ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

sabato 1 luglio 2017

La Belle Époque di Toulouse-Lautrec

Mentre Claude Monet, Camille Pissarro, Alfred Sisley e molti altri collocavano il loro cavalletto sulle sponde della Senna o in mezzo a campi assolati, studiando appassionatamente la pittura en plein air, vera e propria cifra stilistica del movimento impressionista, c’era un artista che si divertiva a ritrarre la vita notturna di Parigi, cogliendo le atmosfere delle sale da ballo, dei caffè-concerto e dei palcoscenici più in voga nella capitale francese sul finire dell’Ottocento. Quell’artista era Henri de Toulouse-Lautrec (Albi, 24 novembre 1864 – Saint-André-du-Bois, 9 settembre 1901), emblema indiscutibile di un’epoca, la leggendaria e scintillante Belle Époque, di cui contribuì a fissarne per sempre nella memoria del tempo, con il suo sguardo disincantato e il suo stile anticonformista, protagonisti, umori, colori e illusioni.
Montmartre e i suoi locali, il Moulin Rouge e le sue ballerine di can-can, l’Opéra e i suoi concerti, il bistrot alle Folies-Bergère e i suoi bevitori d’assenzio, le «maisons closes» parigine e le loro prostitute, le stelle effimere del cabaret e le vedette del tempo, dal cantante Aristide Bruant alla bella Yvette Guilbert: questo era l’universo vissuto e rappresentato dall’artista francese, di cui rimane sulla tela o sui fogli di carta il lato più malinconico e amaro, come ben documenta la mostra curata da Stefano Zuffi per il gruppo Arthemisia, che porta, fino al prossimo 3 settembre, circa centosettanta opere provenienti dall’Herakleidon Museum di Atene negli spazi di Palazzo Forti a Verona.
Litografie a colori (da «Jane Avril» del 1893 a «Troupe de Mlle Églantine» del 1896, passando per l’album «Elles» del 1896), manifesti pubblicitari (come «Aristide Bruant nel suo cabaret» del 1893 e «La passeggera della cabina 54» del 1895), grafiche promozionali, illustrazioni per giornali (tra cui «La revue blanche» del 1895), vignette satiriche, disegni a matita e a penna, acquerelli, insieme a video, fotografie e arredi dell’epoca riscostruiscono uno spaccato della Parigi bohémienne. Riportano i visitatori indietro nel tempo, in un’epoca frivola e peccaminosa, piena di joie de vivre, svaghi serali, luci artificiali, risate artefatte e applausi per cabarettisti, ballerine e chansonniers, artisti abili nel nascondere le nubi che correvano sulla loro anima e le ombre fuggevoli che passavano sul loro viso sotto il trucco pesante e gli abiti vistosi, dietro le luci della ribalta, ma non all’occhio di Toulouse-Lautrec.
Osservatore implacabile e attento dell’animo umano, il pittore filtrava il mondo attraverso le frustrazioni della sua vita e capiva empaticamente il dolore e l’insoddisfazione degli altri, il sorriso forzato e lo sguardo perso di chi avrebbe voluto essere altrove. Afflitto da una malattia genetica alle ossa, assimilabile al nanismo, l’artista si condannò, infatti, a una vita infelice fatta di piaceri facili ed estemporanei, alcol e sesso a pagamento in primis, morendo a causa della sifilide a soli trentasei anni, ma lasciando dietro di sé un corpus di opere dai numeri considerevoli per essere stato realizzato in soli vent’anni: 737 tele, 275 acquerelli, 363 stampe e manifesti, 5.084 disegni.
Più che mai fedele al suo principio che «solo la figura esiste» e che il paesaggio non è che un accessorio», Toulouse-Lautrec regala al nostro sguardo ritratti di donne sole, silenziose, osservate senza la minima intenzione caricaturale o di vignetta cronachistica, ma anche un album di litografie dedicato a Yvette Guilbert, soprannominata la «Diseuse» (la fine dicitrice) e rimasta nell’immaginario collettivo per i suoi lunghi guanti neri fino al gomito, e lavori con Jane Avril, celebre stella del cabaret parigino, effigiata, per esempio, nel can-can insieme ad altre ballerine nell’opera «La compagnia di Mademoiselle Eglantine» (1896).
Lungo il percorso espositivo si trovano anche una sezione dedicata all’amore di Toulouse-Lautrec per i cavalli, con opere come «Il fantino» (1899) e «The pony Philibert» (1898), e un’altra incentrata sulle commissioni per le riviste «Le Rire» ed «Escarmouche», per le quali l’artista disegnava vignette di satira politica e di costume.
Al centro della mostra vi è, poi, una sezione preziosa con una serie di disegni a matita e a penna: schizzi di volti, atteggiamenti, silhouette e caricature, di travolgente freschezza e mordente incisività. Il lapis è stato il compagno fedele nella lunga e obbligata immobilità durante le convalescenze dalla malattia, il modo per vincere la noia delle stazioni termali, la piccola condanna negli esercizi obbligati durante la fase di formazione accademica, lo strumento più immediato per vedere e interpretare il mondo, quella Parigi di fine secolo, vitale e contraddittoria, di cui Toulouse-Lautrec ha consegnato alla storia luci e ombre.

