ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

martedì 15 ottobre 2019

Obiettivi puntati sul Siena International Photography Awards

È la sfida a colpi di click più partecipata al mondo. Solo l’anno scorso sono arrivate in Toscana da centocinquantasei Paesi oltre quarantottomila immagini di fotografi professionisti, dilettanti e amatoriali. La cerimonia di premiazione della nuova edizione, che ha visto ampliarsi i confini con l’invio di fotografie da ben centosessantuno Stati, è ormai alle porte. E on-line è già stato pubblicato il bando per il 2020, la cui macchina organizzativa prenderà il via da domenica 27 ottobre. Ma il giorno prima, sabato 26, si farà un riassunto dell’anno appena trascorso con la cerimonia di premiazione dell’edizione 2019, la quinta dalla sua nascita. Stiamo parlando del «Siena International Photography Awards», che vanta una prestigiosa e qualificata giuria internazionale, nella quale figurano firme di spicco del «National Geographic», ma anche fotografi e picture editor di fama mondiale. Sul palco del teatro dei Rinnovati saliranno, oltre al «SIPA Photographer of the Year», i vincitori delle dieci categorie in concorso: «Creative & Still Life», «Fotogiornalismo», «Viaggi & avventure», «Persone & volti accattivanti», «La bellezza della natura», «Wildlife», «Architettura & spazi urbani», «Sport in azione», «Portfolio Story-Telling» e «Short Documentary Film».
Prenderà così il via nella «città del Palio» un mese dedicato alla fotografia con workshop, photo tour, eventi e nove mostre da non perdere, ospitate nelle location più esclusive della città per lasciarsi ammaliare non solo dalla bellezza degli scatti esposti, ma anche dal fascino di un territorio che ha pochi eguali al mondo.
Cuore pulsante della manifestazione, in programma fino al 1° dicembre, sarà la rassegna «Imagine All The People Sharing All The World», che allineerà negli spazi dell’ex distilleria «Lo Stellino», struttura dei primi del Novecento dal forte carattere industriale, centoquattordici fotografie di novantanove fotografi di trentanove nazionalità diverse, che hanno partecipato alla quinta edizione del contest promosso da SIPA.
La mostra, che permetterà anche di vedere le opere di alcuni premi Pulitzer e dei vincitori più noti del World Press Photo, sarà, inoltre, accompagnata dalle immagini video di alcuni dei reportage più apprezzati degli autori del «National Geographic».
Sempre all’ ex distilleria «Lo Stellino» sarà esposta «Afghanistan Desert Patrol», con le immagini che Philip Coburn ha scattato, nel gennaio del 2010, quando era aggregato all’esercito dei Marines statunitensi a Helmand.
Il fotografo racconta di avere avuto l’impressione di essere quasi dentro un film, tanto tutto sembrava assurdo e surreale: «mangiavamo cibo in scatola e ci lavavano con una bottiglia d’acqua ogni tre giorni, ma l’essenziale era riuscire a rimanere vivi». Il gruppo si spostava su automezzi attraverso il deserto e le pianure afghane, origliando le «chiacchiere» dei Talebani e scoprendo che avevano soprannominato la loro unità i «Guerrieri che Dio protegge» perché consideravano i loro blindati un segno di invincibilità.
Altro appuntamento da non perdere sarà «Above Us Only Sky» alla Basilica di San Domenico, attuale sede del Liceo artistico «Duccio Buoninsegna» di Siena. L’esposizione, che allinea le immagini più belle del concorso «Drone Awards», è la prima collettiva italiana dedicata alla fotografia aerea.
Dalle valli montane scolpite dai ghiacciai alle coste frastagliate circondate da acque luccicanti, fino ai villaggi abbandonati e alle reti di trasporto tentacolari sono numerosi gli scenari con cui i visitatori si potranno confrontare, comprendendo così come gli artisti possano estendere i confini della fotografia tradizionale alla percezione ambientale del nostro tempo.
«Gli scatti esposti -raccontano gli organizzatori- rasentano il confine dell’astratto, sovvertendo le relazioni spaziali e il fattore di scala, creando un’esperienza simultaneamente seducente e disorientante per chi guarda».
A San Domenico sarà visibile anche «Planet vs Plastic», mostra di Randy Olson, uno dei più importanti e storici collaboratori del «National Geographic», che racconta la sfida ambientalista mettendo in scena l’autorevole rigore, la maestosa armonia, il delicato equilibrio e la straordinaria bellezza del nostro pianeta, impegnato nell’ardua lotta di resistenza contro l’inquinamento.
