ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
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mercoledì 27 aprile 2022

«Open-end», Marlene Dumas tra corpi ed emozioni

«È un’esposizione sulle storie d’amore e i loro diversi tipi di coppie, giovani e vecchie, sull’erotismo, il tradimento, l’alienazione, l’inizio e la fine, il lutto, le tensioni tra lo spirito e il corpo, le parole (titoli e testi) e le immagini». Così Marlene Dumas (Città del Capo, Sudafrica, 1953) racconta la mostra «Open-end», la sua prima «grande personale» in Italia, allestita fino all’8 gennaio negli spazi di Palazzo Grassi, una delle sedi della collezione Pinault a Venezia
È la stessa artista a spiegare il titolo della rassegna, maturata durante i mesi di confinamento e di chiusura dei luoghi di cultura a causa della pandemia per il Covid-19, in un clima di malinconia per i tanti lutti che hanno caratterizzato gli ultimi due anni.
«Ci ho riflettuto molto – racconta Marlene Dumas - prima di trovare un titolo che riflettesse il mio stato d’animo e la mia percezione del mondo. Ho pensato al fatto di essere bloccata a casa, ai musei chiusi al pubblico e a Palazzo Grassi che dovrà essere aperto per accogliere questa mostra. Poi ho pensato alla parola ‘open’, aperto, e al modo in cui i miei dipinti siano aperti a diverse interpretazioni. Nelle mie opere lo spettatore vede immediatamente ciò che ho dipinto, ma non ne conosce ancora il significato. Dove comincia l’opera non è dove termina. La parola ‘end’, fine, che nel contesto della pandemia ha le proprie implicazioni, è al contempo fluida e melanconica».
Un centinaio di opere, selezionate da Caroline Bourgeois, raccontano la produzione più recente dell’artista, attraverso una selezione di dipinti e disegni che vanno dal 1984 a oggi, compreso un nucleo di opere realizzate proprio per la rassegna veneziana. Lavori di piccole dimensioni, come l’inchiostro e pastello su carta «About Heaven» (2001), «Mamma Roma» (2012) o «The Gate» (2001), si alternano ad altri di grande formato, da «Figure in a landscape» (2010) a «The making» of (2020), in un allestimento dal ritmo poetico, ora serrato, ora arioso, che occupa tutti e due i piani espositivi di Palazzo Grassi.
La maggior parte della produzione di Marlene Dumas è costituita da ritratti e figure umane che rappresentano l’intero spettro delle nostre emozioni: la sofferenza, l’estasi, la paura, la disperazione, la tenerezza, l’amore. Volti, corpi, e in alcuni casi organi sessuali, vengono resi sulla tela con una pennellata veloce, fluida ed essenziale, che negli ultimi anni si è fatta più pastosa, visibilmente materica, e con colori non naturalistici, tipici dello stile neoespressionista, che virano verso i toni del blu, del grigio, del rosso scuro e del giallo. Marlene Dumas spiega questa sua scelta figurativa così, con parole poetiche e simboliche: «La pittura è la traccia del tocco umano, è la pelle di una superficie. Un dipinto non è una cartolina».
Non mancano lungo il percorso espositivo - insieme potente ed enigmatico, intimo e provocatorio - autoritratti e opere che ritraggono personalità di spicco della nostra storia più recente, rivisitati in una chiave intima e inedita, da Pier Paolo Pasolini ad Anna Magnani, da Oscar Wilde a Marilyn Monroe, da Charles Baudelaire a «Dora Maar che ha visto piangere Picasso».
Un aspetto cruciale del lavoro di Marlene Dumas è l’uso di immagini provenienti da giornali, cartoline postali, libri, riviste di moda o film, ricombinate in una narrazione pittorica che mette insieme istanze socio-politiche, fatti di cronaca e storia dell’arte. A tal proposito, con una vena ironica, la stessa pittrice afferma: «sono un’artista che usa immagini di seconda mano ed esperienze di prim’ordine».
L’amore e la morte, le questioni di genere e razziali, la situazione di quelli che l’artista chiama i «dannati di questa terra», ovvero tutti coloro che sono stati privati dei propri diritti, l’innocenza e la colpa sono alcuni temi al centro del corpus di opere esposte, realizzate con un fare artistico molto corporeo, quasi erotico. «Dipingere per me è un’attività molto fisica – spiega, a tal proposito, Marlene Dumas – c’è qualcosa di primitivo. Uso il mio corpo e il corpo crea il dipinto, è il gesto che decide. Io penso molto, ma questo non necessariamente porta a un buon dipinto. Conta la tensione del momento nel quale sono fisicamente con i materiali, e anche questi devono trovare la loro strada nel dipinto. Vorrei che il quadro fosse come una danza». Una danza o una poesia, «una scrittura – conclude l’artista - che respira e fa dei balzi, e che lascia spazi aperti per consentirci di leggere tra le righe».

La proposta espositiva della collezione Pinault, per i giorni della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte, si completa con la mostra «Bruce Nauman: Contrapposto Studies», a cura di Carlos Basualdo e Caroline Bourgeois, allestita fino al 27 novembre a Punta Dogana
Attraverso un percorso espositivo inedito, che affianca lavori storici a opere più recenti, alcune delle quali inedite o presentate per la prima volta in Europa, la rassegna si concentra su tre direttrici fondamentali della produzione dell’autore americano, vincitore del Leone d’Oro per la miglior partecipazione nazionale alla Biennale di Venezia nel 2009: lo studio d’artista come spazio di lavoro e creazione, l’uso performativo del corpo e la sperimentazione sonora. . 
Centrale nel percorso espositivo è una serie di installazioni video realizzate negli ultimi anni a partire dal celebre «Walk with Contrapposto» del 1968, che ritraeva Bruce Nauman avanzare lungo un corridoio di legno allestito nel suo studio mentre si sforzava di mantenere la posa chiastica: «Contrapposto Studies, I through VII» (2015/16), «Walks In Walks Out» (2015), «Contrapposto Split» (2017) e «Walking a Line» (2019). Si trovano, poi, esposti lavori storici come, per esempio, «Bouncing in the Corner No.1» (1968) , «Lip Sync» (1969) e «For Children »(2010).  Il risultato è un’esperienza immersiva per il visitatore, invitato a mettersi in gioco con il proprio corpo, i sensi e l’intelletto.

Didascalie delle immagini
[Figg. 1-5] Vista dell'allestimento della mostra «Open-end» di Marlene Dumas. Courtesy: Palazzo Grassi, Venezia; [fig. 6]  Vista dell'allestimento della mostra «Bruce Nauman: Contrapposto Studies». Courtesy: Punta Dogana, Venezia;

