e la sua politica di apertura nei confronti del Partito comunista.

«Se ci fosse luce», gli «anni di piombo» e il libero arbitrio
Nell’ormai lungo elenco delle produzioni teatrali dedicate ai fatti della primavera del 1978 ci sono anche spettacoli freschi di debutto, quasi tutti caratterizzati dal fatto che i loro autori hanno un’eco infantile di ricordi e un bagaglio di racconti riferiti, talvolta anche romanzati, in merito agli avvenimenti che uniscono due strade di Roma, via Fani e via Caetani, con una lunga scia di sangue.

Immagine promozionale del nuovo spettacolo di Marco Bisciaio

È il caso di «Tutti credettero che l’incontro tra i due giocatori di scacchi fosse casuale» (Gualdo Tadino, 16 marzo 2023), spettacolo di e con Marco Bisciaio, che utilizza come titolo una frase tratta dalle «Finzioni» di Jorge Louise Borges, ripresa da Leonardo Sciascia nel libro «L'Affaire Moro», e che, con una narrazione in bilico tra «leggerezza e tensione scenica», offre una panoramica sui fatti salienti del 1978, dal sequestro dello statista pugliese alla vittoria dell’Argentina ai Mondiali di calcio.

Fresco di debutto è, poi, «Aldo Moro e Peppino Impastato, per amore della politica» (Crema, 9 maggio 2023), di e con Giorgio Putzolu, racconto di due vite accomunate dal «senso del dovere e della giustizia».

Una scena di «Se ci fosse luce» di Francesca Garolla. Foto: Luca Del Pia

Ha appena incontrato il calore del pubblico anche lo spettacolo «Se ci fosse luce» (Bologna, dal 28 marzo al 2 aprile 2023; Lugano, 22 e 23 aprile 2023), di e per la regia di Francesca Garolla, autrice milanese attiva sulla scena italiana e francese, recentemente selezionata nel progetto europeo Fabulamundi – Playwriting Europe. Prodotta da Lac – Lugano arte e cultura con Emilia Romagna Teatro Ert /Teatro nazionale, la pièce chiude una trilogia sulla libertà di scelta o negata, che in passato ha visto in scena «Tu es libre» e «Per la vita», e si configura come una riflessione su quanto le ferite del passato lascino traccia nel nostro presente.

Una scena di «Se ci fosse luce» di Francesca Garolla. Foto: Luca Del Pia

Sul palco, in una scenografia spoglia, da obitorio o da interrogatorio poliziesco, abitata solo da un tavolo in ferro, ci sono quattro personaggi: «due uomini e due donne: un latitante, che è anche un padre; una figlia, che è anche una madre; una giudice, che è anche una donna; un uomo, che è anche un assassino», si legge nella presentazione. Gli attori Angela Dematté, Anahì Traversi, Giovanni Crippa e Paolo Lorimer interpretano, dunque, due vittime e due colpevoli di una stagione, quella degli «anni di piombo», la cui eredità sembra condizionarci ancora e che «ognuno di noi porta dentro di sé».

La narrazione, arricchita da foto d’epoca e frammenti storici, prende avvio dalla famosa telefonata del brigatista Valerio Morucci al giurista Franco Tritto, quella del 9 maggio 1978 in cui si comunica l’avvenuta esecuzione di Aldo Moro, non tanto per ricostruire la storia dei cinquantacinque giorni della prigionia del politico democristiano quanto per indagare sulle conseguenze, personali e collettive, di un’azione violenta compiuta consapevolmente, di un gesto che è «mano di un pensiero».

Una scena di «Se ci fosse luce» di Francesca Garolla. Foto: Luca Del Pia

«Quali sono le ferite inflitte al futuro, che non siamo in grado di guarire nel presente? Come influisce su di noi e sugli altri ciò che facciamo o che subiamo? Qual è il prezzo delle nostre azioni? Cosa lasceremo ai nostri figli? Cosa lasceremo ai figli dei nostri figli? ‘Se ci fosse la luce, sarebbe bellissimo’, scriveva Aldo Moro. Ma se non ci fosse la luce, qualcuno avrebbe pietà delle nostre colpe?»: si e ci domanda, nelle note di regia, Francesca Garolla.

Una scena di «Se ci fosse luce» di Francesca Garolla. Foto: Luca Del Pia

Attraverso una struttura che segue, in maniera trasfigurata, le fasi di un processo, dall’antefatto alla sentenza, l’autrice prova a dare risposta, proponendo – si legge nella presentazione dello spettacolo - «un nuovo modo di leggere la storia, di venire a patti con essa. Nella convinzione che sia necessario allontanarsene senza per forza dimenticare, condannare o perdonare, per poter dare finalmente buona sepoltura a tutti i morti, reali e metaforici, di quegli anni».

«Con il vostro irridente silenzio», Gifuni e gli scritti di Moro
Negli ultimi anni, tra le tante voci che con più o meno attenzione alle ricostruzioni storiche e rispetto per il dramma umano di sei famiglie, stanno raccontando il «caso Moro» a teatro, immergendosi in quella che alcuni storici - racconta Alessandro Barbero – hanno definito «una dimensione orribile, fatta quasi esclusivamente di morti ammazzati e di menzogne», brilla come una stella polare la voce di Fabrizio Gifuni con il suo monologo «Con il vostro irridente silenzio», il cui titolo è tratto da una lettera, mai recapitata, di Aldo Moro a Benigno Zaccagnini, il segretario del suo partito. 

Una scena dello spettacolo «Con il vostro irridente silenzio».
Foto: Studio Musacchio, Iannielli e Pasqualino

L’attore romano, che ha vestito i panni del leader democristiano anche al cinema in «Romanzo di una strage» (2012) di Marco Tullio Giordana e nel film in sei episodi «Esterno notte» (2022) di Marco Bellocchio, porta in scena uno «studio sulle lettere dalla prigionia e il Memoriale di Aldo Moro», che si avvale della preziosa consulenza degli storici Francesco Biscione e Miguel Gotor e che è diventato in un secondo tempo, nell’ottobre del 2022, anche un piccolo, ma prezioso libretto di un centinaio di pagine, edito da Feltrinelli.

Presentato per la prima volta agli spettatori, in forma di lettura pubblica, il 9 maggio 2018 alle Officine Grandi Riparazioni di Torino, in occasione del Salone del libro di quell’anno, diretto da Nicola Lagioia, lo spettacolo ripercorre i cinquantacinque giorni tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978 avvalendosi delle sole parole che il deputato pugliese scrisse all’interno della cosiddetta «prigione del popolo», evitando così ogni lettura agiografica e ogni tentazione di ricostruzione storica tesa a far girare a vuoto «la macchina dei sospetti».

Queste parole – presentate da Fabrizio Gifuni come «una sorta di meteorite piovuto sul nostro presente da un altro tempo e da un altro spazio» (p. 14) - formano un materiale corposo: si tratta di 419 fogli, di cui 245 pagine di Memoriale e circa una novantina di lettere, fotocopie dai manoscritti originali, mai reperiti, così come i nastri con le registrazioni dell’interrogatorio nel cosiddetto «tribunale del popolo».

Una scena dello spettacolo «Con il vostro irridente silenzio».
Foto: Studio Musacchio, Iannielli e Pasqualino

Di questa mole di scritti, vengono diffuse, nella primavera del 1978, solo ventotto missive, delle quali otto vengono pubblicate dai media e quindi rese note all’opinione pubblica, quattro per iniziativa dei brigatisti e altrettante per scelta dei destinatari, che erano il presidente della Repubblica Giovanni Leone, Bettino Craxi e la moglie Eleonora Chiavarelli Moro.