Sempre a San Domenico, nel chiostro, sarà allestita «Life Force: What Love Can Save», personale dell’argentina Constanza Portnoy, che racconta la straordinaria storia di Jorge e Vero, coppia con malformazioni genetiche, che ha dato alla luce la piccola Ángeles. «Il progetto fotografico -spiegano gli organizzatori del festival- cerca di rompere con i preconcetti e gli sguardi di disapprovazione di molti ambienti della società definiti «normali», cercando di illuminare la semplicità e l’autenticità dei rapporti umani». L’obiettivo si è così posato sulla vita quotidiana della famiglia, per raccontare il legame d’amore, il sostegno incondizionato, l’accettazione reciproca e la tolleranza tra i tre, che riescono ad andare avanti, nonostante la condizione di povertà e il ridotto sostegno economico che ricevono.
A San Domenico sarà possibile vedere anche la mostra «Prisoners of War: Male on Male Sexual Assault in America’s Military», che allinea le fotografie di Mary F. Calvert dedicate alla sua ricerca sugli abusi e sulle violenze sessuali perpetrate all’interno dell’esercito americano.
L’Area Verde Camollia aprirà, invece, le porte alla rassegna «Grandma Divers», nella quale il foto-giornalista Alain Schroeder racconta l'affascinante e poco conosciuta storia della comunità di pescatrici coreane, definite anche come le ultime sirene, dedite già dal 434 D.C. alla tradizionale attività dell’immersione subacquea in apnea in cerca di alghe, frutti di mare di vario genere e di polpi.
Le Haenyeo (letteralmente «donne di mare») rappresentano l’esempio positivo di pesca sostenibile grazie all’estrema conoscenza della vita marina che si tramanda attraverso questo mestiere che recentemente è diventato patrimonio culturale immateriale dell’Unesco.
La pratica di pesca sostenibile si fonda sul rispetto dell’oceano e sul desiderio di condividere armoniosamente con la ricca fauna e l’intensa attività marina. Così attraverso gli scatti di Alain Schroeder conosciamo le immersioni senza bombole di ossigeno e attrezzature tecnologicamente avanzate che hanno permesso alle Haenyeo di sviluppare metodi per navigare nelle profonde acque del mare, partendo da una tecnica di respirazione che permette loro di trattenere il respiro sott’acqua fino a due minuti. Fisicamente impegnative e pericolose, le immersioni in apnea non sono per i deboli di cuore. I pericoli comprendono anche le avversità delle estreme condizioni meteorologiche in cui possono imbattesti quando si immergono per raccogliere alghe, frutti di mare, crostacei e molto altro ancora.
Schroeder le ha volute fotografare con le loro tute di gomma sottile e con i loro vecchi occhiali, con la consapevolezza che le Haenyeo rischiano di diventare una professione del passato perché si tratta di una tradizione che sta lentamente svanendo. Un mestiere che, come racconta il fotografo, promuove uno stile di vita ecologico e sostenibile e che grazie agli sforzi delle comunità locali e del governo, sta portando un rinnovato interesse anche nei giovani, delusi dalla vita urbana e desiderosi di ritornare alle loro radici.
Al mondo del mare -con le meraviglie dei suoi abissi, sempre più messe a rischio dal difficile e contrastante rapporto con l’uomo- guarda anche la mostra «Karma Blu» di Filippo Borghi a Palazzo Sergardi Biringucci.
Tra gli eventi in programma si segnala anche a Palazzo Sergardi l’esposizione fotografica di Antonello Palazzolo, ideatore di «Spazi Sonori», istallazione permanente, laboratorio multimediale e salotto aperto dove suono, immagine e architettura si mescolano naturalmente, contribuendo a una magica percezione multi-sensoriale, nella quale le note di Chopin “incontrano” gli storici pianoforti conservati nella dimora senese, tutti costruiti dalla storica prestigiosa firma Pleyel di Parigi.
Siena International Photography Awards prevede anche workshop e photo tour con escursioni inedite alla scoperta di uno dei territori più fotografati e visitati al mondo con il Chianti.
Da non perdere è, poi, anche l’appuntamento con l’incontro «One Shot Together», quando tutti i partecipanti del concorso si daranno appuntamento in piazza del Campo per una foto ricordo.
Sono, inoltre, previsti appuntamenti di approfondimento con Randy Olson e Melissa Farlow, grandi firme del foto-giornalismo internazionale e storici obiettivi del National Geographic, che daranno vita a un laboratorio di narrazione visiva che documenta la storica città del Palio e la sua gente. Altro momento di approfondimento sarà il workshop con Oliviero Rossi sull’utilizzo della fotografia in ambito psicologico.
Un cartellone, dunque, ricco quello del Siena International Photography Awards, che offrirà l’occasione per guardare al mondo con occhi nuovi, ricordandoci che «una fotografia vale più di mille parole».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Mauro De Bettio, «Chasing spirits» ; [fig. 2] Thomas Vijayan,«Krill View» ; [fig. 3] Ignacio Medem, «Natural recycling» ; [fig. 4] SE_Ming, «Li_Colourful mountain 1» ; [fig. 5] Philip Coburn, «Afghanistan Desert Patrol» ; [fig. 6] Constanza Portnoy, «Life Force: What Love Can Save»; [figg.7 e 8] Filippo Borghi, «Karma Blu»