Didascalie delle immagini 
[Fig. 1] Henri de Toulouse-Lautrec, Au Concert (Before Letters), 1896. Litografia a colori, 32x25,2 cm. © Herakleidon Museum, Atene; [fig. 2] Henri de Toulouse-Lautrec, Jane Avril (Before Letters), 1893. Litografia a colori, 124x91,5 cm. © Herakleidon Museum, Athens Greece Greece; [fig. 3] Henri de Toulouse-Lautrec, La Troupe de Mademoiselle Églantine, 1896. Litografia a colori, 61,7x80,4 cm. © Herakleidon Museum, Athens Greece Greece

Informazioni utili 
«Toulouse Lautrec. La Belle Époque». AMO – Palazzo Forti, via Achille Forti, 1 - Verona. Orari: lunedì, dalle ore 14.30 alle ore 19.30; da martedì a domenica, dalle ore 9.30 alle ore 19.30. Ingresso: intero € 14,00, ridotto € 12,00, ridotto gruppi € 10,00, ridotto universitari € 9,00, ridotto scuole da € 5,00 a € 3,00, per altre tariffe si consiglia di vedere la pagina http://www.mostratoulouselautrec.it/informazioni-visite-orari-biglietti-prenotazioni.html. Informazioni: tel. 045.853771. Sito internet: www.mostratoulouselautrec.it. Fino al 3 settembre 2017.

