È un drappo colorato, morbido e giocoso di Sam Gilliam (Tupelo - Missisipi, 1933), uno degli esponenti più celebri del movimento artistico Color Field, che dagli anni Quaranta utilizza grandi tele coperte interamente da estensioni invariate di colore, escludendo qualsiasi interesse per il valore della forma, del segno o della materia, ad aprire il percorso espositivo della cinquantasettesima Esposizione internazionale d’arte di Venezia.
L’opera, dedicata a Yves Klein, ravviva con le sue pennellate blu il razionale colonnato di ingresso del Padiglione centrale, agghindando a festa una Biennale che fa dell’espressione «Viva arte viva», tre parole cariche di energia positiva e prospettica, il suo mantra.
Si apre così un viaggio tra le opere di centoventi artisti internazionali, provenienti da cinquantuno Paesi e in gran parte al loro debutto sulla scena lagunare, che la curatrice Christine Macel, chief curator del Center Pompidou, ha suddiviso in nove Trans-padiglioni tesi a raccontare la varietà delle pratiche creative e la molteplicità delle posizioni artistiche di fronte alla complessità del mondo.
Padiglione centrale: «l’ozio è il padre»…della creatività
La prima tappa del percorso espositivo, al Padiglione centrale dei Giardini, pone l’accento sui concetti di otium e negotium, ozio e azione, spiegando come l’inoperosità, il vagabondaggio mentale e il tempo libero possano essere sorgenti di creatività. C’è così chi dorme disteso sul letto come Yelena Vorobyeva (Balkanabat, 1959) e Viktor Vorobyev (Pavlodar, 1959) nell’installazione-performance «The Artist is asleep» (1996) o chi fa all’uncinetto come le filippine Katherine Nuñez (Manila, 1992) e And Issay Rodriguez (Manila, 1991) nell’opera «In Beetween The Lines». C’è chi si rilassa su un divano come Frances Starks (Newport Beach, 1967) in «Behold Man!» o chi fa meditazione come Søren Engsted (Ringsted, 1974) nella video-performance «Levitation».
Una fonte di ispirazione per gli artisti è anche la lettura, metaforicamente presente nel Padiglione centrale grazie ai volumi imbevuti di inchiostro e pittura di Geng Jianyi (Zhengzhou – Repubblica Popolare Cinese, 1962), alle enciclopedie bruciate di John Latham (Livingstone, 1921 – Londra, 2006), alle copertine in miniatura di Liu Ye (Pechino, 1964) e, ancora, ai libri venduti come merce di Hassan Sharif (Dubai, 1951) e ai codici criptici contenuti nei «Diaries» dell’arabo Abdullah al Saadi (Khorfakkan, 1967).
All'otium ideativo è affiancato in mostra il negotium come pratica di lavoro con finalità collettive. È il caso del progetto «Green light – An artistic workshop» di Olafur Eliasson (Copenhagen, 1967), piattaforma che invita ad assemblare e fabbricare dei moduli di lampadine utilizzando componenti ideati dall’artista e messi a disposizione dei visitatori, al quale stanno lavorando in questi giorni studenti, migranti e giovani rifugiati. Anche Dawn Kasper (Fairfax, 1977) ha deciso di installare il proprio studio ai Giardini, nella Sala Chini: qui lavora, suona e scrive, mettendosi a nudo e non rifiutandosi mai di rispondere alle domande dei curiosi.
Un viaggio nello spazio intimo degli artisti, nell’universo delle emozioni e delle contraddizioni del quotidiano, lo propone anche il Padiglione delle gioie e delle paure, nel quale domina la grande sala dedicata a Kiki Smith (Norimberga, 1954) con una serie di quadri in vetro dipinto a fuoco e foglie d’argento con protagoniste donne, rappresentate a grandezza naturale, con le loro storie di fragilità. Rachel Rose (New York, 1986) ci restituisce, invece, una visione onirica e fantasiosa con la videoinstallazione «Lake View», realizzata con la tecnica del cel animation e compositing, nella quale è protagonista un animale ibrido, metà coniglio e metà volpe, che si muove in una serie di scene costruite tramite l’assemblaggio di texture estratte da libri per bambini del XIX secolo. Una visione tra realtà e fiction è anche quella che offre Sebastián Díaz Morales (Comodoro Rivadavia, 1975) con il video «Suspension», nel quale una densa nuvola di vapore bianco, dissolvendosi, lascia vedere la figura di un uomo sospeso a mezz’aria, metafora della nostra condizione esistenziale nella postmodernità.