Insieme alle lettere vengono diffusi scarsi brani di «memorie difensive», in tutto otto pagine dedicate al senatore democristiano ed ex partigiano bianco Paolo Emilio Taviani, in quel frangente un personaggio apparentemente di secondo piano sulla scena politica italiana, ma ferreo sostenitore della ragione di Stato e quindi della «linea della fermezza», che si scoprirà in seguito, negli anni Novanta, essere stato il vero fondatore e il responsabile in Italia della struttura segreta «Stay Behind» («stare dietro») di matrice atlantista, da noi più conosciuta con il nome di «Operazione Gladio». Queste pagine, definite da Giulio Andreotti nei suoi Diari «un forte attacco autografo di Aldo a Taviani», vengono diffuse dalle Br allegate al comunicato n. 5, quello recapitato il 10 aprile 1978 e trovato, in seguito a una telefonata alla redazione de «La Repubblica», all’interno di un cestino dei rifiuti in via Palestro a Milano.

Una scena dello spettacolo «Con il vostro irridente silenzio».
Foto: Studio Musacchio, Iannielli e Pasqualino

Il resto del materiale viene rinvenuto, in due momenti distinti, nel covo brigatista di via Monte Nevoso, nello storico quartiere meneghino di Lambrate. La prima parte degli scritti – un «magro bottino» di sessantotto pagine, tra lettere già note, poche missive mai recapitate e quarantanove fogli battuti a macchina (attribuibili, dunque, a chiunque) - viene trovata nell’ottobre del 1978 dal Nucleo speciale anti-terrorismo, presieduto dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il grosso della documentazione, questa volta fotocopie degli originali autografi (un non discutibile «sigillo di autenticità»), viene rinvenuto dodici anni dopo, il 9 ottobre 1990, durante dei lavori di ristrutturazione all’appartamento, da un muratore dietro a un’intercapedine, «un piccolo muro di Berlino in cartongesso» (p. 29), scrive nel libro Fabrizio Gifuni.

In quei giorni di solitudine e di terrore, rinchiuso nella cosiddetta «prigione del popolo», Aldo Moro è, dunque, «un fiume di parole inarrestabile», come giustamente racconta l’attore romano, classe 1966, nella presentazione del suo spettacolo. L’onorevole pugliese «parla, ricorda, scrive, risponde, interroga, confessa, accusa». Nelle sue lettere si rivolge «ai familiari, agli amici, ai colleghi di partito, ai rappresentanti delle istituzioni». Mentre scrive febbrilmente, con una lingua chiara e colta, «un lungo testo politico, storico, personale – il cosiddetto Memoriale – partendo dalle domande poste dai suoi carcerieri», annota anche brevi disposizioni testamentarie, consapevole che la sua situazione si fa sempre più precaria.

Una scena dello spettacolo «Con il vostro irridente silenzio».
Foto: Studio Musacchio, Iannielli e Pasqualino

Queste pagine subiscono, nel corso degli anni, una doppia dannazione. Nella primavera del 1978, quel poco che viene diffuso dalle Brigate rosse, viene mistificato, deriso, attaccato frontalmente e, infine, silenziato. I politici italiani e la stampa si affannano a dichiarare che queste missive dalla prigionia sono opera di un «pazzo» o di un drogato o comunque sono prive di valore perché risultanti da una costrizione, sono cioè opera di una persona vittima della sindrome di Stoccolma. Aldo Moro legge queste dichiarazioni sui giornali e, il 27 aprile 1978, risponde con una lettera indirizzata alla Democrazia cristiana, dando voce al proprio «sdegno per quest’ulteriore crudele tortura»: «È vero – scrive l’onorevole pugliese -: io sono prigioniero e non sono in uno stato d’animo lieto. Ma non ho subito nessuna coercizione, non sono drogato, scrivo con il mio stile per brutto che sia, ho la mia solita calligrafia. Ma sono, si dice, un altro e non merito di essere preso sul serio».

Oggi, seppure gli scritti morotei, un corpus di grande pregio stilistico e di nobile levatura politica, siano reperibili in rete e siano raccolti in preziose edizioni critiche (gli ultimi volumi sono stati pubblicati nel 2008 da Einaudi, per la curatela di Miguel Gotor, per quanto riguarda le lettere e nel 2019 da De Luca editore, con il coordinamento di Michele De Sivo, in riferimento all’intero Memoriale), in pochi hanno avuto voglia di leggere le parole di Aldo Moro, in molti hanno preferito dimenticarle, facendole cadere così in un secondo «irridente silenzio».

Una scena dello spettacolo «Con il vostro irridente silenzio».
Foto: Studio Musacchio, Iannielli e Pasqualino

Fabrizio Gifuni le ha lette con attenzione e, dopo aver operato opportuni tagli e piccoli aggiustamenti per rendere queste carte più facilmente comprensibili anche a chi non ha vissuto la stagione degli «anni di piombo», ha deciso di portarle sul palco per vedere se hanno ancora una eco nelle nostro coscienze, o meglio – si legge nel libro edito da Feltrinelli – «per verificare […] se questo corpo è ancora in grado di produrre una temperatura e un campo magnetico significativo o se al contrario dovremmo concludere di trovarci in presenza di un corpo freddo e perduto nel tempo» (p.14).

Per dare il maggior risalto possibile alle parole morotee, che Fabrizio Gifuni definisce «lo scritto più nudo e scabro della storia d’Italia», è stata ideata una scenografia essenziale. Un perimetro bianco, abitato da tanti fogli sparsi, viene, di sera in sera, disegnato sul palcoscenico, dove trovano posto anche un leggio, un microfono, un tavolino, una sedia e un mucchietto di polvere di gesso, da mettere sul capo per ricreare, con una piccola azione rituale, la celebre frezza bianca di Aldo Moro e dare il via a un «esperimento» - riuscito - di teatro civile, o meglio di teatro che fa politica, per dare voce a una «presenza fantasmatica» (p. 11) che ancora oggi occupa il palcoscenico della nostra storia e riannodare così i fili che legano il passato al presente.

Con gesti misurati e il solo modulare della voce, Fabrizio Gifuni mette sotto l’occhio di bue tutto l’«arcobaleno» (p. 24) di pulsioni umane provate dal politico democristiano durante la prigionia, dalla rabbia allo struggimento, dalla tenerezza alla disperazione, dalla compassione alla violenza, dalla mitezza al disprezzo.

Una scena dello spettacolo «Con il vostro irridente silenzio».
Foto: Studio Musacchio, Iannielli e Pasqualino


Con una voce spesso dolente, altre volte rabbiosa o amaramente ironica, l’attore romano mette gli spettatori faccia a faccia con le ferite non ancora risanate della storia italiana perché, all’interno della cosiddetta «prigione del popolo», lo statista pugliese riavvolge il nastro, risponde alle domande dei suoi carcerieri e, come in un vero e proprio Mémoires, riflette su quello che ha visto mentre navigava nel mare periglioso della politica.

Aldo Moro parla di tutto: dalla strategia della tensione alla pista nera per la strage piazza Fontana (con la compiacenza della Dc), dai finanziamenti illeciti ai partiti al ruolo degli ambasciatori americani a Roma, dalla crisi della politica alla strategia anti-guerriglia della Nato, dalla supremazia di alcuni gruppi editoriali nella gestione del flusso delle notizie al suo pensiero - tagliente come una lama di coltello - sui colleghi di partito, a partire dal «dolente senza dolore, preoccupato senza preoccupazione, appassionato senza passione» Benigno Zaccagnini e dall’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti, descritto come «un registra freddo, impenetrabile, senza dubbi, senza palpiti, senza mai un momento di pietà umana […] indifferente, livido, assente, chiuso nel suo cupo sogno di gloria […] il male».

Una scena dello spettacolo «Con il vostro irridente silenzio».
Foto: Studio Musacchio, Iannielli e Pasqualino


Nelle pagine morotee, bramose di vita e di verità, che Fabrizio Gifuni porta in scena, con grande passione civile, è drammaticamente palpabile la solitudine di un uomo di potere vittima di «un grande tradimento shakespeariano» che non riesce a comprendere e accettare: «La mia allucinante vicenda – scrive Aldo Moro - mi ha dato l’impressione di essere rimasto senza amici»; «Pur con tutte le mie colpe, credo di aver vissuto con generosità nascoste e delicate intenzioni».