giovedì 29 giugno 2017

Robert Wilson rilegge Italo Calvino a Varese. E celebra Illy a Venezia

«I racconti popolari e le favole mi hanno sempre affascinato»: così Robert Wilson presenta l’installazione «A Winter Fable», un lavoro inedito nato per le rimesse delle carrozze di Villa Panza a Varese ispirato a una delle «Fiabe italiane» di Italo Calvino, raccolta edita nel 1956 per i tipi di Einaudi. L’opera che ha dato vita al terzo e ultimo capitolo del progetto «Robert Wilson for Villa Panza. Tales», ideato per il Fai – Fondo per l’ambiente italiano, è una favola della tradizione napoletana: «Comare Volpe e Compare Lupo», trascritta per la prima volta in italiano da un giovanissimo Benedetto Croce, nella quale si racconta di di due animali, legati da un patto indissolubile, che si promisero reciproco aiuto, ma che l’ingordigia di uno divise per sempre. Il lupo rifiutò, infatti, di condividere con la volpe un agnello appena catturato segnando così il suo destino.
Robert Wilson si è concentrato sui tre personaggi principali della fiaba: il lupo, la volpe e l’agnello, protagonisti di una storia di violazione, manipolazione e vendetta. «Spesso le persone mi chiedono quali siano le idee che stanno dietro alle mie immagini -ha spiegato Robert Wilson-. Rispondo che non interpreto il mio lavoro. L’interpretazione è per gli altri. Le favole sono una fonte di ispirazione, dare un significato a questo lavoro limita la sua poesia e la possibilità di far nascere altre idee».
Nelle mani dell’artista la favola si è tradotta in un trittico di video interconnessi: tre ritratti dei singoli animali legati a un unico paesaggio, onirico e surreale, come elemento ancora una volta caratteristico e caratterizzante della sua poetica. A completare la sua visione, la colonna sonora del duo musicale statunitense CocoRosie (le sorelle Bianca Leilani e Sierra Rose Casady) che aveva già composto nel 2013 la musica per lo spettacolo «Peter Pan» di Wilson a Berlino.
In «A House for Giuseppe Panza» il maestro americano aveva messo in luce aspetti che lo accomunano allo spirito del collezionista italiano come l’amore per lo studio, la contemplazione e la ricerca del silenzio. Nella nuova opera «A Winter Fable» l’artista esprime ancora con la sua complessa poetica stringenti parallelismi con l’essenza della collezione permanente di Villa Panza, come il continuo confronto tra classico e contemporaneo, che scaturisce in una forte tensione per far dialogare epoche differenti, le contaminazioni di diversi linguaggi e discipline, la specifica sensibilità per il tema della luce. Anche la tensione verso il concetto di tempo interiore, rallentato, testimonia la capacità dell’arte di rapportarsi alla sfera spirituale insieme al carattere meditativo che accomuna entrambe le esperienze.
Il progetto di Robert Wilson rientra in una serie di iniziative promosse in questi anni dal Fai – Fondo per l’ambiente italiano con la finalità di valorizzare la figura del collezionista milanese che ha dato vita e forte identità a Villa Panza e al spirito. Ciò è avvenuto proponendo anche mostre di artisti come Bill Viola e Wim Wenders, che non fanno parte della collezione, ma che sono in grado di suggerire una lettura trasversale, nuova e non autoreferenziale, rispettandone comunque le peculiarità e le naturali caratteristiche genetiche.
La ricerca del Fai ha permesso così di implementare la collezione permanente di Villa Panza con l’ingresso di nuove acquisizioni: «Tre cubi» e «Forma d'archi e piccola elevazione» (2010) di Christiane Löhr, «Varese Scrim 2013» di Robert Irwin (2013), «Ganzfeld» di James Turrell (2013), «Ground Zero, 2001» di Wim Wenders (2015), «Cone of Water» di Meg Webster (2016), «A House for Giuseppe Panza» (2016) e «A Winter Fable» (2017), entrambe di Wilson. Ognuna di queste, con grande equilibrio, dialoga con lo spirito e l’identità del luogo e la cifra stilistica degli spazi e contribuisce ad accrescerne il suo valore e la sua conoscenza.
In contemporanea Robert Wilson è in mostra anche a Venezia, negli spazi dei Magazzini del Sale, con il progetto «The Dish Ran Away With The Spoon. Everything You Can Think Of Is True», ideato per celebrare il venticinquesimo anniversario delle illy Art Collection, le serie di tazze che dal 1992 la illycaffè di Trieste crea con alcuni tra i più famosi artisti internazionali, tra i quali Marina Abramović, Robert Rauschenberg, Jeff Koons, Julian Schnabel, Anish Kapoor e Daniel Buren.
Una tigre siberiana all’interno di un bosco uscito dai dipinti di Hieronymus Bosch, conigli meccanici in un interno vintage, lupi e vulcani accesi, gru e scimmie in un candido giardino, un’elegante pantera: tutto questo compone la Wunderkammer con cui il poliedrico regista americano celebra uno dei più conosciuti simboli iconici del nostro tempo, la porcellana bianca simile a una tela disegnata nel 1991 da Matteo Thun e trasformata, di volta in volta, da grandi nomi della creatività contemporanea dando vita a «oggetti divertenti e giocosi -come afferma lo stesso Wilson- che esprimono la diversità di estetica degli artisti coinvolti».