Informazioni utili 
Marlene Dumas. open-end- Palazzo Grassi, San Samuele 3231 – Venezia. Orari: tutti i giorni, tranne il martedì, dalle ore 10 alle ore 19. Biglietti: intero € 15,00, ridotto € 12,00. Maggiori informazioni sugli orari, le tariffe, le attività e le modalità di accesso sul sito: www.palazzograssi.it. Fino all’8 gennaio 2023

martedì 26 aprile 2022

Da Donatello ad Alessandro Vittoria, centocinquanta anni di scultura a Venezia

Nel 1450 Venezia è all’apice della sua potenza, grazie al ruolo di cerniera tra l’Oriente e il nord Europa. In questo scenario il gotico viene gradualmente abbandonato per lasciare spazio a uno stile nuovo e, allo stesso tempo, eterno che parte dal ritorno all’antico per dare vita al Rinascimento. È in questo periodo che Donatello (Firenze, 1386 – Firenze, 13 dicembre 1466), fa tappa a Padova, dove soggiornerà per dieci anni, dal 1443 al 1453. Il suo arrivo sancisce il sopraggiungere di influenze esterne al panorama artistico veneto, ancora tardo gotico, e contribuisce alla formazione di una nuova generazione di artisti che si specializzano nella fusione del bronzo e nelle sculture in terracotta. Simbolo di questa nuova plasticità è il «San Lorenzo», un busto in terracotta del 1440, scelto per aprire il percorso espositivo della mostra «Da Donatello a Alessandro Vittoria, 1450 - 1600. 150 anni di scultura nella Repubblica di Venezia», allestita negli spazi della Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro, per la curatela di Toto Bergamo Rossi e Claudia Cremonini.
Originariamente nella lunetta del portale della Pieve di San Lorenzo a Firenze, il busto di «San Lorenzo» fu acquistato da Giovanni II, principe del Liechtenstein, nel 1889, e fino al 1938 esposto nella residenza estiva della famiglia a Vienna. Solo studi recenti di Francesco Caglioti, condotti tra il 2013 e il 2014 con l’ingresso del lavoro nella collezione di Peter Silverman e Kathleen Onorato, hanno dimostrato l’autografia donatelliana.
L’iconografia della scultura è quella tradizionale, presente in tanti busti reliquari del Medioevo: il santo levita, in eleganti fattezze giovanili, è raffigurato con la dalmatica diaconale, mentre nella mano destra tiene la palma del martirio e in quella sinistra il libro sacro (il Vangelo). Innovativa, invece, è la resa plastica di questa scultura che la mostra veneziana mette a confronto con una «Madonna in trono», sempre in terracotta, di Andrea Briosco detto il Riccio (fine XV secolo) e due raffigurazioni di San Sebastiano, un rilievo della bottega dei Lombardo, proveniente dalla sacrestia della chiesa veneziana dei Santi Apostoli, e un dipinto di Andrea Mantegna (Isola di Carturo, 1431 – Mantova, 1506), tra i simboli della collezione di Giorgio Franchetti esposta alla Ca’ d’Oro.
L’esposizione, la prima dedicata alla scultura del Rinascimento e della Tarda Maniera a Venezia, dedica, quindi, una sala al «Ritorno all’antico». La caduta di Costantinopoli prima (1453) e il ritrovamento del gruppo scultoreo del Laocoonte poi (1506) stimolano, infatti, negli scultori del tempo un nuovo modo di intendere l’estetica, fortemente ispirato alla classicità e allo stesso tempo aperto a nuove idee e tecniche. A rappresentare pienamente questo nuovo corso della storia della scultura è stato scelto il rilievo in marmo «La morte di Lucrezia», recentemente attribuito ad Antonio Lombardo e mai esposto fino a ora in un contesto museale. Realizzato probabilmente nel periodo ferrarese dell’artista, in cui fu eseguito anche il Camerino di alabastro per il duca Alfonso I, quest’opera è esemplificativa della volontà dell’epoca di rappresentare esempi di moralità e virtù patrizie. In questa seconda sala, è possibile ammirare anche l’«Apollo» di Antonio Minello e la «Cleopatra» di Giammaria Mosca, due opere esposte fino insieme, fino al 1624, nella collezione del marchese Costanzo Patrizi a Roma e per la prima volta riunite dopo quasi quattro secoli.
I rimandi alla classicità si notano anche nella rappresentazione dei soggetti sacri: le statue del «Cristo risorto» di Giovanni Battista Bregno rimandano rispettivamente al Doriforo di Policleto e all’Apollo del Belvedere, mentre il Cristo di Lorenzo Bregno, proveniente dalla Scuola Grande di San Rocco a Venezia, si ispira ai ritratti romani sia nel formato che nella veste del soggetto, simile a una toga. Ha abiti di ispirazione classica anche la «Figura allegorica» di Antonio Rizzo, appartenente alle collezioni della Ca’ d’Oro, che indossa un peplo con un diploide stretto in vito da una cinta come una Nike ellenistica.
L’ultima sala del piano nobile del museo veneziano, sede dell’esposizione, è dedicata, invece, alla «Renovatio Urbis», quel momento in cui Venezia diventa rifugio per artisti e architetti in fuga dalla Roma pontificia, dopo il sacco del 1527. Tra di loro c’è Jacopo Sansovino, architetto e scultore che giunge nella città lagunare sostenuto dal grande collezionista e mecenate Domenico Grimani, che lo presenta al doge Andrea Gritti assicurandogli una rapida ascesa nel contesto culturale della Serenissima. Il suo stile influenza il gusto della città unendo scultura e architettura, come si può notare nella sua «Madonna del Bacio» o nei rilievi bronzei con episodi della vita di San Marco, realizzati per il pulpito della Basilica ed eccezionalmente esposti a Ca d’Oro grazie all’ottimo lavoro della Fondazione Venetian Heritage, organizzatrice dell’evento espositivo con la Direzione regionale musei veneto
Conclude il percorso una serie di busti patrizi, esempi di un modo nuovo di intendere il ritratto commemorativo in una società, quella veneziana, profondamente oligarchica e repubblicana, in cui l’esaltazione del singolo non era ben vista. Si deve ad Alessandro Vittoria lo sdoganamento definitivo di questa raffigurazione, espressamente ispirata agli ideali romani del patriziato in Età repubblicana. Fondendo fantasia antiquaria e verosimiglianza – come si evince dai busti in mostra che ritraggono Marino Grimani, Tommaso Rangone e Francesco Duodo – queste opere esaltano e rendono immortale una classe dirigente dedita a proiettare l’immagine di un governo saggio e sereno, animato dalla linfa vitale della Serenissima.
La rassegna, visitabile fino al 30 ottobre, ha il pregio di restituire ai visitatori, grazie all’esposizione di opere note e di lavori mai visti in contesti museali, la varietà interpretativa della tecnica scultorea, sottolineandone la ricchezza di materiali, le potenzialità espressive e le declinazioni estetiche all’interno di un contesto storico-artistico che troppo spesso predilige, nel discorso su Venezia, la pittura.
Altro punto di forza della mostra è la scelta della cornice espositiva, la Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro, forte di una raccolta museale tra le più importanti in città per la qualità delle opere di diverse epoche e tipologie, da sempre uno dei capisaldi del collezionismo privato confluito in raccolte pubbliche e il luogo per eccellenza di concentrazione di capolavori scultorei provenienti da contesti monumentali dispersi, in larga parte concepiti per complessi ecclesiastici smembrati o non più̀ esistenti del territorio lagunare. Per questo motivo assume grande interesse anche la notizia che, al termine dell’esposizione, Venetian Heritage sottoporrà il palazzo a «un generale intervento di restyling e update espositivo».
La mostra «Da Donatello a Alessandro Vittoria, 1450 – 1600. 150 anni di scultura nella Repubblica di Venezia» si prefigge, inoltre, di accompagnare il visitatore in un itinerario diffuso per calli e campielli veneziani: è stata, infatti, progettata un’apposita segnaletica che indica la presenza di capolavori scolpiti conservati all’interno delle chiese e dei musei cittadini per creare un dialogo integrato e diffuso tra diversi punti di interesse. Un’occasione, questa, per visitare Venezia con occhi nuovi. 