In questi fogli si distingue anche la premura per le piccole cose: «Ad Agnese vorrei chiedere di farti compagnia la sera, stando al mio posto nel letto e controllando che il gas sia spento […] Tramite Rana, bisognerebbe cercare di raccogliere cinque borse che erano in macchina», «Filmetti e foto del piccolo sono nella mia scrivania in studio», «Spero che, mancando io, Anna ti porti i fiori di giunchiglie per il giorno delle nozze», scrive Aldo Moro alla moglie.

Non manca tra le righe morotee l’invettiva politica, anche carica di acuminata ironia: «Il mio sangue ricadrà su di voi», «Non creda la Dc di aver risolto il problema […] io ci sarò ancora come punto irriducibile di contestazione e di alternativa», «Ho un immenso piacere di avervi perduti e mi auguro che tutti vi perdano con la stessa gioia con la quale io vi ho perduti», scrive Aldo Moro ai colleghi di partito.

Una scena dello spettacolo «Con il vostro irridente silenzio».
Foto: Studio Musacchio, Iannielli e Pasqualino


In queste lettere c’è anche l’amore per la famiglia: «Ti ho voluto tanto bene, Agnesina, che ho concorso a tirar su con il suo chilo e ottocento grammi, dosando goccia a goccia con il cucchiaino il latte che non potevi succhiare»; «Caro Luca, non so chi e quando ti leggerà […] la lettera che ti manda quello che tu chiamavi il nonnetto. L’immagine sarà certo impallidita, allora. Il nonno del casco, il nonno degli scacchi, il nonno dei pompieri della Spagna, del vestito di torero, dei tamburelli. […] Il nonno che ti metteva la vestaglietta la mattina, ti dava la pizza, ti faceva mangiare sulle ginocchia. […] Continua ad essere dolce, buono, ordinato, memore, come sei stato. […] E quando sarà la stagione, una bella trottata con i piedini nudi sulla spiaggia e uno strattone per il tuo gommoncino».

Queste carte, scritte tra il 27-29 marzo e il 5 maggio 1978, delineano, dunque, un ritratto inedito e vibrante del politico pugliese. Aldo Moro non è più «il santino della Repubblica», ma è un rappresentante delle istituzioni con le sue luci e le sue ombre, che si è trovato di fronte a vicende così abitate dal «male» da dover distogliere lo sguardo. Non è più un «corpo di Stato», privato dalla Brigate rosse non solo della vita, ma anche di tutto ciò che era avvenuto prima di quella scellerata esecuzione, capace di prendersi con prepotenza la scena finendo così per offuscare un’eredità politica di alto profilo e una storia lunga trentatré anni ai vertici della «Cosa pubblica», principiata con i lavori per la Costituente e terminata con le «convergenze parallele» del «compromesso storico».

Una scena dello spettacolo «Con il vostro irridente silenzio».
Foto: Studio Musacchio, Iannielli e Pasqualino


Infine, Aldo Moro non è più «il re deposto», ma un «primus inter pares» di un regno impareggiabile e privato, permeato dalla fede cristiana e dall’amore: la sua famiglia, dove era un tenero nonno, un padre premuroso, un marito attento e innamorato. Sono proprio per la moglie Noretta le ultima parole, intrise (anche materialmente) di lacrime e di una «tenerezza infinita»: «Tutto sia calmo. […] Certo ho sbagliato, a fin di bene, nel definire l’indirizzo della mia vita. Ma ormai non si può cambiare. Resta solo di riconoscere che tu avevi ragione. Si può solo dire che forse saremmo stati puniti in altro modo, noi e i nostri piccoli. […] E questo è tutto per il passato. Per il futuro c’è in questo momento una tenerezza infinita per voi, il ricordo di tutti e di ciascuno, un amore grande grande carico di ricordi apparentemente insignificanti e in realtà preziosi. […] Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. […] Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore. […] Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo».

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[Nella foto di copertina: Una scena di «Aldo Mor(t)o - Tragedia» dell’attore e drammaturgo Daniele Timpano. Foto di Donato Aquaro