Informazioni utili
Robert Wilson for Villa Panza. Tales. Villa e Collezione Panza, piazza Litta, 1 - Varese Orari: tutti i giorni, tranne i lunedì non festivi, dalle ore 10.00 alle ore 18.00. Ingresso: Ingresso gratuito per chi si iscrive al Fai (o rinnova l’iscrizione) al momento della visita; adulti € 13,00 (martedì e mercoledì ridotto € 10,00); iscritti Fai e bambini (4-14 anni) € 6,00; studenti (fino a 26 anni) € 8,00 nei giorni feriali ed € 10,00 il sabato, la domenica e i festivi; famiglia (2 adulti + 2 bambini) € 30,00. Sito web: www.villapanza.it. Fino al 15 ottobre 2017. La chiusura della mostra è stata prorogata al 4 marzo 2018. 

«The Dish Ran Away With The Spoon. Everything You Can Think Of Is True». Magazzini del Sale, Zattere Dorsoduro 262 – Venezia. Orari da martedì a domenica, dalle ore 10.00 alle ore 18.00; chiuso il lunedì. Ingresso libero. Fino al 10 settembre 2017

martedì 27 giugno 2017

Robert Indiana e il suo «Love» in mostra a Locarno e Milano

«Robert Indiana è conosciuto in tutto il mondo per la sua opera tridimensionale che recita la parola Love in lettere maiuscole, disposte in un riquadro con la lettera O-inclinata. Nata nella metà degli anni Sessanta come cartolina natalizia del Moma di New York e in breve assurta a inno della pace per poi affermarsi come marchio universale della Hippie Generation, questa scritta, incisa a caratteri cubitali nell’immaginario collettivo è diventata, forse ancor più della Marilyn di Andy Warhol, una delle icone più forti e suggestive dell’arte contemporanea facendo il giro del mondo e arrivando ad offuscare, con la sua notorietà, persino il nome del suo stesso creatore». Così Rudy Chiappini parla di Robert Indiana e della sua opera più celebre, la scultura «Love», vera e propria icona dell’arte contemporanea che si può ammirare in importanti luoghi pubblici di tutto il mondo, dalla Sixth Avenue a New York ai giardini del Museum of Art a New Orleans, fino alla piazza principale di Taipei.
Considerato una delle voci leader della Pop Art con Andy Warhol, Roy Lichtenstein, Claes Oldenburg, Tom Wesselmann e James Rosenquist, l’artista americano è in questi giorni, e fino al prossimo 13 agosto, al centro di una mostra allestita nelle sale della Pinacoteca comunale Casa Rusca di Locarno, che si configura come la sua prima esposizione in un museo svizzero.
Circa una sessantina le opere esposte, che ripercorrono la sua intera carriera dagli anni Cinquanta, quando si trasferisce nella Grande Mela, in un loft nella zona portuale di Coenties Slip, ed entra in contatto con esponenti del movimento minimalista come Ellsworth Kelly, Agnes Martin e Jack Youngerman. Nascono così opere che hanno tutto il fascino di una pittura dalla vena geometrica, pulita, hard-edge.
Accanto a questi primi dipinti, il percorso espositivo presenta le opere su legno dai motivi geometrici degli anni Cinquanta, gli assemblaggi denominati herms realizzati con materiale usurato come assi di legno, metallo e ruote arrugginite, i lavori dei decenni successivi in cui le parole e i segni sono i protagonisti assoluti, per arrivare alla serie dedicata a Marilyn Monroe e alle recenti creazioni in cui i temi della ricerca sono tradotti in ideogrammi cinesi.
Audace, iconica, colorata, celebrativa e apparentemente immediata, quella di Robert Indiana si configura così come un’opera dalla grande efficacia e potenza visiva, che colpisce istantaneamente l’occhio e la mente dello spettatore. Questo anche grazie alla presenza nelle opere di immagini-testo alla portata di tutti, ma che in realtà racchiudono un profondo significato esistenziale o di denuncia sociale. Il «sogno americano» è, per esempio, uno dei temi più ricorrenti e noti della produzione dell’artista. La retorica e l’utopia collettiva di una nazione-modello secondo cui attraverso il duro lavoro, il coraggio, la determinazione sia possibile raggiungere libertà, felicità e benessere materiale ha sempre influenzato il suo immaginario. Ma le opere di Robert Indiana, da «The American Dream, I» del 1961 al dipinto «The Rebecca» (raffigurante una nave statunitense che trasportava schiavi), sono critiche e ciniche nei confronti di quel «sogno»: la promessa dell’uguaglianza, della libertà e della ricerca della felicità contenuta nella Dichiarazione d’Indipendenza appare incompleta, afferma l’artista, nella misura in cui si indirizza solo a una parte della popolazione.