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Donato di Niccolò di Betto Bardi, detto Donatello (Firenze, 1386 ca. - Firenze, 1466) San Lorenzo, 1440 ca. Terracotta. Londra, Collezione privata. Curtesy Colnaghi Gallery; [fig.2] Tullio Lombardo (Venezia 1455 - 1532), Doppio ritratto. Marmo di Carrara, 47 x 50 cm. Venezia, Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro - Direzione regionale Musei Veneto, su concessione del Ministero della Cultura; [fig. 3] Da Donatello a Alessandro Vittoria, 1450 - 1600, a cura di Toto Bergamo Rossi e Claudia Cremonini. Galleria Giorgio Franchetti alla Ca' d'Oro, dal 22 aprile al 30 ottobre 2022. Installation view. Foto: Matteo De Fina; [fig. 4] Da Donatello a Alessandro Vittoria, 1450 - 1600, a cura di Toto Bergamo Rossi e Claudia Cremonini. Galleria Giorgio Franchetti alla Ca' d'Oro, dal 22 aprile al 30 ottobre 2022. Installation view. Foto: Matteo De Fina; [fig. 5] Antonio Lombardo (Venezia, 1458 ca. - Ferrara, 1516) Morte di Lucrezia, 1508 - 1516 ca. Marmo di Carrara. Londra, Collezione privata. Courtesy of Colnaghi Gallery; [fig. 6] Gianmaria Mosca (Padova 1495/99 – Cracovia 1573), Porzia. Marmo, 45,5 x 33 cm. Venezia, Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro - Direzione regionale Musei Veneto, su concessione del Ministero della Cultura

Informazioni utili 
«Da Donatello a Alessandro Vittoria, 1450 – 1600. 150 anni di scultura nella Repubblica di Venezia». Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro, Calle Ca' d'Oro, 3934 – Venezia. Orari: martedì-domenica, ore 10-19; la biglietteria chiude alle ore 18:30.Ingresso: intero € 13,00, ridotto € 9,00, ridotto per cittadini UE dai 18 ai 25 anni € 2,00. Sito internet: https://www.cadoro.org/. Fino al 30 ottobre 2022

lunedì 25 aprile 2022

Da Tony Cragg a Vera Molnár: vetro e arte contemporanea sull’isola di Murano

«Solve et coagula», «Sciogli e condensa», dicevano i romani. È racchiusa in queste parole la magia del vetro, materiale figlio di un processo alchemico che, nel passaggio di dissoluzione e ricomposizione di un pugno di sabbia e silicio, arso dal fuoco e «coreografato» dal soffio e dalla sapienza manuale dell’uomo, genera forme trasparenti e opache, fragili e resistenti, colorate o bianche, meraviglie che fanno – giustamente - definire l’alto artigianato un’arte.
Questa tecnica dalle origini antiche ha in Italia un importante centro creativo, l’isola di Murano, dove nel 1291 furono trasferite, in seguito a un editto del doge Tiepolo, tutte le fornaci attive a Venezia al fine di preservare la città, allora centro di scambi commerciali con l’Oriente lungo le vie della seta e delle spezie, dai frequenti incendi che, purtroppo, si sviluppavano frequentemente all’interno delle botteghe compromettendo la vita degli edifici vicini, costruiti in legno.
La concentrazione delle vetrerie a Murano permise alla Serenissima anche di controllarne l’attività, impedendo che i segreti di quest’arte venissero esportati all'estero e facendo così fiorire il commercio del vetro veneziano, le cui fornaci erano sempre foriere di nuove invenzioni. Sulla piccola isola lagunare vide, infatti, la luce, verso la metà del XV secolo, il cristallino o «cristallo veneziano», un vetro estremamente chiaro e trasparente, nato dalla fantasia e dalla perizia creativa di Angelo Barovier (1405-1460 circa), che garantì a Venezia il predominio artistico per oltre due secoli, fino alla comparsa sul mercato del vetro boemo.
Murano fu anche la patria del vetro placcato, che permetteva di far risaltare colori e decorazioni, del vetro ghiaccio, una lavorazione estremamente complessa per ottenere un effetto rugoso con piccole crepe, del lattimo, bianco come la porcellana, del vetro smaltato, del vetro calcedonio, della filigrana, dell’avventurina, del millefiori o vetro colorato, delle conterie e delle murrine.
Di secolo in secolo, l’isola lagunare ha saputo, dunque, mantenere viva la sua peculiare tradizione traghettandola nel Novecento, epoca che ha visto l’affermarsi di tanti importanti marchi come, per esempio, Barovier & Toso, Seguso, Venini, Avem e Vistosi, interessati a far incontrare l’artigianalità dei maestri «fiolari» con il mondo del design e dell’arte.

Questa storia, millenaria, rivive tra le sale del Museo del vetro, «uno dei simboli della venezianità nel mondo», fondato nel 1861 all’interno del gotico Palazzo Giustinian, che attualmente ospita uno dei progetti di «Muve contemporaneo», l’offerta dei Musei civici veneziani per la cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte: «Silicon Dioxide».
Curata da Berengo Studio, la mostra, che trae il suo titolo dal materiale all’origine del vetro (il diossido di silicio, appunto), ripercorre - attraverso una quarantina di opere, alcune totalmente inedite, e un gruppo disegni, acqueforti e acquerelli - le tappe più significative della carriera di Tony Cragg (Liverpool, 9 aprile 1949), esponente di rilievo della scultura britannica (premio Tuner nel 1988) che ha incentrato la sua ricerca sull’uomo e sull’ambiente, naturale e artefatto.
Accanto agli storici assemblage, lavori di grandi dimensioni che accostano e sovrappongono gruppi di oggetti, sono esposte opere più recenti, alcune appena ultimate, che manifestano la curiosità dell’artista inglese per i vari effetti del vetro colorato, per la sua duttilità alchemica e la sua energia dinamica. Si tratta di lavori realizzati a partire dal 2009, quando Tony Cragg inizia la sua collaborazione con la fornace muranese di Berengo Studio. In mostra sono, dunque, affiancate installazioni su larga scala come «Bromide Figures» (1992), «Blood Sugar» (1992), «Cistern» (1999), collage di bottiglie in vetro satinato, e «Larder» (1999), colorato insieme di vasetti di conserve, a opere più intime come «Curl» (2000), «Spindles» (2021), «Bi» (2021) e la giocosa scultura «Climate» (2021). Tutti questi lavori, visibili fino al 21 agosto, riflettono sulla complessità della physis (il principio e la causa di tutte le cose), «conciliando la totale comprensione della natura organica della realtà con l’accettazione delle sue caratteristiche meno intelligibili», e, nello stesso, raccontano quello che Tony Cragg definisce il «potenziale infinito» del diossido di silicio.

In questi giorni, la piccola isola lagunare è anche sede di uno degli eventi collaterali della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte: «Icône 2020». La mostra - ideata, prodotta e curata da Francesca Franco per l’Atelier muranese - esplora, attraverso schizzi preparatori, dipinti e materiale di documentazione, il processo di creazione della prima scultura in vetro realizzata da Vera Molnár, artista ungherese di nascita e parigina d’adozione, classe 1924, pioniera della computer art con oltre ottant’anni di carriera alle spalle, le cui opere fanno parte delle collezioni del Museum of Modern Art di New York, del Victoriam and Albert Museum di Londra e del Centre Pompidou di Parigi. Partendo dalla prima opera d’arte digitale dell’artista, creata su tela nel 1975 («Computer-Icône/2») a partire da una serie di disegni realizzati al computer nel 1974 («Trapèzes»), la scultura «Icône 2020» esplora il concetto di dicotomia, dando forma all’equilibrio, difficile, tra ordine e disordine.

