ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

martedì 27 giugno 2017

Robert Indiana e il suo «Love» in mostra a Locarno e Milano

«Robert Indiana è conosciuto in tutto il mondo per la sua opera tridimensionale che recita la parola Love in lettere maiuscole, disposte in un riquadro con la lettera O-inclinata. Nata nella metà degli anni Sessanta come cartolina natalizia del Moma di New York e in breve assurta a inno della pace per poi affermarsi come marchio universale della Hippie Generation, questa scritta, incisa a caratteri cubitali nell’immaginario collettivo è diventata, forse ancor più della Marilyn di Andy Warhol, una delle icone più forti e suggestive dell’arte contemporanea facendo il giro del mondo e arrivando ad offuscare, con la sua notorietà, persino il nome del suo stesso creatore». Così Rudy Chiappini parla di Robert Indiana e della sua opera più celebre, la scultura «Love», vera e propria icona dell’arte contemporanea che si può ammirare in importanti luoghi pubblici di tutto il mondo, dalla Sixth Avenue a New York ai giardini del Museum of Art a New Orleans, fino alla piazza principale di Taipei.
Considerato una delle voci leader della Pop Art con Andy Warhol, Roy Lichtenstein, Claes Oldenburg, Tom Wesselmann e James Rosenquist, l’artista americano è in questi giorni, e fino al prossimo 13 agosto, al centro di una mostra allestita nelle sale della Pinacoteca comunale Casa Rusca di Locarno, che si configura come la sua prima esposizione in un museo svizzero.
Circa una sessantina le opere esposte, che ripercorrono la sua intera carriera dagli anni Cinquanta, quando si trasferisce nella Grande Mela, in un loft nella zona portuale di Coenties Slip, ed entra in contatto con esponenti del movimento minimalista come Ellsworth Kelly, Agnes Martin e Jack Youngerman. Nascono così opere che hanno tutto il fascino di una pittura dalla vena geometrica, pulita, hard-edge.
Accanto a questi primi dipinti, il percorso espositivo presenta le opere su legno dai motivi geometrici degli anni Cinquanta, gli assemblaggi denominati herms realizzati con materiale usurato come assi di legno, metallo e ruote arrugginite, i lavori dei decenni successivi in cui le parole e i segni sono i protagonisti assoluti, per arrivare alla serie dedicata a Marilyn Monroe e alle recenti creazioni in cui i temi della ricerca sono tradotti in ideogrammi cinesi.
Audace, iconica, colorata, celebrativa e apparentemente immediata, quella di Robert Indiana si configura così come un’opera dalla grande efficacia e potenza visiva, che colpisce istantaneamente l’occhio e la mente dello spettatore. Questo anche grazie alla presenza nelle opere di immagini-testo alla portata di tutti, ma che in realtà racchiudono un profondo significato esistenziale o di denuncia sociale. Il «sogno americano» è, per esempio, uno dei temi più ricorrenti e noti della produzione dell’artista. La retorica e l’utopia collettiva di una nazione-modello secondo cui attraverso il duro lavoro, il coraggio, la determinazione sia possibile raggiungere libertà, felicità e benessere materiale ha sempre influenzato il suo immaginario. Ma le opere di Robert Indiana, da «The American Dream, I» del 1961 al dipinto «The Rebecca» (raffigurante una nave statunitense che trasportava schiavi), sono critiche e ciniche nei confronti di quel «sogno»: la promessa dell’uguaglianza, della libertà e della ricerca della felicità contenuta nella Dichiarazione d’Indipendenza appare incompleta, afferma l’artista, nella misura in cui si indirizza solo a una parte della popolazione.
Robert Indiana è, comunque, come tutti gli altri Pop Artist figlio di quella storia. La sua arte «verbale-visuale» nasce in un momento in cui l'America cosmopolita della presidenza Kennedy (1961-1963) reclama se stessa, le proprie immagini, i propri oggetti, i propri vezzi, la propria unicità. Nasce così un sistema comunicativo inedito nel quale i prodotti industriali, le immagini del cinema, i fumetti, i cartelloni pubblicitari e anche i segnali stradali diventano il «contenuto» dell’opera d'arte. «Ci sono più segni che alberi in America. Ci sono più segni che foglie. Per questo penso a me stesso come a un pittore del paesaggio americano», dichiarava a tal proposito Robert Indiana in un’intervista al «New York Times».
Nasce così nel 1965 «Love», una delle immagini più sfruttate e replicate al mondo, stereotipo visivo di un’epoca e di una società riprodotto ancora oggi nelle pubblicità, sulle copertine di libri e dischi, in riviste, poster, sui capi d’abbigliamento e di arredamento. Un’opera dalla forte valenza iconica che apre anche la mostra milanese, al Museo della Permanente, che Danilo Eccher ha voluto dedicare al tema dell’amore. Trentanove le opere esposte fino al prossimo 23 luglio, tra cui si segnalano altri lavori fortemente iconici come la stereotipata e commerciale «Smoker #3» (3-D) di Tom Wesselmann, l’intramontabile «One Multicoloured Marilyn (Reversal Series)» di Andy Warhol e il pulsante «Coração Independente Vermelho #3 (PA)» di Joana Vasconcelos, il gigantesco cuore fatto di posate di plastica rossa che canta, con la voce di Amalia Rodriguez, l’incanto del fado con la sua melodia struggente e nostalgica.
Tra le opere da vedere a Milano, delle quali rimarrà documentazione in un catalogo edito da Skira, si segnalano anche i sei grandi dipinti della serie «Love Forever», mai esposti nel nostro Paese, che presentano elementi caratteristici dell'iconografia che ha reso nota Yayoi Kusama, artista giapponese nominata dal «Time» nel 2016 come una delle cento personalità più influenti del mondo: occhi, volti di profilo e altre forme più indeterminate che richiamano le strutture cellulari, spesso in combinazioni pulsanti, dalle suggestioni surrealiste e psichedeliche.
Completano il percorso espositivo i grandi e sensuali fiori di Marc Quinn e quelli colorati di Nathalie Djurberg & Hans Berg, gli eterni baci in marmo di Marc Queen e Francesco Vezzoli, le video-installazioni di Ragnar Kjartansson, Tracey Moffatt, Nathalie Djurberg e Hans Berg, ma anche opere di Vanessa Beecroft e Gilbert & George. Il tutto concorre a raccontare le diverse sfaccettature dell'amore: felice, atteso, incompreso, odiato, ambiguo, trasgressivo, infantile. Perché, come disse Francis Bacon e come scrive Danilo Eccher a chiusura del suo saggio in catalogo: «dopo tutto, a cosa si interessa la maggior parte dei pittori? Alla vita. Tutti gli artisti sono amanti, amanti della vita, vogliono vedere come riescono a piazzare la trappola in modo che la vita ne venga fuori più vivida e più violenta».

