ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

martedì 9 maggio 2023

Quarantacinque anni dopo: il «caso Moro», la letteratura e «Il dio disarmato» di Pomella

Sul sequestro e sull’assassinio di Aldo Moro (Maglie - Lecce, 23 settembre 1916 – Roma, 9 maggio 1978), uomo politico tra i fondatori della Democrazia cristiana e suo rappresentante alla Costituente, è stato scritto un numero consistente di libri, a partire dalle preziose edizioni critiche delle lettere e del Memoriale che lo statista pugliese, fautore del «compromesso storico» con il Pci di Enrico Berlinguer, redasse nei cinquantacinque giorni della sua prigionia (gli ultimi volumi sono stati pubblicati rispettivamente nel 2008 da Einaudi, per la curatela di Miguel Gotor, e nel 2019 da De Luca editore, con il coordinamento di Michele De Sivo).
 
Consultando l’elenco degli oltre duemila libri e saggi dedicati alla figura del presidente della Dc che lo storico Francesco M. Biscione ha recentemente aggiornato per l’Archivio Flamigni, si nota come siano principalmente due i filoni di trattazione dell’«affaire Moro». Da una parte ci sono i testi che accreditano la versione - mai totalmente accertata - dei brigatisti, usando come fonti informative le circa trecento pagine del corposo Memoriale di Valerio Morucci, consegnato nel marzo 1990 all’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga da suor Teresilla Barillà, e il libro «Il prigioniero» (Feltrinelli, Milano 2003), pubblicato da Anna Laura Braghetti, con la giornalista Paola Tavella, e liberamente ripreso anche da Marco Bellocchio nel film «Buongiorno, notte» (2003). Dall’altro c’è la cosiddetta «saggistica del complotto», che focalizza la propria attenzione su ciò che ancora oggi, dopo cinque processi e varie Commissioni parlamentari d’inchiesta, non torna nelle ricostruzioni ufficiali, a partire dagli errori nelle indagini durante i cinquantacinque giorni del sequestro. Scolpite nella memoria collettiva sono, per esempio, la farsa del Lago della Duchessa e il giallo di «Gradoli», con la misteriosa seduta spiritica di Romano Prodi. Ma molti sono anche i coni d’ombra dell’inchiesta giudiziaria, in gran parte nutriti dai colpevoli silenzi e dalle falsità dei testimoni diretti o indiretti. Tuttora, per esempio, non si sa chi fossero i due uomini sulla moto Honda presente in via Fani durante l’agguato e chi, il 18 aprile 1978, diffuse il falso comunicato n. 7 sull’avvenuta esecuzione del presidente della Dc.
 
In questa «montagna di carta ingiallita», per usare una suggestiva espressione di Ivan Carozzi sulla rivista «Esquire», ciò che resta dal punto di vista letterario, o meglio ciò che è stato scritto da narratori di professione, è ben poca cosa.
 
Nel settembre 1978, appena quattro mesi dopo il 9 maggio, il giorno del ritrovamento del corpo senza vita dello statista pugliese all’interno di una Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani, a Roma (quasi a metà strada tra piazza del Gesù, sede nazionale della Dc, e via delle Botteghe Oscure, quartier generale del Partito comunista), Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989) dava alle stampe, per l’editore palermitano Sellerio, «L’affaire Moro», «una – scrisse Marco Belpoliti, nel 2002 - delle più belle pagine della letteratura italiana degli ultimi trent’anni».
 
Il testo, che nelle ultime edizioni è corredato dalla relazione di minoranza che lo scrittore siciliano firmò, da deputato radicale, al termine della prima Commissione parlamentare di inchiesta, è di difficile catalogazione. In bilico tra il pamphlet di invettiva pubblica e lo studio dei documenti allora a disposizione (il Memoriale dello statista democristiano fu ritrovato solo nel 1990 durante dei lavori di ristrutturazione nel covo brigatista di via Monte Nevoso, a Milano), «L’affaire Moro» offre uno sguardo profondo e deciso sull’Italia degli anni Settanta e sul lato oscuro della politica nostrana. Ma, soprattutto, racconta - attraverso continui rimandi letterari a Pier Paolo Pasolini, Luigi Pirandello e Jorge Louis Borges, ma non solo - la dimensione più antropica che politica di un prigioniero inerme, privato di ogni forma di autorità, tradito dalla classe politica del tempo, considerato «pazzo» dai suoi stessi «amici» e, secondo un copione che sembrava già scritto nelle ore successive al rapimento, condannato a morte.