L’isola lagunare ospita, in concomitanza con la cinquantanovesima Biennale d’arte, anche la collettiva «Le forme del bere», che Elisa Testori ha curato per le sale di «InGalleria», l’art gallery di Punta Conterie, l’hub dall’anima poliedrica dove il design, le arti visive e l’enogastronomia contemporanea si compenetrano stimolando percorsi culturali e del gusto inusuali. La mostra, aperta fino al 31 dicembre, rende omaggio al bicchiere in vetro, oggetto della quotidianità e manufatto che, lungo la sua evoluzione, ha stimolato la creatività dei designer. Accanto a pezzi storici, vere e proprie icone ancora oggi sulle tavole di tutto il mondo, come l’elegante «Ovio» (1983) di Achille Castiglioni, i leggeri calici «Plume» (2000) di Aldo Cibic, i colorati «Goti de fornasa» (1992) di Barovier e Toso, lo scenografico «Esimio» (1993) di Alessandro Mendini, la «Corolla d’autore» (2000) di Vico Magistretti e le «Ballerine fortunate» (1986) di Matteo Thun, ma non solo, sono esposti i lavori di nove designer contemporanei
Lorenzo Damiani
, Giulio Iacchetti, Astrid Luglio, lo Studio Martinelli Venezia, mischer'traxler studio, Luca Nichetto, Philippe Nigro, Ionna Vautrin e Zaven sono stati invitati – racconta la curatrice - a progettare ognuno «una diversa tipologia di bicchiere: il set acqua-vino-digestivo, un bicchiere dedicato all’acqua, un bicchiere per il vino «della casa», la coppia acqua e vino, il boccale da birra, la coppetta da cocktail, la coppa da champagne, il bicchiere da whisky e il tipetto, ovvero il calice veneziano». Ecco così lavori che stupiscono per i loro nuovi codici formali e per le variazioni su forme archetipiche, come il «Filo di Zaven», con una sottile canna di vetro colorato che si fa stelo, i sette bevanti di «Amurius», omaggio alle sette isole muranesi (San Pietro, San Stefano, San Donato, dei Conventi, Sacca San Mattia, Navagero, Sacca Serenella), la coppa in vetro a bolle «Champagne!», «Tulipe», con la sua forma basculante ispirata alle forme femminili, o «Access», un set di sei pezzi che propone una riflessione sulla disponibilità e sull’accesso all’acqua potabile in alcune aree geografiche del mondo.
I processi produttivi sono diversi e i linguaggi artistici aprono nuove frontiere di ricerca, mettendo sotto i riflettori la contemporaneità di un materiale dalla storia antica: il vetro. Ma non un vetro qualunque. Il vetro di Murano, sinonimo di bellezza e pregio nel mondo .

Vedi anche 

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Tony Cragg, Larder, 1999. Preserve jars, 100 x 90 x 65 cm. Photo credit Lasse Koivunen; [fig. 2] Tony Cragg, Blood Sugar, 1992. Glass. Photo credit Michael Richter;  [fig. 3 e fig. 4] Tony Cragg: Silicon Dioxide. Exhibition view. Photo credit Michael Richter; [fig. 5] Vera Molnár, Icône 2020 (detail), 2021, Murano glass and 24K gold leaf, 60 x 60 cm, photo by Cristiano Corte ©, Courtesy New Murano Gallery; [figg. 6, 7 e 8] Mostra Forme del bere. Photo: Roberta Orio

Notizie utili 
Tony Cragg. Museo del vetro - Fondamenta Giustinian 8, 30121 Murano. Orari: Aperto tutti i giorni, dalle 10:00 alle 17:00; ultimo ingresso ore 16:00. Ingresso: intero € 10,00, ridotto (Ragazzi da 6 a 14 anni; studenti dai 15 ai 25anni; visitatori over 65 anni; personale del Ministero della Cultura (MiC); titolari di Carta Rolling Venice; titolari di ISIC – International Student Identity Card) € 7,50; gratuito per esidenti e nati nel Comune di Venezia; bambini da 0 a 5 anni; persone con disabilità e accompagnatore e altre categorie aventi diritto per legge. Informazioni: https://museovetro.visitmuve.it. Fino al 21 agosto 2022

Vera Molnár: Icône 2020. New Murano Gallery, spazi Atelier Muranese, Calle Alvise Vivarini, 6 - Murano (Venezia). Orari: tutti i giorni, dalle 10:00 alle 16:00. Ingresso libero. Informazioni: info@ateliermuranese.com. Sito dell'evento: www.ateliermuranese.com/icone2020. Fino al 27 novembre 2022 

Forme del bere. Punta Conterie, Fondamenta Giustinian, 1 - Murano (Venezia).Orari: da martedì a domenica, dalle 10:00 alle 18:00. Ingresso gratuito. Informazioni: tel. 041.5275174. Sito web:https://puntaconterie.com. Fino al 31 dicembre 2022

venerdì 22 aprile 2022

«Il latte dei sogni», una Biennale dalla forte identità femminile

Katharina Fritsch Elefant / Elephant, 1987 Polyester, wood, paint 420 × 160 × 380 cm With the additional support of Institut fur Auslandsbeziehungen – ifa 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Marco Cappelletti Courtesy: La Biennale di Venezia
È il 2013 quando l’editore messicano Fondo de Cultura Económica dà alle stampe «Leche del sueño» (in italiano «Il latte dei sogni»), una raccolta di racconti per bambini scritto e illustrato, negli anni Cinquanta del Novecento, dalla scrittrice, drammaturga, scultrice e pittrice britannica Leonora Carrington (1917- 2011), esponente di spicco del movimento surrealista, che ha portato su di sé lo stigma della follia e che ci ha lasciato un universo visionario e magico, a tinte volutamente nere, popolato da spiriti e streghe, dee mitologiche, creature ibride tra umano e animale: un universo iconografico nonsense e perturbante di forte malia, che molto deve allo studio delle favole celtiche, della cabala ebraica, del buddhismo tibetano, dell’esoterismo e dell’alchimia, degli archetipi junghiani e di capisaldi della letteratura mondiale che hanno dato spazio nella loro opera al tema del sogno e del fantastico, da Dante Alighieri a Lewis Carroll, da Baudelaire a Rimbaud.
Dopo la pubblicazione postuma, questo prezioso taccuino, composto da una sessantina di pagine che l’artista aveva ideato per esorcizzare il timore dei figli Gabriel e Pablo di fronte ai disegni realizzati per decorare le pareti di una stanza della loro casa di Città del Messico, è stato tradotto nel 2017 in inglese dal magazine «New York Review Books», con il titolo di «The milk of dreams», e l’anno successivo è stato pubblicato anche in Italia dalla casa editrice Adelphi, nella traduzione dall’inglese di Livia Signorini.
Precious Okoyomon To See The Earth Before the End of the World, 2022 Dimensions variable All works with the additional support of LUMA Foundation; Ammodo 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia
 In questi giorni il volumetto della Carrington, che descrive un mondo magico nel quale «la vita viene costantemente reinventata attraverso il prisma dell’immaginazione e nel quale è concesso cambiare, trasformarsi, diventare altri da sé», è sulla bocca di molti perché è stato scelto da Cecilia Alemani, milanese, classe 1979, già responsabile del programma di arte pubblica High Line di New York, come titolo per la cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte di Venezia, in programma dal 23 aprile al 27 novembre 2022 al Padiglione centrale dei Giardini e nel complesso dell’Arsenale, negli spazi delle Corderie, delle Artiglierie, delle Gaggiadre e nel Giardino delle Vergini.
 
