L’arte antica fa il suo debutto a Palazzo Fabroni. In occasione di Pistoia capitale italiana della cultura, l’edificio trecentesco fatto costruire dalla famiglia Dondori, che dal 1990 è sede di numerose esposizione d’arte contemporanea, apre le porte al genio di Giovanni Pisano, scultore vissuto a cavallo tra Duecento e Trecento che proprio a Pistoia, negli spazi della pieve romanica di Sant’Andrea, ha lasciato una delle sue opere più importanti: il famoso pulpito marmoreo terminato nel 1301. La rassegna, nata da un’idea di Giovanni Agosti, si avvale della curatela di Roberto Bartalini e Sabina Spannocchi, che hanno selezionato poche opere, dalle quali risulta la straordinaria gamma creativa e l’inventività iconografica dell’artista, oltre al suo dominio di materie diverse come pietra e legno.
Si parte con un preludio: il rilievo con le «Stimmate di San Francesco» di Nicola Pisano, padre di Giovanni. È quanto resta di un monumento funebre risalente agli anni Settanta del Duecento, molto probabilmente eretto nella chiesa di Santa Maria del Prato, prima chiesa francescana di Pistoia, in luogo della quale fu poi costruita l’attuale chiesa di San Francesco. Il destinatario di questo sepolcro era probabilmente Filippo da Pistoia, già vescovo di Ferrara, di Firenze e arcivescovo di Ravenna.
Le altre otto stanze sono dedicate a Giovanni Pisano. Nella seconda trova spazio una «Madonna con Bambino», tondo in marmo che rappresenta uno dei vertici dell’opera del giovane scultore, proveniente dalla collegiata di Sant’Andrea e attualmente conservato al Museo di Empoli. Le forme armoniche mostrano come l’artista avesse iniziato a muovere i primi passi sotto la guida paterna, ma la torsione del volto della Vergine permette di cogliere, in fieri, quell’idea di movimento che Pisano svilupperà nell’arco della sua carriera.
Per tutto il Medioevo fu frequente la pratica di riutilizzare le opere d’arte a seconda di nuove esigenze del culto: ne è un probabile esempio l’opera lignea esposta nella terza stanza, un «Angelo in veste di diacono che ostende la testa di San Giovanni Battista». Il delicatissimo Angelo, che regge una grande e drammatica testa del Battista, presenta dissonanti aspetti stilistici: l’Angelo, in tutto corrispondente ai più noti esempi di scultura gotica francese della metà del Duecento, reggeva probabilmente in mano un oggetto più piccolo. Il volto del Battista, molto grande e dalle palesi differenze stilistiche rispetto al corpo della statua, è sicuramente attribuibile a Giovanni Pisano, all’epoca ancora giovane.
Il momento in cui l’arte di Giovanni Pisano inizia a distinguersi nettamente da quella del padre Nicola è esemplificato, in mostra, da una delle cosiddette «Ballerine», figure ideate per le ghimberghe del Battistero di Pisa. Si tratta di statue che dovevano risultare visibili a distanza e quindi erano scolpite con fare rapido e abbreviato. Queste figure femminili danzanti, che sembrano originate e tenute in vita da un soffio d’aria, offrono i primi saggi del dinamismo impetuoso e dell’espressionismo caratteristici del Pisano. «Fu solo dopo la guerra, quando le grandi figure furono tirate giù dalle nicchie e poste nel Battistero [a Pisa], che io potei vederle da vicino e fu allora che fui colpito dalla tremenda forza drammatica che avrei poi indicato come la caratteristica qualità scultorea, lo stile e la personalità di Giovanni» scrisse nel 1969 lo scultore britannico Henry Moore.
Nelle successive quattro stanze, quattro Crocifissi diversi, ciascuno testimone di una diversa maturazione artistica dello scultore. Il Crocifisso della chiesa di San Bartolomeo in Pantano, opera monumentale sconosciuta ai più, va ascritto all’ultima, straordinaria fase creativa: è molto diverso dagli altri suoi crocifissi lignei, sia per le dimensioni che per la resa formale. Privo dell’effetto di torsione e del dinamismo di altri lavori, è concepito non come oggetto processionale, ma per essere posto in relazione simbolica con la mensa dell’altare.
Il Crocifisso della Cattedrale di Siena è l’unico tra quelli processionali a conservare ancora la croce originale ed è un’opera della prima maturità dell’artista, databile al 1285-90. Il corpo presenta un netto stacco rispetto alla croce ed esprime tensione drammatica attraverso un movimento articolato: a differenza delle forme abbreviate che Giovanni Pisano prediligeva nello scolpire il marmo, quest’opera lignea si contraddistingue per un alto grado di finitezza nell’intaglio.
Il Crocifisso della pieve di Sant’Andrea mostra, invece, un’evoluzione rispetto al precedente nel movimento tormentato, che riguarda ogni fibra del corpo e che induce nello spettatore un forte sentimento di compassione. Tra i Crocifissi realizzati nella maturità da Pisano questo è il meno spigoloso, anche per la qualità del legno di noce impiegato.
Mentre l’ultimo crocifisso ad essere presentato è quello della chiesa di Santa Maria a Ripalta, conservato oggi nella pieve di Sant’Andrea, venerato per i miracoli che gli si riferirono durante la pestilenza di fine Trecento e concepito per essere portato in processione.
L’ultima opera esposta è marmorea: una sobria figura allegorica della «Giustizia», che faceva parte del monumento funebre di Margherita di Brabante, moglie dell’imperatore Enrico VII, morta di peste nel 1311. L’incarico di realizzarlo fu affidato al quasi settantenne Giovanni Pisano, considerato il miglior scultore di allora in Italia. Pur anziano, Giovanni dà prova di un’ulteriore, inaspettata evoluzione del suo stile, raggiungendo con quest’opera le vette di un’espressività meno stridente, più armonica, con la dolce mestizia del volto della «Giustizia».
Informazioni utili
Omaggio a Giovanni Pisano. Palazzo Fabroni, via Sant’Andrea 18 – Pistoia. Orari: dal martedì alla domenica e festivi, lunedì 24 luglio e lunedì 14 agosto, ore 10.00-18.00; chiuso il lunedì. Ingresso: intero € 6,00 - ridotto € 3,00. Giornale della mostra: € 4,00. Informazioni: 0573 371214. Sito internet: www.pistoia17.it | www.palazzofabroni.it. Fino al 20 agosto 2017.
ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
mercoledì 19 luglio 2017
lunedì 17 luglio 2017
Tra «sogno e colore»: il mondo di Miró in mostra a Bologna e Recanati
«Il Miró uomo si trasforma nel Miró pittore quando prende in mano il pennello. Allora tutto quello che gli vive dentro -i sogni, i sentimenti, la gioia, il dolore- gli si riversa all'esterno, per poi esplodere sulla tela», così lo scrittore George E. Kent raccontava il ricco mondo interiore e il modus operandi del pittore, scultore e ceramista spagnolo che con la sua arte ha dato forma a una poetica unica in bilico tra sogno e colore.
A raccontare il codice artistico del genio catalano è, fino al prossimo 17 settembre, una mostra allestita a Bologna, negli spazi di Palazzo Albergati, che vede in prima linea la Fondazione Pilar e Joan Miró di Maiorca, diretta da Francisco Copado Carralero, all’interno della quale sono conservati oltre cinquemila lavori dell’artista e nella quale è possibile vedere anche il suo studio, con pennelli, tavolozze e attrezzi del mestiere rimasti lì dal giorno in cui è morto, come lui li aveva lasciati.
«Miró! Sogno e colore» -questo il titolo della rassegna bolognese, che vede la curatela scientifica di Pilar Baos Rodríguez- raccoglie, nello specifico, centotrenta opere, tra cui cento olii di sorprendente bellezza e di grande formato, che ripercorrono il rapporto dell’artista con la variopinta e fascinosa isola di Maiorca, dove egli visse dal 1956 fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 1983.
Qui, sulle isole Baleari, nel paese natale della madre Dolores e della moglie Pilar e nella grande tenuta di campagna di Son Boter, Joan Mirò (Barcellona, 1893 – Palma di Maiorca, 1983) realizza un sogno a lungo agognato: un «grandissimo studio», fatto costruire dall'amico architetto Josep Lluis Sert, dove -per usare le sue stesse parole- «disporre di spazio sufficiente per molte tele», «cimentarsi nella scultura, nella ceramica, nella stampa» e, «per quanto possibile, andare oltre la pittura da cavalletto».
In questo bianco edificio, inondato di luce e immerso nel verde e nella pace della natura, l’artista reinventa il suo stile e il suo alfabeto espressivo si fa via via più anticonformista e selvaggio, senza perdere quella vena contemplativa, giocosa, magica, onirica e apparentemente ingenua, fatta di segni ritmici e fantastici, di grafismi stilizzati e fanciulleschi, di macchie pure e squillanti, che lo ha fatto conoscere nel mondo. Ne nasce un canto libero -da «usignolo della pittura moderna», per usare le parole di Carlo Argan-, estraneo ai dettami dei principali movimenti pittorici del tempo, seppure inserito nell’ambito del Surrealismo e con un occhio rivolto, negli ultimi anni, all’esperienza dell’Action painting e dell’Espressionismo astratto americano.
Nei trent’anni trascorsi a Maiorca, Joan Mirò si dedica ai suoi temi prediletti, dalle donne agli uccelli, da code d’aquilone a paesaggi astrali. Con il passare del tempo, il pennello sgocciola; il gesto si fa ampio e istintivo, forse brutale. Nascono lavori, quelli degli ultimi anni, fatti con le dita, stendendo il colore con i pugni e spalmando gli impasti su compensato, cartone e materiali di riciclo.
L’insaziabile sperimentalismo porta l’artista a confrontarsi con la sua opera anche attraverso l’intero corpo: cammina sulle sue tele e vi si stende sopra, sporcandosi «tutto –lo scrive egli stesso nel 1974- di pittura, faccia, capelli».
In alcuni casi le squillanti macchie di blu, rosso, giallo e verde, che rendono riconoscibile a tutti l’arte di Joan Mirò, lasciano spazio a una tavolozza cromatica ridotta al bianco e nero, a una figurazione che evoca la predilezione dell’artista sia per l’arte rupestre sia per la calligrafia orientale, conosciuta direttamente nei suoi due viaggi in Giappone, avvenuti nel 1966 e nel 1969.
Nel suo studio di Maiorca, l’artista si confronta anche con la ceramica, la scultura e i libri d’artista. Crea collage e «dipinti-oggetto», che traggono ispirazione da ciò che raccoglie sull’isola e colleziona, interessato non tanto all’aspetto estetico o formale quanto all’energia che gli trasmette ciascun materiale.
Tra le opere esposte a Bologna, allineate in base a un percorso cronologico e tematico allo stesso tempo, si possono ammirare capolavori come «Femme au clair de lune» (1966), «Oiseaux» (1973) e «Femme dans la rue» (1973), oltre a schizzi, tra cui quello per la decorazione murale per la Harkness Commons-Harvard University.
Una delle stanze al primo piano è allestita per un’esperienza immersiva: un gioco di emozioni da vivere sdraiandosi sul divano contemplando le proiezioni delle opere sul soffitto. La visione è accompagnata da musica, che permette all’osservatore di stabilire una connessione molto intima con le opere dell’artista, per conoscere meglio le creazione di un esploratore di sogni e racconti fantastici che di sé diceva: «lavoro come un giardiniere o come un vignaiolo. Le cose maturano lentamente. Il mio vocabolario di forme, ad esempio, non l'ho scoperto in un sol colpo. Si è formato quasi mio malgrado».
A Joan Mirò e al suo profondo e giocoso legame con le parole e la poesia è dedicata anche la mostra in programma a Recanati, negli spazi di Villa Colloredo Mels, fino al prossimo 5 novembre. L’esposizione, corredata da un catalogo con testi di Sebastiano Guerrera, è incentrata sulle litografie realizzate dall’artista catalano nel 1971 per il libro «Le lezard aux plumes d’or».
La genesi del libro fu piuttosto travagliata. Già nel 1967, l’artista aveva realizzato diciotto litografie a colori che illustravano il poemetto per conto dell’editore Louis Broder. Ma le stampe risultarono lacunose nella resa dei colori a causa, pare, di un difetto nella fabbricazione della carta e l’intera tiratura fu distrutta. Poiché nel frattempo le matrici erano state annullate non fu possibile ristamparle e il pittore catalano dovette attendere alla realizzazione di nuove lastre, che furono stampate da Mourlot e pubblicate, sempre da Broder, solo nel 1971.
Le nuove litografie «diventano -scrive Sebastiano Guerrera- il luogo dove la scrittura-segno si determina e si trasfigura, in tutta la sua concretezza lineare, nell’immagine-segno», dando vita anche a «una baraonda cromatica in cui le immagini zampillano» con una profusione che non conosce limiti. «È evidente -aggiunge lo studioso che ci troviamo in un contesto fiabesco. Perché Miró fu sempre un pittore di favole ed è palese la sua propensione ad un tipo di poesia che, pur mettendo in luce echi degli automatismi surrealisti e affinità col nonsense dadaista, si fa testimone di relazioni animistiche e magiche tra uomo e natura, di un mondo in cui gli animali -ma anche le cose inanimate- aiutano il mondo a rinascere: perciò il genere di Mirò, come scriveva Argan, «è la favola, che si richiama e rivolge pur sempre ad una infanzia, all’eterna condizione di infanzia dell’uomo».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Joan Miró, Untitled, 1978. Olio su tela, 92x73 cm. © Successió Miró | Archivio Fundazione Pilar e Joan Miró | © Joan Ramón Bonet & David Bonet; [fig. 2] Joan Miró, Maqueta para Gaudí X, 1975. Gouache, ink, pencil, pastel and collage on paper, 30,2x25,2 cm. © Successió Miró | Archivio Fundazione Pilar e Joan Miró | © Joan Ramón Bonet & David Bonet; [fig. 3] Joan Miró, Untitled, 1950. Ceramic. Stoneware and porcelain, 38,5x29x13 cm. © Successió Miró | Archivio Fundazione Pilar e Joan Miró | © Joan Ramón Bonet & David Bonet; [fig. 4 e 5] Immagini tratte dal volume «Le lezard aux plumes d’or».
Informazioni utili
«Miró! Sogno e colore». Palazzo Albergati, via Saragozza, 28 - Bologna. Orari: tutti i giorni, dalle ore 10.00 alle ore 20.00; la biglietteria chiude un'ora prima. Ingresso: intero € 14,00, ridotto € 12,00; ridotto gruppi € 10,00, ridotto universitari € 9,00, ridotto scuole da € 5,00 a € 3,00. Informazioni: tel. 051.030141. Sito internet: www.palazzoalbergati.com. Fino al 17 settembre 2017
«Miró. Le lezard aux plumes d’or». Villa Colloredo Mels – Recanati. Orari: fino al 1° settembre - tutti giorni, ore 10.00-13.00 e ore 16.00-19.00; tutti venerdì fino alle ore 23.00; dal 1° settembre - dal martedì alla domenica, ore 10.00-13.00 e ore 16.00-19.00. Ingresso: intero € 10,00; ridotto € 8,00 (gruppi minimo 15 persone, possessori di tessera FAI, Touring Club, Italia Nostra, Coop, Alleanza 3.0 e precedenti Adriatica, Bordest, Estense); ridotto € 5,00 (gruppi accompagnati da guida turistica abilitata, gruppi scolastici da 15 a 25 studenti); omaggio minori fino a 19 anni (singoli), soci Icom, giornalisti muniti di regolare tesserino, disabili e la persona che li accompagna; con il biglietto della mostra si accede al circuito museale di Recanati (Musei Civici di Villa Colloredo Mels, Museo dell’Emigrazione Marchigiana, Museo Beniamino Gigli, Torre del Borgo). Informazioni e prenotazioni: Sistema Museo - Call center, tel. 0744.422848 (dal lunedì al venerdì, dalle ore 9.00 alle ore 17.00, il sabato, dalle ore 9.00 alle ore 13.00, escluso i festivi); callcenter@sistemamuseo.it. Sito internet: www.infinitorecanati.it. Fino al 1° ottobre 2017. Prorogata al 5 novembre 2017.