Informazioni utili 
www.festival.sienawards.com

lunedì 14 ottobre 2019

Teatro, donato alla Fondazione Cini l'archivio di Paolo Poli

È stato il rappresentante di un teatro al contempo graffiante e lieve, raffinato e dissacrante, che ha preso le mosse dall’operetta, dalla rivista, dal vaudeville, dall’avanspettacolo e dal varietà, dando vita a qualcosa di nuovo, difficilmente inquadrabile in definizioni di genere e contenuto. Stiamo parlando di Paolo Poli (Firenze, 23 maggio 1929 – Roma, 25 marzo 2016), attore, cantante, regista e autore, ovvero uomo di spettacolo a tutto tondo, il cui archivio è stato di recente donato dalla sorella Lucia Poli e dal nipote Andrea Farri all’Istituto per il teatro e il melodramma della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, diretto da Maria Ida Biggi.
La donazione si compone di documenti eterogenei afferenti all’attività dell’artista fiorentino, che spaziano dagli spettacoli realizzati con la Compagnia dell’Alberello negli anni Cinquanta fino alle celebri produzioni dei primi anni Duemila.
L’acquisizione del fondo si inserisce a pieno titolo nella recente tradizione di ricerca della Fondazione Cini, volta a ricostruire la scena teatrale italiana del secondo Novecento. Diversi sono, infatti, ormai gli uomini e le donne di teatro dei quali si conservano, sull’isola di San Giorgio Maggiore, gli archivi e le biblioteche personali, da Luigi Squarzina a Pierluigi Samaritani, da Mischa Scandella ad Arnaldo Momo.
L’archivio stabilisce, inoltre, un dialogo virtuoso con altri fondi presenti alla Cini, in particolare con quelli di Santuzza Calì e di Maurizio Scaparro, con i quali l’artista fiorentino ha collaborato nel corso della sua carriera.
Nei faldoni del fondo Poli sono reperibili copioni autografi e annotati, fotografie, corrispondenza, locandine e programmi di sala, recensioni e appunti preparatori per la messa in scena degli spettacoli.
Una sottolineatura particolare, per la sua straordinaria ricchezza, merita la collezione fotografica, che permette di ricostruire con grande accuratezza tutti i principali titoli del ricco repertorio poliano.
Le immagini raccolte in tanti anni di lavoro sono perlopiù foto di scena, ma non mancano «dietro le quinte» e ritratti di Paolo Poli, dei suoi attori e dei suoi principali collaboratori.
Il fondo è completato da una raccolta di circa diecimila spartiti musicali di canzonette popolari collezionati dallo stesso Paolo Poli nell’arco della sua carriera.
Gli spartiti, alcuni dei quali molto rari, sono afferenti alla tradizione novecentesca italiana e internazionale di musica popolare e leggera, e sono stati materiali di studio fondamentali per la creazione e la messa in scena di alcuni dei suoi più celebri titoli.
Di grande valore documentale è, poi, anche la corposa rassegna stampa. Recensioni, interviste e approfondimenti culturali apparsi sulle più importanti testate giornalistiche nazionali, a firma di alcune tra le migliori penne del giornalismo italiano, sono, infatti, in grado di documentare la straordinaria popolarità dell’artista e l’impatto sociale e culturale della sua opera.