Da Maria Lai a Sheila Hicks: tra le opere dell’Arsenale seguendo il filo di un gomitolo
I Giardini cedono così il testimone all’Arsenale, dove si respira ancora una vena intimista tra padiglioni dedicati al tempo, alle tradizioni, ai colori, al sessualità e al piacere, alle battaglie in difesa dell’ambiente e alle utopie ecologiste, all’arte come strumento terapeutico, veicolo di spiritualità o, ancora, come legame con la propria terra e la propria comunità. Lo documenta bene il lavoro di Maria Lai (Ulassai, 1919-Cardedu, 2013) con i suoi pani delle feste e i suoi fili di telaio, che portano con sé il bagaglio culturale dell’amata Sardegna. Quattro grandi teli bianchi inchiostrati di parole pendono dall’alto aprendo, insieme con i grandi cubi colorati del pakistano Rasheed Araeen (Karachi, 1935) per il progetto «Chaar Yaar. Zero to Infinity», il viaggio nel Padiglione dello spazio comune. Fili e nastri sono la trama e l’ordito dell’omaggio che Christine Macel fa a Maria Lai presentando alcuni dei suoi lavori più noti realizzati tra il 1981 e il 2008, dai «Libri cuciti» alle mappe della serie «Geografie», da «Enciclopedia pane» al video della performance «Legarsi alla montagna», realizzata nel 1981 a partire da una fiaba locale nella quale si racconta la storia di una bambina che salvò la propria comunità dal crollo di una montagna inseguendo un nastro azzurro.
All’arte tessile guarda anche il lavoro di Lee Mingwei (Taichung, 1964), «The Mending Project», con rocchetti di filo appesi alla parete e un grande tavolo da lavoro sul quale l’artista-sarto rattoppa vestiti e articoli tessili, portati dai visitatori, che poi dispone in una pila insieme agli altri già sistemati, con le estremità dei fili ancora attaccati a simboleggiare la rete di rapporti che si viene a creare durante l’arte del rammendo.
Ma fili e nastri, trame e orditi, ago e filo scandiscono l’intero percorso espositivo ideato per l’Arsenale dalla curatrice francese, quarta direttrice donna nella storia della Biennale dopo Rosa Martinez e Maria de Corral nel 2005 e Bice Curiger nel 2011. L’arte tessile è centrale, per esempio, nella ricerca di David Medalla (Manila, 1938), in mostra con l’installazione «Stitch in Time», un progetto itinerante, iniziato nel 1968, basato sul ricamo in gruppo come atto creativo: i visitatori sono invitati a lavorare su un grande tessuto appeso alla parete, contribuendo così alla creazione dell’opera.
Riconoscono nel cucito un mezzo di espressione innovativo anche Franz Erhard Walther (Fulda, 1939), con i suoi tessuti per le installazioni «Wall Formation», e Petrit Halilaj (Kostërrc, 1986), con le sue monumentali sculture di farfalle notturne, realizzate con tessuti tradizionali kosovari.
Seguendo come la mitologica Arianna il filo di un gomitolo si giunge, poi, al diario in tessuto del viaggio di Abdoulaye Konaté (Diré, 1953) in Brasile, ai barretti di lana marocchina applicati su lampade rotonde collocate al suolo dell’installazione «Taqiya-Nor» di Younès Rahmoun (Tétouan, 1975) e alla vivace installazione di Sheila Hicks (Hastings - Nebraska, 1934), erede della teoria dei colori di Josef Albers, che sembra invitare il visitatore al riposo o alla scoperta tattile.
Un intreccio di tessuti in poliammide compone anche la grande tenda a ragnatela del brasiliano Ernesto Neto, all’inizio del Padiglione degli sciamani, che ripropone la forma della cupixawa, un luogo di socializzazione, incontri politici e cerimonie spirituali degli indios Huni Kuin, che vivono nella foresta amazzonica, al confine con il Perù. All’interno di questa struttura, dentro la quale i visitatori si possono sedere, l’artista ha ricreato un ambiente naturale, disponendo a terra, sabbia, libri e vasi di ceramica e circondando il tutto con piante. È, questa, una delle opere più scenografiche di «Viva l’arte viva» insieme con il video di Charles Atlas (Saint Louis, 1949) con un flusso costante di tramonti, le piante nelle scarpe di Michel Blazy (Monaco, 1966), la distesa di musicassette di Maha Malluh (Riad, 1959), le grandi sfere di Mariechen Danz (Dublino, 1980) e Alicja Kwade (Katowice, 1979) all’esterno dell’Arsenale, il cerchio di scope in saggina di Michel Blazy (Monaco, 1966) che, idealmente, chiude, al Giardino delle vergini, il percorso della mostra ufficiale.