A raccontare il codice artistico del genio catalano è, fino al prossimo 17 settembre, una mostra allestita a Bologna, negli spazi di Palazzo Albergati, che vede in prima linea la Fondazione Pilar e Joan Miró di Maiorca, diretta da Francisco Copado Carralero, all’interno della quale sono conservati oltre cinquemila lavori dell’artista e nella quale è possibile vedere anche il suo studio, con pennelli, tavolozze e attrezzi del mestiere rimasti lì dal giorno in cui è morto, come lui li aveva lasciati.
«Miró! Sogno e colore» -questo il titolo della rassegna bolognese, che vede la curatela scientifica di Pilar Baos Rodríguez- raccoglie, nello specifico, centotrenta opere, tra cui cento olii di sorprendente bellezza e di grande formato, che ripercorrono il rapporto dell’artista con la variopinta e fascinosa isola di Maiorca, dove egli visse dal 1956 fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 1983.
Qui, sulle isole Baleari, nel paese natale della madre Dolores e della moglie Pilar e nella grande tenuta di campagna di Son Boter, Joan Mirò (Barcellona, 1893 – Palma di Maiorca, 1983) realizza un sogno a lungo agognato: un «grandissimo studio», fatto costruire dall'amico architetto Josep Lluis Sert, dove -per usare le sue stesse parole- «disporre di spazio sufficiente per molte tele», «cimentarsi nella scultura, nella ceramica, nella stampa» e, «per quanto possibile, andare oltre la pittura da cavalletto».
In questo bianco edificio, inondato di luce e immerso nel verde e nella pace della natura, l’artista reinventa il suo stile e il suo alfabeto espressivo si fa via via più anticonformista e selvaggio, senza perdere quella vena contemplativa, giocosa, magica, onirica e apparentemente ingenua, fatta di segni ritmici e fantastici, di grafismi stilizzati e fanciulleschi, di macchie pure e squillanti, che lo ha fatto conoscere nel mondo. Ne nasce un canto libero -da «usignolo della pittura moderna», per usare le parole di Carlo Argan-, estraneo ai dettami dei principali movimenti pittorici del tempo, seppure inserito nell’ambito del Surrealismo e con un occhio rivolto, negli ultimi anni, all’esperienza dell’Action painting e dell’Espressionismo astratto americano.
Nei trent’anni trascorsi a Maiorca, Joan Mirò si dedica ai suoi temi prediletti, dalle donne agli uccelli, da code d’aquilone a paesaggi astrali. Con il passare del tempo, il pennello sgocciola; il gesto si fa ampio e istintivo, forse brutale. Nascono lavori, quelli degli ultimi anni, fatti con le dita, stendendo il colore con i pugni e spalmando gli impasti su compensato, cartone e materiali di riciclo.
L’insaziabile sperimentalismo porta l’artista a confrontarsi con la sua opera anche attraverso l’intero corpo: cammina sulle sue tele e vi si stende sopra, sporcandosi «tutto –lo scrive egli stesso nel 1974- di pittura, faccia, capelli».
In alcuni casi le squillanti macchie di blu, rosso, giallo e verde, che rendono riconoscibile a tutti l’arte di Joan Mirò, lasciano spazio a una tavolozza cromatica ridotta al bianco e nero, a una figurazione che evoca la predilezione dell’artista sia per l’arte rupestre sia per la calligrafia orientale, conosciuta direttamente nei suoi due viaggi in Giappone, avvenuti nel 1966 e nel 1969.
Nel suo studio di Maiorca, l’artista si confronta anche con la ceramica, la scultura e i libri d’artista. Crea collage e «dipinti-oggetto», che traggono ispirazione da ciò che raccoglie sull’isola e colleziona, interessato non tanto all’aspetto estetico o formale quanto all’energia che gli trasmette ciascun materiale.
Tra le opere esposte a Bologna, allineate in base a un percorso cronologico e tematico allo stesso tempo, si possono ammirare capolavori come «Femme au clair de lune» (1966), «Oiseaux» (1973) e «Femme dans la rue» (1973), oltre a schizzi, tra cui quello per la decorazione murale per la Harkness Commons-Harvard University.
Una delle stanze al primo piano è allestita per un’esperienza immersiva: un gioco di emozioni da vivere sdraiandosi sul divano contemplando le proiezioni delle opere sul soffitto. La visione è accompagnata da musica, che permette all’osservatore di stabilire una connessione molto intima con le opere dell’artista, per conoscere meglio le creazione di un esploratore di sogni e racconti fantastici che di sé diceva: «lavoro come un giardiniere o come un vignaiolo. Le cose maturano lentamente. Il mio vocabolario di forme, ad esempio, non l'ho scoperto in un sol colpo. Si è formato quasi mio malgrado».
A Joan Mirò e al suo profondo e giocoso legame con le parole e la poesia è dedicata anche la mostra in programma a Recanati, negli spazi di Villa Colloredo Mels, fino al prossimo 5 novembre. L’esposizione, corredata da un catalogo con testi di Sebastiano Guerrera, è incentrata sulle litografie realizzate dall’artista catalano nel 1971 per il libro «Le lezard aux plumes d’or».
La genesi del libro fu piuttosto travagliata. Già nel 1967, l’artista aveva realizzato diciotto litografie a colori che illustravano il poemetto per conto dell’editore Louis Broder. Ma le stampe risultarono lacunose nella resa dei colori a causa, pare, di un difetto nella fabbricazione della carta e l’intera tiratura fu distrutta. Poiché nel frattempo le matrici erano state annullate non fu possibile ristamparle e il pittore catalano dovette attendere alla realizzazione di nuove lastre, che furono stampate da Mourlot e pubblicate, sempre da Broder, solo nel 1971.
Le nuove litografie «diventano -scrive Sebastiano Guerrera- il luogo dove la scrittura-segno si determina e si trasfigura, in tutta la sua concretezza lineare, nell’immagine-segno», dando vita anche a «una baraonda cromatica in cui le immagini zampillano» con una profusione che non conosce limiti. «È evidente -aggiunge lo studioso che ci troviamo in un contesto fiabesco. Perché Miró fu sempre un pittore di favole ed è palese la sua propensione ad un tipo di poesia che, pur mettendo in luce echi degli automatismi surrealisti e affinità col nonsense dadaista, si fa testimone di relazioni animistiche e magiche tra uomo e natura, di un mondo in cui gli animali -ma anche le cose inanimate- aiutano il mondo a rinascere: perciò il genere di Mirò, come scriveva Argan, «è la favola, che si richiama e rivolge pur sempre ad una infanzia, all’eterna condizione di infanzia dell’uomo».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Joan Miró, Untitled, 1978. Olio su tela, 92x73 cm. © Successió Miró | Archivio Fundazione Pilar e Joan Miró | © Joan Ramón Bonet & David Bonet; [fig. 2] Joan Miró, Maqueta para Gaudí X, 1975. Gouache, ink, pencil, pastel and collage on paper, 30,2x25,2 cm. © Successió Miró | Archivio Fundazione Pilar e Joan Miró | © Joan Ramón Bonet & David Bonet; [fig. 3] Joan Miró, Untitled, 1950. Ceramic. Stoneware and porcelain, 38,5x29x13 cm. © Successió Miró | Archivio Fundazione Pilar e Joan Miró | © Joan Ramón Bonet & David Bonet; [fig. 4 e 5] Immagini tratte dal volume «Le lezard aux plumes d’or».
Informazioni utili
«Miró! Sogno e colore». Palazzo Albergati, via Saragozza, 28 - Bologna. Orari: tutti i giorni, dalle ore 10.00 alle ore 20.00; la biglietteria chiude un'ora prima. Ingresso: intero € 14,00, ridotto € 12,00; ridotto gruppi € 10,00, ridotto universitari € 9,00, ridotto scuole da € 5,00 a € 3,00. Informazioni: tel. 051.030141. Sito internet: www.palazzoalbergati.com. Fino al 17 settembre 2017
sabato 15 luglio 2017
«La terra inquieta», quando l’arte racconta il fenomeno migratorio
È una mostra che consegna all’arte e a una polifonia di voci la responsabilità di raccontare la storia e il nostro presente, a partire da un tema di scottante attualità quale quello delle migrazioni e della crisi dei rifugiati, «La terra inquieta», progetto espositivo curato da Massimiliano Gioni per la Triennale di Milano, con la Fondazione Nicola Trussardi, che porta fino al prossimo 20 agosto, nelle sale del museo di via Alemagna, le opere di sessantacinque artisti internazionali provenienti da quaranta Paesi, tra i quali Albania, Algeria, Bangladesh, Egitto, Ghana, Iraq, Libano, Marocco, Siria e Turchia.
Installazioni, video, sculture, dipinti, immagini di reportage, assemblaggi di reperti, materiali storici e oggetti di cultura materiale tratteggiano un ritratto collettivo capace di restituire voce e dignità alle moltitudini senza volto del nostro tempo, gettando luce anche sul ruolo politico e sociale, nell’accezione più nobile del termine, che l’arte ha nel raccontare i cambiamenti e le trasformazioni del nostro breve e instabile scorcio di secolo, il presente come territorio in fibrillazione e sempre più globalizzato e interconnesso.
La rassegna milanese, che prende a prestito il titolo da una raccolta di poesie dello scrittore caraibico Édouard Glissant, ricostruisce così, all’interno della galleria al piano terra della Triennale per poi proseguire al piano superiore, l’odissea dei migranti e le loro storie individuali e collettive grazie a un percorso che si snoda attraverso una serie di nuclei geografici e tematici: il conflitto in Siria, lo stato di emergenza di Lampedusa, la vita nei campi profughi, la figura del nomade e dell’apolide.
Seguendo le trasformazioni dell’economia e le relazioni pericolose che si intrecciano tra corpi, merci, capitali e rotte di scambio e commercio nell’epoca della globalizzazione, «La Terra Inquieta» si configura, dunque, -per usare le parole degli organizzatori- come il «racconto di uomini che attraversano confini e –assai più tristemente– la storia di confini che attraversano gli uomini».
Al centro dell’esposizione, della quale rimarrà documentazione in un catalogo bilingue edito da Electa, è posta l’installazione-video «The Mapping Journey Project» dell’artista marocchina Bouchra Khalili, che raccoglie le storie di migranti che hanno attraversato interi continenti alla ricerca di un varco nella fortezza Europa, mentre con un pennarello tracciano su una cartina il percorso fatto, nascondendo sotto la semplicità di quel gesto un’odissea drammatica.
Dalla Panda stracarica di oggetti e senso di non appartenenza di Manaf Halbouni, che ha lasciato Damasco per sfuggire al servizio militare e che ora non può più fare rientro in patria, a una bellissima «Mappa» di quelle che Alighiero Boetti faceva ricamare alle artigiani di Kabul, il visitatore si ritrova davanti a lavori raccontati da artisti che conoscono e descrivono in prima persona il mondo da cui provengono i migranti e per questo ne parlano con il senso di responsabilità di chi vuole restituire la complessità di un evento drammatico senza incorrere nelle consuete banalizzazioni e nei sentimentalismi ai quali siamo abituati dai tradizionali canali di informazione. «Il risultato -scrive Massimiliano Gioni- sono opere d’arte in cui i codici tradizionali del giornalismo e della narrazione documentaria si accompagnano ad approcci più vicini a quelli della letteratura, dell’autobiografia e della finzione. È precisamente in questo scontro tra narrazioni discordanti che l’opera di molti artisti cerca di inserire un coefficiente di dubbio e di critica al linguaggio delle immagini e dei mezzi di comunicazione di massa in particolare». Nascono così racconti, sospesi tra l’affresco storico e il diario in presa diretta, come quelli di John Akomfrah, Yto Barrada, Isaac Julien, Yasmine Kabir o Steve McQueen. Queste e altre opere esposte aprono una riflessione sul diritto all’immagine che è un altro dei temi fondamentali affrontati dai molti artisti contemporanei, il cui lavoro si confronta con una rappresentazione delle migrazioni globali e della crisi dei rifugiati molto spesso contraddistinta dalla voracità e dalla velocità comunicativa dei media.
Lo sguardo obliquo delle fotografie di Yto Barrada, le elisioni di volti e dettagli nei video di Mounira Al Solh o le trasformazioni grottesche nei disegni e nelle animazioni di Rokni Haerizadeh, sono solo alcuni degli esempi più lampanti con cui questi artisti della crisi globale rifiutano di soccombere all’estetizzazione della miseria e cercano piuttosto di restituire dignità ai migranti, ritraendoli come soggetti storici, capaci di compiere scelte e decisioni, o proteggendoli dall’eccesso di visibilità a cui sono sottoposti dai mezzi di comunicazione di massa.
Da Kader Attia con i suoi abiti sparsi sul pavimento ad Adel Abdessemed con il suo barcone pieno di immondizia, da Mona Hatoum a Meschac Gabaacquista con le sue tre lanterne affiancate a una pila di coperte grigie, da El Anatsui a Hassan Sharif, sono molti gli artisti che raccontano speranze, manchevolezze e crisi associate alla cosiddetta globalizzazione in un esercizio che spesso è di empatia e di dialogo tra culture.
Conclude l’ampia mostra un video di Steve Mc Queen girato in 35 millimetri che riprende, dall’alto di un elicottero, un'inconsueta immagine della Statua della Liberà. È proprio a Ellis Island, davanti a questo monumento simbolo, che all’inizio del ventesimo secolo le fotografie di Lewis Hine e di Augustus Sherman documentavano un’esperienza della migrazione dura, ma comunque molto diversa da quella contemporanea. Eppure i sogni e le paure non erano gli stessi? E sui volti dei migranti di ieri e di oggi non vediamo le stesse espressioni confuse e spaventate di fronte a una terra promessa, che spesso si rivela, invece, matrigna? Quasi a dire che la storia si ripete ciclicamente e che non sempre impariamo dal nostro passato.
Didascalie delle immagini
[Figg. 1, 2, 3 e 5] Vista della mostra «La terra inquieta» alla Triennale di Milano. Photo di Gianluca di Ioia; [fig. 4] Vista della mostra «La terra inquieta» alla Triennale di Milano. Photo di Marco De Scalzi
Informazioni utili
«La terra inquieta». La Triennale di Milano, via Alemagna, 6 – Milano. Orari: da martedì a domenica, dalle ore 10.30 alle ore 20.30; ultimo ingresso un’ora prima della chiusura. Ingresso: intero € 8,00, ridotto € 6,50, ridotto gruppi € 5,50, ridotto scuole € 4,50. Informazioni: tel. 02.724341 o info@triennale.org. Sito internet: www.triennale.org. Fino al 20 agosto 2017.
Installazioni, video, sculture, dipinti, immagini di reportage, assemblaggi di reperti, materiali storici e oggetti di cultura materiale tratteggiano un ritratto collettivo capace di restituire voce e dignità alle moltitudini senza volto del nostro tempo, gettando luce anche sul ruolo politico e sociale, nell’accezione più nobile del termine, che l’arte ha nel raccontare i cambiamenti e le trasformazioni del nostro breve e instabile scorcio di secolo, il presente come territorio in fibrillazione e sempre più globalizzato e interconnesso.
La rassegna milanese, che prende a prestito il titolo da una raccolta di poesie dello scrittore caraibico Édouard Glissant, ricostruisce così, all’interno della galleria al piano terra della Triennale per poi proseguire al piano superiore, l’odissea dei migranti e le loro storie individuali e collettive grazie a un percorso che si snoda attraverso una serie di nuclei geografici e tematici: il conflitto in Siria, lo stato di emergenza di Lampedusa, la vita nei campi profughi, la figura del nomade e dell’apolide.
Seguendo le trasformazioni dell’economia e le relazioni pericolose che si intrecciano tra corpi, merci, capitali e rotte di scambio e commercio nell’epoca della globalizzazione, «La Terra Inquieta» si configura, dunque, -per usare le parole degli organizzatori- come il «racconto di uomini che attraversano confini e –assai più tristemente– la storia di confini che attraversano gli uomini».