Capsula 1 – La Culla della Strega / The Witch’s Cradl, Eileen Agar, Gertrud Arndt, Josephine Baker Benedetta, Claude Cahun, Leonora Carrington, Ithell Colquhoun, Valentine de Saint-Point, Lise Deharme, Maya Deren, Leonor Fini, Jane Graverol, Florence Henri, Loïs Mailou, Jones Ida Kar, Antoinette Lubaki, Baya Mahieddine, Nadja, Amy Nimr, Meret Oppenheim, Valentine Penrose, Rachild, Alice Rahon, Carol Rama, Edith Rimmington, Enif Robert, Rosa Rosà, Augusta Savage, Dorothea Tanning, Toyen, Remedios Varo, Meta Vaux Warrick Fuller, Laura Wheeler Waring, Mary Wigman, 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams, Photo by: AVZ - Andrea Avezzù RM - Roberto Marossi MRC - Marco Cappelletti MF – Marco Cappelletti con Filippo Rossi JS - Jacopo Salvi EB - Ela Bialkowska, Courtesy: La Biennale di Venezia
L’artista britannica, la «sposa del vento» e la «femme-enfant» di Max Ernst, ma soprattutto una femminista ante-litteram che ha insegnato alle donne che possono essere muse di sé stesse, è anche tra i protagonisti del percorso espositivo, che accende i riflettori su 1433 opere, 80 delle quali di nuova produzione, firmate da 213 artisti provenienti da 58 nazioni, 180 dei quali alla loro prima partecipazione. Il risultato è un percorso intenso e ambizioso, di forte impronta femminile (ma non femminista), grazie alla presenza di 191 donne, che si dipana attraverso tre tematiche: «la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi; la relazione tra gli individui e le tecnologie; i legami che si intrecciano tra i corpi e la Terra».
Delcy Morelos Earthly Paradise, 2022 Site-specific installation Mixed media: soil, clay, cinnamon, powder cloves, cocoa powder, cassava starch, tobacco, copaiba, baking soda and powdered charcoal Dimensions variable With the additional support of Ammodo 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia
Il lavoro della Carrington è proposto all’interno della micro-mostra «La culla della strega», nella sala sotterranea del Padiglione centrale, la prima delle cinque capsule del tempo, presentate in un riuscito progetto di allestimento firmato dal duo FormaFantasma (al secolo i designer Andrea Trimarchi e Simone Farresin), e offerte al pubblico come «strumenti di approfondimento e introspezione», ovvero come parentesi dal sapore museale che mettono in dialogo l’arte di oggi (e di domani) con l’eredità del passato, con opere, poco note e talvolta mai viste, di artiste vicine ad alcune grandi avanguardie del Novecento come il Surrealismo, il Futurismo o il Bauhaus. La storia diventa così un cannocchiale per guardare il presente e provare a dare risposta ad alcune domande che Cecilia Alemani, prima curatrice donna italiana al timone della Biennale d’arte di Venezia, ha scelto come suoi (e, di conseguenza, nostri) fili d’Arianna: «Come sta cambiando la definizione di umano? Quali sono le differenze che separano il vegetale, l’animale, l’umano e il non-umano? Quali sono le nostre responsabilità nei confronti dei nostri simili, delle altre forme di vita e del pianeta che abitiamo?».
Simone Leigh, Brick House, veduta dell’installazione, 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams. Photo by: Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia
Nella sezione «La culla della strega», la più significativa e affascinante tra le cinque capsule del tempo, ideate sia come una premessa alle ricerche contemporanee esposte sia come una sorta di «risarcimento» nei confronti di donne artiste sul cui lavoro si è posata la polvere della storia, Leonora Carrington, in mostra con il misterioso «Portrait of the Late Mrs Partridge» (1947) e l’enigmatico «Portrait of Madame Dupin» (1949), vede come sue compagnie di viaggio una trentina di pittrici, scultrici, danzatrici e scrittrici, ribelli alle rappresentazioni classiche, il cui linguaggio creativo si è opposto all’idea dell’uomo unitario rinascimentale per dare voce al meraviglioso e al fantastico, per esplorare l’inconscio e il lato magico e occulto dell’esistenza. Si spazia dal cortometraggio «Witch’s Cradle» (1943) della pioniera del cinema americano Maya Deren (1917-1961), dal quale è tratto il titolo di questa sezione espositiva, all’immaginario onirico e surrealista di Leonor Fini (1907-1996) e di Remedios Varo (1908-1963), con Leonora Carrington una delle «due streghe stregate» del Messico (per usare una felice espressione di Octavio Paz), di cui è esposto l’autoritratto «Armonia» (1956), prestito mai visto in Europa.  Si va da Laura Wheeler Waring (1887-1948), sostenitrice dei diritti civili degli afroamericani, in mostra con le belle copertine Déco realizzate (negli anni Venti del Novecento) per la rivista «The Crisis», alla cantante e danzatrice americana Josephine Baker (1906-1975), simbolo di riscatto per la comunità nera e spregiudicata icona di libertà, che, come documenta un filmato muto che la vede esibirsi in uno scatenato charleston sul palco del famoso music hall parigino Folies Bergère, fu espressione di una fisicità positiva e liberata con i suoi seni al vento, le vertiginose gonne fatte di banane, i capelli alla maschietta, i meravigliosi copricapi di piume, i movimenti sensuali e sfrontati. Ci sono, poi, l’erotismo trasgressivo di Carol Rama (1918-2015) e le suggestioni futuriste di Benedetta Cappa (1897-1977), due dei ventisei artisti italiani in mostra in questa edizione della Biennale veneziana, ma anche i colori sgargianti e le suggestioni africane dell’americana Loïs Mailou Jones (1905-1998) e dell’algerina Baya Mahieddine (1931-1998), nonché le opere surrealiste di Dorothea Tanning (1910-2012) e il trasformismo delle fotografie in bianco e nero di Gertrud Arndt (1903-2000), che negli anni Trenta giocava con maschere e trucco a impersonare differenti tipologie di donne, dalle vedove addolorate alle geishe piangenti.
Piazza Ucraina by the Curators of the Ukrainian Pavilion Borys Filonenko, Lizaveta German, Maria Lanko realized in the context of the 59th International Art Exhibition with the collaboration of the Ukrainian Emergency Art Fund (UEAF) and the Victor Pinchuk Foundation, Piazza Ucraina is an open-air installation at the Giardini of La Biennale, designed by Ukrainian architect Dana Kosmina, Photo by: AVZ - Andrea Avezzù MRC - Marco Cappelletti EB - Ela Bialkowska, Courtesy: La Biennale di Venezia
La seconda capsula del tempo, intitolata «Le tecnologie dell’incanto», mette, invece, in scena, negli spazi dei Giardini, il rapporto tra il corpo umano e la tecnologia attraverso opere di artiste italiane come Grazia Varisco (1937), Marina Apollonio (1940) e Nanda Vigo (1936-2020), che hanno svolto le loro ricerche nell’ambito nel campo dell’arte programmatica e cinetica.
Mentre, sempre ai Giardini, la capsula del tempo «Corpo orbita» raccoglie opere di poesia concreta (con il trattamento libero o astratto dei caratteri verbali), di poesia visiva (con connubi di parole e immagini), di poesia-oggetto (con sculture a base di lettere o scomposizioni verbali) e di libri-oggetto o libri d’artista, offrendo un focus significativo su Mirella Bentivoglio (1922-2017) e sulla mostra «Materializzazione del linguaggio», curata per la trentottesima edizione della Biennale di Venezia, quella del 1978. In questa capsula, Cecilia Alemani presenta, tra l’altro, anche la documentazione fotografica di pratiche medianiche e sedute spiritiche, che ebbero per protagoniste le medium italiane Eusepia Palladino (1854-1918) e Linda Gazzera (1890-1932).
Capsula Una foglia una zucca un guscio una rete una borsa una tracolla una bisaccia una bottiglia una pentola una scatola un contenitore / A Leaf a Gourd a Shell a Net a Bag a Sling a Sack a Bottle a Pot a Box a Container – 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia

