ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

mercoledì 5 aprile 2017

Al Mudec una settimana all’insegna del design

È ormai riconosciuta come la più importante manifestazione al mondo per il settore del disegno industriale e dell’arredamento. Stiamo parlando della Milano Design Week che fino a domenica 9 aprile animerà ben undici distretti della città di Milano. L’iniziativa è composta da due ‘anime’ principali: il Salone del Mobile a Rho, fiera rivolta principalmente agli addetti ai lavori, e il Fuori Salone, una serie di eventi autonomi dedicati al design, che vanno dal carillon del britannico Lee Broom in Stazione centrale agli orsi di Paola Pivi per le vetrine della Rinascente.
Tra gli eventi da non perdere ci sono quelli promossi dal Mudec – Museo delle culture in zona Tortona. All’esterno dell’edificio sarà visibile fino al 9 luglio l’«Albero stilematico» dell’architetto Alessandro Mendini, ispirato al linguaggio figurativo di Kandinskij.
La struttura site-specific è costituita da un palo d’acciaio alto sei metri, attorno al quale si collocano sette stilemi con sette colori per un totale di trenta decori. Il totem, che mostra i tratti distintivi e il linguaggio ispirato dai segni e dai colori che tanto ha caratterizzato l’artista russo, è un omaggio alla complessità simbolica che spesso si cela nell’oggetto più semplice e comune.
La collaborazione quarantennale che Alessandro Mendini ha con la società Abet Laminati, che lo supporta da sempre nelle sue architetture coloratissime con i propri materiali laminati, ha permesso anche questa volta di creare un connubio virtuoso tra impresa privata e artista a favore dell’arte e del design.
La piazza del museo è animata anche da una spettacolare installazione site-specific ideata dal brand Qeeboo. Da una lastra di specchio emergono squali, portaombrelli-contenitori di invenzione del duo Studio Job; a presidiarli ci sono due imponenti guardiani-gorilla creati da Stefano Giovannoni: una lampada da terra in polietilene con braccio-proiettore orientabile.
In occasione del Fuorisalone 2017 il Design Store del Mudec si colora, inoltre, di materiali e forme dall’estetica giocosa e libera, uniti sotto il comune denominatore del tema del circo. Da sempre mondo affascinante perché alla rovescia, in cui le regole della società non esistono e dove la verità e la magia si confondono. Un mondo senza regole che ha però le sue linee estetiche. Le geometrie che rivestono i tendoni e gli ambienti alternano triangoli e righe. Il bianco, giallo, rosso e blu sono i suoi colori. Oro e argento e giochi di luci animano lo show.
«Circus Show» è il titolo di questo allestimento primaverile, annunciato dalle grandi lettere di metallo con lampadine e dalle scimmie di Marcantonio Raimondi Malerba arrampicate negli angoli dello store, entrambe prodotte da Seletti. La linea «Circus» di Alessi, ideata dal designer Marcel Wanders, richiama la geometria e i colori circensi. I coperchi dei barattoli diventano tendoni e i vassoi in metallo smaltato sono palchi su cui si esibiscono i rituali quotidiani. Le porcellane raffinate di Lladrò trasformano una classica lampada con paralume in un pagliaccio dall’ampio cappello. Statuette di acrobati e ballerine dipinte a mano danzano sui tavoli dello store. Ad impreziosire l’esposizione, le splendide ceramiche del laboratorio milanese Paravicini: la serie di piatti serigrafati illustra trapezisti sospesi nel vuoto, scimmie e orsi da circo, creando una parade di personaggi.
Le sedute «Rabbit» di Stefano Giovannoni e gli sgabelli «Tab.u» di Bruno Rainaldi rigorosamente gold diventano sculture specchianti.
Il design del circo si esprime attraverso soggetti e personaggi, dove oltre alla funzionalità entrano in gioco aspetti emozionali e comunicativi. È un design di superficie, in cui dominano la decorazione e il colore.
infine, il Mudec Bistrot ospita, durante la settimana del Fuorisalone, «Carta in luce», una serie di lampade di design in carta e cartone riciclati selezionate dall’osservatorio «L’altra faccia del macero». Sono le mille vite della carta, su cui Comieco fa riflettere il visitatore grazie a questo allestimento in cui carta e cartone sono protagonisti assoluti.