Didascalie delle immagini 
[Fig. 1] Robert Indiana, «Love», 1967. Acquaforte e acquatinta, 66 x 66 cm. © Robert Indiana - ProLitteris Zurigo; [fig. 2]  Robert Indiana, Marilyn, Marilyn», 2007. Serigrafia, 100 x 100 cm. © Robert Indiana - ProLitteris Zurigo; [fig. 3]  Robert Indiana, «The Rebecca», 1962. Olio su tela, 152,4 x 121,9 cm. © Robert Indiana - ProLitteris Zurigo; [fig. 4] Robert Indiana, «Love», 1966-1999. Scultura, alluminio policromo (red and gold), 91,5x91,5x45,75 cm. AP 3/4. Courtesy: Galleria d'Arte Maggiore, G.A.M., Bologna, Italia. © Robert Indiana; [fig. 5] Robert Indiana, «Amor», 1998. Scultura, alluminio policromo (blue and red), 104x96,5x50,8 cm. Ed. 3/6 Courtesy: Galleria d'Arte Bologna, Italia. © Robert Indiana

Informazioni utili
«Robert Indiana». Pinacoteca comunale Casa Rusca, piazza Sant’Antonio - Locarno (Svizzera). Orari: martedì - domenica, ore 10.00-12.00 e ore 14.00-17.00; lunedì chiuso. Ingresso: intero CHF 12.-, ridotto  CHF 10.-, studenti dai 16 anni e  gruppi AVS/AI (minimo 10 persone) CHF 6.-, ingresso gratuito per le scuole  e per gli studenti fino ai 16 anni. Prenotazioni e informazioni: +41(0)917563185 o servizi.culturali@locarno.ch. Sito internet: www.museocasarusca.ch. Fino al 13 agosto 2017. 

«Love. L’arte contemporanea incontra l'amore». Museo della Permanente, via Filippo  Turati, 34 - Milano. Orari: tutti i giorni, ore 9.30-19.30 (la biglietteria chiude un'ora prima). Ingresso (con audioguida): intero € 13,00, ridotto da € 11,00 a € 3,00. Informazioni: tel. 02.8929711. Sito internet: www.mostralove.it o www.lapermanente.it. Fino al 23 luglio 2017. 