Robert Indiana è, comunque, come tutti gli altri Pop Artist figlio di quella storia. La sua arte «verbale-visuale» nasce in un momento in cui l'America cosmopolita della presidenza Kennedy (1961-1963) reclama se stessa, le proprie immagini, i propri oggetti, i propri vezzi, la propria unicità. Nasce così un sistema comunicativo inedito nel quale i prodotti industriali, le immagini del cinema, i fumetti, i cartelloni pubblicitari e anche i segnali stradali diventano il «contenuto» dell’opera d'arte. «Ci sono più segni che alberi in America. Ci sono più segni che foglie. Per questo penso a me stesso come a un pittore del paesaggio americano», dichiarava a tal proposito Robert Indiana in un’intervista al «New York Times».
Nasce così nel 1965 «Love», una delle immagini più sfruttate e replicate al mondo, stereotipo visivo di un’epoca e di una società riprodotto ancora oggi nelle pubblicità, sulle copertine di libri e dischi, in riviste, poster, sui capi d’abbigliamento e di arredamento. Un’opera dalla forte valenza iconica che apre anche la mostra milanese, al Museo della Permanente, che Danilo Eccher ha voluto dedicare al tema dell’amore. Trentanove le opere esposte fino al prossimo 23 luglio, tra cui si segnalano altri lavori fortemente iconici come la stereotipata e commerciale «Smoker #3» (3-D) di Tom Wesselmann, l’intramontabile «One Multicoloured Marilyn (Reversal Series)» di Andy Warhol e il pulsante «Coração Independente Vermelho #3 (PA)» di Joana Vasconcelos, il gigantesco cuore fatto di posate di plastica rossa che canta, con la voce di Amalia Rodriguez, l’incanto del fado con la sua melodia struggente e nostalgica.
Tra le opere da vedere a Milano, delle quali rimarrà documentazione in un catalogo edito da Skira, si segnalano anche i sei grandi dipinti della serie «Love Forever», mai esposti nel nostro Paese, che presentano elementi caratteristici dell'iconografia che ha reso nota Yayoi Kusama, artista giapponese nominata dal «Time» nel 2016 come una delle cento personalità più influenti del mondo: occhi, volti di profilo e altre forme più indeterminate che richiamano le strutture cellulari, spesso in combinazioni pulsanti, dalle suggestioni surrealiste e psichedeliche.
Completano il percorso espositivo i grandi e sensuali fiori di Marc Quinn e quelli colorati di Nathalie Djurberg & Hans Berg, gli eterni baci in marmo di Marc Queen e Francesco Vezzoli, le video-installazioni di Ragnar Kjartansson, Tracey Moffatt, Nathalie Djurberg e Hans Berg, ma anche opere di Vanessa Beecroft e Gilbert & George. Il tutto concorre a raccontare le diverse sfaccettature dell'amore: felice, atteso, incompreso, odiato, ambiguo, trasgressivo, infantile. Perché, come disse Francis Bacon e come scrive Danilo Eccher a chiusura del suo saggio in catalogo: «dopo tutto, a cosa si interessa la maggior parte dei pittori? Alla vita. Tutti gli artisti sono amanti, amanti della vita, vogliono vedere come riescono a piazzare la trappola in modo che la vita ne venga fuori più vivida e più violenta».

Didascalie delle immagini 
[Fig. 1] Robert Indiana, «Love», 1967. Acquaforte e acquatinta, 66 x 66 cm. © Robert Indiana - ProLitteris Zurigo; [fig. 2]  Robert Indiana, Marilyn, Marilyn», 2007. Serigrafia, 100 x 100 cm. © Robert Indiana - ProLitteris Zurigo; [fig. 3]  Robert Indiana, «The Rebecca», 1962. Olio su tela, 152,4 x 121,9 cm. © Robert Indiana - ProLitteris Zurigo; [fig. 4] Robert Indiana, «Love», 1966-1999. Scultura, alluminio policromo (red and gold), 91,5x91,5x45,75 cm. AP 3/4. Courtesy: Galleria d'Arte Maggiore, G.A.M., Bologna, Italia. © Robert Indiana; [fig. 5] Robert Indiana, «Amor», 1998. Scultura, alluminio policromo (blue and red), 104x96,5x50,8 cm. Ed. 3/6 Courtesy: Galleria d'Arte Bologna, Italia. © Robert Indiana