In «Una foglia, una zucca, un guscio, una rete, una borsa, una tracolla, una bisaccia, una bottiglia, una pentola, una scatola, un contenitore», la quarta capsula del tempo, visibile in questo caso All’Arsenale, si intende, invece, fornire una chiave di lettura alternativa della storia dell’uomo, in cui gli atti di raccolta, alimentazione e cura, prettamente femminili, si affermano come essenziali rispetto a quelli di caccia e cattura. Qui trovano spazio, tra l’altro, i gusci-bozzoli di Maria Bartuszová (1936-1996), le opere tessili della dadaista Sophie Taeuber-Arp (1889-1943), le ceramiche dell’hawaiana Toshiko Takaezu (1922-2011), nonché i modelli anatomici di Aletta Jacobs (1854-1929), prima donna ammessa in un’università olandese e unica donna medico esercitante per lungo tempo nei Paesi Bassi. Una segnalazione la meritano, infine, anche le tavole dell’artista e naturalista Maria Sibylla Merian (1647-1717), che nel 1699 affrontò il primo viaggio scientifico mai intrapreso da una donna e, arrivata nella colonia olandese del Suriname, dedicò i successivi due anni a documentare il ciclo vitale delle farfalle tropicali.

Tau Lewis, Vena Cava, 2021 Recycled leather, acrylic paint, coated nylon, steel armature 330 cm × 310 cm × 122 cm All works with the additional support of Stephen Friedman Gallery Thanks to donations to the Canadian Friends Fund of La Biennale, at KBF CANADA 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia
Infine la capsula «La seduzione del cyborg», il cui titolo è preso a prestito da un’opera di Liner Sharmlison, comprende opere di artiste di inizio ’900 che hanno immaginato nuove combinazioni tra umano e artificiale. E ospita, tra le altre, Hanna Hoch (1889-1978), Louise Nevelson (1899-1988), Giannina Censi (1913-1995) e il curioso lavoro della scultrice statunitense Anna Coleman Ladd (1878-1939), che realizzò artigianalmente una serie di maschere prostetiche per i reduci della Prima guerra mondiale, sfigurati in combattimento. 
In questa sezione si trova anche Rebecca Horn (1944) con «Kiss of the Rhinoceros» (1989), un’opera che Melanie Kress presenta, nella guida, con queste parole: «due enormi bracci metallici, ciascuno culminante con un corno di rinoceronte in metallo, formano un cerchio quasi completo. I bracci si allontanano lentamente l’uno dall’altro e quando i corni si toccano, all’apice del cerchio, vengono attraversati da una scarica di elettricità. L’opera respira nelle aperture e chiusure ritmiche dei suoi bracci in acciaio. Horn riesce a rendere questo gesto del corpo umano in una figura cyborg che fonde animale, metallo e pezzi meccanici, mettendo così in discussione il primato o la purezza della forma umana».

Andra Ursuţa, veduta dell’installazione,  59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams. Photo by: Marco Cappelletti Courtesy: La Biennale di Venezia
Fuori dalle capsule dominano le opere a parete, spesso con riferimenti a culture originarie, non-occidentali, non-bianche e non-binarie, ma non mancano opere monumentali, e di grande impatto visivo, a cominciare dalla enorme dea africana in bronzo, senz’occhi, che accoglie il visitatore all’Arsenale.Si tratta di «Brick House», un lavoro di Simone Leigh (1967), scultrice afroamericana che rappresenta anche gli Stati Uniti nel Paglione nazionale ai Giardini, con un racconto di opere che rimanda alla diaspora dal continente nero, allo schiavismo, alla forza delle donne. Tra le visioni più potenti ci sono anche l’elefante in scala 1:1 della tedesca Katharina Frisch (1956), i mascheroni di pelle riciclata della canadese Tau Lewis (1993), le grandi chele della spagnola Teresa Solar (1985), l’installazione «To see the earth before the end of the world» (2022), un paesaggio di terra, figure, piante, insetti e ruscelli realizzato dal britannico Precious Okoyomon (1993), e l'opera «Earthly Paradise» (2022), un labirinto odoroso a grandezza naturale di terra mista a fieno, farina di manioca, polvere di cacao e spezie come chiodi di garofano e cannella a firma del colombiano Delcy Morelos (1967).
Barbara Kruger Untitled (Beginning/Middle/End), 2022 Site-specific installation, print on vinylThree-channel video installation (on 3 flatscreen monitors), sound Dimensions variable 5 mins. 35 sec. With the additional support of Spruth Magers; Maharam 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by:  Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia
C’è, dunque, tanto da vedere in questa cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte di Venezia, che si inchina riconoscente al passato e che, come sempre, è sismografo del presente. Un presente di grande instabilità e incertezza, che ci sta vedendo lentamente uscire da una pandemia, quella da Covid 19 (a causa della quale la manifestazione veneziana è stata posticipata di un anno), e che sente spirare minacciosi venti di guerra ai confini dell’Europa. La kermesse lagunare si è così arricchita in corso d’opera di uno dei lavori più fotografati di questa edizione: «Piazza Ucraina», un’installazione progettata dall’architetto Dana Kosmina, allo Spazio Esedra dei Giardini della Biennale, che vede la curatela di Borys Filonenko, Lizaveta German e Maria Lanko. Attorno a un monumento ricoperto di sacchi di sabbia, a rievocare la pratica messa in atto in guerra per proteggere i monumenti pubblici dai danni degli attacchi, vengono raccolti ed esposti dagli artisti ucraini disegni, testi, documenti diffusi attraverso i social network dalla popolazione. Ci troviamo così di fronte a una forma di testimonianza, in tempo reale e in continua evoluzione, che documenta, in perfetta linea con i propositi di questa Biennale veneziana, la capacità dell’arte di narrare il presente che si fa storia, di dare immagine a desideri e paure, di sognare un mondo nuovo.
Book render del catalogo della Biennale d'arte di Venezia 2022


Vedi anche

Informazioni utili
«Il latte dei sogni». 59. Esposizione internazionale d'Arte. Giardini e Arsenale - Venezia.Orari: dal 23 aprile al 25 settembre, ore 11 – 19 (ultimo ingresso 18:45); dal 27 settembre al 27 novembre, ore 10 – 18 (ultimo ingresso 17:45); solo sede Arsenale, fino al 25 settembre: venerdì e sabato apertura prolungata fino alle ore 20 (ultimo ingresso: 19.45). Ingresso: intero € 25,00, ridotto € 20,00, i costi degli altri biglietti (gruppi, pluringresso e accredito) sono disponibili sul sito internet. Catalogo ufficiale, catalogo breve e guida: Edizioni La Biennale di Venezia, Venezia. Informazioni: tel. 041.5218828. Sito internet: www.labiennale.org. Da sabato 23 aprile a domenica 27 novembre 2022.