domenica 25 giugno 2017

Firenze, il Lungarno Collection rende omaggio al genio di Warhol

Il genio di uno dei più grandi artisti del Novecento, Andy Warhol, incontra la creatività del giovane Simone D’Auria. Succede a Firenze per Lungarno Collection, compagnia di gestione alberghiera di proprietà della famiglia Ferragamo. Location dell’evento è il Gallery Hotel Art. Qui è esposta fino al prossimo 31 dicembre la mostra «Andy Warhol Forever», che presenta sedici lavori tra le più iconiche produzioni dell’artista, provenienti dalla Fondazione Rosini Gutman. Si tratta di un excursus veloce, ma estremamente esplicativo, che ripercorre l’avventura dell’artista che è riuscito a scuotere dalle fondamenta il mondo accademico della pittura e della critica del secondo Novecento, ma anche a modificare per sempre l’immagine dell’America e della società contemporanea.
Il percorso, allestito fino al prossimo 31 dicembre all’interno del Gallery Hotel Art, propone due ritratti della serie dedicata a Marilyn Monroe, della quale Andy Warhol si occupò già nel 1962, subito dopo la tragica scomparsa della diva cinematografica, contribuendo così a creare il mito di una donna entrata nella leggenda.
Accanto a questi lavori, si trova esposta una serigrafia del ciclo «Ladies and gentlemen», nel quale l’importante esponente della Pop Art iniziò a ritrarre i volti della gente comune e non solo di icone dello spettacolo. Nacquero così anche le opere che vedevano come modelle le drag queen del club newyorkese «The Gilden Grape,» un soggetto piuttosto forte e di non facile risoluzione per l’epoca.
Non mancano le immagini della società dei consumi come le celebri lattine della «Campbell’s soup», qui nella loro versione classica del 1967 e in quella con l’etichetta speciale creata per le olimpiadi invernali di Sarajevo del 1984, oltre a uno dei vestiti «Campbell Soup Dress» del 1966, realizzati in carta cotone «usa e getta».
La mostra prosegue analizzando lavori più particolari, come quelli che riproducono il «Kiku», ovvero il crisantemo giapponese, il fiore che rappresenta l’imperatore e la casa imperiale nipponica, o la rivisitazione delle nature morte seicentesche, pensate e realizzate come se fossero veri e propri modelli viventi, giocando e sperimentando l’uso delle ombre nell’arte grafica che, nella geniale prospettiva pop di Warhol divennero «Space fruits - Frutta Spaziale».
Il percorso espositivo si chiude con una serie di opere di Steve Kaufman, tra cui tre ritratti di James Dean, uno argentato di Elvis Presley, uno di Marilyn e altri soggetti pop.
Per l’occasione Simone D’Auria ha ideato per la facciata dell’albergo fiorentino l’installazione «Freedom», che vede protagoniste le scocche di dodici Vespe, icone universalmente riconosciute del Made in Italy.
«Quella di D’Auria -affermano gli organizzatori- si presenta come un’installazione colorata, dotata di una forte idea di libertà e che grazie alla forza comunicativa di un brand, immediatamente riconoscibile, come Vespa permetterà al visitatore di immergersi in un’atmosfera pop».
La nuova installazione di D’Auria giunge al Gallery Hotel Art, dopo che la sua facciata aveva ospitato, nel 2013, un gruppo di ventidue biciclette che rappresentavano la voglia di riscatto del popolo italiano, quel «guardare verso l’alto», verso il futuro, sinonimo della capacità di reinventarsi e, nel 2014, una lunga fila di manichini cromati, ciascuno con una differente testa di animale per ripercorrere, attraverso i loro simboli, la storia dei grandi personaggi fiorentini.
Nel 2015, anno di Expo, enormi cucchiai -«Bruno spoon»- ricordavano i temi approfonditi dall’Esposizione universale e, al tempo stesso, omaggiavano il grande designer Bruno Munari, mentre, lo scorso anno, «WOW. La girandola delle energie», proponeva girandole di grandi dimensioni che rimandano all’idea del vento e a quella dell’energia pulita ottenibile sfruttando questo fenomeno atmosferico.
Il progetto di D’Auria, che si avvale della collaborazione di Leica, si completa, nella piazza di Vicolo dell’Oro, con un «Selfie corner», dove saranno poste tre Vespa statiche, ad altezze differenti, per creare un’interazione col pubblico, diventando motivo e sfondo per scattare selfie e condividerli attraverso i canali social (#galleryhotelart; Instagram: @lungarnocollection @vespa_official #vespa).