Informazioni utili
«Robert Indiana». Pinacoteca comunale Casa Rusca, piazza Sant’Antonio - Locarno (Svizzera). Orari: martedì - domenica, ore 10.00-12.00 e ore 14.00-17.00; lunedì chiuso. Ingresso: intero CHF 12.-, ridotto  CHF 10.-, studenti dai 16 anni e  gruppi AVS/AI (minimo 10 persone) CHF 6.-, ingresso gratuito per le scuole  e per gli studenti fino ai 16 anni. Prenotazioni e informazioni: +41(0)917563185 o servizi.culturali@locarno.ch. Sito internet: www.museocasarusca.ch. Fino al 13 agosto 2017. 

«Love. L’arte contemporanea incontra l'amore». Museo della Permanente, via Filippo  Turati, 34 - Milano. Orari: tutti i giorni, ore 9.30-19.30 (la biglietteria chiude un'ora prima). Ingresso (con audioguida): intero € 13,00, ridotto da € 11,00 a € 3,00. Informazioni: tel. 02.8929711. Sito internet: www.mostralove.it o www.lapermanente.it. Fino al 23 luglio 2017. 


domenica 25 giugno 2017

Firenze, il Lungarno Collection rende omaggio al genio di Warhol

Il genio di uno dei più grandi artisti del Novecento, Andy Warhol, incontra la creatività del giovane Simone D’Auria. Succede a Firenze per Lungarno Collection, compagnia di gestione alberghiera di proprietà della famiglia Ferragamo. Location dell’evento è il Gallery Hotel Art. Qui è esposta fino al prossimo 31 dicembre la mostra «Andy Warhol Forever», che presenta sedici lavori tra le più iconiche produzioni dell’artista, provenienti dalla Fondazione Rosini Gutman. Si tratta di un excursus veloce, ma estremamente esplicativo, che ripercorre l’avventura dell’artista che è riuscito a scuotere dalle fondamenta il mondo accademico della pittura e della critica del secondo Novecento, ma anche a modificare per sempre l’immagine dell’America e della società contemporanea.
Il percorso, allestito fino al prossimo 31 dicembre all’interno del Gallery Hotel Art, propone due ritratti della serie dedicata a Marilyn Monroe, della quale Andy Warhol si occupò già nel 1962, subito dopo la tragica scomparsa della diva cinematografica, contribuendo così a creare il mito di una donna entrata nella leggenda.
Accanto a questi lavori, si trova esposta una serigrafia del ciclo «Ladies and gentlemen», nel quale l’importante esponente della Pop Art iniziò a ritrarre i volti della gente comune e non solo di icone dello spettacolo. Nacquero così anche le opere che vedevano come modelle le drag queen del club newyorkese «The Gilden Grape,» un soggetto piuttosto forte e di non facile risoluzione per l’epoca.
Non mancano le immagini della società dei consumi come le celebri lattine della «Campbell’s soup», qui nella loro versione classica del 1967 e in quella con l’etichetta speciale creata per le olimpiadi invernali di Sarajevo del 1984, oltre a uno dei vestiti «Campbell Soup Dress» del 1966, realizzati in carta cotone «usa e getta».
La mostra prosegue analizzando lavori più particolari, come quelli che riproducono il «Kiku», ovvero il crisantemo giapponese, il fiore che rappresenta l’imperatore e la casa imperiale nipponica, o la rivisitazione delle nature morte seicentesche, pensate e realizzate come se fossero veri e propri modelli viventi, giocando e sperimentando l’uso delle ombre nell’arte grafica che, nella geniale prospettiva pop di Warhol divennero «Space fruits - Frutta Spaziale».
Il percorso espositivo si chiude con una serie di opere di Steve Kaufman, tra cui tre ritratti di James Dean, uno argentato di Elvis Presley, uno di Marilyn e altri soggetti pop.
Per l’occasione Simone D’Auria ha ideato per la facciata dell’albergo fiorentino l’installazione «Freedom», che vede protagoniste le scocche di dodici Vespe, icone universalmente riconosciute del Made in Italy.
«Quella di D’Auria -affermano gli organizzatori- si presenta come un’installazione colorata, dotata di una forte idea di libertà e che grazie alla forza comunicativa di un brand, immediatamente riconoscibile, come Vespa permetterà al visitatore di immergersi in un’atmosfera pop».
La nuova installazione di D’Auria giunge al Gallery Hotel Art, dopo che la sua facciata aveva ospitato, nel 2013, un gruppo di ventidue biciclette che rappresentavano la voglia di riscatto del popolo italiano, quel «guardare verso l’alto», verso il futuro, sinonimo della capacità di reinventarsi e, nel 2014, una lunga fila di manichini cromati, ciascuno con una differente testa di animale per ripercorrere, attraverso i loro simboli, la storia dei grandi personaggi fiorentini.
Nel 2015, anno di Expo, enormi cucchiai -«Bruno spoon»- ricordavano i temi approfonditi dall’Esposizione universale e, al tempo stesso, omaggiavano il grande designer Bruno Munari, mentre, lo scorso anno, «WOW. La girandola delle energie», proponeva girandole di grandi dimensioni che rimandano all’idea del vento e a quella dell’energia pulita ottenibile sfruttando questo fenomeno atmosferico.
Il progetto di D’Auria, che si avvale della collaborazione di Leica, si completa, nella piazza di Vicolo dell’Oro, con un «Selfie corner», dove saranno poste tre Vespa statiche, ad altezze differenti, per creare un’interazione col pubblico, diventando motivo e sfondo per scattare selfie e condividerli attraverso i canali social (#galleryhotelart; Instagram: @lungarnocollection @vespa_official #vespa).