mercoledì 20 aprile 2022

A Venezia il rosso e il nero di Anish Kapoor

Presenza e assenza, vuoto e pieno, visibile e invisibile, concavo e convesso, luce e oscurità, maschile e femminile: da sempre la pratica creativa di Anish Kapoor (Bombay, 12 marzo 1954), artista tra i più apprezzati e innovativi della scena contemporanea, noto per le sue sculture lucenti e misteriose dalle forme semi-organiche, indaga la dialettica degli opposti, metafora della contraddittorietà dell’esistenza umana.
Centrale nel lavoro del maestro anglo-indiano, che ha rappresentato la Gran Bretagna alla quarantaquattresima Biennale di Venezia nel 1990 e che è stato insignito di prestigiosi riconoscimenti internazionali tra cui il Praemium Imperiale nel 2011 e il Padma Bhushan nel 2012, è anche la ricerca sui pigmenti. Ecco così il giallo delle prime sculture, il blu laguna della spiritualità orientale, colore che ci parla di infinito e trascendente, il rosso della carnalità, della violenza e del sangue - una vera e propria ossessione per l’artista - e, recentemente, il nero, ma non un nero qualunque, bensì «il nero più nero che esiste» (o quasi). Si tratta del Vantablack S-VIS, materiale in nanotubi di carbonio, capace di assorbire il 99,965 % delle radiazioni luminose, prodotto nel 2014 dalla società di ricerca scientifica britannica «Surrey NanoSystem» per scopi aerospaziali e militari, di cui l’artista ha acquisito i diritti in esclusiva nel 2016 e ne ha fatto uno spray dando vita al Kapoor Black.
Le prime opere realizzate con questo colore innovativo che fa sparire la terza dimensione, e il cui effetto si avvicina al buco nero cosmico, vengono presentate da Anish Kapoor a Venezia, nei giorni della cinquantanovesima Biennale d’arte, in una retrospettiva alle Gallerie dell’Accademia e nello storico Palazzo Manfrin, recentemente acquisito dallo stesso artista anglo-indiano (che da qualche anno ha anche una casa in Laguna, a Sant’Aponal) per farne un polo artistico e museale «vibrante e vitale», diretto da Mario Codognato.
L’edificio gotico nel sestiere di Cannaregio, oggetto in questi mesi di un radicale progetto di restauro guidato dall’architetto Giulia Foscari di UNA studio e sviluppato in collaborazione con FWR associati, ha una storia che lo lega simbolicamente alle Gallerie dell’Accademia. Sede, sul finire del Settecento, di una prestigiosa collezione di dipinti, sculture e stampe, segnalata nelle guide cittadine almeno dal 1815 e visitata, tra gli altri, da Antonio Canova, Lord Byron, John Ruskin e Edouard Manet, Palazzo Manfrin (già Priuli-Venier) vide disperdere il suo patrimonio nel secondo scorcio dell’Ottocento, dopo la morte dell’«imprenditore visionario» Girolamo Manfrin (1801), commerciante di tabacco con la passione per l’arte, e dei figli Pietro (1833) e Giulia Angela Giovanna (1848). 
Su interessamento di Pietro Selvatico, ventuno di questi dipinti entrarono nel patrimonio delle Gallerie dell’Accademia. Tra di loro c’erano «La Tempesta» e «La Vecchia» di Giorgione, il «San Giorgio» di Andrea Mantegna e il «Ritratto di giovane uomo» di Hans Memling, opere emblematiche di quella che Anish Kapoor definisce «una delle più belle collezioni di pittura classica di tutto il mondo». Ma c'erano anche la «Madonna in trono con il Bambino e un devoto» di Nicolò di Pietro, «I Santi Paolo e Antonio eremiti» di Girolamo Savoldo, «San Pietro e San Giovani Battista» di Alessandro Bonvicino, detto il Moretto.
Confrontarsi con questa storia, far dialogare il passato con il presente, è «la sfida meravigliosa e stupefacente» che l’artista anglo-indiano ha accettato di vivere, portando l’arte contemporanea in uno dei musei che meglio rappresenta lo spirito della Serenissima (anche grazie alle tele di grandi maestri del Rinascimento veneto come Tintoretto, Tiziano, Veronese e Bellini) e scrivendo una nuova pagina della storia che, nelle precedenti edizioni della Biennale d’arte, ha visto esporre alle Gallerie dell’Accademia Mario Merz (2015), Philip Guston (2017) e Georg Baselitz (2019).
Sessanta opere ricostruiscono i momenti chiave della carriera di Anish Kapoor in un percorso insieme imponente e intimo, archetipico e destabilizzante, tra opere storiche e lavori inediti creati negli ultimi tre anni, che si avvale della curatela di Taco Dibbits (Amsterdam, 7 settembre 1968), direttore del Rijksmuseum di Amsterdam, tra i massimi esperti mondiali di Rembrandt e della pittura fiamminga del XVII secolo.
Una materialità palpabile e magmatica, che esonda nello spazio circostante come «una reliquia laica dell’umanità sofferente» (l’espressione è di Mario Codognato) e che ci invita a riflettere sul mistero della vita e sul dramma della morte, caratterizza le imponenti installazioni nei toni del nero e del rosso che abitano gli spazi delle Gallerie dell’Accademia. In queste sale trovano posto anche i «1000 Names» degli esordi e le opere dipinte con il Kapoor Black, lavori che si realizzano pienamente nell’istante in cui il visitatore le sperimenta: dalle forme nere su fondo bianco apparentemente piatte emerge, al minimo spostamento, una terza dimensione appena percettibile, che subito scompare in un gioco dicotomico tra presenza e assenza, visibile e invisibile. Destabilizza anche l’installazione «Shooting into corner» (2008-2009), con i suoi grandi proiettili di cera rosso sangue, sparati da un cannone; mentre in «Pregnant White Within Me» (2022) l'architettura delle Gallerie dell’Accademia si dilata, suggerendo una ridefinizione dei confini tra corpo, edificio ed essere.
A Palazzo Manfrin, tra le pareti non ancora restaurate e i soffitti affrescati, il pubblico è, invece, accolto dalla nuova monumentale opera «Mount Moriah at the Gate of the Ghetto» (2022), una massa grondante di silicone e vernice che sembra squarciare il soffitto dell’androne. Ci sono, poi, lungo il percorso espositivo opere iconiche come il trittico «Internal Objects in Three Parts» (2013–2015) o «White Sand Red Millet Many Flowers» (1982), ma anche i lavori specchianti, le acque vorticose e rosse di «Turning Water Into Mirror, Blood Into Sky» (2003) e «Destierro» (2017), in cui un caterpillar interamente blu trasporta tonnellate di terra rossa «in un’epica azione di sovvertimento». Tutti i percorsi portano alla spettacolare «Symphony for a beloved sun» (2013), un’installazione con un sole che tramonta (o sorge) su una massa di cera, prodotta a ciclo continuo da una sorta di infernale creazione leonardesca, che tinge l’edificio di rosso sangue, «il colore dell’origine» e della fine, della vita e della morte, che – racconta Anish Kapoor – «ha una presenza fisica e un’oscurità intrinseca, più scura del nero».