Ma la Biennale offre al visitatore la possibilità di confrontarsi con l’arte di tutto il mondo anche attraverso l’offerta espositiva di ottantasei Padiglioni nazionali e di ventitré eventi collaterali, come la mostra dedicata a Michelangelo Pistoletto all’isola di San Giorgio o quella di Shirin Neshat al Museo Correr. Una kermesse, dunque, ricca quella veneziana che permette di scoprire la vivacità della scena artistica contemporanea, «luogo -per usare le parole di Christine Macel- di riflessione e di salvaguardia dell’umanesimo di fronte ai conflitti e ai sussulti del mondo».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Ernesto Neto, Um sagrado lugar, 2017; cotone lavorato a uncinetto, ovatta, voile, tela, juta, nodi di voile, legno, compensato, filtro d’acqua, terra, sabbia, strumenti, vasi di ceramica, piante, fotografia, disegno Huni Kuin, tessuti, canti, libro Una Isi Kayawa, libro in tessuto; dimensioni variabili; 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva; [fig. 2] Due libri cuciti di Maria Lai. Foto: Italo Rondinella; [fig. 3] Katherine Nuñez e Issay Rodriguez, In between the lines 2.0, 2015-2017; lavoro a uncinetto, ricamo, lavoro di cucito; 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva; [Fgi. 4] Lee Mingwei, The mending project, 2009/2017; installazione; 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva; [fig.5] Olafur Eliasson, Green light – An artistic workshop, 2017; 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva; [fig. 6] Sam Gilliam, Yves Klein Blue, 2016; acrilico su nylon, 3 x 18.2 m; 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva; [fig. 7] Mariechen Danz and Alicja Kwade, Clouded in Veins: A Subjective Geography, 2017; 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva
Informazioni utili
«Viva Arte Viva». 57. Esposizione internazionale d'Arte. Giardini e Arsenale - Venezia.Orari: 10.00-18.00; chiuso il lunedì, escluso lunedì 15 maggio, lunedì 14 agosto, lunedì 4 settembre, lunedì 30 ottobre e e lunedì 20 novembre 2017; ore 10.00-20.00 all’Arsenale tutti i venerdì e i sabato fino al 30 settembre 2017. Ingresso: intero € 25,00, ridotto € 22,00 o € 20,00, studenti/under 26 € 15,00, family formula € 42,00 (2 adulti + 2 under 14), altre agevolazioni sono consultabili sul sito ufficiale dell’evento. Catalogo ufficiale, catalogo breve e guida: Marsilio editore, Mestre. Informazioni: tel. 041.5218828. Sito internet: www.labiennale.org. Dal 13 maggio al 26 novembre 2017.
ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
mercoledì 10 maggio 2017
martedì 9 maggio 2017
Ettore Sottsass e il vetro, una lunga storia d’amore in mostra a Venezia
«Il vetro è un materiale pazzesco, molto misterioso trasparente, fragile […], come la ceramica del resto, ha una qualità strana: entra nel fuoco e non si sa cosa va dentro. Poi di colpo esce un oggetto puro perché bruciato dal fuoco, un oggetto di una purezza totale, di una intangibilità fisica totale. Come una visione. Si è veramente coinvolti in questo processo del vetro. Il vetro è uno spettacolo». Così Ettore Sottsass junior (1917-2007) nel 2007, in occasione di una delle ultime uscite pubbliche, parlava del suo amore per la produzione vetraria e dell’aspetto magico che si cela dietro questo. A questa attività dell’architetto nativo di Innsbruck, a cui si deve anche l’invenzione della prima macchina da scrivere portatile di Olivetti, la «Valentine», è dedicata la mostra allestita fino al prossimo 3 luglio sull’isola di San Giorgio a Venezia per iniziative de «Le stanze del vetro».
L’esposizione, curata da Massimo Barbero, direttore dell’Istituto di Storia dell’arte della Fondazione Giorgio Cini, presenta oltre duecento pezzi, in gran parte provenienti dalla collezione di Ernest Mourmans e molti dei quali mai esposti al pubblico, secondo un allestimento innovativo disegnato da Annabelle Selldorf. Si tratta di una novità assoluta: È, infatti, la prima volta che viene realizzata una mostra interamente dedicata alla produzione di Ettore Sottsass junior nel campo dei vetri e dei cristalli e per l’occasione è stato pubblicato da Skira anche il primo compendio delle le sue opere in vetro, con saggi dello stesso Luca Massimo Barbero, di Cristina Beltrami, Françoise Guichon e Marino Barovier, con vastissimo apparato iconografico che include anche molti disegni e un regesto che darà conto di cinquant’anni di produzione vetraria.
Pittore per inclinazione ma consigliato agli studi d’architettura dal padre, l’artista si trasferisce a Milano nel 1946, dopo aver completato il suo percorso formativo al Politecnico di Torino, e qui inizia a collaborare con la Triennale, occupandosi degli allestimenti della sezione dell’artigianato. È in quest’occasione che ha le sue prime esperienze con il vetro, materiale che dal 1947 -anno in cui realizza il suo primo oggetto- continua a utilizzare per tutta la sua vita artistica.