Vedi anche

Per saperne di più

Bibliografia e sitografia essenziale
Dario Fo, «‘Il caso Moro’, Fabulazzo osceno», Kaos, Milano 1992;
Marco Baliani, «Corpo di Stato», Rizzoli, Milano 2003;
Fabrizio Gifuni, «Con il vostro irridente silenzio. Le lettere e il Memoriale: voci dalla prigionia di Aldo Moro», Milano, Feltrinelli, Milano 2022;
Stefano Massini, «55 giorni. L’Italia senza Moro», Il Mulino, Bologna 2018;
Daniele Timpano, «Aldo morto» (con contributi di Marco Baliani e di Matteo Brighenti), Cue Press, Bologna 2018;
Daniele Timpano, «Aldo Morto», in Daniele Timpano, «Storia cadaverica d’Italia», a cura di Graziano Graziani, Titivillus, Pisa 2012, pp. 103-155;
Marco Ongaro, «Moro. Opera tragique en un acte», Bonaccorso, Verona 2011;
Agnese Moro, «Un uomo così. Ricordando mio padre», Rizzoli, Milano 2008;
Luca Moro, «Mio nonno Aldo Moro», Ponte Sisto, Roma 2016;
Maria Fida Moro, «In viaggio con mio papà», Rizzoli, Milano 1985;
Maria Fida Moro, «La casa dei cento natali», prefazione di Leonardo Sciascia, Rizzoli, Milano 1982;
Filippo Boni, «Gli eroi di via Fani», con prefazione di Mario Calabresi, Longanesi, Milano 2018;
Ferdinando Imposimato, «I cinquantacinque giorni che hanno cambiato l’Italia. Perché Aldo Moro doveva morire?», Newton Compton, Milano 2013;
Anna Laura Braghetti, «Il prigioniero», Feltrinelli, Milano 2003;
Lia Perrone, «Il caso Moro tra storia e finzione», Ancona Transeuropa, 2020;
Miguel Gotor (a cura di), «Aldo Moro. Lettere dalla prigionia», Einaudi, Torino 2008;
Miguel Gotor, «Il Memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano», Einaudi, Torino 2011;
«Il Memoriale di Aldo Moro», edizione critica curata da Michele De Sivo, De Luca Editore, Roma 2019; 
Michele De Sivo (a cura di), «Le lettere di Aldo Moro dalla prigionia alla storia», Direzione generale per gli Archivi – Archivi di Stato, Roma 2013 (anche su http://2.42.228.123/dgagaeta/dga/uploads/documents/FuoriCollana/539a8ce3a0109.pdf);
Roberto Buffagni, «Il caso Moro», Teatro Stabile di Parma – La contemporanea 83, Parma 1998 (testo teatrale e note di regia su https://www.teatrodue.org/wp-content/uploads/2020/05/IL_CASO_MORO_pezzoli.pdf);
«Tempi nuovi si annunciano - Testi tratti da discorsi e scritti di Aldo Moro» in «Aldo Moro. Stato e società», a cura di Annalisa Cicerchia (la selezione dei testi è a cura di Andrea Ambrogetti, Mirella Belotti, Claudia Colonnello, Maria Paola Costantini, Andrea Declich e Rosanna Di Natale), Presidenza del Consiglio dei ministri, Roma [1990?], pp. 317-332 (http://www.accademiaaldomoro.org/attivita/decennale/Tempinuovi1988.PDF);
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Beatrice Alfonzetti, «Gli anni di piombo e la scena. Satira e tragedia in Dario Fo» in «L’Illuminista» (rivista) n. 2-3, Università degli studi di Roma La Sapienza, Roma 2000, pp. 139-151 (anche su https://www.yumpu.com/it/document/view/11122556/gli-anni-di-piombo-satira-e-tragedia-in-dario-fo-italianistica-e-); 
Federica Tummillo, «Il buffone incatenato. ‘La tragedia di Aldo Moro’ di Dario Fo», testo per il convegno «Littérature et Temps des révoltes», Grenoble (Francia), 27-29 novembre 2008 (su http://colloque-temps-revoltes.ens-lyon.fr/spip.php?article146);
Mena Acconciagioco, «Aldo Moro nell’interpretazione della cultura popolare italiana» in Storia e Futuro – Rivista on-line di storia e storiografia contemporanea, numero 53 - febbraio 2021, https://storiaefuturo.eu/aldo-moro-nellinterpretazione-della-cultura-popolare-italiana/;
Carlo Lanfossi, «I lutti infiniti di Aldo Moro» in «Giornaledellamusica.it», 29 aprile 2008, https://www.giornaledellamusica.it/recensioni/i-lutti-infiniti-di-aldo-moro;
Alberto Mattioli, «Un’opera lirica sulla prigionia di Aldo Moro» in «LaStampa.it», 8 febbraio 2011, https://www.lastampa.it/spettacoli/musica/2011/02/08/news/un-opera-lirica-sulla-prigionia-br-di-aldo-moro-1.36978402/;
Caterina Barone, «Aldo Moro come Antigone, una tragedia dei nostri tempi» in «IlCorrieredelVeneto.it», 4 novembre 2011, https://corrieredelveneto.corriere.it/veneto/notizie/cultura_e_tempolibero/2011/4-novembre-2011/aldo-moro-come-antigone-tragedia-nostri-tempi-1902052163411.shtml;
Ludovico Cantisani, «Aldo Moro e Aldo Morto. Un'intervista a Daniele Timpano e Elvira Frosini su uno spettacolo bellissimo» in «minima&moralia – un blog di approfondimento culturale», 16 marzo 2020, https://www.minimaetmoralia.it/wp/altro/aldo-moro-aldo-morto-unintervista-daniele-timpano-elvira-frosini-uno-spettacolo-bellissimo/;
Umberto De Agostini, «Come si poteva salvare Aldo Moro? A teatro la tragedia di una nazione» in «LaProvinciaPavese.it», 10 maggio 2022, https://laprovinciapavese.gelocal.it/tempo-libero/2022/05/10/news/come-si-poteva-salvare-aldo-moro-a-teatro-la-tragedia-di-una-nazione-1.41432590;
Pino Moroni, «Il caso Moro. Lungo le strade testimoni degli eventi, va in scena l’Italia che poteva essere» in «Artapartofculture.net», 5 Luglio 2021, https://www.artapartofculture.net/2021/07/05/il-caso-moro-va-in-scena-litalia-che-poteva-essere/;
Annamaria Sigalotti, «Aldo Moro: una tragedia italiana»: sul palco va in scena la storia in «Fogli d’arte», 30 gennaio 2009, https://foglidarte.blogspot.com/2009/01/aldo-moro-una-tragedia-italiana-sul.html;
Cesare Bechis, «Massimo Cimaglia diventa Aldo Moro: 'Lui un genio politico, ma ho voluto raccontare l’uomo'» in «CorrieredelMezzogiorno.it», 9 maggio 2022, https://bari.corriere.it/notizie/cultura-e-tempo-libero/22_marzo_09/massimo-cimaglia-diventa-aldo-moro-lui-genio-politico-ma-ho-voluto-raccontare-l-uomo-ee7af2d0-9f9a-11ec-9d51-4f890d9eef19.shtml;
Andrea Guardenghi, «Se ci fosse luce» in «TeatroeCritica.net», 15 maggio 2023, https://www.teatroecritica.net/2023/05/se-ci-fosse-luce-di-francesca-garolla/;
Mario De Santis, «’Se ci fosse luce’, a teatro un'istruttoria sugli anni di piombo» in «HuffPost.it», 4 maggio 2023, https://www.huffingtonpost.it/blog/2023/05/04/news/se_ci_fosse_luce_a_teatro_unistruttoria_sugli_anni_di_piombo-12016030/?fbclid=IwAR3tthe0weP58tind7dbjOo_tb05FOo817COCGdCAQyUgTLWRarYmIKJ3zo;
Elena Scolari, «Il terrore in una telefonata: Francesca Garolla riflette sull’assassinio di Moro in ‘Se ci fosse luce’» in «Paneacquaculture.net», 27 aprile 2023, https://www.paneacquaculture.net/2023/04/27/il-terrore-in-una-telefonata-francesca-garolla-riflette-sullassassinio-di-moro-in-se-ci-fosse-luce/;
Giulia D'Amico, «’Se ci fosse luce’. Francesca Garolla e l'omicidio Moro, tra responsabilità individuale e collettiva» in «Klpteatro.it», 18 aprile 2023, https://www.klpteatro.it/se-ci-fosse-luce-francesca-garolla-recensione;

Marco Pistoia, «Moro o la stanza della tortura» in «Drammaturgia.it», 3 marzo 2020, https://drammaturgia.fupress.net/recensioni/recensione1.php?id=7747
Lucia Medri, «Fabrizio Gifuni e il ‘corpo meteora’ di Aldo Moro» in «TeatroeCritica.net», 9 maggio 2022, https://www.teatroecritica.net/2022/05/fabrizio-gifuni-e-il-corpo-meteora-di-aldo-moro/;  
Felice Sblendorio, «Il corpo insepolto di Aldo Moro a teatro. Fabrizio Gifuni: ‘la sua scrittura è un combattimento tragico con la morte’» in BonCulture, 23 febbraio 2022,  https://www.bonculture.it/culture/teatro/il-corpo-insepolto-di-aldo-moro-a-teatro-fabrizio-gifuni-la-sua-scrittura-e-un-combattimento-tragico-con-la-morte/;
Ludovico Cantisani, «Drammaturgia di Aldo Moro» in «Persiinsala», https://teatro.persinsala.it/drammaturgia-aldo-moro/59342/;
Maria Lucia Tangorrà, «Fabrizio Gifuni: ‘Ecco il mio esperimento teatrale su Aldo Moro’» in «Vanity Fair», 6 ottobre 2020,  https://www.vanityfair.it/show/agenda/2020/10/06/fabrizio-gifuni-teatro-piccolo-teatro-milano
Andrea Pomella, «Aldo Moro, il corpo del reato» in «DoppioZero», 30 novembre 2022, https://www.doppiozero.com/aldo-moro-il-corpo-del-reato
Michele Weiss, «Con il vostro irridente silenzio: Gifuni porta sul palco le lettere di Aldo Moro» in «LaStampa.it», 7 ottobre 2020, https://www.lastampa.it/milano/appuntamenti/2020/10/07/news/con-il-vostro-irridente-silenzio-gifuni-porta-sul-palco-le-lettere-di-aldo-moro-1.39392271/.

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mercoledì 24 maggio 2023

Dalle polaroid delle Br alla «sconcia stiva» di via Caetani: l’iconografia del «Caso Moro»

«Acciambellato in quella sconcia stiva,/ crivellato da quei colpi, / è lui, il capo di cinque governi, / punto fisso o stratega di almeno dieci altri, / la mente fina, il maestro / sottile / di metodica pazienza, esempio / vero di essa/ anche spiritualmente: lui – / come negarlo? – quell’abbiosciato / sacco di già oscura carne/ fuori da ogni possibile rispondenza / col suo passato / e con i suoi disegni, fuori atrocemente –/ o ben dentro l’occhio/ di una qualche silenziosa lungimiranza – quale? / non lascia tempo di avvistarla / la superinseguita gibigianna». Il poeta , nella raccolta «Per il battesimo dei nostri frammenti», pubblicata nel 1985 da Garzanti Libri, scrive una sorta di didascalia alla fotografia più iconica del «caso Moro», quella con il corpo senza vita dell'onorevole democristiano,  con undici proiettili nel cuore, rannicchiato sotto una coperta, all’interno del bagagliaio di una Renault 4, targata Roma N56786, parcheggiata in via Caetani, a Roma, quasi a metà strada tra piazza del Gesù, sede nazionale della Dc, e via delle Botteghe Oscure, quartier generale del Partito comunista.