Informazioni utili 
Fuori Salone al Mudec. Mudec - Museo delle culture, via Tortona, 56 – Milano. Orari: martedì, mercoledì, venerdì e domenica, ore 9.30-19.30; giovedì e sabato, ore 9.30-22.30. Sito internet: http://www.mudec.it/ita/. Fino al 9 aprile 2017.

martedì 4 aprile 2017

Lugano, David Bowie visto da Masayoshi Sukita

Trentotto immagini che parlano di un’amicizia, quella tra David Bowie e Masayoshi Sukita: si potrebbe riassumere così la mostra «Heros» che l’azienda ThinkDesign propone, in prima nazionale svizzera, negli spazi della galleria d’arte Dip contemporary art di Lugano, inaugurata nel 2016 per volontà di Michela Negrini.
L’artista londinese e il maestro giapponese della fotografia, uno dei più importanti della scena cinematografica e musicale di New York, si conobbero nel 1972 dopo un concerto; all’epoca la superstar britannica, camaleonte del pop che ha influenzato lo stile per diverse generazioni, era nel suo periodo «Ziggy Stardust» e già stregava il pubblico col suo carisma ineguagliato. Ad assediarlo c’erano centinaio di fotografi e giornalisti. «Quando toccò a me – ricorda Masayoshi Sukita- ho pensato semplicemente: stappiamo una bottiglia di vino e rilassiamoci». Nacque così un’amicizia durata oltre quarant’anni, che nel corso dei decenni si è palesata in immagini uniche ed estremamente personali.
Masayoshi Sukita non solo immortalò in maniera molto personale le innumerevoli metamorfosi di David Bowie, creando tra l’altro la leggendaria copertina dell’album «Heros», ma fino alla prematura morte dell’artista lo seguì anche in momenti molto privati nei quali, privo di trucco e abiti di scena, appare estremamente avvicinabile e vulnerabile. L’artista poté, infatti, godere di una vicinanza con Bowie che la superstar non concesse mai a nessun altro fotografo.

La mostra fotografica di Lugano presenta, inoltre, David Bowie in tutta la sua capacità di metamorfosi come una delle più grandi icone pop del secolo e come persona colta nella sua quotidianità, lontano da qualsiasi eccentricità.
«Bowie era una persona profonda, e io lo mostro in tutte le sue sfaccettature», afferma Sukita aggiungendo: «in ogni sua fase è stato sempre completamente se stesso».
Lo stilista John Richmond, che oltre a Bowie ha vestito e veste Mick Jagger, Rod Stewart e altre icone della musica, impreziosisce l’evento con la sua nuova collezione realizzata in collaborazione con il marchio Mantero. L’esposizione si concluderà con uno spettacolare omaggio a Bowie al Casinò di Campione d’Italia, che rivisiterà varie pietre miliari della vita dell’artista. 

Didascalie delle immagini 
[Fig. 1] © Photo by Sukita, Watch That Man III, 1973; [Fig. 2] © Photo by Sukita, Starman, 1973

Informazioni utili 
«Heros». Galleria d’arte Dip contemporary art, via Dufour, 21 (ang. Via Vanoni) - 6900 Lugano (Svizzera). Orari: dal martedì al venerdì, dalle ore 10.30 alle ore 18.30. Ingresso libero. Imformazioni: info@dipcontemporaryart.com, tel. +41 (0)919211717. Siti internet: http://think-design.ch/david-bowie-lugano/ o http://dipcontemporaryart.com. Fino al 26 aprile 2017.