La letteratura ha incontrato i cinquantacinque giorni che cambiarono la nostra storia - «la più grande frattura emotiva, politica e sociale» dell’Italia repubblicana - anche in romanzi quali «Il tempo materiale» (minimum fax, Roma 2008) di Giorgio Vasta (Palermo, 1970), «Come imparare a essere niente. Moro, Pasolini, Lady D» (Guanda, Parma 2010) di Alessandro Banda (Bolzano, 1963), l’autobiografico «L’estate del ‘78» (Sellerio, Palermo 2018) di Roberto Alajmo (Palermo, 1959), «La seduta spiritica» (minimum fax, Roma 2021) di Antonio Iovane (Roma, 1974) e il fantascientifico «Ufo 78» (Einaudi, Torino 2022) del collettivo bolognese Wu Ming. La storia di ciò che avvenne in Italia tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978 viene ripercorsa anche nel libro «55 giorni» (Il Mulino, Bologna 2018) dello scrittore e drammaturgo Stefano Massini (Firenze, 1975), nel quale si ricostruisce il ritratto di un Paese che, mentre sui giornali abbondano editoriali e articoli sulla follia sanguinaria dei brigatisti, guarda «Portobello» in televisione, va al cinema per «Ecce bombo» di Nanni Moretti, canta con Raffaella Carrà «come è bello far l’amore da Trieste in giù». Vive, seppur con sgomento, i suoi riti quotidiani.
 
Ci sono, poi, in questo elenco anche testi tratti da spettacoli teatrali come «Corpo di Stato. Il delitto Moro: una generazione divisa» (Rizzoli, Milano 2003) di Marco Baliani (Verbania, 1950), che rilegge la storia degli anni Settanta attraverso gli occhi di un ragazzo del tempo, e il recente «Con il vostro irridente silenzio. Le lettere e il Memoriale: voci dalla prigionia di Aldo Moro» (Feltrinelli, Milano 2022) di Fabrizio Gifuni (Roma, 1966).

In questo filone letterario si innesta «Il dio disarmato» (Einaudi, Torino 2022) di Andrea Pomella (Roma, 1973), uno dei tentativi più riusciti dal punto di vista narrativo. Lo scrittore romano focalizza la propria attenzione sui tre minuti che trasformano una tranquilla via del quartiere Trionfale di Roma nel palcoscenico di una storia che ancora oggi interroga la nostra coscienza, quelli tra le 9:02 e le 9:05 del 16 marzo 1978. 

Seguendo la lezione di Javier Cercas in «Anatomia di un istante» (Guanda, Parma 2009), Andrea Pomella riavvolge più volte il nastro, dilata il tempo e racconta il sequestro di Aldo Moro e l’uccisione dei cinque uomini della sua scorta - Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi, due carabinieri e tre poliziotti - da più punti di vista. «Il metodo – si legge nella quarta di copertina – «è quello del realismo traumatico, lo stesso che usava Andy Warhol nelle sue immagini seriali: mettere in scena e replicare per sfiorare la verità. Non la verità storica, ma quella più sfuggente della percezione individuale e collettiva». Ci sono così i tre minuti dei testimoni oculari, quelli degli uomini della scorta, quelli dei brigatisti, quelli di Aldo Moro e dei suoi familiari, quelli di Andrea Pomella, quelli di noi che leggiamo.
 
Sequestro di Aldo Moro. Via Fani, Roma. 16 marzo 1978.
Autore: AP Foto. Immagine di dominio pubblico
Grazie alle testimonianze dei familiari dello statista pugliese, lo scrittore romano prova anche a immaginare le otto ore di vita dello statista pugliese prima del sequestro, consegnandoci il ritratto intimo e privato di un uomo che, smessi i panni del politico, si occupa dell’amata moglie Noretta, del nipotino Luca e dei figli Maria Fida, Anna, Agnese e Giovanni. Prega e legge. Pensa e ricorda. Fa colazione e si sbarba. Medita sul destino, suo e degli altri, animato da una sorta di inquietudine che ha del profetico. In quelle otto ore Aldo Moro è «Il dio disarmato», non il politico noto per «l’abilità del tessitore e il talento dell’equilibrista», ma l’uomo privato che «depone i fardelli della forza e del potere per godere pienamente della propria disadorna umanità», perché – scrive ancora Andrea Pomella – per lo statista pugliese «la famiglia è da sempre il luogo in cui può lasciar scorrere le proprie angosce, l’indecisione, le sue piccole manie» (p. 118). Fuori da quelle mura domestiche c’è un nuovo Governo a cui votare la fiducia, il primo monocolore democristiano con l’appoggio esterno del Partito comunista. Fuori da quelle mura, sulla strada verso Montecitorio, Aldo Moro conosce la solitudine del potere e un «vento d’acciaio»: centoottanta secondi di «stridio di gomme sull’asfalto», «proiettili che fendono l’aria», violenza, sangue, paura e, infine, un silenzio irreale. «Siamo appena all’inizio – scrive Andrea Pomella (p. 198) – ed è già la fine». 