Ritrovamento del corpo dell'onorevole Aldo Moro. 9 maggio 1978. Roma, via Caetani.
Foto: Rolando Fava /Ansa.

È il 9 maggio 1978 e quella concitata scena caravaggesca, con una folla di poliziotti, carabinieri e vigili del fuoco intorno al veicolo, rappresenta l'ultima di una serie di immagini che scandiscono il tempo dei cinquantacinque giorni che intercorrono tra il sequestro e l’omicidio del leader democristiano; poche per il nostro oggi caratterizzato dall’immediatezza comunicativa di siti internet e social network, molte per gli anni Settanta, con due soli canali televisivi, che da qualche mese avevano conosciuto l’uso del colore.

Ritrovamento del corpo dell'onorevole Aldo Moro. 9 maggio 1978. Roma, via Caetani.
Foto di Gianni Giansanti 

L’«affaire Moro» (per usare un’espressione di Leonardo Sciascia) rappresenta, infatti, una svolta nel modo di fare cronaca e di trattare la politica per la carta stampata e per la televisione: con i cinquantacinque giorni di prigionia dello statista pugliese nel «carcere del popolo» compare per la prima volta l’edizione straordinaria. Il Tg1 la lancia alle ore 9:58 del 16 marzo 1978 e dura 86 minuti e 10 secondi. Bruno Vespa è in studio; ha la faccia sgomenta di chi vede diventare realtà l’inimmaginabile. Paolo Frajese è in via Fani e il suo racconto affannato, ripreso dall’operatore Andrea Ruggeri, rimane nell’immaginario collettivo. Il giornalista si muove tra le macchine tamponate e crivellate di colpi. Ci fa respirare la palpabile costernazione di chi è accorso sul posto. Osserva i particolari della scena: un elicottero in cielo, un tappeto di bossoli sulla strada, una borsa in pelle nera vicino al marciapiede, un cappello da pilota o da metronotte a terra, il caricatore di un mitra, una pistola automatica e un rivolo di sangue. L’inviato del Tg1 porta la nostra attenzione anche sui lenzuoli che coprono i corpi senza vita di quattro dei cinque uomini della scorta del politico democristiano (Francesco Zizzi è l’unico a non morire all’istante, arriva ferito all’ospedale e spira in tarda mattinata). Tre agenti - Oreste Leonardi, Domenico Ricci e Giulio Rivera – sono ancora sulle vetture; uno, il poliziotto Raffaele Iozzino, che aveva cercato di rispondere al «fuoco nemico», è a terra, dietro all’Alfetta bianca che seguiva la Fiat 130 berlina blu su cui viaggiava lo statista pugliese. Sembra un Cristo di Diego Velázquez, crocifisso sull’asfalto.


Quelle trasmesse dalla Rai e, nelle ore successive, pubblicate dai giornali (su Formiche.it si trova la galleria realizzata da Umberto Pizzi, uno dei primi fotografi ad arrivare in via Fani, quando i corpi delle vittime non sono ancora stati coperti dai teli) «sono «immagini in absentia», scrive Ilaria Maria Priscilla Barzaghi nel saggio «Un lungo viaggio fino alla sconcia stiva: iconografia di Aldo Moro tra comunicazione politica e pietas», pubblicato nel 2014 all’interno del volume «Una vita, un Paese» di Rubbettino editore.

L'agguato di via Fani: il cadavere dell'agente Raffaele Iozzino, l'unico che riuscì a rispondere al fuoco delle Brigate Rosse.
Roma, 16 marzo 1978. Foto: AP Photo. Immagine di dominio pubblico

Quelli del 16 marzo 1978 sono, dunque, scatti intrisi della «presenza non visibile» del politico democristiano, presidente della Repubblica in pectore. Sono fotografie che parlano di uomo fatto prigioniero e che fanno riflettere sul suo destino ancora ignoto alla famiglia, ai politici della Dc e degli altri partiti, alle forze dell’ordine, alla stampa, a chi è seduto davanti al piccolo schermo, ai lavoratori che abbandonano le fabbriche e scendono in piazza, ai negozianti che chiudono le attività, alle mamme che, in tutta Italia, vanno a prendere i bambini a scuola prima del suono dell’ultima campanella.

L'agguato di via Fani: il cadavere dell'agente Raffaele Iozzino, l'unico che riuscì a rispondere al fuoco delle Brigate Rosse.
Roma, 16 marzo 1978. Foto: AP Photo. Immagine di dominio pubblico

Il Tg 1 è il primo a entrare nelle case degli italiani con la crudezza di fotogrammi che diventano Storia sotto gli occhi dello spettatore, ma non è il primo a dare la notizia del rapimento del politico di Maglie. I primi – ricorda Ivo Mej nel libro «Moro rapito! Personaggi, testimonianze, fatti» (Barbera editore, Siena 2008), da poco ristampato in un’edizione arricchita e aggiornata da Historica e Giubilei Regnani con il titolo «Rapimento Moro. Il giorno in cui finì l’informazione» (marzo 2023) – sono i giornalisti del Gr2, allora diretto da Gustavo Selva, alle 9:15 (la notizia viene data loro da un collega del «Gazzettino di Roma», che vive in via Mario Fani). Mentre il primo lancio d’agenzia, un’Agi, è delle 9:28. Segue, alle 10:10, l’Ansa, che decide di interrompere lo sciopero proclamato per ventiquattro ore e di riprendere le trasmissioni con un breve comunicato-annuncio delle Br: «Questa mattina abbiamo sequestrato il Presidente della Democrazia Cristiana, Moro, ed eliminato la sua guardia del corpo, teste di cuoio di Cossiga. Seguirà comunicato, firmato Brigate Rosse».

Gli uomini della scorta di Aldo Moro, uccisi in via Fani, a Roma, il 16 marzo 1978.
Immagine di dominio pubblico

Nella stessa giornata escono, in edizione straordinaria, anche alcuni quotidiani nazionali: «La Stampa», «Il messaggero», «La Repubblica» e «L’Unità». Poi, per cinquantacinque giorni (e anche nei mesi e negli anni a venire), vengono versati fiumi di inchiostro tanto da far parlare di un’«infodemia del caso Moro», nella quale si respirava e tuttora si respira – racconta sempre Ivo Mej - «un mix di ansia per il futuro, di angoscia, di pervasività del timore».

Inizia così, proprio il 16 marzo 1978, quella «spettacolarizzazione della notizia», che avrebbe raggiunto il suo apice il 12 giugno 1981 con la sfortunata diretta televisiva da Fiumicino, dove il piccolo Alfredo Rampi era caduto in un pozzo, e che non ci avrebbe mai più abbondonato.

Se le parole del «caso Moro» sono tante (forse troppe), le immagini significative, quelle che meglio simboleggiano una delle pagine più drammatiche della storia della Repubblica italiana, si possono, invece, contare sulle dita di due mani.
 
Aldo Moro, prigioniero della Brigate rosse. Foto diffusa il 19 marzo 1978 

Tra queste ci sono le due polaroid in bianco e nero scattate dalle Br al politico democristiano ed entrate nel circuito informativo internazionale il giorno successivo alla diffusione da parte del gruppo eversivo di sinistra alle redazioni dei giornali: il 19 marzo, tre giorni dopo il sequestro, e il 21 aprile, dopo il falso comunicato n. 7 del 18 aprile, quello che annunciava «l'avvenuta esecuzione del presidente della Dc Aldo Moro, mediante suicidio», e nel quale si comunicava che il corpo giaceva «nei fondali limacciosi» del lago della Duchessa, vicino a Cartore (in provincia di Rieti), in una zona sul confine tra Abruzzo e Lazio.