Tra gli articoli se ne trova anche uno di Camilla Cederna che, sulle pagine del settimanale «L’Espresso», dà a Paolo Poli uno dei suoi soprannomi più conosciuti: «il professorino che canta».
Per un breve periodo l’artista fiorentino, laureatosi a pieni voti nel 1959 con una tesi su Henry Becque, insegna, infatti, letteratura francese in un liceo e nel contempo recita con la compagnia genovese «La borsa di Arlecchino» di Aldo Trionfo.
La notorietà arriva nel 1961 quando Paoli Poli presenta, in televisione, «Canzonissima» con Sandra Mondaini.
Negli stessi anni l’attore fa il suo esordio nel ruolo di capocomico a Milano con lo spettacolo «Il novellino» (1960): un excursus tra canzonette della tradizione orale, laudi medievali e inni di propaganda fascista. Il successo è immediato e da lì è un susseguirsi di applausi a scena aperta, ma anche di interventi della censura.
Emblematico è il caso di «Rita da Cascia», che debutta con grande successo nel 1967 a Milano e Roma e che, dopo molto repliche, viene bloccato per accusa di vilipendio alla religione e offesa delle dignità civile del popolo italiano.
Tra gli spettacoli di maggior successo c’è, invece, «La vispa Teresa», un’antologia di pezzi ottocenteschi per l’infanzia, di cui così si parla sulle colonne dell’«Avanti»: «la deliziosa fanciullina della poesia è lui, in abitino di organdis bianco con un gran fiocco di velluto verde e una biondissima parrucchetta di boccoli; vedere Poli in questa tenuta non provoca alcuna sensazione di travestimento o di equivoco».
«La vispa Teresa» è una delle prime prove dell’attore fiorentino nel teatro en travesti, un genere che gli deve molto e a cui lui dona, nel 1969, una versione indimenticabile de «La nemica» di Dario Nicodemi, dando vita a una scatenata mamma duchessa, tutta vezzi e gesti ad effetto, che mordicchia il boa di struzzo e che si sventola le ascelle con il ventaglio.
L’elenco delle opere che Paolo Poli ha interpretato come primo attore o che ha diretto è lungo. Si spazia da «Aldino mi cali un filino» a «Caterina De Medici», da «L'asino d'oro» a «I viaggi di Gulliver», da «La leggenda di San Gregorio» a «Il coturno e la ciabatta», senza dimenticare «Sei brillanti giornaliste Novecento» (2006), un omaggio a Natalia Aspesi, Elena Giannini Belotti, Irene Brin, Camilla Cederna, Paola Masino e Mura.
Forieri di successo sono anche gli ultimi anni di attività dell'artista. Il 2009 vede in scena i «Sillabari», da Goffredo Parise; nel 2010 e nel 2012, al teatro dell’Elfo di Milano, debuttano «Il mare», da Anna Maria Ortese, e «Aquiloni», da Giovanni Pascoli: ultime fatiche di un uomo di teatro a tutto tondo, che, per dirla con le parole di Natalia Ginzburg, è «un soave, beneducato e diabolico genio del male: è un lupo in pelli d’agnello, e nelle sue farse sono parodiati insieme gli agnelli e i lupi, la crudeltà efferata e la casta e savia innocenza».