lunedì 3 aprile 2017

Antoniazzo Romano e Montefalco, un artista e la sua città

I Musei vaticani sono di nuovo protagonisti a Montefalco. Dopo la straordinaria mostra dello scorso anno dedicata alla Madonna della Cintola di Benozzo Gozzoli, al Complesso museale di San Francesco si racconta un’altra bella pagina della storia del borgo umbro nel Rinascimento mettendo a confronto -sempre grazie alla curatela di Antonio Paolucci, direttore dell’istituzione capitolina- due preziose pale di Antoniazzo Romano, al secolo Antonio di Benedetto degli Aquili. Una di queste opere, il trittico della «Madonna col Bambino tra i Santi Paolo, Benedetto, Giustina e Pietro», proviene da Roma ed è appena stata sottoposta a restauro nei laboratori del Musei vaticani.
La tela, usualmente conservata nella Pinacoteca della Basilica di San Paolo Fuori le Mura a Roma, fu realizzata dall’artista umbro tra gli anni 1488-1490 per commemorare l’unificazione del monastero benedettino con la congregazione di Santa Giustina a Padova, avvenuta nel 1426.
Le figure dei santi, ampie e monumentali, sono riconoscibili dagli attributi e spaziate con equilibrio in un ideale semicerchio: i santi Pietro e Paolo -l’uno con le chiavi del Regno, l’altro con la spada del martirio- affiancano la Vergine Maria seduta su un seggio, con le mani giunte, in atto di adorare il Bambino, accanto a San Benedetto, con la Regola e il pastorale, e Santa Giustina, trafitta dal pugnale e con la palma del martirio.
Il linguaggio è addolcito, con ombre e luci modulate in passaggi morbidi e volti di malinconica dolcezza, che ricordano lo stile peruginesco. «Eppure -afferma Antonio Paolucci- la gravità e la solennità dei moduli antichi sopravvivono intatte. Il San Paolo, con lo spadone e il libro ben in vista e la dilatata imponenza del vasto panneggio, non rinuncia affatto al suo ruolo di principe degli Apostoli, latore della sacralità romana evocata dal suo stesso nome».
Il fondo oro, simbolico richiamo alla luce divina, era stato nascosto nel XVIII secolo dipingendovi sopra un paesaggio, come si scoprì durante il restauro effettuato nel 1963. Quell’oro del dipinto romano brilla, ora, accanto alla pala «San Vincenzo da Saragozza, Santa Illuminata, San Nicola da Tolentino», proveniente dalla chiesa di Santa Illuminata di Montefalco e dal 1907 custodita nella Pinacoteca cittadina.
L’opera fu realizzata nel 1430-35 per la cappella di Santa Caterina nella chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma su committenza del cardinale portoghese Jorge Costa. Giunse a Montefalco nel 1491, grazie all’intervento di Frate Anselmo da Montefalco, generale dei frati agostiniani della congregazione lombarda.
In quell’occasione fu eseguito un adattamento dei Santi raffigurati sulla tavola, di cui il restauro dà testimonianza: Santa Caterina d’Alessandria, titolare della cappella romana, fu trasformata in Santa Illuminata, coprendone la ruota del martirio; Sant’Antonio da Padova venne spogliato del saio francescano e rivestito di quello agostiniano al fine di trasformarlo in San Nicola da Tolentino. L’unico Santo non modificato fu San Vincenzo da Saragozza, connotato dal vascello.
Anche in questo caso l’artista non rinuncia al fondo d’oro su cui si stagliano tre figure, come le ha definite Antonio Paolucci, luminose e maestose di verosimiglianza plastica, anatomica e fisionomica, ognuna con i suoi attributi iconografici puntigliosamente esibiti.
Le due tavole in mostra sono testimonianze di incomparabile bellezza, accomunate dalla provenienza romana delle chiese d’origine, dalla forma quadrangolare della pala di gusto rinascimentale e dall’impiego dello stesso cartone preparatorio per le figure di Santa Caterina/Sant’Illuminata e Santa Giustina. Per la prima volta insieme, consentono di approfondire lo studio di Antoniazzo Romano, il più grande pittore romano della seconda metà del Quattrocento.
Le due opere, per certi aspetti vicine, presentano anche interessanti diversità che permettono di comprendere meglio la ricca e sfaccettata personalità di Antoniazzo Romano, grande artista del Rinascimento famoso per le sue palpitanti figure di santi stagliati su abbaglianti fondi oro.
Mentre la tavola romana guarda, per esempio, alla lezione peruginesca, quella di Montefalco sembra far proprio il linguaggio rinascimentale nel suo aspetto più specificatamente urbinate, mediato dal contatto col Melozzo, con il quale l’artista decorò alcuni ambienti dell’antica biblioteca nel Palazzo vaticano negli anni 1480-81. Ecco così che trova conferma quello che ha scritto Antonio Paolucci: «Quello che di buono trovava /…/ egli (Antoniazzo Romano, ndr) lo recepiva di buon grado e lo traduceva nella sua metrica solenne, nella affabilità di un discorso figurativo fondato su pochi schietti principi: chiarezza narrativa, evidenza iconica, continuità con la tradizione, eloquio misurato, nobile senza sussiego, popolare senza volgarità».