Bibliografia essenziale
Giovanni Bianconi, «16 marzo 1978», Economica Laterza, Roma 2021
Filippo Bona, «Gli eroi di Via Fani. I cinque agenti della scorta di Aldo Moro», Longanesi, Milano 2018
Agnese Moro, «Un uomo così. Ricordando mio padre», Rizzoli, Milano 2003
Luca Moro, «Mio nonno Aldo Moro», Ponte Sisto, Roma 2016
Maria Fida Moro, «In viaggio con mio papà»,Rizzoli, Milano 1985
Maria Fida Moro, «La casa dei cento natali», prefazione di Leonardo Sciascia, Rizzoli, Milano 1982

giovedì 6 aprile 2023

Tra arte e letteratura, Elisabetta Rasy racconta Etty Hillesum

«Una cosa, tuttavia, è certa: si deve contribuire ad aumentare la scorta di amore su questa terra. Ogni briciola di odio che si aggiunge all'odio esorbitante che già esiste, rende questo mondo più inospitale e invivibile». Con il suo Diario e le sue Lettere, pubblicate in Italia da Adelphi dopo la prima metà degli anni Ottanta, Etty Hillesum, ebrea olandese scomparsa poco prima di compiere trent’anni nel campo di sterminio di Auschwitz, ha illuminato una delle pagine più buie della storia del Novecento – la Shoah -, diventando «un simbolo della Resistenza spirituale di fronte al Male».
La figura di questa giovane donna, alla tenace ricerca di Dio e alla costante scoperta del senso dell’esistenza umana, è al centro del nuovo libro, pubblicato nel gennaio di quest’anno, dalla giornalista e scrittrice Elisabetta Rasy: «Dio ci vuole felici – Etty Hillesum o della giovinezza».

Il volume, che inaugura la collana «Scrittrici /Scrittori» di HarperCollins, in cui narratori dei nostri giorni dialogano con l’opera e la vita di autori del passato, non è una biografia, ma il racconto di un incontro singolare, quello con le pagine di un libro che si imprimono in maniera indelebile dentro di noi, dando forma - scrive la stessa Elisabetta Rasy – ai nostri «pensieri non pensati, quelli che stanno acquattati in fondo all’anima senza riuscire a venire fuori». Etty Hillesum diventa così per la giornalista e scrittrice romana, premio Campiello nel 1997 con «Posillipo» e firma dell’inserto domenicale del quotidiano «Il Sole 24Ore», «una perfetta maestra della giovinezza», «una di quelle amiche» con cui, durante l’adolescenza, «si passano ore e ore a parlare in una comunione di sentimenti – vera o illusoria non importa – che nell’età adulta difficilmente ritorna».

Pagina dopo pagina, la storia di Etty Hillesum si intreccia con quella di Elisabetta Rasy da giovane, delineandone anche la sua passione per il mondo dei libri, in un gioco di rimandi e rispecchiamenti, riflessioni e ricordi, che ci fa incontrare molti altri personaggi del Novecento, alcuni dei quali - come Anna Frank, Primo Levi, Edith Stein e Simone Weil - sono finiti nel labirinto infernale della follia nazista.
Nel libro si "parla", poi, anche degli amori difficili di Katherine Mansfield e Edith Wharton, della scrittura diaristica di Virginia Woolf e Margherite Duras, di un personaggio di fantasia come la Micol Finzi-Contini di Giorgio Bassani e della pittrice berlinese Charlotte Salomon, altro talento perduto nella Shoah, che ci ha lasciato «Vita? o Teatro?», «un grande libro di parole e più di mille disegni a tempera in cui racconta la sua giovinezza e l’epoca feroce in cui l’ha vissuta».