Al centro dell’esposizione, della quale rimarrà documentazione in un catalogo bilingue edito da Electa, è posta l’installazione-video «The Mapping Journey Project» dell’artista marocchina Bouchra Khalili, che raccoglie le storie di migranti che hanno attraversato interi continenti alla ricerca di un varco nella fortezza Europa, mentre con un pennarello tracciano su una cartina il percorso fatto, nascondendo sotto la semplicità di quel gesto un’odissea drammatica.
Dalla Panda stracarica di oggetti e senso di non appartenenza di Manaf Halbouni, che ha lasciato Damasco per sfuggire al servizio militare e che ora non può più fare rientro in patria, a una bellissima «Mappa» di quelle che Alighiero Boetti faceva ricamare alle artigiani di Kabul, il visitatore si ritrova davanti a lavori raccontati da artisti che conoscono e descrivono in prima persona il mondo da cui provengono i migranti e per questo ne parlano con il senso di responsabilità di chi vuole restituire la complessità di un evento drammatico senza incorrere nelle consuete banalizzazioni e nei sentimentalismi ai quali siamo abituati dai tradizionali canali di informazione. «Il risultato -scrive Massimiliano Gioni- sono opere d’arte in cui i codici tradizionali del giornalismo e della narrazione documentaria si accompagnano ad approcci più vicini a quelli della letteratura, dell’autobiografia e della finzione. È precisamente in questo scontro tra narrazioni discordanti che l’opera di molti artisti cerca di inserire un coefficiente di dubbio e di critica al linguaggio delle immagini e dei mezzi di comunicazione di massa in particolare». Nascono così racconti, sospesi tra l’affresco storico e il diario in presa diretta, come quelli di John Akomfrah, Yto Barrada, Isaac Julien, Yasmine Kabir o Steve McQueen. Queste e altre opere esposte aprono una riflessione sul diritto all’immagine che è un altro dei temi fondamentali affrontati dai molti artisti contemporanei, il cui lavoro si confronta con una rappresentazione delle migrazioni globali e della crisi dei rifugiati molto spesso contraddistinta dalla voracità e dalla velocità comunicativa dei media.
Lo sguardo obliquo delle fotografie di Yto Barrada, le elisioni di volti e dettagli nei video di Mounira Al Solh o le trasformazioni grottesche nei disegni e nelle animazioni di Rokni Haerizadeh, sono solo alcuni degli esempi più lampanti con cui questi artisti della crisi globale rifiutano di soccombere all’estetizzazione della miseria e cercano piuttosto di restituire dignità ai migranti, ritraendoli come soggetti storici, capaci di compiere scelte e decisioni, o proteggendoli dall’eccesso di visibilità a cui sono sottoposti dai mezzi di comunicazione di massa.
Da Kader Attia con i suoi abiti sparsi sul pavimento ad Adel Abdessemed con il suo barcone pieno di immondizia, da Mona Hatoum a Meschac Gabaacquista con le sue tre lanterne affiancate a una pila di coperte grigie, da El Anatsui a Hassan Sharif, sono molti gli artisti che raccontano speranze, manchevolezze e crisi associate alla cosiddetta globalizzazione in un esercizio che spesso è di empatia e di dialogo tra culture.
Conclude l’ampia mostra un video di Steve Mc Queen girato in 35 millimetri che riprende, dall’alto di un elicottero, un'inconsueta immagine della Statua della Liberà. È proprio a Ellis Island, davanti a questo monumento simbolo, che all’inizio del ventesimo secolo le fotografie di Lewis Hine e di Augustus Sherman documentavano un’esperienza della migrazione dura, ma comunque molto diversa da quella contemporanea. Eppure i sogni e le paure non erano gli stessi? E sui volti dei migranti di ieri e di oggi non vediamo le stesse espressioni confuse e spaventate di fronte a una terra promessa, che spesso si rivela, invece, matrigna? Quasi a dire che la storia si ripete ciclicamente e che non sempre impariamo dal nostro passato.
Didascalie delle immagini
[Figg. 1, 2, 3 e 5] Vista della mostra «La terra inquieta» alla Triennale di Milano. Photo di Gianluca di Ioia; [fig. 4] Vista della mostra «La terra inquieta» alla Triennale di Milano. Photo di Marco De Scalzi
Informazioni utili
«La terra inquieta». La Triennale di Milano, via Alemagna, 6 – Milano. Orari: da martedì a domenica, dalle ore 10.30 alle ore 20.30; ultimo ingresso un’ora prima della chiusura. Ingresso: intero € 8,00, ridotto € 6,50, ridotto gruppi € 5,50, ridotto scuole € 4,50. Informazioni: tel. 02.724341 o info@triennale.org. Sito internet: www.triennale.org. Fino al 20 agosto 2017.
giovedì 13 luglio 2017
Pintoricchio e «il mistero svelato di Giulia Farnese»
«Ritrasse sopra la porta d'una camera la Signora Giulia Farnese nel volto d'una nostra Donna, e nel medesimo quadro la testa d'esso Papa Alessandro che l'adora»: una affermazione di poco, o nessun interesse, per la storia dell’arte se non per il fatto che a metterla nero su bianco fu, nel 1550 e ancora nel 1568, Giorgio Vasari, all'interno della biografia del Pintoricchio, contenuta nell’opera «Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori».
L’affermazione del famoso biografo aretino elevava a rango di verità storica un gossip del tempo, riportato per scritto anche da François Rabelais e Stefano Infessura, secondo cui il controverso papa Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia (1431-1503), nutriva una vera e propria predilezione per la raffinata, giovane e bellissima Giulia Farnese (1475-1524), ironicamente nota alla corte pontificia come «sponsa Christi», tanto da farla ritrarre all’interno dei suoi appartamenti in Vaticano, nelle fattezze della Vergine, con lui adorante, in ginocchio, ai suoi piedi.
Ma quella riportata da Giorgio Vasari era solo una diceria malevola o una verità storica? E la Madonna raffigurata, bellissima ed eterea, chi era? Era veramente la concubina del papa? E che fine hanno fatto i frammenti dell’affresco, fatto staccare, centocinquanta anni dopo la sua realizzazione, da papa Alessandro VII, al secolo Fabio Chigi (1655-1667), e smembrato in tre parti, con l’intento di dimenticare quella vicenda, frutto visibile di un pontificato, quello di Rodrigo Borgia, che aveva assecondato intrecci dinastici, veleni di palazzo, calunnie e gelosie? A queste domande prova a rispondere, dopo secoli di ricerche e di indagini scientifiche, la mostra «Pintoricchio pittore dei Borgia. Il mistero svelato di Giulia Farnese», allestita fino al 10 settembre ai Musei capitolini di Roma, per la curatela di Cristina Acidini, Francesco Buranelli, Claudia La Malfa e Claudio Strinati, con la collaborazione di Franco Ivan Nucciarelli e con la supervisione di Francesco Buranelli.
L’esposizione, corredata da un interessante catalogo della Gangemi editore, vuole introdurre il visitatore in quello stupefacente periodo della cultura romana di fine Quattrocento e nel grande fermento umanistico che lo caratterizza, tutto rivolto alla riscoperta della memoria dell'antica Roma, sulla quale la Chiesa, quasi una sorta di «nuova Atene», fonda il proprio «rinascimento» politico e religioso.
Sono gli anni in cui l'arte della stampa, da poco inventata da Johannes Gutenberg, fiorisce e molti editori aprono le proprie stamperie in città, a partire da Sweynheym, Pannatz e Eucharius Silber che hanno una sede a Campo de’ Fiori. Vengono pubblicate le opere dei grandi retori latini, Cicerone e Quintiliano, dei filosofi greci, dei poeti e dei drammaturghi antichi. I monumenti della classicità sono ammirati da pellegrini e visitatori e i cortili dei grandi palazzi dei membri della Curia e del mondo laico si riempiono di statue, rilievi e iscrizioni antiche. Alessandro VI è amante del lusso, del bello e dell’arte al pari dei suoi contemporanei: tra l’autunno del 1492 e la fine del 1494, chiama a Roma uno degli artisti più estrosi del tempo, Bernardino di Betto, detto il Pintoricchio (c.1454-1513), per fargli decorare il suo appartamento nel Palazzo apostolico della Basilica di San Pietro, sei grandi stanze nel corpo quattrocentesco fatto edificare da papa Niccolò V, cui è stata aggiunta una torre.
Tra pitture ricche di contenuti umanistici e teologici, che evocano in maniera sapiente l’arte romana antica e che dimostrano l’interesse del pittore per l’ornato prezioso, si trovava l’opera citata dal Vasari nelle sue «Vite». Quel dipinto, menzionato dall'artista e scrittore aretino in modo fuggevole, e solo per raccontare l’adorazione di papa Borgia per la «Signora Giulia» -una passione adulterina per altro condannata pubblicamente da Girolamo Savonarola- si impregnò, con il tempo, di storie e significati tali da offuscare, alla sensibilità del tempo, il valore artistico nella sua composizione d’insieme.
Oggi sappiamo che, quasi sicuramente, Giorgio Vasari non ebbe mai accesso agli appartamenti papali e che per descriverli si servì prevalentemente di informazioni di seconda mano e delle incisioni a stampa che (soprattutto per le Stanze di Raffaello) iniziarono ben presto a far scuola di quelle meraviglie.
La storiografia ci dice anche che, come spesso accade, il «venticello della calunnia» che qualcuno alitò in maniera impalpabile, ma efficace sulla decorazione dell’appartamento Borgia si rivelò vincente: papa Pio V (Antonio Ghislieri, 1566-1572) fece nascondere l’opera da una doppia pesante tappezzeria da parati e da un nuovo dipinto della «Madonna del Popolo». Alessandro VII, con la complicità del cardinale nipote Flavio I Chigi, lo disperse in più frammenti: le due immagini della Madonna e del Bambino, ormai due dipinti a sé stanti con cornici volutamente differenti e circa duecento numeri di distanza nell’inventariazione, entrarono a far parte della collezione privata dei Chigi, mentre il ritratto di Alessandro VI scomparve definitivamente. L’esatta composizione del dipinto, tuttavia, non andò perduta grazie a una copia realizzata nel 1612 dal pittore Pietro Fachetti.
Oggi, a oltre cinquecento anni da quei fatti e grazie alla disponibilità dei proprietari delle opere, è possibile presentare per la prima volta vicini i due frammenti: quello del volto della Madonna, mai esposto fino a ora, insieme a quello ben noto del «Bambino Gesù delle mani», conservato all’interno della collezione della Fondazione Guglielmo Giordano di Perugia.
Ma la mostra offre anche l’occasione di rivedere la «leggenda» sulla presenza del ritratto di Giulia Farnese nell’appartamento Borgia, destituendo di ogni fondamento una delle convinzioni più durevoli della storia dell’arte moderna. Le sembianze della Vergine risultano, infatti, vicinissime al più classico tipo dei volti di Madonna del Pintoricchio: un viso dolcemente allungato, senza nessuna ricerca ritrattistica, pieno di amorevole concentrazione e assorto compiacimento nei confronti della scena alla quale sta assistendo. Ne da prova il confronto fra l’opera al centro della mostra e altre due tele del pittore entrambe esposte a Roma: la «Madonna della Pace» di San Severino Marche e la «Madonna delle Febbri» di Valencia, alle quali sono accostate un’altra trentina di capolavori del Rinascimento e sette antiche sculture di età romana, provenienti dalle raccolte capitoline, che documentano quanto l’artista abbia attinto all’antico.
Il volto ritrovato della «Madonna» del Pintoricchio, messo accanto al «Bambino delle mani», ci permette, dunque, di ricomporre parzialmente un’opera di forte valenza iconografica ed evidente significato teologico, riconoscendovi, invece, una rarissima iconografia di investitura divina del neoeletto pontefice. Una lettura, questa, «che spazza definitivamente il campo da tutte le precedenti interpretazioni decisamente più “terrene”, -dichiara Francesco Buranelli- che ne hanno al tempo stesso tramandato la memoria e provocato la distruzione e che restituisce alla Chiesa e al mondo un’opera somma che ha già pagato un caro prezzo per la miopia del genere umano».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Bernardino di Betto, detto Pintoricchio (Perugia c. 1454 – Siena 1513), Bambin Gesù delle mani, frammento della distrutta Investitura divina di Alessandro VI, c. 1492-1493. Dipinto murario entro cornice seicentesca, cm 48,6 x 33,5 x 6,5 circa. Perugia, Fondazione Guglielmo Giordano; [fig. 2] Bernardino di Betto, detto Pintoricchio (Perugia c. 1454 – Siena 1513), Madonna, frammento della distrutta Investitura divina di Alessandro VI, c. 1492-1493. Dipinto murario entro cornice seicentesca, cm 39,5 x 28, 5 x 5. Collezione privata; [fig. 3] Bernardino di Betto, detto Pintoricchio (Perugia c. 1454 – Siena 1513), Madonna della Melagrana, c. 1508-1509. Tempera su tavola, cm 54.5 x 41. Siena, Pinacoteca Nazionale, inv. 387; [fig. 4] Bernardino di Betto, detto Pintoricchio (Perugia c. 1454 – Siena 1513), Madonna delle Febbri, c. 1497. Olio su tavola, cm 158 x 77,3. Valencia, Museo de Bellas Artes de Valencia (colleción Real Academia de Bellas Artes de San Carlos), inv. 273
Informazioni utili
«Pintoricchio pittore dei Borgia. Il mistero svelato di Giulia Farnese». Musei Capitolini - Palazzo Caffarelli, piazza del Campidoglio – Roma. Orari: tutti i giorni, ore 9.30-19.30; la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso (integrato per il museo e comprensivo di tassa di turismo): intero € 15,00, ridotto € 13,00. Catalogo: Gangemi editore, Roma. Informazioni: tel. 060608 (tutti i giorni, ore 9.00 - 19.00). Sito internet: www.museicapitolini.org; www.museiincomune.it. Fino al 10 settembre 2017
L’affermazione del famoso biografo aretino elevava a rango di verità storica un gossip del tempo, riportato per scritto anche da François Rabelais e Stefano Infessura, secondo cui il controverso papa Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia (1431-1503), nutriva una vera e propria predilezione per la raffinata, giovane e bellissima Giulia Farnese (1475-1524), ironicamente nota alla corte pontificia come «sponsa Christi», tanto da farla ritrarre all’interno dei suoi appartamenti in Vaticano, nelle fattezze della Vergine, con lui adorante, in ginocchio, ai suoi piedi.
Ma quella riportata da Giorgio Vasari era solo una diceria malevola o una verità storica? E la Madonna raffigurata, bellissima ed eterea, chi era? Era veramente la concubina del papa? E che fine hanno fatto i frammenti dell’affresco, fatto staccare, centocinquanta anni dopo la sua realizzazione, da papa Alessandro VII, al secolo Fabio Chigi (1655-1667), e smembrato in tre parti, con l’intento di dimenticare quella vicenda, frutto visibile di un pontificato, quello di Rodrigo Borgia, che aveva assecondato intrecci dinastici, veleni di palazzo, calunnie e gelosie? A queste domande prova a rispondere, dopo secoli di ricerche e di indagini scientifiche, la mostra «Pintoricchio pittore dei Borgia. Il mistero svelato di Giulia Farnese», allestita fino al 10 settembre ai Musei capitolini di Roma, per la curatela di Cristina Acidini, Francesco Buranelli, Claudia La Malfa e Claudio Strinati, con la collaborazione di Franco Ivan Nucciarelli e con la supervisione di Francesco Buranelli.
L’esposizione, corredata da un interessante catalogo della Gangemi editore, vuole introdurre il visitatore in quello stupefacente periodo della cultura romana di fine Quattrocento e nel grande fermento umanistico che lo caratterizza, tutto rivolto alla riscoperta della memoria dell'antica Roma, sulla quale la Chiesa, quasi una sorta di «nuova Atene», fonda il proprio «rinascimento» politico e religioso.