Informazioni utili
«Andy Warhol - Forever» e «Simone D’Auria – Freedom». Firenze, Gallery Hotel Art, Vicolo dell'Oro, 5 – Firenze. Ingresso libero. Informazioni: tel. 055.27263 o gallery@lungarnocollection.com. Sito internet: www.galleryhotelart.com. Fino al 31 dicembre 2017.

venerdì 23 giugno 2017

Venezia, il Fai mette in mostra le ceramiche di Ettore Sottsass

«La ceramica è un materiale affascinante: si presenta morbida e grigia [...] ma una volta purificata dal fuoco, radiante, diventa improvvisamente eterna». Così il rivoluzionario architetto e designer italiano Ettore Sottsass (1917 -2007), del quale ricorrono quest’anno i dieci anni dalla morte, parlava del suo amore per la ceramica. Al suo lavoro con questo materiale è dedicata la mostra «Dialogo» che il Fai – Fondo per l’ambiente italiano organizza, in collaborazione con lo Studio Charles Zana Architecture, negli spazi del Negozio Olivetti di Venezia, in occasione della cinquantasettesima Esposizione internazionale d’arte.
La mostra, curata dall’architetto Charles Zana e realizzata con il supporto tecnico di Mobil Project e Viabizzuno, celebra il centenario della nascita del grande artista visionario e ne documenta la poliedrica produzione ceramica compresa tra il 1957 e il 1969, anni estremamente fertili e di formazione in cui Sottsass utilizza la ceramica per lo sviluppo di un nuovo linguaggio del design teso a superare la filosofia razionalista del Bauhaus. Sessanta opere in mostra tra vasi, piatti e i suoi celebri menhir in dialogo con i volumi e i profili progettati da Carlo Scarpa per il Negozio Olivetti nel 1957: i due grandi protagonisti del design italiano idealmente riuniti sotto l’egida dell’imprenditore illuminato Adriano Olivetti che proprio in quegli anni avviò con entrambi un’intensa collaborazione.
In accordo con il Movimento arte concreta che attinge a forme e colori intesi come libera espressione della personale immaginazione dell’artista, la ricerca di Sottsass sul rapporto tra spazio, forma e colore si concretizza nel campo delle arti applicate: attraverso l’uso di un materiale plastico come l’argilla il designer è stato in grado di dare voce ai suoi pensieri e alle sue emozioni più profonde.
Dagli esordi sperimentali del 1955 sotto la supervisione di Aldo Londi, allora direttore artistico della nota azienda toscana Bitossi Ceramiche, Ettore Sottsass approda a una maturazione formale e a un controllo totale della materia nella serie «Le Ceramiche di Lava», realizzata nel 1957, lo stesso anno che segna l’inizio del sodalizio con Adriano e Roberto Olivetti.
Contraddistinte da un aspetto primitivo e da una rimarcata porosità data dall’uso di argilla e terra cotta non trattata, queste ceramiche vedono ancora Sottsass alle prese con i giochi di colore e le sperimentazioni con le tecniche di smaltatura. Mentre per la serie «Rocchetti e Isolatori» (1961-1962) e quella dedicata alle «Ceramiche a Fischietto» (1962) l’attenzione del designer è rivolta alla forma: predominano qui i riferimenti estetici al mondo della produzione industriale con vasi dalle forme semplici e facilmente replicabili che riproducono bobine e isolatori per giungere alla serie in edizione limitata di fischietti, realizzati dalla Società ceramica toscana con la messa a punto di uno stampo e progettati da Sottsass per la galleria il Sestante di Milano.
I suoi interessi personali, i viaggi, la malattia e una sentita spiritualità sono ben rappresentati nelle «Ceramiche delle Tenebre» (1963), serie ideata nella solitudine di Palo Alto durante il decorso ospedaliero di una grave patologia, contratta dopo un viaggio in India e curata in California grazie all’aiuto di Roberto Olivetti, e la successiva «Ceramiche di Shiva» dedicata al dio indù della distruzione e rigenerazione come ex voto per aver sconfitto la malattia.
L’assoluta libertà che ha caratterizzato ogni suo progetto si rivela anche nel passaggio dalla produzione artistica a quella industriale delle «Ceramiche a Colaggio» (1962-1963), prodotte in serie senza timbro né firma con la tecnica della fusione sperimentata per «Le Ceramiche a Fischietto».
Sottsass non abbandonerà mai la produzione di pezzi unici e tra il 1963 e il 1969 continuerà a disegnare schemi spirituali da modellare con l’argilla: dalle «Ceramiche delle Tenebre» passando per «Menhir», «Ziggurat», «Stupas», «Hydrants & Gas Pumps» fino alle «Tantra Ceramiche» nella ricerca costante di una connessione spirituale tra forma e significato.
Il rapporto che lega il Negozio Olivetti, progettato alla fine degli anni Cinquanta da Carlo Scarpa, alle ceramiche in mostra di Ettore Sottsass oscilla tra contrasti e assonanze. Quello che emerge a prima vista nei due ordini di progetti è la differenza tra l’apparente severità classica del primo e la vitalità rivoluzionaria del secondo; ma, a uno sguardo più approfondito, emergono punti di contatto, primo fra tutti il colore, ma anche l’approccio sistematico al lavoro progettuale.
La mostra «Dialogo» oltre a raccontare l’ineguagliata personalità creativa dei due fra i più importanti architetti del dopoguerra italiano offre un’occasione per comprendere a pieno quegli anni estremamente fertili per l’arte e il design italiano che precedettero l’epoca del Radical Design.