Elisabetta Rasy, laureata in Storia dell’arte alla Sapienza di Roma, ci regala, inoltre, in queste pagine altri riferimenti al mondo dei colori e della creatività, raccontando brevemente al lettore le storie del pittore olandese Gabriël Metsu (1629–1667), noto per le sue immagini di interni domestici con figure femminili, e del maestro Gustave Courbet (1819 - 1877), che ha dato forma alla realtà che aveva davanti ai suoi occhi e ha firmato un dipinto controverso come «L’origine del mondo». Intense sono, poi, le due pagine dedicate al progetto «Archivi del cuore», un’immensa collezione di battiti cardiaci raccolta dal francese Christian Boltanski, padre di una ricerca artistica che ha saputo interpretare e raccontare in maniera viva e pulsante il tema della memoria e del trascorrere del tempo inteso come ineluttabile passaggio tra la vita e la morte, ricostruendo, con un linguaggio al contempo potente e delicato, tracce di vita per fugare il timore dell’oblio.

Il Diario di Etty Hillesum, che va dal marzo 1941 all’ottobre 1942, e le Lettere, inviate da Amsterdam e dal campo di transito di Westerbork tra l’agosto 1941 e il 7 settembre 1943, diventano, dunque, un espediente letterario per dare voce a quei molti «frammenti di un discorso pronunciato per iscritto tanti anni prima, o in un posto lontano da noi», che «illuminano come un faro» la nostra vita, dando voce a ciò che di noi stessi non conosciamo. «Frammenti», brani letterari, diversi per ognuno di noi e per ogni stagione della nostra vita, ma sempre preziosi e suggestivi, da fissare come una bussola sul nostro taccuino. La storia di questa «ragazza dai capelli e dall’anima arruffata», che voleva essere «il cuore pulsante della baracca», emerge comunque con intensità da ogni pagina.

Prima della decisione che le cambierà per sempre la vita – «Voglio seguire il destino del mio popolo» -, Etty Hillesum è una giovane donna alle prese con gli studi in Giurisprudenza e in Lingue slave, i rapporti non idilliaci con la famiglia, il desiderio di emancipazione o meglio di «un modo diverso di stare al mondo», la lettura di autori amati come Rainer Maria Rilke, Sant’Agostino, Fëdor Dostoevskij, Aleksandr Sergeevič Puškin, Lev Tolstòj, Thomas Mann, ma anche della Bibbia e del Vangelo di Matteo. Corre, libera, in bicicletta per le strade di Amsterdam con il vento che le soffia tra i capelli. Va in «locali pieni di fumo e discussioni» a divertirsi con gli amici e ad ascoltare la musica di Franz Schubert. Sperimenta «i complicati arabeschi dell’amore», che la vedono avere una tormentata relazione con lo psicologo e chiromante Julius Spier, morto poco prima che la scure della Storia si abbattesse anche su di lui.

Etty Hillesum è, dunque, una ragazza che respira a pieni polmoni la vita ed è proprio per questo motivo che non può soccombere all’orrore nazista. «Odiare non è nel mio carattere», «l'odio indifferenziato è la cosa peggiore che ci sia», «Se anche non rimanesse che un solo tedesco decente, quell'unico tedesco meriterebbe di essere difeso contro quella banda di barbari, e grazie a lui non si avrebbe diritto di riversare il proprio odio si un popolo intero» scrive, nel suo Diario, con tutta la fermezza che le circostanze impongono. «Mentre – racconta Elisabetta Rasy con uno stile in bilico tra il romanzo e il saggio - tutto va in pezzi e lo spazio vitale si restringe come in un cubicoli strozzato - per gli ebrei neanche più le panchine per sostare un minuto: proibite; neanche i giardini o i boschi per respirare: proibiti; neanche i tram per spostarsi da una strada all'altra: proibiti» -, Etty Hillesum ne è sempre più convinta: «l'odio è una malattia dell'anima». Ecco, dunque, che la giovane olandese trova la strada per essere «fedele al suo sentire, al suo stile umano»: «non la fuga, non l’odio, ma l’amicizia, l’amore, la preghiera», un colloquio intimo, profondo e diretto con Dio. Un Dio che ha bisogno dell’uomo, delle sue azioni giuste e piene di coraggio, per incarnarsi nella storia. Ne è pienamente convinta Etty Hillesum quando nel suo Diario scrive, imprevedibilmente e indimenticabilmente: «Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano. Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa. […] Cercherò di aiutarTi affinché Tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che Tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare Te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio».