Sono gli anni in cui l'arte della stampa, da poco inventata da Johannes Gutenberg, fiorisce e molti editori aprono le proprie stamperie in città, a partire da Sweynheym, Pannatz e Eucharius Silber che hanno una sede a Campo de’ Fiori. Vengono pubblicate le opere dei grandi retori latini, Cicerone e Quintiliano, dei filosofi greci, dei poeti e dei drammaturghi antichi. I monumenti della classicità sono ammirati da pellegrini e visitatori e i cortili dei grandi palazzi dei membri della Curia e del mondo laico si riempiono di statue, rilievi e iscrizioni antiche. Alessandro VI è amante del lusso, del bello e dell’arte al pari dei suoi contemporanei: tra l’autunno del 1492 e la fine del 1494, chiama a Roma uno degli artisti più estrosi del tempo, Bernardino di Betto, detto il Pintoricchio (c.1454-1513), per fargli decorare il suo appartamento nel Palazzo apostolico della Basilica di San Pietro, sei grandi stanze nel corpo quattrocentesco fatto edificare da papa Niccolò V, cui è stata aggiunta una torre.
Tra pitture ricche di contenuti umanistici e teologici, che evocano in maniera sapiente l’arte romana antica e che dimostrano l’interesse del pittore per l’ornato prezioso, si trovava l’opera citata dal Vasari nelle sue «Vite». Quel dipinto, menzionato dall'artista e scrittore aretino in modo fuggevole, e solo per raccontare l’adorazione di papa Borgia per la «Signora Giulia» -una passione adulterina per altro condannata pubblicamente da Girolamo Savonarola- si impregnò, con il tempo, di storie e significati tali da offuscare, alla sensibilità del tempo, il valore artistico nella sua composizione d’insieme.
Oggi sappiamo che, quasi sicuramente, Giorgio Vasari non ebbe mai accesso agli appartamenti papali e che per descriverli si servì prevalentemente di informazioni di seconda mano e delle incisioni a stampa che (soprattutto per le Stanze di Raffaello) iniziarono ben presto a far scuola di quelle meraviglie.
La storiografia ci dice anche che, come spesso accade, il «venticello della calunnia» che qualcuno alitò in maniera impalpabile, ma efficace sulla decorazione dell’appartamento Borgia si rivelò vincente: papa Pio V (Antonio Ghislieri, 1566-1572) fece nascondere l’opera da una doppia pesante tappezzeria da parati e da un nuovo dipinto della «Madonna del Popolo». Alessandro VII, con la complicità del cardinale nipote Flavio I Chigi, lo disperse in più frammenti: le due immagini della Madonna e del Bambino, ormai due dipinti a sé stanti con cornici volutamente differenti e circa duecento numeri di distanza nell’inventariazione, entrarono a far parte della collezione privata dei Chigi, mentre il ritratto di Alessandro VI scomparve definitivamente. L’esatta composizione del dipinto, tuttavia, non andò perduta grazie a una copia realizzata nel 1612 dal pittore Pietro Fachetti.
Oggi, a oltre cinquecento anni da quei fatti e grazie alla disponibilità dei proprietari delle opere, è possibile presentare per la prima volta vicini i due frammenti: quello del volto della Madonna, mai esposto fino a ora, insieme a quello ben noto del «Bambino Gesù delle mani», conservato all’interno della collezione della Fondazione Guglielmo Giordano di Perugia.
Ma la mostra offre anche l’occasione di rivedere la «leggenda» sulla presenza del ritratto di Giulia Farnese nell’appartamento Borgia, destituendo di ogni fondamento una delle convinzioni più durevoli della storia dell’arte moderna. Le sembianze della Vergine risultano, infatti, vicinissime al più classico tipo dei volti di Madonna del Pintoricchio: un viso dolcemente allungato, senza nessuna ricerca ritrattistica, pieno di amorevole concentrazione e assorto compiacimento nei confronti della scena alla quale sta assistendo. Ne da prova il confronto fra l’opera al centro della mostra e altre due tele del pittore entrambe esposte a Roma: la «Madonna della Pace» di San Severino Marche e la «Madonna delle Febbri» di Valencia, alle quali sono accostate un’altra trentina di capolavori del Rinascimento e sette antiche sculture di età romana, provenienti dalle raccolte capitoline, che documentano quanto l’artista abbia attinto all’antico.
Il volto ritrovato della «Madonna» del Pintoricchio, messo accanto al «Bambino delle mani», ci permette, dunque, di ricomporre parzialmente un’opera di forte valenza iconografica ed evidente significato teologico, riconoscendovi, invece, una rarissima iconografia di investitura divina del neoeletto pontefice. Una lettura, questa, «che spazza definitivamente il campo da tutte le precedenti interpretazioni decisamente più “terrene”, -dichiara Francesco Buranelli- che ne hanno al tempo stesso tramandato la memoria e provocato la distruzione e che restituisce alla Chiesa e al mondo un’opera somma che ha già pagato un caro prezzo per la miopia del genere umano».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Bernardino di Betto, detto Pintoricchio (Perugia c. 1454 – Siena 1513), Bambin Gesù delle mani, frammento della distrutta Investitura divina di Alessandro VI, c. 1492-1493. Dipinto murario entro cornice seicentesca, cm 48,6 x 33,5 x 6,5 circa. Perugia, Fondazione Guglielmo Giordano; [fig. 2] Bernardino di Betto, detto Pintoricchio (Perugia c. 1454 – Siena 1513), Madonna, frammento della distrutta Investitura divina di Alessandro VI, c. 1492-1493. Dipinto murario entro cornice seicentesca, cm 39,5 x 28, 5 x 5. Collezione privata; [fig. 3] Bernardino di Betto, detto Pintoricchio (Perugia c. 1454 – Siena 1513), Madonna della Melagrana, c. 1508-1509. Tempera su tavola, cm 54.5 x 41. Siena, Pinacoteca Nazionale, inv. 387; [fig. 4] Bernardino di Betto, detto Pintoricchio (Perugia c. 1454 – Siena 1513), Madonna delle Febbri, c. 1497. Olio su tavola, cm 158 x 77,3. Valencia, Museo de Bellas Artes de Valencia (colleción Real Academia de Bellas Artes de San Carlos), inv. 273
Informazioni utili
«Pintoricchio pittore dei Borgia. Il mistero svelato di Giulia Farnese». Musei Capitolini - Palazzo Caffarelli, piazza del Campidoglio – Roma. Orari: tutti i giorni, ore 9.30-19.30; la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso (integrato per il museo e comprensivo di tassa di turismo): intero € 15,00, ridotto € 13,00. Catalogo: Gangemi editore, Roma. Informazioni: tel. 060608 (tutti i giorni, ore 9.00 - 19.00). Sito internet: www.museicapitolini.org; www.museiincomune.it. Fino al 10 settembre 2017
martedì 11 luglio 2017
La 5 Continents Editions racconta i capolavori «rari e preziosi» del Mann di Napoli
Tra le tante iniziative con cui il Mann di Napoli rivela al pubblico i capolavori del suo immenso patrimonio -talora esposti e altre volte custoditi nei ricchissimi depositi– vi è dal 2016 anche una nuova e originale collana di eleganti volumetti intitolata «Oggetti rari e preziosi al Museo archeologico nazionale di Napoli», edita con la casa editrice 5 Continents Editions di Milano. I testi di Valeria Sampaolo, conservatore capo delle collezioni del museo napoletano, raccontano insieme con le straordinarie fotografie di Luigi Spina, i più importanti capolavori conservati nelle sale dell’istituzione partenopea, offrendo -racconta il direttore Paolo Giulierini- «un’esplorazione assolutamente impressionante e capace di sorprendere anche chi conosce bene questi oggetti».
Ad aprire la raccolta è stato il libricino «Memoria del vaso blu», dedicato a quell’unicum scoperto nel 1837 a Pompei, in una nicchia della piccola tomba a camera prospiciente la Villa delle Colonne a mosaico, e realizzato come se si trattasse di un cammeo con l’incisione dello strato vetroso bianco sovrapposto a disegnare tralci d’uva e scene di vendemmia, importante momento della vita dei campi raffigurato più volte nel corso dei secoli dagli antichi artigiani sulla ceramica, in affreschi, in mosaici o nel marmo. Ma se nella maggior parte delle rappresentazioni di vendemmia è presente il senso della fatica, qui c’è invece un’atmosfera giocosa, i piccoli personaggi sembrano divertirsi nel suonare i vari strumenti e sembrano muoversi con leggeri passi di danza. Oltre ad essi e, ovviamente, ai tralci di vite, ecco maschere su foglie d’acanto, rami di quercia, ghirlande d’edera, uccelli, spighe di grano, capsule di papaveri, mele cotogne, rami di alloro, melograni e tanti altri frutti dell’estate e dell’autunno, contrapposti e mescolati nell’evocazione di una natura feconda e generosa. La scelta delle essenze vegetali non è casuale: ognuna di esse è carica di significati religiosi e simbolici. Il rimando a Dioniso si coglie in molti elementi, ma tanti altri messaggi allusivi sono presenti nelle scene che decorano questo vaso che attraverso la sua decorazione comunicava un messaggio di rinascita e sopravvivenza dopo la morte.
A questo volume si sono ora aggiunti due nuovi titoli: «Amazzonomachia» e «Centauri».
Il primo libro presenta il celebre cratere a volute con la scena di combattimento tra greci e amazzoni scoperto a Ruvo di Puglia da un canonico e da un farmacista, appassionati di antichità, nel 1838 e ora in attesa di essere esposto nella sezione del Mann sulla Magna Grecia che si inaugurerà nel 2018.
Questo reperto si distingue, tra i tanti vasi decorati a figure rosse, per le grandi dimensioni dei personaggi che combattendo in concitati duelli si dispongono sull’intera superficie in una sequenza che sembra derivare dai fregi o dai frontoni in pietra dei templi.
Autore della decorazione è il Pittore dei Niobidi, una delle figure più rappresentative della ceramografa attica del secondo quarto del V secolo a.C., che certamente si ispirava alla grande pittura di Mikon o di Polignoto, per noi del tutto perduta e della quale possiamo avere un’idea proprio attraverso le sue opere nelle quali anche la posa e le espressioni dei personaggi contribuiscono a dare drammatica vitalità alle scene.
La varietà dei particolari dell’abbigliamento e delle armature delle amazzoni e dei greci, dei loro volti e dei loro corpi, viene messa in primo piano dagli oltre settanta scatti a colori di Luigi Spina attraverso i quali si notano dettagli che sfuggono alla visione diretta dell’opera.
«Centauri» mette, invece, in luce la coppia di schiphi d’argento rinvenuta anch’essa a Pompei, assieme ad altri dodici oggetti dello stesso metallo, nella casa che sarebbe stata chiamata «dell’argenteria». Queste coppe sono gli esemplari meglio conservati tra i recipienti lavorati nella stessa tecnica a sbalzo custoditi nel Museo. Per la loro fragilità –a lamina d’argento è sensibile alle variazioni di temperatura tra giorno e notte– sono al momento custoditi in ambiente climatizzato in attesa di idonei espositori.
Quelli che la 5 Continents Editions dedica ai capolavori del Mann sono, dunque, libri rivelatori, libri che ci portano dentro l’opera, tra i decori realizzati da antichi artigiani e dai primi artisti, nelle pieghe della materia e del tempo.
Gli scatti di Luigi Spina, i suoi primi piani e gli ingrandimenti, mettono in luce dettagli che sfuggono alla visione diretta di questi oggetti, «rari e preziosi», e ci introducono in un universo fatto di mille particolari: nell’abbigliamento e nelle armature delle amazzoni e dei greci, nei chiaroscuri dell’argento sbalzato tra centuari e amorini, nei simboli di rinascita e di morte inseriti con perizia nella decorazione del «Vaso blu» (metà del I secolo d.C.) che - per buone condizioni di conservazione e per la rarità della tecnica di esecuzione - è uno dei pezzi di maggior pregio del Museo di Napoli.
Informazioni utili
5 Continents Editions s.r.l., Piazza Caiazzo, 1 - 20124 Milano | tel. 02.33603276 | info@fivecontinentseditions.com.
Ad aprire la raccolta è stato il libricino «Memoria del vaso blu», dedicato a quell’unicum scoperto nel 1837 a Pompei, in una nicchia della piccola tomba a camera prospiciente la Villa delle Colonne a mosaico, e realizzato come se si trattasse di un cammeo con l’incisione dello strato vetroso bianco sovrapposto a disegnare tralci d’uva e scene di vendemmia, importante momento della vita dei campi raffigurato più volte nel corso dei secoli dagli antichi artigiani sulla ceramica, in affreschi, in mosaici o nel marmo. Ma se nella maggior parte delle rappresentazioni di vendemmia è presente il senso della fatica, qui c’è invece un’atmosfera giocosa, i piccoli personaggi sembrano divertirsi nel suonare i vari strumenti e sembrano muoversi con leggeri passi di danza. Oltre ad essi e, ovviamente, ai tralci di vite, ecco maschere su foglie d’acanto, rami di quercia, ghirlande d’edera, uccelli, spighe di grano, capsule di papaveri, mele cotogne, rami di alloro, melograni e tanti altri frutti dell’estate e dell’autunno, contrapposti e mescolati nell’evocazione di una natura feconda e generosa. La scelta delle essenze vegetali non è casuale: ognuna di esse è carica di significati religiosi e simbolici. Il rimando a Dioniso si coglie in molti elementi, ma tanti altri messaggi allusivi sono presenti nelle scene che decorano questo vaso che attraverso la sua decorazione comunicava un messaggio di rinascita e sopravvivenza dopo la morte.
A questo volume si sono ora aggiunti due nuovi titoli: «Amazzonomachia» e «Centauri».
Il primo libro presenta il celebre cratere a volute con la scena di combattimento tra greci e amazzoni scoperto a Ruvo di Puglia da un canonico e da un farmacista, appassionati di antichità, nel 1838 e ora in attesa di essere esposto nella sezione del Mann sulla Magna Grecia che si inaugurerà nel 2018.
Questo reperto si distingue, tra i tanti vasi decorati a figure rosse, per le grandi dimensioni dei personaggi che combattendo in concitati duelli si dispongono sull’intera superficie in una sequenza che sembra derivare dai fregi o dai frontoni in pietra dei templi.
Autore della decorazione è il Pittore dei Niobidi, una delle figure più rappresentative della ceramografa attica del secondo quarto del V secolo a.C., che certamente si ispirava alla grande pittura di Mikon o di Polignoto, per noi del tutto perduta e della quale possiamo avere un’idea proprio attraverso le sue opere nelle quali anche la posa e le espressioni dei personaggi contribuiscono a dare drammatica vitalità alle scene.
La varietà dei particolari dell’abbigliamento e delle armature delle amazzoni e dei greci, dei loro volti e dei loro corpi, viene messa in primo piano dagli oltre settanta scatti a colori di Luigi Spina attraverso i quali si notano dettagli che sfuggono alla visione diretta dell’opera.
«Centauri» mette, invece, in luce la coppia di schiphi d’argento rinvenuta anch’essa a Pompei, assieme ad altri dodici oggetti dello stesso metallo, nella casa che sarebbe stata chiamata «dell’argenteria». Queste coppe sono gli esemplari meglio conservati tra i recipienti lavorati nella stessa tecnica a sbalzo custoditi nel Museo. Per la loro fragilità –a lamina d’argento è sensibile alle variazioni di temperatura tra giorno e notte– sono al momento custoditi in ambiente climatizzato in attesa di idonei espositori.
Quelli che la 5 Continents Editions dedica ai capolavori del Mann sono, dunque, libri rivelatori, libri che ci portano dentro l’opera, tra i decori realizzati da antichi artigiani e dai primi artisti, nelle pieghe della materia e del tempo.
Gli scatti di Luigi Spina, i suoi primi piani e gli ingrandimenti, mettono in luce dettagli che sfuggono alla visione diretta di questi oggetti, «rari e preziosi», e ci introducono in un universo fatto di mille particolari: nell’abbigliamento e nelle armature delle amazzoni e dei greci, nei chiaroscuri dell’argento sbalzato tra centuari e amorini, nei simboli di rinascita e di morte inseriti con perizia nella decorazione del «Vaso blu» (metà del I secolo d.C.) che - per buone condizioni di conservazione e per la rarità della tecnica di esecuzione - è uno dei pezzi di maggior pregio del Museo di Napoli.