Informazioni utili
Dialogo. Ettore Sottsass Ceramiche 1957 - 1969, Carlo Scarpa Negozio Olivetti 1957. Negozio Olivetti, Piazza San Marco 101 – Venezia. Orari: da martedì a domenica, dalle ore 12.00 alle ore 19.30; ultimo ingresso mezz’ora prima della chiusura.Ingresso: intero € 6,00, ridotto (bambini 4-14 anni) € 3,00, famiglia € 15,00, Iscritti Fai e National Trust gratuito, studenti universitari (fino ai 26 anni) e residenti Comune di Venezia € 3,00. Informazioni: tel. 041.5228387 – fainegoziolivetti@fondoambiente.it. Fino al 21 agosto 2017.

mercoledì 21 giugno 2017

A Roma Boldini e la femme fatale della Belle Époque

Senti il nome di Giovanni Boldini (Ferrara, 1842 - Parigi, 1931) e pensi subito a un monde perdu, quello della Belle Époque, fatto di abiti sontuosi e fruscianti, di ventagli civettuoli e di ombrelli parasole dal fascino d’antan, di donne piene di grazia e gusto, di salotti carichi di cultura e frivolezza, di gioia di vivere e di fiducia ottimistica nel futuro. L’artista ferrarese, il più grande e prolifico pittore italiano residente a Parigi nell’Ottocento, amato da intellettuali come Proust e dall'eccentrica Colette, ha consegnato al mondo dell’arte meravigliosi e palpitanti ritratti di alcune delle personalità più in voga del tempo, dal compositore Giuseppe Verdi all’antiquario Thomas Smith, dalla bellissima contessa de Rasty, immortalata voluttuosa nel letto o in abito da sera, all'altrettanto splendida madame Blumenthal.
Con il suo elegante tratto di matita e con la sua inconfondibile pennellata «a frusta», costruita con rapidi e sicuri colpi di pennello simili a sciabolate, Giovanni Boldini è, poi, conosciuto per aver cristallizzato nei colori -a olio e pastello- l’«attimo fuggente», l’istante irripetibile, facendoci quasi intuire il fruscio delle pieghe di vestiti in velluto o voile, il galoppare veloce di un cavallo, la musica di un’orchestra in un teatro, il chiacchiericcio e le risa in un bistrot parigino, il sentimento che si nasconde dietro lo sguardo malinconico di una donna. E sono loro, le donne, le grandi protagoniste della produzione dell’artista: committenti, amanti e modelle, talvolta seminude, talaltra opulentemente vestite, delle quali egli coglieva le suggestioni erotiche, la spregiudicatezza, l’intelligenza fiera, la consapevolezza del fascino maliardo o le ben salde virtù morali che ne facevano mogli e madri fedeli.
Interprete sapiente delle aspettative e dei gusti di una clientela d’élite e, con essi, dell’esprit di un’epoca felix e perduta, Giovanni Boldini è con oltre cento delle sue opere più mondane e spensierate, provenienti da prestigiosi musei internazionali come l’Orsay di Parigi, l’Alte Nationalgalerie di Berlino, il Musée des Beaux-Arts di Marsiglia e gli Uffizi di Firenze, al centro della retrospettiva allestita fino al 16 luglio a Roma, negli spazi del Complesso monumentale del Vittoriano.
A completare il percorso espositivo, che vede la curatela di Tiziano Panconi e Sergio Gaddi, sono una trentina di tele firmate da artisti a lui coevi, altrettanto validi interpreti di quell’epoca, da Telemaco Signorini a Giuseppe De Nittis, da James Tissot (di cui è esposta l’elegante tela «La dama con l’ombrello») a Federigo Zandomeneghi.
Di sala in sala, accanto alle ricerche en plein air “al soldo” del potente mercante internazionale Adolphe Goupil (in mostra «Marchesino a Versailles» del 1876, «Place Clichy» del 1874 e «Lo strillone» del 1878 ca), si potranno ammirare i ritratti delle affascinanti ereditiere madame Veil-Picard, madame Seligman, madame Fortuny, madame Montaland e mademoiselle De Nemidoff, elegantissime nei loro abiti sontuosi e fruscianti, con acconciature perfette e gioielli di notevole valore.
Tra le «Divine», per usare il termine con cui Giovanni Boldini appellava tutte le donne passate nel suo atelier, ci sono anche la cilena Emiliana Concha de Ossa, nipote del diplomatico e scrittore Ramòn Subercaseaux, Josefina Alvear Errázuriz, moglie dell’ambasciatore argentino a Parigi, e lady Colin Campbell, il cui ritratto arriva a Roma direttamente dalla National Portrait Gallery di Londra.