Informazioni utili
«Andy Warhol - Forever» e «Simone D’Auria – Freedom». Firenze, Gallery Hotel Art, Vicolo dell'Oro, 5 – Firenze. Ingresso libero. Informazioni: tel. 055.27263 o gallery@lungarnocollection.com. Sito internet: www.galleryhotelart.com. Fino al 31 dicembre 2017.

venerdì 23 giugno 2017

Venezia, il Fai mette in mostra le ceramiche di Ettore Sottsass

«La ceramica è un materiale affascinante: si presenta morbida e grigia [...] ma una volta purificata dal fuoco, radiante, diventa improvvisamente eterna». Così il rivoluzionario architetto e designer italiano Ettore Sottsass (1917 -2007), del quale ricorrono quest’anno i dieci anni dalla morte, parlava del suo amore per la ceramica. Al suo lavoro con questo materiale è dedicata la mostra «Dialogo» che il Fai – Fondo per l’ambiente italiano organizza, in collaborazione con lo Studio Charles Zana Architecture, negli spazi del Negozio Olivetti di Venezia, in occasione della cinquantasettesima Esposizione internazionale d’arte.
La mostra, curata dall’architetto Charles Zana e realizzata con il supporto tecnico di Mobil Project e Viabizzuno, celebra il centenario della nascita del grande artista visionario e ne documenta la poliedrica produzione ceramica compresa tra il 1957 e il 1969, anni estremamente fertili e di formazione in cui Sottsass utilizza la ceramica per lo sviluppo di un nuovo linguaggio del design teso a superare la filosofia razionalista del Bauhaus. Sessanta opere in mostra tra vasi, piatti e i suoi celebri menhir in dialogo con i volumi e i profili progettati da Carlo Scarpa per il Negozio Olivetti nel 1957: i due grandi protagonisti del design italiano idealmente riuniti sotto l’egida dell’imprenditore illuminato Adriano Olivetti che proprio in quegli anni avviò con entrambi un’intensa collaborazione.
In accordo con il Movimento arte concreta che attinge a forme e colori intesi come libera espressione della personale immaginazione dell’artista, la ricerca di Sottsass sul rapporto tra spazio, forma e colore si concretizza nel campo delle arti applicate: attraverso l’uso di un materiale plastico come l’argilla il designer è stato in grado di dare voce ai suoi pensieri e alle sue emozioni più profonde.
Dagli esordi sperimentali del 1955 sotto la supervisione di Aldo Londi, allora direttore artistico della nota azienda toscana Bitossi Ceramiche, Ettore Sottsass approda a una maturazione formale e a un controllo totale della materia nella serie «Le Ceramiche di Lava», realizzata nel 1957, lo stesso anno che segna l’inizio del sodalizio con Adriano e Roberto Olivetti.