Didascalie delle immagini
[Figg. 1, 2 e 4]  Antoniazzo Romano, San Vincenzo da Saragozza, Santa Illuminata, San Nicola da Tolentino. Montefalco Complesso Museale di San Francesco. Foto © Comune di Montefalco, [fig. 3]Antoniazzo Romano, Madonna col Bambino tra i Santi Paolo, Benedetto, Giustina e Pietro . Roma , Basilica di S. Paolo fuori le mura - Pinacoteca. Foto © Musei Vaticani
 
Informazioni utili 
Antoniazzo Romano e Montefalco. Complesso museale di San Francesco, via Ringhiera umbra, 6 - Moltefalco (Perugia). Orari: tutti i giorni, ore 10.30-18.00. Ingresso: intero € 7,00, ridotto € 5,00 (da 18 a 25 anni; convenzionati TCI); omaggio fino a 17 anni, giornalisti accreditati, soci ICOM, residenti. Visite guidate: tutti i giorni, ore 11, 12 e 15.30; € 3,00 oltre il costo del biglietto. Per informazioni e prenotazioni: Sistema Museo, 199.151.123 (dal lunedì al venerdì, dalle ore 9.00 alle ore 17.00 e il sabato, dalle ore 9.00 alle ore 13.00, escluso festivi), callcenter@sistemamuseo.it; Museo di Montefalco, tel. 0742 379598, montefalco@sistemamuseo.it. Sito web: www.museodimontefalco.it. Fino al 7 maggio 2017. 