Informazioni utili
5 Continents Editions s.r.l., Piazza Caiazzo, 1 - 20124 Milano | tel. 02.33603276 | info@fivecontinentseditions.com.
domenica 9 luglio 2017
Picasso tra ceramiche e incisioni
Italia 1917, cento anni fa: lo spagnolo Pablo Picasso decide, con lo sceneggiatore e drammaturgo Jean Cocteau, di compiere un viaggio in Italia alla ricerca di ispirazioni creative. Roma, Napoli e Pompei sono le città che visita. Quella vacanza entra nella storia dell’arte: è qui che il padre del Cubismo scopre il «Mediterraneo» e la classicità, elementi che generano il suo conseguente Ritorno all’ordine. Il soggiorno italiano si rivela importante anche a livello personale per l’incontro e l’amore con Olga Kochlova, danzatrice dei Balletti Russi di Sergej Djaghilev, la donna che di lì a poco diverrà la prima (e unica) moglie dell’artista spagnolo.
Sono molti gli eventi che si stanno organizzando nel nostro Paese per festeggiare questo importante anniversario. A Castiglione del Lago, nelle sale di Palazzo della Corgna, è, per esempio, in corso la mostra «Pablo Picasso. La materia e il segno. Ceramica, grafica», rappresentativa della creatività del maestro cubista, che si è cimentato, nel corso della sua lunga e intensa esistenza, in tutti i generi artistici conosciuti: pittura, incisione, disegno e ceramica.
L’esposizione umbra permette di ammirare una novantina di opere, tra cui le tre celebri serie di incisioni e acqueforti -«Le Cocu Magnifique», «Carmen» e «Balzac en bas de casse et Picassos sans majuscule»-, e un corpo unico di ben ventinove ceramiche come brocche, vasi antropomorfi, piatti decorati, graffiti e modellati, realizzati tra il 1947 e la fine degli anni Sessanta, che provengono da raccolte e collezioni private.
La caratteristica di questa produzione è l’originale trasformazione delle forme in particolari plastici figurativi, esaltati dalla policromia del segno pittorico, con un’attenzione al piccolo dettaglio per cogliere l’essenza del rappresentato. Tra i temi iconografici prescelti compaiono gufi, pesci, tori, picadores, corride, uccelli, figure femminili, volti di fauni, realizzati con segni intensi e soluzioni antropomorfe e zoomorfe inimmaginabili.
Quello tra Picasso e la ceramica non si può propriamente definire un colpo di fulmine. È, però, certo che l’artista dal suo primo soggiorno in Costa Azzurra, datato 1946, si avvicina a questo materiale grazie all’amicizia con i coniugi Suzanne Douly e Georges Ramié e al contatto con la Madoura di Vallauris, antico centro di produzione della Francia meridionale. Qui realizza le sue prime tre sculture in terra rossa: un fauno e due tori. È l’inizio di un rapporto costante con la ceramica che lo porterà a realizzare oltre quattromila manufatti, parte in produzione e parte pezzi unici. Con il passare degli anni e con la creatività che lo connota, Picasso continua, infatti, a investigare- scrive Claudia Casali, direttrice del Museo internazionale delle ceramiche di Faenza, nel suo testo in catalogo- «la possibilità di questo linguaggio, integrando ed alternando forma e decorazione, utilizzando la qualità scultorea della terra unita al dato pittorico per creare effetti quasi illusionistici». Ne nasce un rapporto costante, ricorda ancora la studiosa, caratterizzato da «libertà d’espressione, ritorno alle origini, omaggio alla storia e all’eternità dell’arte, in sintesi nuova sperimentazione».
Non meno interessante è il rapporto dell’artista con il mondo delle incisioni e delle acqueforti, con il quale Pablo Picasso sente di riappropriarsi dell’antica condizione dell'alchimista, ossia della libertà di trasformare chimicamente e meccanicamente il segno grafico.
In mostra è possibile vedere l'ultima opera incisoria realizzata dall’artista a Parigi: trentotto incisioni a bulino (una tecnica meno frequentata dall'artista) della novella «Carmen» di Prosper Mérimée, divenuta famosa per essere stata trasposta in musica da Bizet nel 1875. Per queste tavole, che vengono pubblicate dalla Bibliothèque Française nel 1949, il maestro spagnolo pensa a volti femminili e maschili, costumi andalusi e teste taurine.
Datano, invece, alla fine del 1952 le undici litografie con ritratti diversificati di Honoré de Balzac, padre del Realismo nella letteratura europea, commissionategli da Fernand Mourlot. Una di esse viene utilizzata come frontespizio per una edizione di «Le Pére Goroit» di Balzac; otto verranno edite nel 1957 da Michel Leiris in «Balzacs en bas de casse».
Nel 1968 Picasso incide, poi, dodici tavole all'acquaforte e acquatinta per illustrare la commedia «Le Cocu Magnifique. Farce en trois actes» di Fernand Crommelynck, che racconta le conseguenze del sentimento tragico della gelosia. Si tratta di un nucleo estremamente rappresentativo del repertorio figurativo picassiano, capace di rendere con arguzia lo spirito farsesco dell’opera teatrale. Le opere esposte raffigurano con ammirevole stilizzazione visi di donna e di uomo, costumi andalusiani, teste di toro e figure mitologiche, prendendo ispirazione anche dalle proprie conoscenze mitologiche, tra le quali primeggia la figura immancabile del Minotauro.
Informazioni utili
«Pablo Picasso. La materia e il segno. Ceramica, grafica». Palazzo della Corgna, piazza Antonio Gramsci, 1 – Castiglione del Lago. Orari ore 9.30-19.00; la biglietteria chiude mezz’ora prima. Ingresso: intero € 8,00, ridotto € 5,00 (gruppi di oltre 15 unità, ragazzi fino a 25 anni); ridotto famiglia € 18,00 (3 persone) o € 22 euro (4 persone); biglietto unico residenti Comune di Castiglione del Lago € 4,00; ridotto famiglia residente € 10,00 (3 persone) o € 12,00 (4 persone); omaggio bambini fino a 6 anni. Informazioni: tel. 075.951099, cooplagodarte94@gmail.com. Sito internet: www.palazzodellacorgna.it. Fino al 27 agosto 2017. La mostra è prorogata fino al 5 novembre 2017.
Sono molti gli eventi che si stanno organizzando nel nostro Paese per festeggiare questo importante anniversario. A Castiglione del Lago, nelle sale di Palazzo della Corgna, è, per esempio, in corso la mostra «Pablo Picasso. La materia e il segno. Ceramica, grafica», rappresentativa della creatività del maestro cubista, che si è cimentato, nel corso della sua lunga e intensa esistenza, in tutti i generi artistici conosciuti: pittura, incisione, disegno e ceramica.
L’esposizione umbra permette di ammirare una novantina di opere, tra cui le tre celebri serie di incisioni e acqueforti -«Le Cocu Magnifique», «Carmen» e «Balzac en bas de casse et Picassos sans majuscule»-, e un corpo unico di ben ventinove ceramiche come brocche, vasi antropomorfi, piatti decorati, graffiti e modellati, realizzati tra il 1947 e la fine degli anni Sessanta, che provengono da raccolte e collezioni private.
La caratteristica di questa produzione è l’originale trasformazione delle forme in particolari plastici figurativi, esaltati dalla policromia del segno pittorico, con un’attenzione al piccolo dettaglio per cogliere l’essenza del rappresentato. Tra i temi iconografici prescelti compaiono gufi, pesci, tori, picadores, corride, uccelli, figure femminili, volti di fauni, realizzati con segni intensi e soluzioni antropomorfe e zoomorfe inimmaginabili.
Quello tra Picasso e la ceramica non si può propriamente definire un colpo di fulmine. È, però, certo che l’artista dal suo primo soggiorno in Costa Azzurra, datato 1946, si avvicina a questo materiale grazie all’amicizia con i coniugi Suzanne Douly e Georges Ramié e al contatto con la Madoura di Vallauris, antico centro di produzione della Francia meridionale. Qui realizza le sue prime tre sculture in terra rossa: un fauno e due tori. È l’inizio di un rapporto costante con la ceramica che lo porterà a realizzare oltre quattromila manufatti, parte in produzione e parte pezzi unici. Con il passare degli anni e con la creatività che lo connota, Picasso continua, infatti, a investigare- scrive Claudia Casali, direttrice del Museo internazionale delle ceramiche di Faenza, nel suo testo in catalogo- «la possibilità di questo linguaggio, integrando ed alternando forma e decorazione, utilizzando la qualità scultorea della terra unita al dato pittorico per creare effetti quasi illusionistici». Ne nasce un rapporto costante, ricorda ancora la studiosa, caratterizzato da «libertà d’espressione, ritorno alle origini, omaggio alla storia e all’eternità dell’arte, in sintesi nuova sperimentazione».
Non meno interessante è il rapporto dell’artista con il mondo delle incisioni e delle acqueforti, con il quale Pablo Picasso sente di riappropriarsi dell’antica condizione dell'alchimista, ossia della libertà di trasformare chimicamente e meccanicamente il segno grafico.
In mostra è possibile vedere l'ultima opera incisoria realizzata dall’artista a Parigi: trentotto incisioni a bulino (una tecnica meno frequentata dall'artista) della novella «Carmen» di Prosper Mérimée, divenuta famosa per essere stata trasposta in musica da Bizet nel 1875. Per queste tavole, che vengono pubblicate dalla Bibliothèque Française nel 1949, il maestro spagnolo pensa a volti femminili e maschili, costumi andalusi e teste taurine.
Datano, invece, alla fine del 1952 le undici litografie con ritratti diversificati di Honoré de Balzac, padre del Realismo nella letteratura europea, commissionategli da Fernand Mourlot. Una di esse viene utilizzata come frontespizio per una edizione di «Le Pére Goroit» di Balzac; otto verranno edite nel 1957 da Michel Leiris in «Balzacs en bas de casse».
Nel 1968 Picasso incide, poi, dodici tavole all'acquaforte e acquatinta per illustrare la commedia «Le Cocu Magnifique. Farce en trois actes» di Fernand Crommelynck, che racconta le conseguenze del sentimento tragico della gelosia. Si tratta di un nucleo estremamente rappresentativo del repertorio figurativo picassiano, capace di rendere con arguzia lo spirito farsesco dell’opera teatrale. Le opere esposte raffigurano con ammirevole stilizzazione visi di donna e di uomo, costumi andalusiani, teste di toro e figure mitologiche, prendendo ispirazione anche dalle proprie conoscenze mitologiche, tra le quali primeggia la figura immancabile del Minotauro.
Informazioni utili
«Pablo Picasso. La materia e il segno. Ceramica, grafica». Palazzo della Corgna, piazza Antonio Gramsci, 1 – Castiglione del Lago. Orari ore 9.30-19.00; la biglietteria chiude mezz’ora prima. Ingresso: intero € 8,00, ridotto € 5,00 (gruppi di oltre 15 unità, ragazzi fino a 25 anni); ridotto famiglia € 18,00 (3 persone) o € 22 euro (4 persone); biglietto unico residenti Comune di Castiglione del Lago € 4,00; ridotto famiglia residente € 10,00 (3 persone) o € 12,00 (4 persone); omaggio bambini fino a 6 anni. Informazioni: tel. 075.951099, cooplagodarte94@gmail.com. Sito internet: www.palazzodellacorgna.it. Fino al 27 agosto 2017. La mostra è prorogata fino al 5 novembre 2017.
venerdì 7 luglio 2017
«Il mondo in una perla», la tradizione muranese in un volume di Antiga Edizioni
«Il vetro è un materiale pazzesco, molto misterioso trasparente, fragile […], come la ceramica del resto, ha una qualità strana: entra nel fuoco e non si sa cosa va dentro. Poi di colpo esce un oggetto puro perché bruciato dal fuoco, un oggetto di una purezza totale, di una intangibilità fisica totale. Come una visione. Si è veramente coinvolti in questo processo del vetro. Il vetro è uno spettacolo». Vengono in mente le parole di Ettore Sottsass junior (1917-2007), al quale in questi giorni la Fondazione Giorgio Cini dedica un'importante retrospettiva nell'ambito del progetto «Le stanze del vetro», sfogliando il libro «Il mondo in una perla», appena pubblicato dalla casa editrice Antiga di Treviso.
Il ricco tomo, edito grazie al contributo economico della Vistosi, è il risultato di un meticoloso lavoro di ricerca, condotto all’interno della preziosa collezione di perle di vetro del Museo di Murano, da Augusto Panini, appassionato collezionista comasco e curatore di mostre.
Disegni sempre diversi che si formano grazie alla magia del fuoco, colori unici e brillanti, forme e stili svariati, che spaziano dal rotondo all'irregolare, dal decorato al trasparente: tutto questo è documentato attraverso più di mille straordinarie immagini e quasi quattrocento pagine che rendono lo studio di Augusto Panini prezioso sia per il lettore comune che per gli specialisti, consentendo loro di addentrarsi nell’essenza stessa di questa affascinante produzione, cosmo poliedrico dove le mani, soprattutto quelle femminili, hanno traslato una concezione di grazia e perfezione dando vita, ogni volta, ad un mondo perfetto e ideale.
Raccolta tra il 1861 ed il 1883 dall’abate Vincenzo Zanetti e rappresentativa della produzione ottocentesca veneziana e muranese, nel corso degli anni Trenta del Novecento la collezione di perle venne progressivamente rimossa dalle vetrine del museo e relegata nei depositi laddove si perdono le informazioni relative alle attribuzioni dei singoli pezzi e quelli delle cartelle campionarie.
Dopo quasi cent’anni di oblio la raccolta, un cui consistente focus sulle perle veneziane e le murrine è stato inserito in una sala del rinnovato museo appositamente dedicata al tema -su input dello stesso Panini, che l’aveva nel frattempo acquisita- è divenuta oggetto di studio, anche in prospettiva di una sua adeguata ricollocazione espositiva.
Partendo dai saggi scritti dall’abate Zanetti sulle collezioni del Museo del vetro -realizzati in occasione di Esposizioni internazionali o per documentare le scoperte che valenti vetrai avevano sviluppato nella prima metà del 1800– Augusto Panini, in oltre cinque anni di lavoro, è riuscito dunque a ricostruire attribuzioni e paternità, contribuendo in maniera decisiva a riportare questi straordinari oggetti all’attenzione che meritano.
La collezione di perle del Museo del vetro di Murano, a cui sarà dedicata una mostra dal 15 dicembre al 18 maggio 2018, è oggi costituita da ottantacinque cartelle campionarie, contenenti quattordicimila perle, oltre che da tre pannelli in stoffa datati 1863, dono della Società delle Fabbriche unite, contenenti duemilaquindici perle e da duecentosessantasei mazzette di conterie, novantuno mazzi di perle a lume più o meno completi, oltre ottomila di perle sciolte, quattrocentonovantadue mazzi di conterie e qualche ulteriore oggetto con perle, dono delle più importanti vetrerie veneziane e muranesi attive nella metà dell’Ottocento.
Informazioni utili
Augusto Panini, «Il mondo in una perla. La collezione del Museo del Vetro di Murano», Antiga edizioni, Crocetta del Montello (Treviso) 2017. Collana: Fuori collana arte. Pagine: 376. Immagini: 1200 illustrazioni a colori. Formato: 23 x 28 cm. Confezione: brossura con alette. Prezzo: € 39,00. ISBN: 978-88-99657-60-4. Note: Disponibile anche l'edizione in lingua inglese. Informazioni: Grafiche Antiga, via delle Industrie, 1 - Crocetta del Montello (Treviso), tel. 0423.6388 o editoria@graficheantiga.it. Sito internet: www.antigaedizioni.it.
Il ricco tomo, edito grazie al contributo economico della Vistosi, è il risultato di un meticoloso lavoro di ricerca, condotto all’interno della preziosa collezione di perle di vetro del Museo di Murano, da Augusto Panini, appassionato collezionista comasco e curatore di mostre.
Disegni sempre diversi che si formano grazie alla magia del fuoco, colori unici e brillanti, forme e stili svariati, che spaziano dal rotondo all'irregolare, dal decorato al trasparente: tutto questo è documentato attraverso più di mille straordinarie immagini e quasi quattrocento pagine che rendono lo studio di Augusto Panini prezioso sia per il lettore comune che per gli specialisti, consentendo loro di addentrarsi nell’essenza stessa di questa affascinante produzione, cosmo poliedrico dove le mani, soprattutto quelle femminili, hanno traslato una concezione di grazia e perfezione dando vita, ogni volta, ad un mondo perfetto e ideale.