Non mancano lungo il percorso espositivo, di cui rimarrà documentazione in un catalogo edito dalla casa editrice milanese Skira, i ritratti di Rita De Acosta Lydig, seduta su una sedia, con gli occhi negli occhi dei visitatori e abbigliata con un abito rosato arricchito di pizzi di cui era collezionista, di madame Remy Salvator, appoggiata allo schienale di una sedia, e di  madame Helleu, sdraiata sulla spiaggia di Deauville e protetta da un parasole bianco, entrambe assorte nei propri pensieri, così come la donna ritratta ne «La tenda rossa», una delle opere più importanti esposte in questa mostra.
Su tutte loro spicca donna Franca Florio, con la grande tela realizzata tra il 1901 e il 1924, di cui si parla tanto in questi giorni perché, sostengono alcuni, l'esposizione romana potrebbe essere l’ultima occasione per vederla dal vivo. Il capolavoro di Boldini è, infatti, stato battuto all'asta all'inizio di maggio ed è stato aggiudicato da un privato che ha sbaragliato anche la concorrenza del Comune di Palermo, i cui cittadini avevano attivato una campagna di crowdfunding con l’hashtag #RiportiamoacasaFranca.
A commissionare a Giovanni Boldini il ritratto di Franca Florio, donna di singolare fascino e bellezza che Gabriele D’Annunzio definì «l’unica, una creatura che svela in ogni suo movimento un ritmo divino» e Guglielmo II appellò con il soprannome di «stella d'Italia», fu suo marito Ignazio, erede di una delle più importanti famiglie imprenditoriali siciliane.
Il primo ritratto realizzato aveva una scollatura vertiginosa e metteva a nudo il décolleté e parte dei seni. Ignazio Florio non gradì affatto la scelta del pittore, giudicò l'opera troppo sensuale e provocatoria e non la pagò. Boldini si rimise al lavoro eseguendo una seconda versione del dipinto, decisamente più casta, alla quale nel 1903 si aprirono addirittura le porte della Biennale di Venezia.
A distanza di anni il pittore, su richiesta della stessa donna Franca, riprese la prima versione del ritratto, conservata da sempre nel suo atelier, realizzando il dipinto nella sua forma definitiva, quella nota a tutti. In seguito alla rovina finanziaria della famiglia Florio la tela passò, tra il 1927 e il 1928, nelle mani del barone Maurice de Rothschild, che la portò in America; ritornò sul mercato nel 2005, quando fu battuta da Sotheby's e acquisita dalla Società Acqua Marcia, oggi al centro di una proceduta giudiziaria che ha visto mettere all’asta i beni di sua proprietà.
Alla mostra romana si lega anche la presentazione di un carteggio inedito del pittore composto da una quarantina di lettere scritte dal febbraio all’aprile del 1889, prevalentemente a Telemaco Signorini, che sono state di recente portate alla luce da Loredana Angiolino e Tiziano Panconi. Un'occasione, la lettura di questa corrispondenza, anche per scoprire l'ironia e la sagacia dell'artista ferrarese, noto per aver interpretato ottimamente -scriveva lo storico dell’arte Bernard Berenson- «la massima eleganza muliebre di un’epoca [...] fin troppo rivestita dagli artifizi dei sarti e delle modiste, e figurativamente legata a pose ambigue, tra il salotto e il teatro».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Giovanni Boldini, «Ritratto di Donna Franca Florio», 1901-1924. Olio su tela, 221x119 cm; [fig. 2] Giovanni Boldini, «Ritratto di Giuseppe Verdi seduto», 1886. Olio su tela, 122x87 cm. Casa di Riposo per Musicisti-Fondazione Giuseppe Verdi; [fig. 3] Giovanni Boldini, «Il vestito da ballo (signora che cuce; Signora bionda in abito da sera interno con giovane intenta a cucire)», 1889 ca. 4 3 1904 ca. Olio su tavola, 27x35 cm 220x150cm. Collezioni d'Arte Fondazione Cariparma, donazione Renato Bruson; [fig. 4] Vittorio Matteo Corcos, «Castiglioncello»,1910. Olio su tela, 133x72 cm. Collezione privata; [fig. 5] Giovanni Boldini, «Ritratto della danzatrice spagnola Anita De La Feria», 1901. Olio su tela, 54,5x42 cm. Collezione privata 