venerdì 31 marzo 2017

Gioachino Rossini, un compositore tra note e fornelli

A nove anni pizzicava le corde della viola e strimpellava vari strumenti a tastiera, tra cui la spinetta. A dieci anni era in grado di cavarsela in molte discipline musicali come il canto, l’accompagnamento al clavicembalo e la trascrizione degli spartiti. A undici anni iniziava gli studi di composizione e, intanto, cantava e suonava in chiese e teatri. A quattordici anni si iscriveva alle classi di violoncello e contrappunto del neonato Liceo musicale di Bologna; si aggregava come cantore all’Accademia filarmonica felsinea e scriveva la sua prima opera, «Demetrio e Polibio», che sarebbe rimasta per qualche anno nel cassetto. È la storia di un uomo dotato di un talento straordinario e precoce quella di Gioachino Rossini, apprezzato compositore ottocentesco noto per opere famose come «Il barbiere di Siviglia» e il «Gugliemo Tell», nato a Pesaro il 29 febbraio 1792 da una famiglia di modesti musicisti.
Il papà, Giuseppe Rossini, suonava la tromba e il corno nella banda cittadina. Gli amici lo chiamavano «Vivazza» per quel suo carattere sempre allegro e tendente alla burla, ma anche per le sue veraci origini romagnole.
La mamma, Anna Giudarini, era una bella ragazza che cuciva cappelli e che, grazie alla sua voce dolce e piena di grazia, si esibiva nei teatri minori di opera buffa come cantante lirica «a orecchio».
Con l’arrivo a Bologna, datato intorno al 1798, il compositore ebbe la fortuna di trovarsi a vivere in una delle maggiori città musicali del tempo ed è qui che si accostò per la prima volta alle musiche di due grandi autori tedeschi, Wolfgang Amadeus Mozart e Franz Joseph Haydn, le cui partiture erano ancora difficilmente reperibili in Italia, tanto da guadagnarsi il soprannome di «tedeschino».
Poco dedito agli studi ufficiali e incapace di sopportare le regole, Gioachino non completò mai gli studi al Liceo musicale di Bologna, ma le sue idee erano così fresche e innovative che, a soli diciotto anni, nel 1810, riuscì a debuttare con una sua opera, «La cambiale di matrimonio», nel prestigioso teatro San Moisè di VeneziaFu l’inizio di una brillante carriera, che vide la sua musica dinamica, trascinante e di facile ascolto accogliere i favori del pubblico, anche se non mancò qualche insuccesso. È il caso de «Il turco in Italia», accolto con freddezza dagli appassionati del teatro alla Scala nel 1814, e dell’opera «Il signor Bruschino» (1813), le cui repliche furono totalmente annullate, ma la cui ouverture continua a far parlare di sé per il caratteristico percuotere ritmico degli archi dei violini sul leggio.
Dal 1810 al 1829 Gioachino Rossini compose quarantuno opere, a tamburo battente, con un ritmo di cinque o sei l’anno (con un «rallentando» negli ultimi anni della sua vita).
Già l’anno dopo il debutto veneziano andava in scena a Bologna un altro suo lavoro: «L’equivoco stravagante». E ben presto la fama del compositore pesarese si diffuse oltre i confini nazionali grazie a due opere come il «Tancredi», le cui arie più famose venivano addirittura cantate per le strade, e «L’Italiana in Algeri», della quale i giornali scrissero che alla ‘prima’ gli spettatori stavano quasi per soffocare dal ridere e per la quale Stendhal parlò di «follia organizzata e completa».
Nel 1815 Gioachino Rossini si trasferì a Napoli su invito di Domenico Barbaja, importante impresario del teatro San Carlo, e vi rimase fino al 1822. Appena arrivato nella città partenopea compose «Elisabetta Regina d’Inghilterra», opera che ebbe grande successo grazie anche alla magistrale interpretazione della bella cantante spagnola Isabella Colbran, con cui il compositore si sarebbe sposato sette anni dopo. Fu un periodo molto intenso, che vide il maestro pesarese scrivere anche per altri teatri. Basti pensare che, tra il 1816 e il 1817, videro la luce due delle sue opere più celebri: «Il barbiere di Siviglia» per il teatro Argentina di Roma (1816) e «La Cenerentola» per il teatro Valle di Roma (1817). In questi anni vennero scritti anche lavori come «La gazza ladra» (1817), «Mosè in Egitto» (1818), «La donna del lago» (1819) e «Maometto II» (1820).
Il compositore si trasferì, quindi, a Londra, ma vi rimase pochi mesi preferendo spostarsi a Parigi, dove gli avevano offerto la direzione del Thèâtre des Italiens. Lì compose «Il viaggio a Reims» (1825), la sua ultima opera in lingua italiana, e il «Guglielmo Tell», con cui lanciò un nuovo genere musicale detto grand-opèra, basato su soggetti storici e caratterizzato da spettacolari effetti scenici, balletti e grandi cori. Il debutto di questo lavoro si ebbe la sera del 3 agosto 1829. Il successo fu strepitoso e il compositore fu premiato con la Legione d’Onore, una delle massime onorificenze del Governo francese. Malgrado ciò Gioachino Rossini decise di ritirarsi dalle scene. Non compose più opere, ma continuò a scrivere per piacere sonate e composizioni per pianoforte, oltre a musiche sacre come lo «Stabat Mater» (1841) e la «Petit Messe Solennelle» (1863).
Al momento del ritiro il compositore pesarese aveva trentasette anni. Sarebbe morto trentanove anni dopo, il 3 novembre 1868, nella sua villa di Passy, vicino a Parigi.
La decisione di ritirarsi sorprese tutti i suoi amici e ammiratori che non riuscivano a spiegarsene il motivo. Ma non c’è da sorprendersi: Gioachino Rossini era un personaggio dalle mille sfaccettature: era suscettibile e collerico, ma anche ironico e spiritoso; amava la buona tavola e l’ozio, ma era anche un infaticabile lavoratore quando si trattava di comporre un’opera. Di lui si ricordano molti aneddoti e battute spiritose: «non conosco -diceva- un lavoro migliore del mangiare» o ancora «l’appetito è per lo stomaco quello che l’amore è per il cuore». Di lui si ricordano molti aneddoti e battute spiritose: «non conosco -diceva- un lavoro migliore del mangiare» o ancora «l’appetito è per lo stomaco quello che l’amore è per il cuore». Era talmente ossessionato dal buon mangiare che quando Richard Wagner si recò da lui a Parigi, Rossini continuò per tutta la visita ad alzarsi per andare a controllare un capriolo sul fuoco. Ed era un ghiottone così raffinato da essere sempre alla ricerca di cibi speciali che si faceva portare dai diversi paesi d’origine: da Gorgonzola il formaggio, da Milano il panettone, da Siviglia il prosciutto e così via. La sua passione per il buon cibo era così grande che a chi gli chiedeva se avesse mai pianto, rispondeva sorridendo: «sì, una volta in barca quando mi è caduto nel lago uno stupendo tacchino farcito con i tartufi. Quella volta ho proprio pianto».
Per il mondo della musica è noto non solo per alcune sue opere immortali, ma anche per aver inventato il «crescendo», un procedimento compositivo che consisteva nel ripetere in maniera ossessiva, e a intensità crescente, un modulo melodico-armonico inserendo gradualmente nuovi strumenti a ogni ripetizione.
Le sue spoglie riposano nella Basilica di Santa Croce a Firenze, definita da Ugo Foscolo «il Tempio dell’Itale glorie», perché al suo interno sono conservate le tombe di grandi personaggi italiani come Michelangelo Buonarroti, Galileo Galilei e Vittorio Alfieri.