Raccolta tra il 1861 ed il 1883 dall’abate Vincenzo Zanetti e rappresentativa della produzione ottocentesca veneziana e muranese, nel corso degli anni Trenta del Novecento la collezione di perle venne progressivamente rimossa dalle vetrine del museo e relegata nei depositi laddove si perdono le informazioni relative alle attribuzioni dei singoli pezzi e quelli delle cartelle campionarie.
Dopo quasi cent’anni di oblio la raccolta, un cui consistente focus sulle perle veneziane e le murrine è stato inserito in una sala del rinnovato museo appositamente dedicata al tema -su input dello stesso Panini, che l’aveva nel frattempo acquisita- è divenuta oggetto di studio, anche in prospettiva di una sua adeguata ricollocazione espositiva.
Partendo dai saggi scritti dall’abate Zanetti sulle collezioni del Museo del vetro -realizzati in occasione di Esposizioni internazionali o per documentare le scoperte che valenti vetrai avevano sviluppato nella prima metà del 1800– Augusto Panini, in oltre cinque anni di lavoro, è riuscito dunque a ricostruire attribuzioni e paternità, contribuendo in maniera decisiva a riportare questi straordinari oggetti all’attenzione che meritano.
La collezione di perle del Museo del vetro di Murano, a cui sarà dedicata una mostra dal 15 dicembre al 18 maggio 2018, è oggi costituita da ottantacinque cartelle campionarie, contenenti quattordicimila perle, oltre che da tre pannelli in stoffa datati 1863, dono della Società delle Fabbriche unite, contenenti duemilaquindici perle e da duecentosessantasei mazzette di conterie, novantuno mazzi di perle a lume più o meno completi, oltre ottomila di perle sciolte, quattrocentonovantadue mazzi di conterie e qualche ulteriore oggetto con perle, dono delle più importanti vetrerie veneziane e muranesi attive nella metà dell’Ottocento.
Informazioni utili
Augusto Panini, «Il mondo in una perla. La collezione del Museo del Vetro di Murano», Antiga edizioni, Crocetta del Montello (Treviso) 2017. Collana: Fuori collana arte. Pagine: 376. Immagini: 1200 illustrazioni a colori. Formato: 23 x 28 cm. Confezione: brossura con alette. Prezzo: € 39,00. ISBN: 978-88-99657-60-4. Note: Disponibile anche l'edizione in lingua inglese. Informazioni: Grafiche Antiga, via delle Industrie, 1 - Crocetta del Montello (Treviso), tel. 0423.6388 o editoria@graficheantiga.it. Sito internet: www.antigaedizioni.it.
mercoledì 5 luglio 2017
Milano, quattro opere per un omaggio a Cola dell’Amatrice
Si fa interprete del desiderio di rinascita di un intero territorio, a partire dalla valorizzazione delle sue bellezze paesaggistiche e artistiche, la mostra «Ritorno a Cola dell'Amatrice. Opere dalla Pinacoteca civica di Ascoli Piceno», allestita fino al 27 agosto negli spazi del Museo Bagatti Valsecchi di Milano, con un progetto espositivo firmato dallo Studio Lissoni Associati.
All’esposizione, curata da Vittorio Sgarbi, fa da corollario e completamento l’iniziativa «Adotta un museo», promossa da Icom Italia in sostegno delle popolazioni del Centro Italia colpite dal terremoto, che vede la realtà milanese in prima linea nella raccolta di fondi per il restauro di una statua lignea della «Vergine», realizzata nel XV secolo, che usualmente è conservata nella chiesa di San Pellegrino a Norcia, ora si trova nel deposito del Santo Chiodo a Spoleto e, dopo il restauro, andrà al Museo diocesano di Milano.
Praticamente ignota sino agli anni Cinquanta del Novecento, quando venne riscoperta grazie agli studi di Federico Zeri nei territori appenninici oggi devastati dal sisma, la figura di Cola dell’Amatrice, nome d’arte di Nicola Filotesio (Amatrice, 9 settembre 1480 o 1489 – Ascoli Piceno, 31 agosto 1547 o 1559), pittore, scultore e architetto del Cinquecento, allievo di Dionisio Cappelli e sodale di Giulio Romano, che fu attivo tra Abruzzo e Marche firmando, tra l’altro, la facciata del Duomo di Ascoli e quella della chiesa di San Bernardino a L’Aquila, sta uscendo dall’oblio, un po’ com’è accaduto a inizio Novecento a Lorenzo Lotto.
Buon cultore della prospettiva e dello sfondo paesaggistico, Cola dell’Amatrice è citato anche da Giorgio Vasari nelle sue «Vite», in alcune righe al termine della sezione dedicata al pittore «Marco Calavrese» (Marco Cardisco). In queste pagine il biografo sottolinea che egli ebbe la «fama di un maestro raro, del migliore che fosse mai stato in quei paesi» e che sarebbe stato un artista ancora migliore, se il suo percorso creativo fosse stato meno appartato e se «avesse la sua arte esercitato in luoghi dove la concorrenza e l’emulazione l’avesse fatto attendere con più studio alla pittura, ed esercitare il bello ingegno di cui si vide che era stato dalla natura dotato».
Non interessato a competere a Roma con più grandi maestri, che studiò e ammirò, mostrandosi informato sui pensieri nuovi di Raffaello e Michelangelo, che aggiornarono così la sua formazione legata principalmente ai modelli umbro-laziali del tardo Quattrocento ben rappresentati dall’arte del Perugino e di Antoniazzo Romano, Cola dell’Amatrice si mosse sulla scia del classicismo, per giungere poi a un linguaggio antiaccademico ed eterodosso, che pone l’accento sulla drammatica espressività dei dolenti e sull’enfasi dei loro gesti, facendo spesso sottolineare alla critica l’«eccentricità» del suo percorso rispetto ai modelli normativi allora vigenti.
Il suo «Rinascimento distaccato e alternativo», documentato anche da un prezioso taccuino di disegni e appunti conservato alla Biblioteca comunale di Fermo, si respira negli affreschi per il palazzo Vitelli alla Cannoniera di Città di Castello e nelle svariate pitture di tema religioso lasciate sul territorio, tra cui si segnalano una «Sacra famiglia» (1527), miracolosamente scampata al terremoto di Amatrice, un’elegante «Comunione degli apostoli» commissionata dall’Oratorio della Confraternita del Corpus Domini di Ascoli Piceno, una «Disputa di Gesù con i Dottori» conservata a L’Aquila e la tela «Cristo in casa di Marta e Maria», di collezione privata, la cui spazialità ricorda Giulio Romano. La sua opera più ispirata è, però, senz’altro una «Dormitio Virginis», oggi ai Musei capitolini, nella quale si possono cogliere i moti dell’anima degli astanti riletti attraverso la lezione raffaelliana.
La mostra milanese vede esposte, al Museo Bagatti Valsecchi, quattro opere oggi custodite nelle sale della Pinacoteca civica di Ascoli. Si tratta di due «Angeli portacroce», facenti parte di un polittico ormai smembrato, in parte conservato National Gallery of Victoria di Melbourne e in parte disperso, e della coppia di tavole della «Vergine addolorata» e del «San Giovanni apostolo», provenienti dalla cappella del Crocifisso della chiesa dell’Annunziata nel monastero degli Osservanti, le cui figure a grandezza naturale sono di una toccante intensità emotiva e colpiscono l’attenzione per la loro luminosità cromatica.
La mostra, che sarà arricchita nella giornata del 13 luglio da un laboratorio per bambini che insegnerà a dipingere come in una bottega del Rinascimento, è completata da un filmato che ripropone, con riprese a volo d’uccello, immagini dei recenti terremoti che hanno colpito l’Italia centrale. Un’occasione, questa, per riflettere sulla precarietà del nostro vivere, ma anche per pensare al valore della nostra arte, un patrimonio da preservare «per ribaltare -come ha dichiarato Vittorio Sgarbi- la tristezza con l’euforia della bellezza».
Informazioni utili
Ritorno a Cola dell’Amatrice. Opere dalla Pinacoteca civica di Ascoli Piceno. Museo Bagatti Valsecchi, Via Gesù, 5 - Milano. Orari: da martedì a domenica, ore 13.00–17.45; chiuso tutti i lunedì, il 2 giugno e il 15 agosto. Ingresso: intero € 9,00, ridotto € 6,00. Informazioni: tel.02.7600613 o info@museobagattivalsecchi.org. Sito internet: https://museobagattivalsecchi.org/. Fino al 27 agosto 2017.
All’esposizione, curata da Vittorio Sgarbi, fa da corollario e completamento l’iniziativa «Adotta un museo», promossa da Icom Italia in sostegno delle popolazioni del Centro Italia colpite dal terremoto, che vede la realtà milanese in prima linea nella raccolta di fondi per il restauro di una statua lignea della «Vergine», realizzata nel XV secolo, che usualmente è conservata nella chiesa di San Pellegrino a Norcia, ora si trova nel deposito del Santo Chiodo a Spoleto e, dopo il restauro, andrà al Museo diocesano di Milano.
Praticamente ignota sino agli anni Cinquanta del Novecento, quando venne riscoperta grazie agli studi di Federico Zeri nei territori appenninici oggi devastati dal sisma, la figura di Cola dell’Amatrice, nome d’arte di Nicola Filotesio (Amatrice, 9 settembre 1480 o 1489 – Ascoli Piceno, 31 agosto 1547 o 1559), pittore, scultore e architetto del Cinquecento, allievo di Dionisio Cappelli e sodale di Giulio Romano, che fu attivo tra Abruzzo e Marche firmando, tra l’altro, la facciata del Duomo di Ascoli e quella della chiesa di San Bernardino a L’Aquila, sta uscendo dall’oblio, un po’ com’è accaduto a inizio Novecento a Lorenzo Lotto.
Buon cultore della prospettiva e dello sfondo paesaggistico, Cola dell’Amatrice è citato anche da Giorgio Vasari nelle sue «Vite», in alcune righe al termine della sezione dedicata al pittore «Marco Calavrese» (Marco Cardisco). In queste pagine il biografo sottolinea che egli ebbe la «fama di un maestro raro, del migliore che fosse mai stato in quei paesi» e che sarebbe stato un artista ancora migliore, se il suo percorso creativo fosse stato meno appartato e se «avesse la sua arte esercitato in luoghi dove la concorrenza e l’emulazione l’avesse fatto attendere con più studio alla pittura, ed esercitare il bello ingegno di cui si vide che era stato dalla natura dotato».
Non interessato a competere a Roma con più grandi maestri, che studiò e ammirò, mostrandosi informato sui pensieri nuovi di Raffaello e Michelangelo, che aggiornarono così la sua formazione legata principalmente ai modelli umbro-laziali del tardo Quattrocento ben rappresentati dall’arte del Perugino e di Antoniazzo Romano, Cola dell’Amatrice si mosse sulla scia del classicismo, per giungere poi a un linguaggio antiaccademico ed eterodosso, che pone l’accento sulla drammatica espressività dei dolenti e sull’enfasi dei loro gesti, facendo spesso sottolineare alla critica l’«eccentricità» del suo percorso rispetto ai modelli normativi allora vigenti.
Il suo «Rinascimento distaccato e alternativo», documentato anche da un prezioso taccuino di disegni e appunti conservato alla Biblioteca comunale di Fermo, si respira negli affreschi per il palazzo Vitelli alla Cannoniera di Città di Castello e nelle svariate pitture di tema religioso lasciate sul territorio, tra cui si segnalano una «Sacra famiglia» (1527), miracolosamente scampata al terremoto di Amatrice, un’elegante «Comunione degli apostoli» commissionata dall’Oratorio della Confraternita del Corpus Domini di Ascoli Piceno, una «Disputa di Gesù con i Dottori» conservata a L’Aquila e la tela «Cristo in casa di Marta e Maria», di collezione privata, la cui spazialità ricorda Giulio Romano. La sua opera più ispirata è, però, senz’altro una «Dormitio Virginis», oggi ai Musei capitolini, nella quale si possono cogliere i moti dell’anima degli astanti riletti attraverso la lezione raffaelliana.
La mostra, che sarà arricchita nella giornata del 13 luglio da un laboratorio per bambini che insegnerà a dipingere come in una bottega del Rinascimento, è completata da un filmato che ripropone, con riprese a volo d’uccello, immagini dei recenti terremoti che hanno colpito l’Italia centrale. Un’occasione, questa, per riflettere sulla precarietà del nostro vivere, ma anche per pensare al valore della nostra arte, un patrimonio da preservare «per ribaltare -come ha dichiarato Vittorio Sgarbi- la tristezza con l’euforia della bellezza».
Informazioni utili
Ritorno a Cola dell’Amatrice. Opere dalla Pinacoteca civica di Ascoli Piceno. Museo Bagatti Valsecchi, Via Gesù, 5 - Milano. Orari: da martedì a domenica, ore 13.00–17.45; chiuso tutti i lunedì, il 2 giugno e il 15 agosto. Ingresso: intero € 9,00, ridotto € 6,00. Informazioni: tel.02.7600613 o info@museobagattivalsecchi.org. Sito internet: https://museobagattivalsecchi.org/. Fino al 27 agosto 2017.
lunedì 3 luglio 2017
Trento, la scultura contemporanea dialoga con il legno
Sono quindici gli artisti, tutti viventi e formatisi in Val Gardena, i protagonisti della mostra «Legno | Lën |Holz», con cui la Galleria civica di Trento, da oltre tre anni annessa al Mart di Trento e Rovereto, rende omaggio alla scultura lignea, una tradizione tramandata di generazione in generazione, ma adatta a confrontarsi anche con le istanze del contemporaneo.
Il progetto espositivo, per la curatela di Gabriele Lorenzoni, si avvale della partnership del Museum Ladin Ćiastel de Tor di San Martino in Badia e della Galleria Doris Ghetta, che ha la sua sede a Ortisei, ed è la prima esposizione che un museo italiano votato all’arte contemporanea dedica a questo genere di produzione artistica.
La tradizione secolare della scultura lignea, seppur con discontinuità, ha attraversato la storia dell’arte, raggiungendo il suo apice durante il Medioevo con le celebri madonne lignee romaniche e il Barocco con i fastosi altari policromi.
Nelle valli delle Dolomiti, dove abbonda la materia prima e nelle quali l’attaccamento alla storia locale è tenace, questa pratica artistica sopravvive e si rinnova, recuperando specificità culturali ed economiche. Qui, negli ultimi trent’anni, conosce un’inaspettata evoluzione, percorrendo nuove traiettorie di ricerca estetica, tematica e formale.
Dopo secoli di storia ininterrotta, accanto all’artigianato artistico, ai presepi, ai manufatti folcloristici, la scultura lignea approda a pieno titolo nell’arte contemporanea, divenendone una voce minoritaria ma autorevole, capace di riscuotere crescente interesse e attenzione da parte della critica, dei musei e del collezionismo, sia pubblico sia privato.
Per qualità e quantità della produzione, oggi la scuola gardenese dell’intaglio ligneo non ha eguali in Europa e occupa una posizione indipendente e originale nel panorama artistico internazionale.
Non segnata da confini amministrativi né cartografici, l’area ladina (Ladinia) ha come uniche frontiere quelle naturali: una regione culturale costituita da valli sudtirolesi, trentine e venete, nelle quali l’uso dell’antica lingua retoromanza diventa veicolo di coesione e trasmissione identitaria. Sulla base di queste premesse, nel riconoscimento delle peculiarità socioculturali del territorio di riferimento, il catalogo che rimarrà a documentazione della mostra, aperta fino al prossimo 17 settembre, sarà trilingue.
La scelta curatoriale di «Legno | Lën |Holz», che parte da una rigorosa selezione basata sull’uso della tecnica manuale dell’intaglio ligneo, si sofferma sulla figurazione del corpo umano in scala reale. Tema della mostra è, quindi, la ricerca sul corpo, che alla Civica viene indagato attraverso l’esposizione di circa quaranta tra sculture e installazioni i cui volumi si prestano a una dimensione museale. Un quarto dei lavori è inedito: diverse sono le opere realizzate espressamente per la mostra o mai esposte prima.