Didascalie delle immagini 
[Fig. 1] Paolo Poli in «Aldino mi cali un filino?», 2000; [fig. 2] Paolo Poli in «Magnificat», 1983; [fig. 3] Andrea Farri e Lucia Poli, ph Matteo De Fina; [fig. 4] Vista dell’installazione per la presentazione del fondo Poli alla Cini. Biblioteca del Longhena, ph Matteo De Fina 

Informazioni utili
Istituto per il Teatro e il Melodramma, tel. 041.2710236, e-mail: teatromelodramma@cini.it. Sito web: www.cini.it.

venerdì 11 ottobre 2019

Peggy Guggenheim, le passioni artistiche dell’«ultima Dogaressa» di Venezia

Uno dei primi nomi che viene in mente quando si parla di donne e mecenatismo culturale è quello di Peggy Guggenheim (New York, 26 agosto 1898-Camposampiero, 23 dicembre 1979), la collezionista americana che aveva scelto Venezia come «luogo del cuore e dell’anima», stregata dal fascino di una città che, a suo dire, poteva rivaleggiare in bellezza solo «con il suo stesso riflesso al tramonto sul Canal Grande».
Era appena finita la Seconda guerra mondiale quando la fondatrice della galleria-museo newyorkese «Art of This Century» (1942-47), la culla dell’Espressionismo astratto americano, volava in Italia stabilendo la sua dimora a pochi passi dalla Chiesa di Santa Maria della Salute, a Palazzo Venier dei Leoni, oggi uno dei luoghi più iconici di quello straordinario percorso culturale soprannominato «il chilometro dell’arte», del quale fanno parte anche il Museo Vedova, la collezione Pinault a Punta Dogana, le Gallerie dell'Accademia e la Fondazione Cini con la sua sede cinquecentesca a San Vio.
Iniziava così, nel 1948, una storia d’amore intensa, di quelle che ti fanno dire che «nel cuore non resta più posto per altro».
Venezia aveva stregato Peggy Guggenheim che quello stesso anno era arrivata in Laguna con la sua collezione d’arte, grazie a una felice intuizione del pittore Giuseppe Santomaso e su invito di Rodolfo Pallucchini, per partecipare alla ventiquattresima edizione della Biennale, esponendo nel Padiglione della Grecia, Paese allora devastato dalla guerra civile, i nomi più rappresentativi dell’arte astratta e surrealista -Jean Arp, Costantin Brancusi, Alexander Calder, Max Ernst, Alberto Giacometti e Kazimir Malevich- e alcuni artisti americani -William Baziotes, Jackson Pollock, Mark Rothko, Arshile Gorky, Robert Motherwell e Clyfford Still-, mai presentati al di fuori degli Stati Uniti.
Stregata da quella città di cui amava le luci -le stesse che soggiogarono il pittore romantico William Turner- e la vena malinconica e decadente, quella che scopriva giorno dopo giorno perdendosi piacevolmente tra calli e campielli, Peggy Guggenheim decise di comprare nella città veneta una grande casa, dove vivere con i suoi «beloved babies», i suoi quattordici amati e inseparabili cani Lhasa Apsopuppy (terrier di razza tibetana), ora sepolti accanto a lei nel giardino di Palazzo Venier dei Leoni.
In quella dimora l’eccentrica e coraggiosa collezionista americana -per tutti «l’ultima Dogaressa» per quella sua aura di magnificenza che la vedeva girare per i canali su una gondola privata con un gondoliere de casada a sua disposizione- trascorse più di trent’anni della sua esistenza, rimanendovi fino alla morte, avvenuta il 23 dicembre del 1979, all'età di ottantuno anni.
Pochi mesi dopo, nella Pasqua del 1980, quella bella casa sul Canal Grande, passata nel frattempo alla gestione della Fondazione Solomon R. Guggenheim di New York, apriva ufficialmente le porte al grande pubblico diventando il museo più importante in Italia per l'arte europea e americana della prima metà del ventesimo secolo.
In occasione dei quarant’anni dalla morte e dei settant’anni dal trasferimento in Laguna, una mostra, per la curatela di Karole P. B. Vail -attuale direttrice della Collezione Guggenheim, nonché nipote di Peggy- e di Gražina Subelytė, ripercorre la storia della collezionista americana a Venezia attraverso una sessantina di opere, tra dipinti, sculture e lavori su carta, da «L’impero della luci» («L’Empire des lumières») di René Magritte allo «Studio per scimpanzè» («Study for Chimpanzee») di Francis Bacon, da «Autunno a Courgeron» («L'Automne à Courgeron») di René Brô a «Serendipity 2» di Gwyther Irwin.
Sala dopo sala, Palazzo Venier dei Leoni permette così ai visitatori di rivivere il mito di Peggy Guggeheim, icona di stile per i suoi occhiali dalle forme bizzarre, i suoi grandi cappelli e i suoi gioielli-capolavoro che farebbero invidia a una qualsiasi maison di moda, ma soprattutto donna capace di incidere con una straordinaria stagione di mostre e di eventi sulla vita culturale di Venezia.
È il settembre del 1949 quando la collezionista apre per la prima volta le porte di casa sua o meglio del suo giardino -quel luogo, a suo stesso dire, «dove la vita non è normale perché tutto e tutti galleggiano e dove i riflessi sono più belli di quelli dei grandi artisti»- a curiosi e amanti delle Avanguardie novecentesche.