Didascalie delle immagini
Le fotografie sono di Attilio Maranzanol 

Informazioni utili 
Anish Kapoor
Gallerie dell’Accademia e Palazzo Manfrin, Venezia 
20 aprile – 10 ottobre 2022   
# Gallerie dell’Accademia  
Campo della Carità, Dorsoduro 1050 - 30123, Venezia  
Vaporetto stop: Accademia - linea 1   
Orari di apertura:  lunedì, 8:15–14, la vendita dei biglietti termina alle ore 13;  da martedì a domenica, 8:15–19:15, la vendita dei biglietti termina alle ore 18:15   
# Palazzo Manfrin  Fondamenta Venier, Cannaregio 342, 30121, Venezia  
Vaporetto stop: San Marcuola o Ferrovia - linea 1; Guglie - linea 4.1, 4.2, 5.1, 5.2   
Orari di apertura:  luned,: 10–14; da martedì a domenica, 10–19:15  
# Biglietti:  intero € 12, ridotto (giovani 18–25 anni) € 2, gratuito per i minori di 18 anni  
# Informazioni: www.gallerieaccademia.it   

martedì 19 aprile 2022

Venezia, Anselm Kiefer dialoga con la storia di Palazzo Ducale

È uno dei luoghi che meglio rappresenta Venezia e la sua storia - grandiosa e millenaria - di Repubblica Serenissima, crocevia di mondi diversi e modello politico basato sulla pacifica convivenza sociale, nonché importante centro di commerci con l’Oriente lungo le vie della seta e delle spezie. Stiamo parlando di Palazzo Ducale, capolavoro dell’arte gotica, nell’area monumentale di piazza San Marco, che è stato, fino al 1797, la residenza dei Dogi e la sede delle magistrature statali, le cui stanze hanno visto all’opera generazioni di artisti tra i quali Giovanni Bellini, Vittore Carpaccio, Tiziano, Veronese, Tintoretto e molti altri.
In occasione della cinquantanovesima edizione della Biennale d’arte, una delle sale più simboliche di questo edificio antico e pieno di storia, quella dello Scrutinio, ovvero la sede designata all’elezione del Doge, apre per la prima volta le proprie porte all’arte contemporanea.
Su invito della Fondazione Musei civici di Venezia, Anselm Kiefer (Donaueschingen, 1945), artista tedesco che nel corso della sua carriera si è confrontato con i temi della storia e della memoria, presenta, per la curatela di Gabriella Belli e Janne Sirén, il progetto site specific «Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce».
Il titolo della mostra, aperta fino al 29 ottobre, è mutuato dalle parole del filosofo veneto Andrea Emo (Battaglia Terme - Padova, 1901-Roma, 1983), pensatore solitario e quasi dimenticato, che ha visto pubblicata la sua prima raccolta, «Il Dio negativo. Scritti teorici 1925-1981», solo nel 1989, postuma, grazie all’interessamento di Massimo Cacciari e della casa editrice Marsilio.
In un gioco di stratificazioni, che sovrappone storia a storia e che ci ricorda che «niente è eterno sotto il sole», le sfolgoranti cromie del «Giudizio Universale» (1594-1595) di Jacopo Negretti detto Palma il Giovane e l’affollata e spettacolare tela «La battaglia di Lepanto» (1595-1605) di Andrea Michieli detto il Vicentino, che in una visione simultanea narra le ore lunghe e terribili dello scontro navale fra le flotte musulmane dell'Impero ottomano e quelle cristiane della Lega Santa durante la guerra di Cipro (7 ottobre 1571), lasciano temporaneamente spazio ai monumentali pannelli terra-cielo del progetto espositivo di Anselm Kiefer con cui si chiudono le celebrazioni per i 1600 anni dalla fondazione della città di Venezia.
Per comprendere appieno la nuova opera dell’artista tedesco vale la pena ricordare che l’attuale decorazione della Sala dello Scrutinio, un tempo chiamata Sala della Libreria perché conservava al suo interno i preziosi manoscritti lasciati da Francesco Petrarca e dal cardinal Bessarione alla Repubblica, è frutto di un restauro degli anni Ottanta e Novanta del Cinquecento, che ha coperto con nuove tele, una sorta di «Libro d’oro» dedicato alla grandezza della Serenissima, quelle bruciate durante un devastante incendio che colpì Palazzo Ducale nel 1577.
Anselm Kiefer nasconde queste tele con il suo lavoro, «accumulo – scrive Gabriella Belli in catalogo - di strati quasi geologici di materia, magma da cui emergono figure che sembrano alludere ad alcuni episodi della vita della Repubblica e non solo: una bara vuota a ricordare San Marco, una scala per evocare quella di Giacobbe». Ci sono, poi, sommergibili e uniformi di soldati, metafora della forza bellica dei veneziani, una lunga fila di carrelli, macchie d’oro e d’argento, segni di combustione. Mentre le barene ghiacciate di piombo fuso hanno a che vedere con le teorie di Wegener sulla deriva dei continenti. Paradossi e metafore si alternano così davanti allo sguardo del visitatore come in una istantanea fotografica, che fa propria la convinzione di Andrea Emo secondo cui – racconta Anselm Kiefer - «la storia è una catena di azioni illogiche, astoriche, avvenimenti che non hanno nulla a che fare con causa ed effetto. Ogni evento è un passo avanti contro la legge della necessità».
Questi dipinti nascono, dunque, dalla negazione, dalla cancellazione di altri cui si sovrappongono, in un certo senso sono l’esito del fuoco che ha bruciato l’intera decorazione della sala nel 1577, ma anch’essi sono destinati a morire quando si allontaneranno da Palazzo Ducale.
Nell’installazione, che occupa anche la Sala della Quarantia Civil Nova, l’artista tedesco riflette, inoltre, sulla posizione unica di Venezia posta tra il Nord e il Sud e sulla sua interazione tra Oriente ed Occidente trovando connessioni altrettanto significative tra queste differenti culture, la storia della città e il testo dell'opera tragica di Goethe, «Faust: Seconda parte» (1832).
La mostra, che si inserisce nel progetto «Muve contemporaneo», è coraggiosa. «Quanti – si interroga Gabriella Belli, che dirige i Musei civici di Venezia - saranno i visitatori che lamenteranno di non aver potuto ammirare il sangue di Lepanto o di Zara, di non aver potuto portare fiori sulla tomba della storia, costretti a guardare in faccia questo tragico tempo presente? Quanti lasceranno con disappunto la sala e quanti si immergeranno invece in queste rovine contemporanee e prenderanno coscienza di come l’arte possa ancora essere un terreno fertile per coltivare domande e quesiti, anche se apre ai nostri occhi verità inaccessibili, anche se ci mostra il buio, la luce e il buio ancora di questo secolo da poco iniziato ma gravido di dolori e di oscuri presagi? I pellegrini dell’arte sopporteranno tutto questo?». Anselm Kiefer, intanto, fa parlare a Palazzo Ducale il linguaggio del contemporaneo. Rende presente e vivo il passato.

Didascalie delle immagini
Anselm Kiefer,  «Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce (Andrea Emo)», 2022, installation view. © Anselm Kiefer. Photo: Georges Poncet. Courtesy Gagosian and Fondazione Musei Civici Venezia

Informazioni utili 
Anselm Kiefer,  «Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce (Andrea Emo)». Palazzo Ducale, Sala dello Scrutinio -Venezia. Orario: tutti i giorni dalle ore 9.00 alle ore 18.00; ultimo ingresso alle ore 17.00. Ingresso: https://muve.vivaticket.it/it/tour/palazzo-ducale/2478. Informazioni: https://palazzoducale.visitmuve.it/it/mostre/mostre-in-corso/anselm-kiefer/2022/02/22299/anselm-kiefer. Fino al 29 ottobre 2022 


#MUVEContemporaneo2022 #AnselmKiefer