Nella prima fotografia il politico democristiano viene ritratto a mezzobusto, davanti a un drappo con la stella cerchiata a cinque punte e la scritta «Brigate rosse». La testa è reclinata. Il colletto della camicia, sgualcita, è sbottonato e lascia intravvedere una maglietta. Il volto appare stanco e rassegnato, ma non angosciato. L’espressione è, in realtà, indecifrabile. Sembra addirittura di poter cogliere una sfumatura di scherno sul viso di Aldo Moro. Non sfugge, infatti, all’occhio attento «il mezzo sorriso che, asimmetrico, pare piegargli gli angoli della bocca - scrive Michele Smargiassi sul blog «Fotocrazia» di Repubblica.it - in un’espressione di dignitosa resistenza umana e perfino di superiore compatimento, quell’espressione così intensa e diversa dal tumefatto terrorizzato stupore dei suoi predecessori iconografici (Sossi, Amerio, il tedesco Schleyer)».

Vignetta di Vincino per «Il Male»

Coglie acutamente il valore della fotografia - scrive Ilaria Maria Priscilla Barzaghi - il disegnatore satirico Vincino, con una sua vignetta per «Il Male», all’epoca recepita più che altro come aspramente irriverente e censurata. È un semplice foto montaggio in cui alla Polaroid viene apposto un fumetto che fa dire a Moro: «Scusate, abitualmente vesto Marzotto». Terribile parodia che afferra pienamente il meccanismo semantico e comunicativo messo in atto dalle Br: la destituzione del politico Aldo Moro».

Aldo Moro, prigioniero della Brigate rosse. Foto diffusa il 21 aprile 1978 

Nella seconda immagine lo statista pugliese è ancora in camicia e ha tra le mani una copia del quotidiano «La Repubblica» del 19 aprile 1978, su cui campeggia la scritta, a caratteri cubitali, «Moro assassinato?». L’espressione è malinconica, stanca, pacatamente dimessa.

Entrambe le fotografie servono ai brigatisti per dimostrare che l’ostaggio è vivo e si ispirano, volutamente, alla fotografia di identificazione giudiziaria, poliziesca: i brigatisti – scrive, a tal proposito, Marco Belpoliti nel libro «Da quella prigione. Moro, Warhol e le Brigate rosse» (Guanda, Parma 2018) - «vogliono riprodurre, con un metodo del tutto simile a quello agito su di loro da poliziotti e magistrati, la realtà stessa. Si tratta di una forma di ‘realismo traumatico’, in cui la messa in scena del sequestro, il rito della foto segnaletica, più ancora del comunicato o della propaganda scritta, diventa un elemento iperrealistico».

La fotografia di Aldo Moro scattata dalla Br su un giornale. 
Foto: Cordon Press

Le Br fotografano, dunque, Aldo Moro come «un re deposto», che sta giocando la sua ultima partita per restare vivo, e finiscono così per evidenziarne «l’assoluta umanità, che è poi – scrive ancora Marco Belpoliti – la sua mortalità». Lo statista pugliese appare come «un uomo comune», spogliato della sacralità del potere, di quelle insegne che per i brigatisti lo facevano essere – si legge nel primo comunicato – il «gerarca», il «teorico» e lo «stratega indiscusso» del «regime democristiano». Il politico pugliese mostra il suo essere vulnerabile e appare così molto diverso da come l’opinione pubblica era solita vederlo, fino a pochi giorni prima, sui giornali e nei Tg. «Ancora oggi per ricordare il «senso delle istituzioni» che possedeva Aldo Moro – ricorda, a tal proposito, Andrea Pomella su «DoppioZero» - si è soliti ricorrere all’immagine dell’uomo politico che si faceva fotografare in abito, camicia e cravatta tra i bagnanti in costume». Lo statista pugliese è di fatto «l’ultimo esponente di una classe politica, quella del primo secondo Dopoguerra, «senza corpo» e «senza affetti», che fa del decoro, della sobrietà, della riservatezza sul suo privato una cifra stilistica. Non a caso lo scrittore romano, in libreria con il romanzo «Il dio disarmato» (Einaudi, Torino 2022), ricorda che «si diceva che i democristiani sembrassero perennemente vedovi e senza prole, tanto relegavano la famiglia nel riserbo».

Muro con manifesto del Partito comunista appeso all'indomani del sequestro Moro. 
Foto di dominio pubblico

Dopo queste due polaroid, che secondo Marco Belpoliti si rifanno al linguaggio della pubblicità e che richiamano alla mente lo stile narrativo di Andy Warhol e delle sue icone pop, c’è poco altro dal punto di vista iconografico. Rimangono nella storia le immagini delle perquisizioni per le strade (solo il 16 marzo 1978 furono allestiti 72.460 posti di blocco, di cui 6.296 nella cinta urbana di Roma) e quelle delle aste dei sommozzatori che scandagliano il fondo del lago della Duchessa per cercare il corpo dello statista.

È una scena, questa, che ha dell’incredibile: i sommozzatori vengono spediti a esaminare uno specchio d’acqua montano, a 1800 metri d’altezza, ghiacciato da mesi e raggiungibile unicamente a piedi, dopo tre ore di cammino in mezzo alla neve alta. Il tutto è reso possibile dall’imperizia degli esperti scelti dal Viminale, guidato da Francesco Cossiga, che considerano autentico e attendibile un falso comunicato, fotocopiato e non ciclostilato, pieno di errori d’ortografia di origine romanesca («soppruso», «inpantanato», «trà») e privo dei consueti riferimenti politico -ideologici dei brigatisti, battuto utilizzando una macchina da scrivere diversa da quella dei precedenti testi e con l’intestazione «Brigate rosse» scritta a mano. Si scoprirà più tardi che il falso comunicato n. 7 è stato realizzato da un falsario d’arte specializzato in copie di quadri di Giorgio De Chirico e Gino Severini, ma anche di pale d’altare rinascimentali, con comprovati contatti sia con i Servizi segreti che con la malavita: Antonio Chichiarelli.

I quattro brigatisti che, travestiti da avieri, spararono sulla scorta di Aldo Moro.
Foto di pubblico dominio

Mentre i telegiornali fanno entrare nelle case degli italiani «le immagini di alcuni sommozzatori scafandrati, costretti a infilarsi in un buco da loro stessi provocato facendo saltare una mina, tanto era spessa la lastra di ghiaccio che ricopriva il lago» - scrive il 27 aprile 2018, su «Il fatto quotidiano», lo storico Miguel Gotor, autore di due testi fondamentali nella bibliografia del «caso Moro» come l’edizione critica delle «Lettere dalla prigionia» (Torino, Einaudi 2008) e «Il Memoriale della Repubblica» (Einaudi, Torino 2011) - viene scoperto, in modo rocambolesco (grazie a una perdita d’acqua, probabilmente indotta), il covo romano di via Gradoli n. 96, quello dove vivevano Mario Moretti e Barbara Balzerani. È il secondo fallimento dello Stato nel giro di poche ore e i due eventi accadono in un giorno evocativo per la storia della Dc, il 18 aprile 1978, trentennale della vittoria alle elezioni politiche del 1948 contro il Pci.