Informazioni utili
Giovanni Boldini. Complesso del Vittoriano – Ala Brasini, via di S. Pietro in Carcere - Roma. Orari: dal lunedì al giovedì, ore 9.30-19.30; venerdì e sabato, ore 9.30-22.00; domenica, ore 9.30-20.30 (la biglietteria chiude un’ora prima). Ingresso: intero € 14,00, ridotto € 12,00 (audioguida inclusa), ridotto gruppi € 10,00, ridotto bambini € 6,00, per tutte le altre tariffe si consiglia di consultare il sito del Vittoriano. Informazioni e prenotazioni: tel. 06.8715111. Sito internet: www.ilvittoriano.com. Fino al 16 luglio 2017. 

martedì 20 giugno 2017

«Anime. Di luogo in luogo», Boltanski, Bologna e la memoria che si fa futuro

È uno degli artisti contemporanei più famosi al mondo ed è, senza dubbio, quello che, più di chiunque altro, ha saputo interpretare e raccontare in maniera viva e pulsante il tema della memoria. Il suo nome è legato strettamente anche alla città di Bologna per la quale, nel 2007, ha realizzato un’imponente e drammatica installazione in ricordo della tragedia di Ustica, che vuole essere luogo di esercizio della memoria e dell'impegno per la ricerca della verità.
A dieci anni di distanza da quell’appuntamento Christian Boltanski, uno tra gli interpreti più sperimentali e innovativi del nostro tempo, torna protagonista nella città emiliana grazie a un articolato progetto, ideato da Danilo Eccher, studioso che nel 1997 aveva curato per la sede espositiva di Villa delle Rose «Pentimenti», la prima personale italiana dell'artista francese, all’interno della quale era esposta anche l’opera «Les regards», oggi visibile in un nuovo allestimento nella collezione permanente del Mambo, che riproduce su sottili fogli di poliestere le fotografie dei volti di partigiani e partigiane che compongono il Sacrario della Resistenza di piazza Nettuno.
«Anime. Di luogo in luogo» è il titolo dell’iniziativa, che si compone di diversi momenti complementari in cui l’interazione tra arte contemporanea, tessuto urbano e società si sviluppa intorno ai temi della memoria e del trascorrere del tempo inteso come ineluttabile passaggio tra la vita e la morte.
Un’ampia mostra antologica al Mambo - Museo d'arte moderna di Bologna, uno spettacolo teatrale al teatro Arena del Sole, un'installazione presso l'ex bunker polveriera nel Giardino Lunetta Gamberini e un progetto speciale all'interno dell'ex parcheggio Giuriolo sono i quattro volti di un medesimo lavoro, nato in linea con altre iniziative speciali che, in passato, hanno reso omaggio all'opera di autori come John Cage, Gianni Celati, Romeo Castellucci e Pier Paolo Pasolini accomunati da un significativo rapporto con Bologna.
La scelta di omaggiare Christian Boltanski assume una pregnanza di particolare rilievo simbolico per la concomitante ricorrenza di alcuni anniversari che incrociano la storia di Bologna con quella di importanti istituzioni culturali: dieci anni dalla fondazione del Mambo e del Museo per la Memoria di Ustica, trentasette anni dalla strage di Ustica, quaranta anni dalla nascita di Emilia-Romagna Teatro Fondazione. È, dunque, con una priorità urgentemente avvertita che questo progetto intende radicarsi nel patrimonio storico, civile e culturale della città, generando una fertile relazione tra memoria e contemporaneo, perché la memoria viva è una memoria che continua a interrogarci.
A tal proposito Danilo Eccher afferma, parlando del titolo del progetto: «Anima è un termine che, al singolare e nelle sue molteplici declinazioni, si riferisce al principio vitale dell’uomo. Al plurale, il termine rimanda alla collettività, alle storie dei singoli individui e alla Storia ma non manca di lasciare una prospettiva immaginaria per proiettare il presente nel futuro, trasmettendo un fiducioso senso di continuità».
Nucleo centrale dell'intero progetto sarà la mostra antologica allestita, dal 26 giugno al 12 novembre, al Mambo, con oltre venti installazioni dell’artista. L’ordinamento delle opere ripercorre la poetica di Boltanski da metà anni Ottanta fino gli anni più recenti e si articola in sale che affrontano i temi su cui si è concentrata con intensa continuità la sua ricerca: la scomparsa, il rapporto dialettico fra vita e morte, la fragilità della memoria e del ricordo, la scommessa contro l'ineluttabilità dell'oblio, il senso di tragicità intrinseco alla storia. L'imponente Sala delle Ciminiere, cuore del museo e dell'intero percorso espositivo, sarà occupata dalla struttura labirintica dell’installazione ambientale «Regard-Eyes»: immagini sfocate di volti anonimi stampate in bianco e nero su un tessuto trasparente di grande formato provenienti dall'archivio fotografico personale dell’artista che, come conturbanti presenze fantasmatiche, il visitatore è invitato ad attraversare abbandonandosi al flusso del tempo e della memoria.