La preferenza data alla produzione figurativa sottolinea la vicinanza a una tradizione dalla quale contestualmente ci si allontana: coesistono da un lato una perizia tecnica sublime, dall’altro una straordinaria adesione ai linguaggi e alle sensibilità contemporanee.
In un percorso che esalta le differenze anziché nasconderle e che accosta maestri affermati a interpreti più giovani, gli scultori in mostra (Livio Conta, Giorgio Conta, Fabiano de Martin Topranin, Aron Demetz, Gehard Demetz, Peter Demetz, Arnold Holzknecht, Walter Moroder, Hermann Josef Runggaldier, Andreas Senoner, Peter Senoner, Matthias Sieff, Adolf Vallazza, Willy Verginer e Bruno Walpoth) interpretano in maniera assolutamente personale la tematica proposta.
Accomunati da un’incontestabile abilità, alcuni si avventurano in una profonda analisi psicologica dei personaggi raffigurati, altri osano con chiara ironia o surreale divertimento. Tra rappresentazioni drammatiche o spiritose, ritratti realistici, corpi alieni, totem divini, uomini, donne e bambini, le opere esposte finiscono per presentare una variegata umanità.
I visi e i corpi intagliati nel legno propongono riflessioni sui temi del doppio, dell’alterità e dell’autorappresentazione. Il parallelismo fra i volumi scultorei in scala 1:1 che invadono gli spazi della Galleria e il corpo dello spettatore che si aggirerà fra essi è decisamente suggestivo.
L’allestimento minimalista, firmato dallo studio Weber+Winterle di Trento, sottolinea questo dualismo mediante un gioco di superfici riflettenti che moltiplicano i punti di vista. Come tutto ciò che in qualche modo richiama il processo di mimesis, questo progetto contiene e propone, infatti, quale elemento imprescindibile di indagine, la questione dello sguardo dello spettatore nella sua accezione relazionale.
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Aron Demetz, Iniziazione, 2004; [fig. 2] Walter Moroder, De Vita, 2012; [fig. 3] Bruno Walpoth, Why not?, 2015; [fig. 4] Gehard Demetz, Senza titolo, 2013-16
Informazioni utili
«Legno | Lën |Holz». Galleria Civica Trento, via Belenzani, 44 – Trento. Orari: martedì-domenica, ore 10.00-13.00 e ore 14.00-18.00; lunedì chiuso. Ingresso: intero € 2,00, gratuito per Mart Membership e bambini fino a 14 anni. Informazioni: tel. 0461.985511 o tel. 800 397760 o civica@mart.tn.it. Sito internet: www.mart.trento.it. Fino al 17 settembre 2017.
Il progetto espositivo, per la curatela di Gabriele Lorenzoni, si avvale della partnership del Museum Ladin Ćiastel de Tor di San Martino in Badia e della Galleria Doris Ghetta, che ha la sua sede a Ortisei, ed è la prima esposizione che un museo italiano votato all’arte contemporanea dedica a questo genere di produzione artistica.
La tradizione secolare della scultura lignea, seppur con discontinuità, ha attraversato la storia dell’arte, raggiungendo il suo apice durante il Medioevo con le celebri madonne lignee romaniche e il Barocco con i fastosi altari policromi.
Nelle valli delle Dolomiti, dove abbonda la materia prima e nelle quali l’attaccamento alla storia locale è tenace, questa pratica artistica sopravvive e si rinnova, recuperando specificità culturali ed economiche. Qui, negli ultimi trent’anni, conosce un’inaspettata evoluzione, percorrendo nuove traiettorie di ricerca estetica, tematica e formale.
Dopo secoli di storia ininterrotta, accanto all’artigianato artistico, ai presepi, ai manufatti folcloristici, la scultura lignea approda a pieno titolo nell’arte contemporanea, divenendone una voce minoritaria ma autorevole, capace di riscuotere crescente interesse e attenzione da parte della critica, dei musei e del collezionismo, sia pubblico sia privato.
Per qualità e quantità della produzione, oggi la scuola gardenese dell’intaglio ligneo non ha eguali in Europa e occupa una posizione indipendente e originale nel panorama artistico internazionale.
Non segnata da confini amministrativi né cartografici, l’area ladina (Ladinia) ha come uniche frontiere quelle naturali: una regione culturale costituita da valli sudtirolesi, trentine e venete, nelle quali l’uso dell’antica lingua retoromanza diventa veicolo di coesione e trasmissione identitaria. Sulla base di queste premesse, nel riconoscimento delle peculiarità socioculturali del territorio di riferimento, il catalogo che rimarrà a documentazione della mostra, aperta fino al prossimo 17 settembre, sarà trilingue.
La scelta curatoriale di «Legno | Lën |Holz», che parte da una rigorosa selezione basata sull’uso della tecnica manuale dell’intaglio ligneo, si sofferma sulla figurazione del corpo umano in scala reale. Tema della mostra è, quindi, la ricerca sul corpo, che alla Civica viene indagato attraverso l’esposizione di circa quaranta tra sculture e installazioni i cui volumi si prestano a una dimensione museale. Un quarto dei lavori è inedito: diverse sono le opere realizzate espressamente per la mostra o mai esposte prima.
La preferenza data alla produzione figurativa sottolinea la vicinanza a una tradizione dalla quale contestualmente ci si allontana: coesistono da un lato una perizia tecnica sublime, dall’altro una straordinaria adesione ai linguaggi e alle sensibilità contemporanee.
In un percorso che esalta le differenze anziché nasconderle e che accosta maestri affermati a interpreti più giovani, gli scultori in mostra (Livio Conta, Giorgio Conta, Fabiano de Martin Topranin, Aron Demetz, Gehard Demetz, Peter Demetz, Arnold Holzknecht, Walter Moroder, Hermann Josef Runggaldier, Andreas Senoner, Peter Senoner, Matthias Sieff, Adolf Vallazza, Willy Verginer e Bruno Walpoth) interpretano in maniera assolutamente personale la tematica proposta.
Accomunati da un’incontestabile abilità, alcuni si avventurano in una profonda analisi psicologica dei personaggi raffigurati, altri osano con chiara ironia o surreale divertimento. Tra rappresentazioni drammatiche o spiritose, ritratti realistici, corpi alieni, totem divini, uomini, donne e bambini, le opere esposte finiscono per presentare una variegata umanità.
I visi e i corpi intagliati nel legno propongono riflessioni sui temi del doppio, dell’alterità e dell’autorappresentazione. Il parallelismo fra i volumi scultorei in scala 1:1 che invadono gli spazi della Galleria e il corpo dello spettatore che si aggirerà fra essi è decisamente suggestivo.
L’allestimento minimalista, firmato dallo studio Weber+Winterle di Trento, sottolinea questo dualismo mediante un gioco di superfici riflettenti che moltiplicano i punti di vista. Come tutto ciò che in qualche modo richiama il processo di mimesis, questo progetto contiene e propone, infatti, quale elemento imprescindibile di indagine, la questione dello sguardo dello spettatore nella sua accezione relazionale.
Didascalie delle immagini
[fig. 1] Aron Demetz, Iniziazione, 2004; [fig. 2] Walter Moroder, De Vita, 2012; [fig. 3] Bruno Walpoth, Why not?, 2015; [fig. 4] Gehard Demetz, Senza titolo, 2013-16
Informazioni utili
«Legno | Lën |Holz». Galleria Civica Trento, via Belenzani, 44 – Trento. Orari: martedì-domenica, ore 10.00-13.00 e ore 14.00-18.00; lunedì chiuso. Ingresso: intero € 2,00, gratuito per Mart Membership e bambini fino a 14 anni. Informazioni: tel. 0461.985511 o tel. 800 397760 o civica@mart.tn.it. Sito internet: www.mart.trento.it. Fino al 17 settembre 2017.
domenica 2 luglio 2017
Da Giotto a Klimt, a luglio l'arte si fa multimediale
Arte, musica, parola, tecnologia e intrattenimento: nell’estate 2017 la cultura si modernizza e diventa multimediale. Venezia celebra, negli ampi spazi della Scuola Grande della Misericordia, i settecentocinquanta anni dalla nascita di Giotto (Colle di Vespignano 1267 – Firenze 1337) con la prima delle tre mostre-spettacolo ideate da Cose Belle d'Italia Media Entertainment nell’ambito del format «Magister» dedicato ai grandi maestri dell’arte italiana, con cui nei prossimi anni verranno omaggiati anche il genio di Canova (estate 2018) e quello di Raffaello (estate 2019).
L’esposizione, aperta dal 13 luglio al 5 novembre, vede la curatela di Alessandro Tomei, professore ordinario di storia dell'arte medievale all’università «Gabriele D'Annunzio» di Chieti e Pescara, e di Giuliano Pisani, filologo classico, storico dell'arte e membro del Comitato dei garanti per la cultura classica del Miur, al quale è stato affidato il compito – si legge nella presentazione- di «rileggere l’indagine teologica che sottende il ciclo della Cappella degli Scrovegni lasciando emergere la “sceneggiatura” scritta da Alberto da Padova, teologo agostiniano che finisce la sua vita di cattedratico alla Sorbona di Parigi».
Personalità di spicco nello studio della storia e della critica d’arte come Cesare Barbieri, professore emerito di astronomia all'Università di Padova, Stefania Paone, professore aggregato di storia dell'arte medievale all'Università della Calabria, o ancora Serena Romano Gosetti di Sturmeck, professore ordinario di storia dell'arte medievale all'Università di Losanna, fanno parte del comitato scientifico della mostra, per la quale verranno pubblicati un catalogo edito da Franco Maria Ricci e un volume a tiratura limitata dalla Utet Grandi Opere.
Il team di esperti al lavoro per la realizzazione di questo progetto, di alto rigore scientifico e di grande impegno scenografico e filmico, vede anche la presenza dell’autore e regista Luca Mazzieri e dell’architetto e progettista Alessandra Costantini; accanto a loro ci sono, inoltre, Luca Zingaretti in qualità di voce narrante e Paolo Fresu quale autore della colonna sonora.
Grazie alla collaborazione di questa prestigiosissima squadra multidisciplinare, il visitatore entrerà in contatto, nel vero senso della parola, con l’arte di Giotto, comprendendone la rivoluzione compiuta dalla sua arte nel tardo Medioevo. Verrà accolto nell'immensa navata d'ingresso dall'imponente Croce del Presepe di Greccio, ricostruita, su ispirazione di quella dell'affresco, come un’installazione tridimensionale. E compirà un viaggio di circa quarantacinque minuti, articolato su 28.000 metri cubi, che lo porterà virtualmente ad Assisi tra le bellezze del Ciclo francescano, a Padova, nella città di Firenze, tra Crocifissi che, per la prima volta, lo guarderanno negli occhi anziché limitarsi ad osservarlo dall’alto, in un percorso dove l'Italia del Trecento viene raccontata attraverso le opere di Giotto e della sua bottega, per sfociare al contemporaneo con la missione del 1986, realizzata dall'Agenzia spaziale europea, che per la prima volta nella storia intercettò la Cometa di Halley, dipinta nell'«Adorazione dei Magi» della Cappella degli Scrovegni.
La mostra veneziana racconterà così la storia di un uomo che si conquistò vastissima fama presso i propri contemporanei com’è testimoniato dalle numerosissime citazioni e trattazioni che lo riguardarono già in vita. Un uomo che con la sua arte è stato snodo importante nella cultura pittorica occidentale, anticipando il futuro.
Multimedialità e arte si incontrano anche a Milano, negli spazi del Mudec, con l’evento espositivo «Klimt Experience», curato da Crossmedia Group, con la consulenza scientifica di Sergio Risaliti. La rassegna, in programma dal 26 luglio al 7 gennaio 2018, si propone come un vero e proprio excursus multisensoriale che racconta attraverso immagini, suoni, musiche ed evocazioni l’universo pittorico, culturale e sociale in cui visse e operò il padre della Secessione viennese.
Gustav Klimt coltivò assieme ad altri artisti secessionisti viennesi il mito dell’opera d’arte totale, un’aspirazione che passava attraverso pittura e architettura fino alle arti applicate e alla moda. Vienna tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento era un crogiolo di spinte innovatrici in un contesto di grande fermento nel campo delle scienze, della filosofia, della psicanalisi, dell’arte, dell’architettura, del proto-design, della musica e della cultura in generale. L’obiettivo di questa esperienza d’arte immersiva, della durata di un’ora circa, è di raccontare la storia dell’artista a partire dal tessuto sociale nel quale visse e operò: accanto ai lavori di Gustav Klimt sarà, infatti, possibile ammirare anche fotografie d’epoca e ricostruzioni 3D della Vienna dei primi del ‘900, con i suoi luoghi simbolo, i costumi e la moda.
Settecento le immagini dell’artista selezionate, riprodotte attraverso il sistema Matrix X-Dimension, che permettono una visione completa della sua opera altrimenti impossibile da ammirare in un unico evento espositivo. Dalle pareti al soffitto fino al pavimento le fotografie dei lavori di Klimt diventano un unico flusso di sogno, di forme fluide e smaterializzate. Strauss, Mozart, Wagner, Lehár, Beethoven, Bach, Orff e Webern accompagneranno il visitatore con una coinvolgente colonna sonora a testimoniare quanto la musica influenzò l’opera di questo grande artista. Infine l’esperienza culturale si completerà con l’apparato informativo e didattico dell’area d’introduzione alla mostra.
Informazioni utili
«Magister Giotto». Scuola Grande della Misericordia, Sestiere Cannaregio 3599 – Venezia. Orari: domenica – venerdì, dalle ore 10.30 alle ore 18.30; sabato, dalle ore 10.30 alle ore 20.30. Ingresso: intero € 18,00, ridotto € 16,00, ridotto gruppi € 15,00, residenti di Venezia € 13,00, ridotto scuole € 9,00, altre riduzioni sono visibili sul sito ufficiale della mostra. Informazioni: Call Center Ticketone, 892101; Call Center Hellovenezia, 041.2424. Sito internet: www.magister.art o www.ticketone.it. Dal 13 luglio al 5 novembre 2017
«Klimt Experience». Mudec – Museo delle Culture di Milano, via Tortona, 56 - Milano. Orari: lunedì, ore 14.30-19.30; marted, mercoledì, venerdì e domenica, ore 9.30-19.30; giovedì e sabato, ore 9.30-22.30. Ingresso: intero € 12,00, ridotto € 10,00. Informazioni: tel. 0254917. Sito internet: www.ticket24ore.it. Dal 26 luglio 2017 al 7 gennaio 2018.
L’esposizione, aperta dal 13 luglio al 5 novembre, vede la curatela di Alessandro Tomei, professore ordinario di storia dell'arte medievale all’università «Gabriele D'Annunzio» di Chieti e Pescara, e di Giuliano Pisani, filologo classico, storico dell'arte e membro del Comitato dei garanti per la cultura classica del Miur, al quale è stato affidato il compito – si legge nella presentazione- di «rileggere l’indagine teologica che sottende il ciclo della Cappella degli Scrovegni lasciando emergere la “sceneggiatura” scritta da Alberto da Padova, teologo agostiniano che finisce la sua vita di cattedratico alla Sorbona di Parigi».
Personalità di spicco nello studio della storia e della critica d’arte come Cesare Barbieri, professore emerito di astronomia all'Università di Padova, Stefania Paone, professore aggregato di storia dell'arte medievale all'Università della Calabria, o ancora Serena Romano Gosetti di Sturmeck, professore ordinario di storia dell'arte medievale all'Università di Losanna, fanno parte del comitato scientifico della mostra, per la quale verranno pubblicati un catalogo edito da Franco Maria Ricci e un volume a tiratura limitata dalla Utet Grandi Opere.
Il team di esperti al lavoro per la realizzazione di questo progetto, di alto rigore scientifico e di grande impegno scenografico e filmico, vede anche la presenza dell’autore e regista Luca Mazzieri e dell’architetto e progettista Alessandra Costantini; accanto a loro ci sono, inoltre, Luca Zingaretti in qualità di voce narrante e Paolo Fresu quale autore della colonna sonora.