Per saperne di più
Gaia Servadio, «Gioachino Rossini. Una vita», Feltrinelli, Milano 2015;
Lina M. Ugolini, Piano pianissimo, forte fortissimo, Rueballu, 2015;
Monica E. Lapenta, «A cena con Giachino Rossini», Babetta's World, Baltimora 2012;
Cecilia Gobbi e Nunzia Nigro, «Alla scoperta del melodramma. Il teatro e le sue storie», Edizioni Curci, Milano 2009;
Fiorella Colombo e Laura Di Biase, «Recitar cantando ovvero come accostare i bambini all’opera lirica attraverso il teatro», Erga edizioni, Genova 2006;
Giorgio Paganone, «Insegnare il melodramma. Saperi essenziali, proposte didattiche», Pensa MultiMedia, Lecce –Iseo 2010;
Fiorella Colombo e Laura Di Biase, «Il barbiere si Siviglia – Un percorso di sensibilizzazione e avvicinamento all’opera di Gioachino Rossini», Erga edizioni, Genova 2012;
Fiorella Colombo e Laura Di Biase, «Figaro qua, Figaro là», Vallardi, Milano 2014 (le immagini pubblicate sono tratte da questo libro);
Cecilia Gobbi e Nunzia Nigro, «Alla scoperta del melodramma – Il barbiere di Siviglia», Curci, Milano 2010;
Isabella Vasilotta (a cura di), «Rossini. Ascoltando Il barbiere di Siviglia, La Cenerentola e Guglielmo Tell», Sillabe, Livorno 2015
Fiorella Colombo e Laura Di Biase, «La Cenerentola – Un percorso di sensibilizzazione e avvicinamento all’opera di Gioachino Rossini», Erga edizioni, Genova 2009;
Cristina Pieropan, «La Cenerentola», Nuages, Milano 2010;
Cecilia Gobbi e Nunzia Nigro, «Alla scoperta del melodramma – La Cenerentola di Rossini», Curci, Milano 2015.