Contraddistinte da un aspetto primitivo e da una rimarcata porosità data dall’uso di argilla e terra cotta non trattata, queste ceramiche vedono ancora Sottsass alle prese con i giochi di colore e le sperimentazioni con le tecniche di smaltatura. Mentre per la serie «Rocchetti e Isolatori» (1961-1962) e quella dedicata alle «Ceramiche a Fischietto» (1962) l’attenzione del designer è rivolta alla forma: predominano qui i riferimenti estetici al mondo della produzione industriale con vasi dalle forme semplici e facilmente replicabili che riproducono bobine e isolatori per giungere alla serie in edizione limitata di fischietti, realizzati dalla Società ceramica toscana con la messa a punto di uno stampo e progettati da Sottsass per la galleria il Sestante di Milano.
I suoi interessi personali, i viaggi, la malattia e una sentita spiritualità sono ben rappresentati nelle «Ceramiche delle Tenebre» (1963), serie ideata nella solitudine di Palo Alto durante il decorso ospedaliero di una grave patologia, contratta dopo un viaggio in India e curata in California grazie all’aiuto di Roberto Olivetti, e la successiva «Ceramiche di Shiva» dedicata al dio indù della distruzione e rigenerazione come ex voto per aver sconfitto la malattia.
L’assoluta libertà che ha caratterizzato ogni suo progetto si rivela anche nel passaggio dalla produzione artistica a quella industriale delle «Ceramiche a Colaggio» (1962-1963), prodotte in serie senza timbro né firma con la tecnica della fusione sperimentata per «Le Ceramiche a Fischietto».
Sottsass non abbandonerà mai la produzione di pezzi unici e tra il 1963 e il 1969 continuerà a disegnare schemi spirituali da modellare con l’argilla: dalle «Ceramiche delle Tenebre» passando per «Menhir», «Ziggurat», «Stupas», «Hydrants & Gas Pumps» fino alle «Tantra Ceramiche» nella ricerca costante di una connessione spirituale tra forma e significato.
Il rapporto che lega il Negozio Olivetti, progettato alla fine degli anni Cinquanta da Carlo Scarpa, alle ceramiche in mostra di Ettore Sottsass oscilla tra contrasti e assonanze. Quello che emerge a prima vista nei due ordini di progetti è la differenza tra l’apparente severità classica del primo e la vitalità rivoluzionaria del secondo; ma, a uno sguardo più approfondito, emergono punti di contatto, primo fra tutti il colore, ma anche l’approccio sistematico al lavoro progettuale.
La mostra «Dialogo» oltre a raccontare l’ineguagliata personalità creativa dei due fra i più importanti architetti del dopoguerra italiano offre un’occasione per comprendere a pieno quegli anni estremamente fertili per l’arte e il design italiano che precedettero l’epoca del Radical Design.

Informazioni utili
Dialogo. Ettore Sottsass Ceramiche 1957 - 1969, Carlo Scarpa Negozio Olivetti 1957. Negozio Olivetti, Piazza San Marco 101 – Venezia. Orari: da martedì a domenica, dalle ore 12.00 alle ore 19.30; ultimo ingresso mezz’ora prima della chiusura.Ingresso: intero € 6,00, ridotto (bambini 4-14 anni) € 3,00, famiglia € 15,00, Iscritti Fai e National Trust gratuito, studenti universitari (fino ai 26 anni) e residenti Comune di Venezia € 3,00. Informazioni: tel. 041.5228387 – fainegoziolivetti@fondoambiente.it. Fino al 21 agosto 2017.