Grazie alla collaborazione di questa prestigiosissima squadra multidisciplinare, il visitatore entrerà in contatto, nel vero senso della parola, con l’arte di Giotto, comprendendone la rivoluzione compiuta dalla sua arte nel tardo Medioevo. Verrà accolto nell'immensa navata d'ingresso dall'imponente Croce del Presepe di Greccio, ricostruita, su ispirazione di quella dell'affresco, come un’installazione tridimensionale. E compirà un viaggio di circa quarantacinque minuti, articolato su 28.000 metri cubi, che lo porterà virtualmente ad Assisi tra le bellezze del Ciclo francescano, a Padova, nella città di Firenze, tra Crocifissi che, per la prima volta, lo guarderanno negli occhi anziché limitarsi ad osservarlo dall’alto, in un percorso dove l'Italia del Trecento viene raccontata attraverso le opere di Giotto e della sua bottega, per sfociare al contemporaneo con la missione del 1986, realizzata dall'Agenzia spaziale europea, che per la prima volta nella storia intercettò la Cometa di Halley, dipinta nell'«Adorazione dei Magi» della Cappella degli Scrovegni.
La mostra veneziana racconterà così la storia di un uomo che si conquistò vastissima fama presso i propri contemporanei com’è testimoniato dalle numerosissime citazioni e trattazioni che lo riguardarono già in vita. Un uomo che con la sua arte è stato snodo importante nella cultura pittorica occidentale, anticipando il futuro.
Multimedialità e arte si incontrano anche a Milano, negli spazi del Mudec, con l’evento espositivo «Klimt Experience», curato da Crossmedia Group, con la consulenza scientifica di Sergio Risaliti. La rassegna, in programma dal 26 luglio al 7 gennaio 2018, si propone come un vero e proprio excursus multisensoriale che racconta attraverso immagini, suoni, musiche ed evocazioni l’universo pittorico, culturale e sociale in cui visse e operò il padre della Secessione viennese.
Gustav Klimt coltivò assieme ad altri artisti secessionisti viennesi il mito dell’opera d’arte totale, un’aspirazione che passava attraverso pittura e architettura fino alle arti applicate e alla moda. Vienna tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento era un crogiolo di spinte innovatrici in un contesto di grande fermento nel campo delle scienze, della filosofia, della psicanalisi, dell’arte, dell’architettura, del proto-design, della musica e della cultura in generale. L’obiettivo di questa esperienza d’arte immersiva, della durata di un’ora circa, è di raccontare la storia dell’artista a partire dal tessuto sociale nel quale visse e operò: accanto ai lavori di Gustav Klimt sarà, infatti, possibile ammirare anche fotografie d’epoca e ricostruzioni 3D della Vienna dei primi del ‘900, con i suoi luoghi simbolo, i costumi e la moda.
Settecento le immagini dell’artista selezionate, riprodotte attraverso il sistema Matrix X-Dimension, che permettono una visione completa della sua opera altrimenti impossibile da ammirare in un unico evento espositivo. Dalle pareti al soffitto fino al pavimento le fotografie dei lavori di Klimt diventano un unico flusso di sogno, di forme fluide e smaterializzate. Strauss, Mozart, Wagner, Lehár, Beethoven, Bach, Orff e Webern accompagneranno il visitatore con una coinvolgente colonna sonora a testimoniare quanto la musica influenzò l’opera di questo grande artista. Infine l’esperienza culturale si completerà con l’apparato informativo e didattico dell’area d’introduzione alla mostra.
Informazioni utili
«Magister Giotto». Scuola Grande della Misericordia, Sestiere Cannaregio 3599 – Venezia. Orari: domenica – venerdì, dalle ore 10.30 alle ore 18.30; sabato, dalle ore 10.30 alle ore 20.30. Ingresso: intero € 18,00, ridotto € 16,00, ridotto gruppi € 15,00, residenti di Venezia € 13,00, ridotto scuole € 9,00, altre riduzioni sono visibili sul sito ufficiale della mostra. Informazioni: Call Center Ticketone, 892101; Call Center Hellovenezia, 041.2424. Sito internet: www.magister.art o www.ticketone.it. Dal 13 luglio al 5 novembre 2017
«Klimt Experience». Mudec – Museo delle Culture di Milano, via Tortona, 56 - Milano. Orari: lunedì, ore 14.30-19.30; marted, mercoledì, venerdì e domenica, ore 9.30-19.30; giovedì e sabato, ore 9.30-22.30. Ingresso: intero € 12,00, ridotto € 10,00. Informazioni: tel. 0254917. Sito internet: www.ticket24ore.it. Dal 26 luglio 2017 al 7 gennaio 2018.
sabato 1 luglio 2017
La Belle Époque di Toulouse-Lautrec
Mentre Claude Monet, Camille Pissarro, Alfred Sisley e molti altri collocavano il loro cavalletto sulle sponde della Senna o in mezzo a campi assolati, studiando appassionatamente la pittura en plein air, vera e propria cifra stilistica del movimento impressionista, c’era un artista che si divertiva a ritrarre la vita notturna di Parigi, cogliendo le atmosfere delle sale da ballo, dei caffè-concerto e dei palcoscenici più in voga nella capitale francese sul finire dell’Ottocento. Quell’artista era Henri de Toulouse-Lautrec (Albi, 24 novembre 1864 – Saint-André-du-Bois, 9 settembre 1901), emblema indiscutibile di un’epoca, la leggendaria e scintillante Belle Époque, di cui contribuì a fissarne per sempre nella memoria del tempo, con il suo sguardo disincantato e il suo stile anticonformista, protagonisti, umori, colori e illusioni.
Montmartre e i suoi locali, il Moulin Rouge e le sue ballerine di can-can, l’Opéra e i suoi concerti, il bistrot alle Folies-Bergère e i suoi bevitori d’assenzio, le «maisons closes» parigine e le loro prostitute, le stelle effimere del cabaret e le vedette del tempo, dal cantante Aristide Bruant alla bella Yvette Guilbert: questo era l’universo vissuto e rappresentato dall’artista francese, di cui rimane sulla tela o sui fogli di carta il lato più malinconico e amaro, come ben documenta la mostra curata da Stefano Zuffi per il gruppo Arthemisia, che porta, fino al prossimo 3 settembre, circa centosettanta opere provenienti dall’Herakleidon Museum di Atene negli spazi di Palazzo Forti a Verona.
Litografie a colori (da «Jane Avril» del 1893 a «Troupe de Mlle Églantine» del 1896, passando per l’album «Elles» del 1896), manifesti pubblicitari (come «Aristide Bruant nel suo cabaret» del 1893 e «La passeggera della cabina 54» del 1895), grafiche promozionali, illustrazioni per giornali (tra cui «La revue blanche» del 1895), vignette satiriche, disegni a matita e a penna, acquerelli, insieme a video, fotografie e arredi dell’epoca riscostruiscono uno spaccato della Parigi bohémienne. Riportano i visitatori indietro nel tempo, in un’epoca frivola e peccaminosa, piena di joie de vivre, svaghi serali, luci artificiali, risate artefatte e applausi per cabarettisti, ballerine e chansonniers, artisti abili nel nascondere le nubi che correvano sulla loro anima e le ombre fuggevoli che passavano sul loro viso sotto il trucco pesante e gli abiti vistosi, dietro le luci della ribalta, ma non all’occhio di Toulouse-Lautrec.
Osservatore implacabile e attento dell’animo umano, il pittore filtrava il mondo attraverso le frustrazioni della sua vita e capiva empaticamente il dolore e l’insoddisfazione degli altri, il sorriso forzato e lo sguardo perso di chi avrebbe voluto essere altrove. Afflitto da una malattia genetica alle ossa, assimilabile al nanismo, l’artista si condannò, infatti, a una vita infelice fatta di piaceri facili ed estemporanei, alcol e sesso a pagamento in primis, morendo a causa della sifilide a soli trentasei anni, ma lasciando dietro di sé un corpus di opere dai numeri considerevoli per essere stato realizzato in soli vent’anni: 737 tele, 275 acquerelli, 363 stampe e manifesti, 5.084 disegni.
Più che mai fedele al suo principio che «solo la figura esiste» e che il paesaggio non è che un accessorio», Toulouse-Lautrec regala al nostro sguardo ritratti di donne sole, silenziose, osservate senza la minima intenzione caricaturale o di vignetta cronachistica, ma anche un album di litografie dedicato a Yvette Guilbert, soprannominata la «Diseuse» (la fine dicitrice) e rimasta nell’immaginario collettivo per i suoi lunghi guanti neri fino al gomito, e lavori con Jane Avril, celebre stella del cabaret parigino, effigiata, per esempio, nel can-can insieme ad altre ballerine nell’opera «La compagnia di Mademoiselle Eglantine» (1896).
Lungo il percorso espositivo si trovano anche una sezione dedicata all’amore di Toulouse-Lautrec per i cavalli, con opere come «Il fantino» (1899) e «The pony Philibert» (1898), e un’altra incentrata sulle commissioni per le riviste «Le Rire» ed «Escarmouche», per le quali l’artista disegnava vignette di satira politica e di costume.
Al centro della mostra vi è, poi, una sezione preziosa con una serie di disegni a matita e a penna: schizzi di volti, atteggiamenti, silhouette e caricature, di travolgente freschezza e mordente incisività. Il lapis è stato il compagno fedele nella lunga e obbligata immobilità durante le convalescenze dalla malattia, il modo per vincere la noia delle stazioni termali, la piccola condanna negli esercizi obbligati durante la fase di formazione accademica, lo strumento più immediato per vedere e interpretare il mondo, quella Parigi di fine secolo, vitale e contraddittoria, di cui Toulouse-Lautrec ha consegnato alla storia luci e ombre.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Henri de Toulouse-Lautrec, Au Concert (Before Letters), 1896. Litografia a colori, 32x25,2 cm. © Herakleidon Museum, Atene; [fig. 2] Henri de Toulouse-Lautrec, Jane Avril (Before Letters), 1893. Litografia a colori, 124x91,5 cm. © Herakleidon Museum, Athens Greece Greece; [fig. 3] Henri de Toulouse-Lautrec, La Troupe de Mademoiselle Églantine, 1896. Litografia a colori, 61,7x80,4 cm. © Herakleidon Museum, Athens Greece Greece
Informazioni utili
«Toulouse Lautrec. La Belle Époque». AMO – Palazzo Forti, via Achille Forti, 1 - Verona. Orari: lunedì, dalle ore 14.30 alle ore 19.30; da martedì a domenica, dalle ore 9.30 alle ore 19.30. Ingresso: intero € 14,00, ridotto € 12,00, ridotto gruppi € 10,00, ridotto universitari € 9,00, ridotto scuole da € 5,00 a € 3,00, per altre tariffe si consiglia di vedere la pagina http://www.mostratoulouselautrec.it/informazioni-visite-orari-biglietti-prenotazioni.html. Informazioni: tel. 045.853771. Sito internet: www.mostratoulouselautrec.it. Fino al 3 settembre 2017.
Montmartre e i suoi locali, il Moulin Rouge e le sue ballerine di can-can, l’Opéra e i suoi concerti, il bistrot alle Folies-Bergère e i suoi bevitori d’assenzio, le «maisons closes» parigine e le loro prostitute, le stelle effimere del cabaret e le vedette del tempo, dal cantante Aristide Bruant alla bella Yvette Guilbert: questo era l’universo vissuto e rappresentato dall’artista francese, di cui rimane sulla tela o sui fogli di carta il lato più malinconico e amaro, come ben documenta la mostra curata da Stefano Zuffi per il gruppo Arthemisia, che porta, fino al prossimo 3 settembre, circa centosettanta opere provenienti dall’Herakleidon Museum di Atene negli spazi di Palazzo Forti a Verona.
Litografie a colori (da «Jane Avril» del 1893 a «Troupe de Mlle Églantine» del 1896, passando per l’album «Elles» del 1896), manifesti pubblicitari (come «Aristide Bruant nel suo cabaret» del 1893 e «La passeggera della cabina 54» del 1895), grafiche promozionali, illustrazioni per giornali (tra cui «La revue blanche» del 1895), vignette satiriche, disegni a matita e a penna, acquerelli, insieme a video, fotografie e arredi dell’epoca riscostruiscono uno spaccato della Parigi bohémienne. Riportano i visitatori indietro nel tempo, in un’epoca frivola e peccaminosa, piena di joie de vivre, svaghi serali, luci artificiali, risate artefatte e applausi per cabarettisti, ballerine e chansonniers, artisti abili nel nascondere le nubi che correvano sulla loro anima e le ombre fuggevoli che passavano sul loro viso sotto il trucco pesante e gli abiti vistosi, dietro le luci della ribalta, ma non all’occhio di Toulouse-Lautrec.
Osservatore implacabile e attento dell’animo umano, il pittore filtrava il mondo attraverso le frustrazioni della sua vita e capiva empaticamente il dolore e l’insoddisfazione degli altri, il sorriso forzato e lo sguardo perso di chi avrebbe voluto essere altrove. Afflitto da una malattia genetica alle ossa, assimilabile al nanismo, l’artista si condannò, infatti, a una vita infelice fatta di piaceri facili ed estemporanei, alcol e sesso a pagamento in primis, morendo a causa della sifilide a soli trentasei anni, ma lasciando dietro di sé un corpus di opere dai numeri considerevoli per essere stato realizzato in soli vent’anni: 737 tele, 275 acquerelli, 363 stampe e manifesti, 5.084 disegni.
Più che mai fedele al suo principio che «solo la figura esiste» e che il paesaggio non è che un accessorio», Toulouse-Lautrec regala al nostro sguardo ritratti di donne sole, silenziose, osservate senza la minima intenzione caricaturale o di vignetta cronachistica, ma anche un album di litografie dedicato a Yvette Guilbert, soprannominata la «Diseuse» (la fine dicitrice) e rimasta nell’immaginario collettivo per i suoi lunghi guanti neri fino al gomito, e lavori con Jane Avril, celebre stella del cabaret parigino, effigiata, per esempio, nel can-can insieme ad altre ballerine nell’opera «La compagnia di Mademoiselle Eglantine» (1896).
Lungo il percorso espositivo si trovano anche una sezione dedicata all’amore di Toulouse-Lautrec per i cavalli, con opere come «Il fantino» (1899) e «The pony Philibert» (1898), e un’altra incentrata sulle commissioni per le riviste «Le Rire» ed «Escarmouche», per le quali l’artista disegnava vignette di satira politica e di costume.
Al centro della mostra vi è, poi, una sezione preziosa con una serie di disegni a matita e a penna: schizzi di volti, atteggiamenti, silhouette e caricature, di travolgente freschezza e mordente incisività. Il lapis è stato il compagno fedele nella lunga e obbligata immobilità durante le convalescenze dalla malattia, il modo per vincere la noia delle stazioni termali, la piccola condanna negli esercizi obbligati durante la fase di formazione accademica, lo strumento più immediato per vedere e interpretare il mondo, quella Parigi di fine secolo, vitale e contraddittoria, di cui Toulouse-Lautrec ha consegnato alla storia luci e ombre.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Henri de Toulouse-Lautrec, Au Concert (Before Letters), 1896. Litografia a colori, 32x25,2 cm. © Herakleidon Museum, Atene; [fig. 2] Henri de Toulouse-Lautrec, Jane Avril (Before Letters), 1893. Litografia a colori, 124x91,5 cm. © Herakleidon Museum, Athens Greece Greece; [fig. 3] Henri de Toulouse-Lautrec, La Troupe de Mademoiselle Églantine, 1896. Litografia a colori, 61,7x80,4 cm. © Herakleidon Museum, Athens Greece Greece
Informazioni utili
«Toulouse Lautrec. La Belle Époque». AMO – Palazzo Forti, via Achille Forti, 1 - Verona. Orari: lunedì, dalle ore 14.30 alle ore 19.30; da martedì a domenica, dalle ore 9.30 alle ore 19.30. Ingresso: intero € 14,00, ridotto € 12,00, ridotto gruppi € 10,00, ridotto universitari € 9,00, ridotto scuole da € 5,00 a € 3,00, per altre tariffe si consiglia di vedere la pagina http://www.mostratoulouselautrec.it/informazioni-visite-orari-biglietti-prenotazioni.html. Informazioni: tel. 045.853771. Sito internet: www.mostratoulouselautrec.it. Fino al 3 settembre 2017.
Location:
Verona VR, Italia
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