giovedì 30 marzo 2017

Giorgio Morandi e Tacita Dean, un dialogo tra artisti in mostra a Mantova

Che cosa accade quando un’artista guarda e incorpora nel proprio lavoro quello di un altro artista, magari distante da sé nello spazio e nel tempo? Che opportunità viene offerta al pubblico quando questa inclusione si fa a sua volta opera d’arte? Sono queste due domande a fare da filo rosso alla mostra «Giorgio Morandi e Tacita Dean. Semplice come tutta la mia vita», allestita a Mantova, negli spazi del Centro internazionale d’arte e di cultura di Palazzo Te, per la curatela di Massimo Mininni e Augusto Morari e con il supporto di Cristiana Collu.
L’esposizione mette a confronto, fino al prossimo 4 giugno, i film «Day for Night» e «Still life», che l’artista inglese ha realizzato nel 2009 nello studio bolognese del pittore, e una raccolta di circa cinquanta opere del maestro novecentesco: dipinti, disegni, acquarelli e grafiche, concessi da importanti musei e collezioni private, che illustrano la sua ricerca relativa alla natura morta nel periodo dal 1915 al 1963.
L’intero percorso espositivo, che si apre con una ricostruzione in grandezza naturale dello studio dell’artista, mette in luce il legame tra due artisti, raccontando non solo la linfa che alimenta il lavoro di Tacita Dean, ma facendo anche splendere la contemporaneità del lavoro di ricerca sviluppato per tutta la vita -con pazienza, attenzione e sensibilità- da Giorgio Morandi.
L’artista inglese si sofferma sugli oggetti dell’universo poetico del maestro bolognese e sulle tracce lasciate su un piano dalle basi degli oggetti stessi, tracce composte dalla matita del pittore che calcolava, centrava, affiancava, spostava, ricollocava, aggregava, insisteva, con un’attenzione matematica, sperimentale, priva di casualità plausibilmente in rapporto con le ore del giorno, le luci, i colori dell’aria.
Partendo dagli oggetti cari a Morandi - bottiglie, lumi, caffettiere, tazze, porcellane e vetri -, il processo di creazione artistica attivato dall’osservazione e dalla meditazione sulle cose è il punto di incontro dei lavori dei due artisti. I film di Tacita Dean esprimono l’intuizione della necessità di guardare alle cose e alle tracce involontarie del processo della pittura. La sua opera non è un documentario: non antologizza Morandi, non analizza il suo contesto e il suo tempo, ma lo guarda con semplicità e permette allo spettatore di sperimentare come il suo lavoro sia ben vivo nel presente.
Le nature morte di Giorgio Morandi esposte nello spazio delle Fruttiere mostrano come l’elaborazione del colore nelle sue composizioni si sia arricchita sino a raggiungere gli ultimi raffinatissimi accordi dei toni più alti. Forme, cromie e valori spaziali sono associati a una musica di luce: la luce e l’ombra, presenti nelle stanze abitate dal pittore, sono appunto alla base della sua espressione grafica e coloristica.
Tacita Dean ci restituisce con chiarezza nei suoi lavori le atmosfere e gli ambienti morandiani: le ombre delle bottiglie, dei vasi appaiono in una pallida penombra. I film raccontano un mondo limitato, polveroso, dimesso e domestico, dove cose umili affiorano in una luce fioca e rendono magiche le stanze, il carattere del luogo e l’arte di Morandi. Si avverte che l’artista si è soffermata a indagarle, cercando di scoprire la rigorosa ricerca di quel mondo plastico, di quel vedere e sentire per volumi e parallele, di quel comporre con chiarezza l’ordine con il quale Morandi procedeva nel misurare e disporre gli oggetti, qualità sostanziali nelle nature morte che metteva in scena.

Didascalie delle immagini 
[Fig. 1] Giorgio Morandi, Natura morta con brocca e bottiglia, 1921; [Fig.2] Giorgio Morandi, Natura morta, 1921 

Informazioni utili 
«Giorgio Morandi e Tacita Dean. Semplice come tutta la mia vita». Museo civico di Palazzo Te, viale Te, 19 – Mantova. Orari: fino a sabato 25 marzo 2017 – lunedì, dalle ore 13.00 alle ore 18.30; da martedì a domenica, dalle ore 9.00 alle ore 18.30 (ultimo ingresso alle ore 17.30) | da domenica 26 marzo 2017 - lunedì, dalle ore 13.00 alle ore 19.30; da martedì a domenica, dalle ore 9.00 alle ore 19.30 (ultimo ingresso 18.30). Ingresso: intero € 12,00, ridotto € 8,00, ridotto studenti € 4,00 (visitatori tra i 12 e i 18 anni, studenti universitari). Informazioni: tel. 0376.323266. Sito web: www.centropalazzote.it. Fino al 4 giugno 2017.