Al centro della sala apparirà la straniante preziosità di «Volver», una forma piramidale alta oltre tre metri interamente ricoperta da coperte isotermiche dorate, materiali che richiamano le drammatiche immagini dei primi soccorsi prestati ai migranti. Il dialogo stabilito da Boltanski tra le due opere sembra suggerire un’immanente vicinanza tra le presenze/assenze di quei volti, di cui sopravvive solo uno sguardo evanescente, e i migranti, odierni fantasmi senza nome, per la comune privazione della storia e dell’identità individuali.
Al concetto della transitorietà dell'esistenza umana e della ricostruzione di tracce di vita quotidiana sarà ispirata anche l’installazione visibile dal 26 giugno giugno nell'ex bunker polveriera del Giardino Lunetta Gamberini. La costruzione militare di origine ottocentesca, prima di essere chiusa per motivi di sicurezza, negli ultimi anni era divenuta un rifugio improvvisato di sconosciuti senza tetto, forse migranti disperati, ancora impossibilitati a comprendere il significato della parola accoglienza. Scelto per il suo valore emblematico, il bunker diventa per l'artista uno spazio ideale dove evocare i corpi di mute presenze, attraverso un'opera creata ad hoc.
Sempre a fine mese inaugurerà l'installazione performance «Ultima», frutto della collaborazione di Boltanski con lo scenografo Jean Kalman e il compositore Franck Krawczyk, che trasforma la sala principale del teatro Arena del Sole, rivelandone inedite dimensioni espressive. La creazione, visibile dal 28 al 30 giugno, è pensata come attraversamento di uno spazio, di un luogo fortemente evocativo abitato da oggetti, voci, accadimenti sonori in uno scenario creato dalla combinazione di elementi emotivamente coinvolgenti per quanto semplici ed essenziali.
Nel mese di settembre ci sarà, invece, «Take me (I'm yours)», che vede Boltanski nel ruolo di curatore di un inusuale esperimento di arte popolare che trasforma lo spazio dell'ex parcheggio Giuriolo in un contesto di arte diffusa in cui gli spettatori sono invitati a interagire con l'arte o ad appropriarsene. Artisti affermati e giovani emergenti saranno invitati a realizzare multipli e oggetti da scambiarsi e donare al pubblico, in una visione ludica e ironica dei processi di creazione di valore delle opere d'arte, che cerca di esplorarne modalità di diffusione e distribuzione alternative alle leggi del mercato.
Completa il progetto l’intervento di arte pubblica «Billboards», con cinque immagini di partigiani e partigiane che compongono il Sacrario della Resistenza di piazza Nettuno. Le fotografie, personalmente selezionate dall’artista e riprodotte su numerosi tabelloni pubblicitari di vario formato, sono istallate lungo le principali strade periferiche della città. Creando impreviste discontinuità visive e di senso nel panorama urbano, questi sguardi rianimati interrogano la nostra consapevolezza del passato, attivando un processo di rammemorazione collettiva, che diviene investimento sul futuro.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Christian Boltanski, Chance - Biennale di Venezia, 2011; [fig. 2] Christian Boltanski, Réserve, Fête de Pourim. Scatole di metallo, fotografie, lampade / metal boxes, frames, lamps. © C. Boltanski; [fig. 3] Christian Boltanski, Monumenta - Paris, 2010. Dimensioni ambientali / ambiental dimensions. © C. Boltanski; [fig. 4] Christian Boltanski, Regards - Zurich, 2001. © C. Boltanski; [fig. 5] Christian Boltanski, Animitas (blanc), 2017. Video con sonoro / video with sound, 16/9, HD. © C. Boltanski

Informazioni utili
I luoghi del progetto speciale
A proposito di Ustica - Installazione permanente. Museo per la Memoria di Ustica, via di Saliceto, 3/22 - Bologna;
Anime. Di luogo in luogo. - Mostra antologica. MAMbo - Museo d’Arte Moderna di Bologna, via Don Minzoni, 14 - Bologna;
Billboards - Affissioni a Bologna;
Ultima. Spettacolo teatrale. Arena del Sole, via Indipendenza, 44 - Bologna;
Installazione. Ex bunker polveriera Giardino Lunetta Gamberini, via Pelizza da Volpedo - Bologna;
Take me (I'm yours) - Progetto speciale. Ex parcheggio Giuriolo, via Giuriolo, 3 - Bologna.