L’occasione è una mostra di scultura contemporanea, nella quale Peggy Guggenheim espone i lavori di venti artisti da lei molto amati o selezionati dal critico d’arte e articolista Giuseppe Marchiori, passato alla storia come il fondatore del Fronte nuovo delle arti, movimento a cui parteciparono, fra gli altri, Emilio Vedova, Giuseppe Santomaso, Renato Guttuso ed Ennio Morlotti.
«Testa e conchiglia» («Tête et coquille») di Jean Arp, «Uccello nello spazio» («L'Oiseau dans l'Espace») di Constantin Brancusi e «Piazza» di Alberto Giacometti sono le tre opere che Karole P. B. Vail ha scelto per raccontare quella prima mostra veneziana di Peggy Guggenheim, nella quale viene esposto anche il bozzetto in gesso della scultura equestre «L’angelo della città» (1948) di Marino Marini, la cui versione in bronzo, di fusione successiva alla mostra del 1949, campeggia oggi sulla terrazza del palazzo prospiciente il Canal Grande.
Tra le prime rassegna della ricca collezionista americana in Laguna viene, inoltre, ricordata lungo il percorso espositivo a Palazzo Venier dei Leoni quella dedicata, nell’estate del 1950, a Jackson Pollock. Nell’Ala napoleonica del Museo Correr arrivano ventitré opere dell’artista, alla sua prima personale fuori dai confini americani. Ci sono anche dieci dipinti a colatura e quel linguaggio astratto, assolutamente inedito per l’Italia, lascia sgomento il pubblico, la critica e i tanti artisti nostrani che accorrono a Venezia alla ricerca di novità. Tra le opere in mostra, allora e oggi, ci sono due capisaldi come «Foresta incantata» («Enchanted Forest») e «Alchimia» («Alchemy»), un lavoro che è stato recentemente oggetto di restauro facendo emergere un progetto di lavoro razionale nella stesura dei colori, un sistema di contrappunti e simmetrie, in cui le linee rette si bilanciano con quelle curve, i colori brillanti con i colori opachi, il nero con l’argento, il blu con il rosso.
Fresca di restauro da parte dell’Opificio delle Pietre Dure e Laboratori di Restauro di Firenze è anche «Scatola in una valigia» («Boîte-en-Valise»), realizzata da Marcel Duchamp nel 1941. Raramente visibile al grande pubblico per la sua delicatezza, cosa che rende ancora più preziosa la mostra a Palazzo Venier dei Leoni, il lavoro, pensato proprio per la collezionista americana, è il primo di un’edizione deluxe di venti valigette da viaggio di Louis Vuitton, che raccolgono ciascuna sessantanove riproduzioni e miniaturizzazioni di celebri lavori del poliedrico e dissacrante artista francese.
Ad affiancare i grandi maestri dell’Espressionismo astratto, ci sono in mostra anche due donne artiste, testimonianza del sostegno che la collezionista non fece mai mancare alle figure femminili dell’arte, in quegli anni meno considerate dal mercato rispetto ai colleghi maschi. Si tratta di Grace Hartigan e Irene Rice Pereira. Della prima è visibile «Irlanda», le cui tonalità terrose alludano all’ambiente urbano di Dublino, dove si trova la dimora d’origine dell’artista. Della seconda è esposta «Riflessi», una composizione in vetro e tecnica mista.
La mostra veneziana prende, poi, in esame il sostegno che la mecenate americana offrì agli artisti italiani attivi dalla fine degli anni Quaranta e, nelle ultime sale, il suo interesse per la pittura e la scultura inglese degli anni Cinquanta e Sessanta, per l’Arte optical e cinetica degli anni Sessanta, e per il gruppo CoBrA. Ecco così scorrere lungo le pareti lavori come la tempera d’uovo su tela «Immagine del tempo» («Sbarramento») di Emilio Vedova, «Composizione» di Tancredi Parmeggiani, artista per cui Peggy Guggenheim organizza una mostra nel 1954, e l’olio su sabbia «Avvenimento #247» di Edmondo Bacci, pittore veneziano a cui viene dedicata un’intera sala alla Biennale del 1958, con catalogo introdotto da una prefazione della stessa collezionista. E poi, ancora, si possono ammirare, procedendo per exempla, «Sopra il bianco» («Above the White») di Kenzo Okada, «Deriva No 2» di Tomonori Toyofuku e «Il tamburino d'oro n. 2» («The Golden Drummer Boy No. 2») dell’inglese Alan Davie.
A Palazzo Venier dei Leoni sono, inoltre, eccezionalmente esposti per la prima volta al pubblico una serie di scrapbooks: preziosi album in cui la collezionista raccolse meticolosamente articoli di giornali, fotografie e lettere, grazie ai quali è possibile scoprire episodi inediti della sua vita di appassionata filantropa. Tra i tanti pezzi giornalistici c’è ne è uno scritto per «L’Europeo» dalla penna graffiante di Camilla Cederna: «Venezia sopravviverà alla signora Guggenheim. La moda dell’arte suprematista passerà come le altre». Non è stato così. Il mito di Peggy resiste al tempo, le opere della sua collezione entrano nei manuali di storia dell’arte. Chapeau! 