Covo di via Gradoli a Roma. Foto di dominio pubblico

La parola «Gradoli» aveva, infatti, già fatto la sua comparsa nelle stanze del potere, tra le pareti della sede della Dc e quelle del Viminale. Era stata pronunciata da Umberto Cavina, addetto stampa del segretario della Dc Benigno Zaccagnini, al quale un giovane Romano Prodi, professore di Economia politica e industriale all’Università di Bologna, destinato a diventare sette mesi dopo ministro dell’Industria, aveva parlato di una seduta spiritica, tenutasi il 2 aprile 1978 in un casolare di Zappolino, una frazione di Valsamoggia a trenta chilometri dal capoluogo emiliano. Stando al racconto - che ha dell’improbabile e del romanzesco, ma che viene preso per vero nel clima di disperazione che sta vivendo il Paese – in una tranquilla domenica uggiosa, un gruppo di amici (tutti professori universitari, economisti dal riconosciuto credito nazionale, come Alberto Clò, Fabio Gobbo e Mario Baldassarri, destinati a ricoprire in futuro importanti incarichi pubblici) decide, per ingannare il tempo e contro ogni precetto cattolico, di evocare gli spiriti di due padri della Democrazia cristiana, Giorgio La Pira e don Luigi Sturzo, con «il gioco del piattino». Dall’Aldilà – secondo quanto sostiene Romano Prodi – rispondono «G-r-a-d-o-l-i-»; muovendosi, il posacenere fornisce anche i nomi delle località geografiche di Bolsena e Viterbo, come riporta una dichiarazione collettiva, datata «Bologna, 3 febbraio 1981» e rilasciata alla Commissione Moro 1 dai dodici partecipanti alla seduta spiritica. La polizia viene informata della pista medianica (definita dal ministro degli Interni Francesco Cossiga «un’ingenua baggianata») e, senza batter ciglio e aprire lo stradario di Roma, parte alla volta di Gradoli, un pacifico paesino del Viterbese, nell’Alto Lazio, abitato da poco più di mille persone. È il 6 aprile 1978; secondo la narrazione dominante - per altro riportata anche nel film «Il caso Moro» di Antonio Ferrara, uscito nelle sale nel 1986 - le forze dell’ordine mettono «a ferro e fuoco» la cittadina con una vera e propria «irruzione militare». In realtà le immagini di uomini in tuta mimetica che entrano con il mitra spianato nelle case coloniche, rievocate in qualche Commissione parlamentare d’inchiesta, sono una finzione cinematografica e i testimoni oculari non ricordano questo blitz, tutto al più due volanti nel centro storico e un elicottero in cielo. Dodici giorni dopo, il 18 aprile 1978, viene scoperto il covo di via Gradoli, al civico 69, dove le forze dell’ordine erano già state un mese prima, il 18 marzo, in seguito alla segnalazione di rumori sospetti in diverse ore del giorno e della notte. La polizia aveva bussato alla porta e, non ricevendo risposta, se ne era andata senza ulteriori approfondimenti. All’interno dell’appartamento si trovano, in bella mostra, divise dell’Alitalia e della polizia di Stato (le stesse usate il 16 marzo 1978), quindici pistole, un mitra, un fucile, munizioni, esplosivi, catene, opuscoli e volantini: un vero arsenale militare. 

Falso comunicato n. 7 

Aldo Moro viene informato di quanto sta avvenendo all’esterno, delle ricerche al lago della Duchessa e della scoperta della base brigatista, ma non della seduta spiritica che diventa di dominio pubblico solo grazie a un articolo de «Il Corriere della Sera», datato 17 ottobre 1978. Con toni sarcastici, in una pagina del suo Memoriale, il politico democristiano definisce questi accadimenti «la macabra grande edizione della mia esecuzione [che] può rientrare in una logica, della quale non è necessario dare ulteriori indicazioni».

Ricerche del corpo di Aldo Moro nel lago della Duchessa. Foto di domino pubblico

Due settimane dopo, il 9 maggio 1978, Aldo Moro viene assassinato; a nulla servono i tentativi di Amnesty International, della Caritas e di papa Paolo VI per salvare un «uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico» di fronte alla prova di forza delle Brigate rosse e all’irremovibilità del cosiddetto «partito della fermezza» e della non trattativa, trasversale nel Parlamento italiano (fatta eccezione per il Psi di Bettino Craxi e qualche voce isolata).

Cover del quotidiano La Repubblica del 20 aprile 1978

L’orologio segna le 12:13 quando Valerio Morucci telefona a casa del professor Franco Tritto, giovane avvocato e assistente alla Sapienza di Roma, per annunciargli la morte del suo maestro: «Brigate Rosse. Ha capito? Non posso stare molto al telefono. Adempiamo alle ultime volontà del presidente, comunicando alla famiglia dove potrà trovare il corpo dell’onorevole Aldo Moro. Lei deve comunicare alla famiglia che troveranno il corpo dell’onorevole Aldo Moro in via Caetani, che è la seconda traversa a destra di via delle Botteghe Oscure. Va bene? Lì c’è una Renault 4 rossa. I primi numeri di targa sono N5».

Intorno alle 13:30, in una via Caetani irrealmente silenziosa e colma di forze dell’ordine e politici, viene aperto il bagagliaio della Renault 4 e viene ritrovato il corpo senza vita dello statista pugliese, l’uomo che, nel 1975, Pier Paolo Pasolini aveva definito, su «Il Corriere della Sera», il «meno implicato di tutti nelle cose orribili», che, da piazza Fontana a piazza della Loggia, hanno segnato i primi anni Settanta, il «più responsabile di tutti» perché ha conservato il potere.

La conferma della notizia è di un’ora dopo; alle 14:13 l’Ansa, la più grande agenzia di stampa italiana, trasmette: «è confermato che Aldo Moro è stato trovato morto in una Renault rossa in via Caetani».

Ritrovamento del corpo di Aldo Moro in via Caetani a Roma. Foto:Mario Giansanti

Rolando Fava, uno dei fotografi storici dell’Ansa, e il giovane fotoreporter Mario Giansanti sono in via Caetani. Si nascondono all’interno di un palazzo, in un appartamento del primo piano con due grandi finestre che si affacciano proprio sulla Renault rossa, e documentano quello che accade sotto i loro occhi. Quegli scatti – in bianco e nero per Rolando Fava, a colori per Mario Giansanti – raccontano così al mondo intero il ritrovamento del corpo senza vita di Aldo Moro. Il politico democristiano è avvolto in una coperta color cammello, con il bordo di raso; indossa lo stesso abito blu che aveva il giorno del sequestro, con la camicia bianca a righe e la cravatta ben annodata. La barba è incolta e disordinata, il volto reclinato appare abbandonato sulla spalla sinistra. L’incarnato è terreo, la mano destra sembra di cera.

Francesca Garolla, nel suo recente spettacolo teatrale «Se ci fosse luce» (Bologna, dal 28 marzo al 2 aprile 2023; Lugano, 22 e 23 aprile 2023), una riflessione su quanto le ferite del passato lascino traccia nel nostro presente, ha paragonato questo scatto con «La crocifissione di San Pietro» di Michelangelo (Città del Vaticano),  una scena affollata, ma silenziosa, di grande impatto emotivo, nella quale il primo papa della storia, capovolto sulla croce, come egli stesso chiese di essere messo per sottolineare la sua inferiorità nei confronti di Cristo, solleva la testa per testimoniare fino alla fine la sua fede in Dio e offrirsi consapevolmente al martirio.  

Questa sorta di «deposizione laica», «che dovrebbe essere un’immagine privata per eccellenza», una visione accessibile solo ai familiari, «ha una diffusione amplissima, diventa pubblica al massimo grado e assume su di sé la funzione di unire nella pietà», sottolinea con precisione Ilaria Maria Priscilla Barzaghi.

Funerali privati di Aldo Moro. Foto: Umberto Pizzi

Da qui in poi, la famiglia Moro si riappropria del proprio congiunto, che, dal sequestro di via Fani all’epilogo di via Caetani, era diventato – scrive Marco Baliani - un «corpo di Stato». La moglie Eleonora Chiavarelli rifiuta i funerali pubblici e i discorsi di saluto. In uno stringato comunicato, rilasciato alle 17:30 del 9 maggio 1978, scrive: «La famiglia desidera che sia pienamente rispettata dalle autorità di stato e di partito la precisa volontà di Aldo Moro. Ciò vuol dire: nessuna manifestazione pubblica o cerimonia o discorso; nessun lutto nazionale, né funerali di stato o medaglia alla memoria. La famiglia si chiude nel silenzio e chiede silenzio. Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la storia».

Con i suoi quattro figli, la donna porta il corpo del marito a Torrita Tiberina, un borgo alle porte di Roma, dove viene celebrata nella chiesa di San Tommaso, in gran segreto, una funzione privata, con la bara portata a spalla al cimitero dai familiari sotto la pioggia battente.