Vedi anche

Informazioni utili
Elisabetta Rasy, «Dio ci vuole felici. Etty Hillesum o della giovinezza», HarperCollins Italia, Milano 2023. In commercio dal: 17 gennaio 2023. Pagine: 160 pp., rilegato. EAN: 9791259851376

domenica 12 giugno 2022

#notizieinpillole, cronache d'arte della settimana dal 6 al 12 giugno 2022

Al Mao di Torino «La stagione delle gru», il nuovo allestimento della galleria giapponese
La gru è un uccello dalla forte valenza simbolica in Asia orientale e, per la sua bellezza e le sue movenze aggraziate, è considerato un generico emblema di buon augurio. Per la sua capacità di compiere lunghe migrazioni, che creano l’illusione di un perpetuo ritorno da luoghi lontani, in Cina le gru sono anche state associate agli immortali taoisti, per i quali, secondo l’iconografia tradizionale, costituiscono spesso il mezzo di trasporto prediletto. Queste messaggere delle divinità sono quindi, prima di tutto, una metafora di longevità.
In occasione di una delle periodiche rotazioni a scopo conservativo che interessano la galleria giapponese, il Mao di Torino espone, a partire da martedì 7 giugno, la raffinata coppia di paraventi «Gru (tsuru)» del XVII secolo: quindici gru di varie specie sono raffigurate in un ambiente palustre, avvolto in una nebbia dorata. Il baluginio e la luminosità dei paraventi, che quasi rischiarano la sala, sono dovuti al prezioso sfondo in foglia d’oro (kinpaku), riportato al suo antico splendore grazie a un restauro finanziato nel 2011 dall’associazione Amici della Fondazione Torino Musei. Lo stile naturalistico è caratterizzato dalla pienezza dei colori, da un'attenta ricerca di pose differenziate ed eleganti e dall’armonia dell’insieme.
Nella stessa sala sarà collocata un’altra coppia di paraventi a sei ante risalenti al XVII secolo che raffigurano una ricca composizione di crisantemi in fiore. Il soggetto è di origine cinese; richiama la stagione autunnale ed è simbolo della vita appartata del letterato lontano dagli incarichi ufficiali. In Giappone conobbe un grandissimo successo, tanto da essere adottato anche come stemma dalla famiglia imperiale: una corolla di crisantemo dorata a 16 petali, che evoca lo splendore del sole.
La rotazione conservativa prosegue al secondo piano della galleria giapponese con l’esposizione di otto kakemono, i delicati dipinti su rotolo verticale, e una selezione di lacche, tra cui emerge una scatola per la cerimonia del tè (chabako) con fondo rosso e fini tralci vegetali decorati con foglie e fiori in rilievo in ceramiche di vari colori, metalli dorati e madreperla. Lo stile evocato è chiamato «Haritsu», dal nome del poliedrico artista Ogawa Haritsu (1663-1747), apprezzato decoratore di lacche polimateriche, pittore e poeta di haiku.
Per maggiori informazioni: www.maotorino.it

Didascalie delle immagini: 1. Titolo: inro con uccello e ciliegio in fiore Oggetto: scatolina a cinque compartimenti Soggetto: decorazione di uccello su posatoio e ciliegio in fiore Cronologia specifica: 1750 ca. Dinastie: Edo (Tokugawa) Materia e Tecnica: Legno laccato; decorazione in oro, argento e pigmenti; 2. Titolo: chabako con rilievi vegetali Oggetto: scatola per cerimonia del tè Soggetto: decorazione vegetale in rilievo Cronologia specifica: 1800 ca. Dinastie: Edo (Tokugawa) Materia e Tecnica: Legno con laccatura rossastra superficiale; decorazione in oro e ceramica, madreperla, metalli, pigmenti