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Peggy Guggenheim in gondola, Venezia, 1968. Photo Tony Vaccaro / Tony Vaccaro Archives; [fig. 2] Peggy Guggenheim seduta sul trono nel giardino di Palazzo Venier dei Leoni, Venezia, anni Sessanta. Photo Roloff Beny / courtesy of Archives and National Archives of Canada; [fig.3] Kenzo Okada, «Sopra il bianco», 1960; olio su tela, 127,3 x 96,7 cm; Venezia, Collezione Peggy Guggenheim); [fig. 4] Francis Bacon, «Studio per scimpanzé», marzo 1957; olio e pastello su tela, 152,4 x 117 cm; Venezia, Collezione Peggy Guggenheim. © The Estate of Francis Bacon. All rights reserved, by SIAE 2019; [fig. 5] René Magritte, «L’impero della luce» (L’Empire des lumières), 1953–54; olio su tela, 195,4 x 131,2 cm; Venezia, Collezione Peggy Guggenheim. © René Magritte, by SIAE 2019; [fig. 6] Emilio Vedova, «Immagine del tempo (Sbarramento)», 1951; tempera d’uovo su tela, 130,5 x 170,4 cm; Venezia, Collezione Peggy Guggenheim. © Fondazione Emilio e Annabianca Vedova

Informazioni utili
Peggy Guggenheim. L'ultima dogaressa. Collezione Peggy Guggenheim, Dorsoduro 701 - Venezia. Orari: mercoledì-lunedì, dalle ore 10.00 alle ore 18.00 | La biglietteria chiude alle ore 17.30 | Il museo è chiuso tutti i martedì e il 25 dicembre. Ingresso: intero € 15,00, ridotto (incluso senior oltre i 65 anni) € 13,00, ridotto (Incluso studenti fino a 26 anni) € 9,00, gratuito per bambini fino a 10 anni, soci. Informazioni: tel. 041.2405440/419, info@guggenheim-venice.it. Sito internet: www.guggenheim-venice.it. Fino al 27 gennaio 2020