I funerali di Stato ci saranno ugualmente, senza le spoglie del politico democristiano e senza la sua famiglia. Verranno celebrati il 13 maggio 1978 in San Giovanni in Laterano dal cardinale vicario di Roma, Ugo Poletti, alla presenza di papa Paolo VI, dei principali rappresentanti della classe politica e delle massime cariche dello Stato. Aldo Moro non avrebbe voluto quella pomposa commemorazione funebre; «per una evidente incompatibilità, - aveva, infatti, scritto in una lettera del 24 aprile 1978 indirizzata al segretario della Dc Benigno Zaccagnini - chiedo che ai miei funerali non partecipino né autorità dello Stato né uomini di partito. Chiedo di essere seguito dai pochi che mi hanno veramente voluto bene e sono degni perciò di accompagnarmi con la loro preghiera e con il loro amore».

In molti hanno visto in quella commemorazione paludata – scrive Miguel Gotor sulla Treccani -, con i politici «come tanti manichini insaccati nei loro vestiti neri», in piedi dietro ai banchi della chiesa, la celebrazione del funerale della prima Repubblica. Quegli uomini si erano trovati davanti al sofocleo «dilemma di Antigone»: polis o pietas? E avevano deciso di difendere a ogni costo le ragioni dello Stato (e della diplomazia) al posto di salvare la vita di un uomo. Un uomo che non li riteneva nemmeno degni di stare intorno al suo feretro.

Funerali pubblici d Aldo Moro. Archivio Ansa. Foto di dominio pubblico

Guardando le immagini di quella funzione scattate da Rodrigo Pais, il cui archivio è oggi conservato dalla Biblioteca universitaria di Bologna, sembra di trovarsi davanti a una pièce teatrale, con i politici che si inchinano davanti al vuoto e che celebrano la fine di un’epoca. La fine di un modo di intendere la «Cosa pubblica».

Non a caso il critico Cesare Garboli, sul quotidiano «l’Unità» del 7 giugno 1980, parlò di «uno spettacolo che aveva qualcosa di medievale, come se si potesse assistere in Tv allo schiaffo di Anagni o alle umiliazioni di Clemente VII», con «un papa vinto, un papa folgorato che balbettava oppresso dai paramenti le ultime e confuse battute della propria sconfitta».

Ma il sipario sul «caso Moro» non si chiude con il funerale di Stato. Quarantacinque anni dopo la morte dello statista pugliese, sulla narrazione dei fatti intercorsi nei cinquantacinque tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978 rimangono ancora alcuni interrogativi senza risposta, anche se la verità è ormai relativamente disegnata e i coni d’ombra lasciati dai tanti processi e dalle molte commissioni parlamentari d’inchiesta, in difficoltà nel dipanare una matassa resa ingarbugliata da deposizioni contraddittorie e da testimoni reticenti, sono destinati, con ogni probabilità, a non essere mai illuminati. La vicenda di Aldo Moro prigioniero delle Brigate rosse è, dunque, - parafrasando Fabrizio Gifuni nel libretto «Con il vostro irridente silenzio» - «una storia passata mai completamente passata». Una storia che, al di là di illazioni e di teorie complottistiche tirate per i capelli, continua a interrogare le nostre coscienze: quanto vale una vita umana di fronte alla ragione di Stato?


Vedi anche
-Il caso Moro e la letteratura

Bibliografia e sitografia essenziale
Corrado Guerzoni, «Aldo Moro», Sellerio, Palermo 2008
Miguel Gotor, «Lettere dalla prigionia», Einaudi, Torino 2008 
Miguel Gotor, «Memoriale della Repubblica», Einaudi, Torino 2011 
Marco Belpoliti, «Da quella prigione. Moro, Warhol e le Brigate rosse, Guanda, Parma 2012 
Marco Belpoliti, «La foto di Moro», Nottetempo, Roma 2008 
Sergio Bianchi e Raffaella Perna (a cura di), «Le polaroid di Moro», Derive/approdi, Roma 2012
Ivo Mej, «Moro rapito! Personaggi, testimonianze, fatti», Barbera, Siena 2008 
Ivo Mej, «Rapimento Moro. Il giorno in cui finì l’informazione», Historica Edizioni, Cesena 2023
Ilenia Imperi, «Il caso Moro: cronaca di un evento mediale», Franco Angeli, Milano 2022
Ilaria Maria Priscilla Barzaghi, «Un lungo viaggio fino alla 'sconcia stiva'. Iconografia di Aldo Moro tra comunicazione politica e pietas» in Renato Moro e Daniele Mezzana (a cura di), «Una vita, un Paese», Rubbettino editore, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2014 (anche su https://www.academia.edu/36179431/Un_lungo_viaggio_fino_alla_sconcia_stiva_Iconografia_di_Aldo_Moro_tra_comunicazione_politica_e_pietas)
Michele Smargiassi, La sindone di Moro, simulacro di una sconfitta in Repubblica.it, 3 dicembre 2012, https://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/2012/12/03/la-sindone-di-moro-simulacro-di-una-sconfitta/
«45 anni dal rapimento di Aldo Moro. Le foto di Pizzi da via Fani», Formiche.it, Roma 16 marzo 2023, https://formiche.net/gallerie/aldo-moro-rapimento-foto-pizzi/
Andrea Pomella, «Aldo Moro e il corpo del reato» in «Doppio Zero», 30 novembre 2022, https://www.doppiozero.com/aldo-moro-il-corpo-del-reato
Francesco Landolfi, «Un oscuro protagonista dell’affaire Moro: Antonio Chichiarelli e il falso comunicato n. 7» in «Diacronie. Studi di storia contemporanea», n. 29, 1/2017, on line il 29 marzo 2017, http://www.studistorici.com/2017/03/29/landolfi_numero_29/  
Nicola Biondo, Massimo Veneziani, «Il falsario di stato. Uno spaccato noir della Roma degli anni di piombo», prefazione di Giancarlo De Cataldo, Cooper, Roma 2008
Miguel Gotor,  «Lago della Duchessa: un falso di Stato per trattare sul serio» in  «Il Fatto quotidiano», 27 aprile 2018, pp. 16-17 (anche su https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2018/04/27/lago-della-duchessa-un-falso-di-stato-per-trattare-sul-serio/4319361/)
Miguel Gotor, «Il giallo dei due “Gradoli” e la seduta spiritica per salvare la talpa br» in «Il Fatto quotidiano», 6 aprile 2018, pp. 14-15 (anche su https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2018/04/06/il-giallo-dei-due-gradoli-e-la-seduta-spiritica-per-salvare-la-talpa-br/4274718/)
Miguel Gotor, 9 maggio 1978: lo schiaffo a Paolo VI. Storia e fallimento della mediazione vaticana per la liberazione di Aldo Moro in Treccani.it, 2011, https://www.treccani.it/enciclopedia/9-maggio-1978-lo-schiaffo-a-paolo-vi-storia-e-fallimento-della-mediazione-vaticana-per-la-liberazione-di-aldo-moro_%28Cristiani-d%27Italia%29/
Cesare Garboli, «Un racconto fantastico che incomincia in via Fani» in «L'Unità», 7 agosto 1980, p. 3 (anche su https://archivio.unita.news/assets/main/1980/06/07/page_003.pdf
Leonardo Sciascia, «L’affaire Moro», Sellerio, Palermo 1978
Andrea Pomella, «Il dio disarmato», Einaudi, Torino 2022 
Antonio Iovane, «La seduta spiritica», minimum fax, Roma 2021
Fabrizio Gifuni, «Con il vostro irridente silenzio. Le lettere e il Memoriale: voci dalla prigionia di Aldo Moro», Milano, Feltrinelli, Milano 2022
Marco Baliani, «Corpo di stato. Il delitto Moro», Rizzoli, Milano 2003

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