Forte dei Marmi: «un incontro inaspettato» a Villa Bertelli tra Catarsini e Treccani
L’arte rende possibile ciò che, forse, non è mai accaduto. A Forte dei Marmi, sul mare toscano, la pittura di Alfredo Catarsini incontra quella di Ernesto Treccani. Avviene a Villa Bertelli, dove fino al 31 luglio va in scena la mostra «Un incontro inaspettato. Catarsini e Treccani allo specchio», per la curatela di Rodolfo Bona.
Ventuno anni di differenza d’età e una generazione separavano i due artisti, la cui pittura è stata caratterizzata dal comune amore per uomini e cose in una concreta adesione ai fatti dell’esistenza. Il milanese era spesso lontano dal suo studio, intento in abituali soggiorni creativi che, negli anni Novanta, lo portarono a Macugnaga, Gropparello, Nizza e Forte dei Marmi, cittadina della Versilia tanto vicino a Viareggio, luogo dal quale Alfredo Catarsini esitava a staccarsi e al quale era quasi visceralmente legato.
Malgrado questa vicinanza tra le due località toscane, fino a oggi non è documentato un incontro tra i due artisti, accomunati, però, dall’amore per la Versilia e da alcune frequentazioni come quelle con Carlo Carrà, Raffaele De Grada e altri.
L’incontro virtuale tra Alfredo Catarsini e il maestro di Corrente avviene, questa estate, in Sala Treccani, dove sono custodite permanentemente sette opere dell’artista milanese, realizzate fra gli anni Settanta e Ottanta, che rappresentano soggetti dal naturalismo liricamente trasfigurato, caratterizzati da «forme espanse, – scrisse Raffaele De Grada - senza controllo lineare e tantomeno geometrico, che tuttavia creano contrasti e dissonanze che non suggeriscono piacevolezza informale ma sono il sintomo di un dramma che si sfoga nel colore». Qui, fino a fine luglio, saranno visibili anche otto lavori di Alfredo Catarsini che si riflettono, da una parete all’altra della sala, come in uno specchio, con quelli di Ernesto Treccani in un confronto ideale sulla forma e la sua strutturazione o destrutturazione, dove i protagonisti sono l’uomo, la natura e il colore.
In questo ultimo scorcio di primavera, l’artista viareggino è al centro anche di una mostra a Massa Carrara, a cura di Marilena Cheli Tomei, che, dal 10 al 18 giugno, presenta alla Biblioteca civica di piazza Mercurio diciassette opere (dipinti, disegni a china, bozzetti di affreschi) di epoche differenti, riunite sotto il titolo «I paesaggi dell’anima».
Per maggiori informazioni: www.fondazionecatarsini.com | www.villabertelli.it.

Alla Galleria Nuages «La Milano di Luciano Francesconi»
Rimarrà aperta fino al prossimo 25 giugno a Milano, negli spazi della Galleria Nuages, la mostra «La Milano di Luciano Francesconi (1934-2011)» (orari: 14-19, sabato 10-13 e 14-19; chiuso festivi e lunedì | ingresso libero), curata da Cristina Taverna e Margherita Zanoletti. L’esposizione presenta per la prima volta una selezione esclusiva di opere grafiche su carta, con cui il maestro vignettista spezzino, storica firma del «Corriere della Sera» e amico di Dino Buzzati, ritrae episodi, luoghi e personaggi della città di Milano, raccontando uno spaccato della storia recente della città.
Dopo la rassegna allestita alla Triennale di Milano nel 2014 e la retrospettiva del 2016 ai Musei civici di La Spezia, la mostra in via del Lauro segue un importante fil rouge del lavoro di Luciano Francesconi: Milano. La viabilità, il commercio, le aree verdi, episodi di cronaca e politica, la gestione amministrativa, l’ambiente sono solo alcuni dei temi che, con levità e arguzia, il vignettista ritrasse nei suoi disegni.
I materiali in mostra alla Galleria Nuages risalgono agli ultimi anni della carriera dell’artista. Si tratta di disegni a china su carta Fabriano: vignette in bianco e nero su semplici fogli A4. «Ciascun disegno – raccontano i curatori - è l’istantanea di un momento storico: un flashback essenziale che fa rituffare l’osservatore nel passato recente di Milano. È lo specchio di una visione delle cose e del mondo, è il racconto pulito e divertito di un occhio sensibile, capace di sintetizzare la complessità in pochi tratti grafici di immediato impatto comunicativo. Con leggerezza, umorismo e talvolta cinismo».
Per maggiori informazioni: tel. 02.72004482 | nuages@nuages.net | www.nuages.net.

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