Sebbene in contatto con Murano almeno dagli anni Quaranta, Sottsass si misura veramente con le molteplici soluzioni offerte dal vetro solo a partire dagli anni Settanta, con la prima serie realizzata per la vetreria Vistosi. In seguito, dopo la fondazione del gruppo Memphis (1981), disegna vere e proprie sculture affidate ai maestri della vetreria Toso vetri d’arte: oggetti di vetro con un proprio carattere, che esaltano il colore e la trasparenza del materiale, non più solo dei contenitori. È nell’ambito di questa collaborazione che introduce l’impiego della colla chimica, sfidando la secolare tradizione del vetro muranese e introducendovi dei disincanti. L’artista lavorerà poi anche per la Venini, sia disegnando splendide lampade che oggetti distanti da finalità d’uso, senza mai perdere di vista le sofisticate combinazioni cromatiche create dalle sovrapposizioni dei piani in vetro.
Dalla fine degli anni Ottanta, Ettore Sottsass Junior sperimenta anche tecniche differenti da quelle muranesi con aziende a vocazione industriale come Alessi, Baccarat, Egizia, Fontana Arte, Serafino Zani e Swarovski che lo portano a confrontarsi sia con la precisione del taglio, sia con la secolare tradizione del cristallo.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Ettore Sottsass, Kachina 05, 2009-11. Cirva. © Ph Jean Bernard; [fig. 2] Ettore Sottsass, Allodola, 2003. Vetreria Etrusca. © Ph Riccardo Bianchi; [fig. 3] Ettore Sottsass, Upupa, 2003. Vetreria Etrusca. © Ph Riccardo Bianchi
Informazioni utili
Ettore Sottsass: il vetro. Le stanze del vetro - Fondazione Giorgio Cini, Isola di San Giorgio Maggiore – Venezia. Orari: tutti i giorni, ore 10.00– 19.00, chiuso il mercoledì. Ingresso libero. Catalogo: Skira, Milano. Informazioni: info@lestanzedelvetro.org o info@cini.it. Sito internet: www.lestanzedelvetro.org o www.cini.it. Fino al 30 luglio 2017.
L’esposizione, curata da Massimo Barbero, direttore dell’Istituto di Storia dell’arte della Fondazione Giorgio Cini, presenta oltre duecento pezzi, in gran parte provenienti dalla collezione di Ernest Mourmans e molti dei quali mai esposti al pubblico, secondo un allestimento innovativo disegnato da Annabelle Selldorf. Si tratta di una novità assoluta: È, infatti, la prima volta che viene realizzata una mostra interamente dedicata alla produzione di Ettore Sottsass junior nel campo dei vetri e dei cristalli e per l’occasione è stato pubblicato da Skira anche il primo compendio delle le sue opere in vetro, con saggi dello stesso Luca Massimo Barbero, di Cristina Beltrami, Françoise Guichon e Marino Barovier, con vastissimo apparato iconografico che include anche molti disegni e un regesto che darà conto di cinquant’anni di produzione vetraria.
Pittore per inclinazione ma consigliato agli studi d’architettura dal padre, l’artista si trasferisce a Milano nel 1946, dopo aver completato il suo percorso formativo al Politecnico di Torino, e qui inizia a collaborare con la Triennale, occupandosi degli allestimenti della sezione dell’artigianato. È in quest’occasione che ha le sue prime esperienze con il vetro, materiale che dal 1947 -anno in cui realizza il suo primo oggetto- continua a utilizzare per tutta la sua vita artistica.
Sebbene in contatto con Murano almeno dagli anni Quaranta, Sottsass si misura veramente con le molteplici soluzioni offerte dal vetro solo a partire dagli anni Settanta, con la prima serie realizzata per la vetreria Vistosi. In seguito, dopo la fondazione del gruppo Memphis (1981), disegna vere e proprie sculture affidate ai maestri della vetreria Toso vetri d’arte: oggetti di vetro con un proprio carattere, che esaltano il colore e la trasparenza del materiale, non più solo dei contenitori. È nell’ambito di questa collaborazione che introduce l’impiego della colla chimica, sfidando la secolare tradizione del vetro muranese e introducendovi dei disincanti. L’artista lavorerà poi anche per la Venini, sia disegnando splendide lampade che oggetti distanti da finalità d’uso, senza mai perdere di vista le sofisticate combinazioni cromatiche create dalle sovrapposizioni dei piani in vetro.
Dalla fine degli anni Ottanta, Ettore Sottsass Junior sperimenta anche tecniche differenti da quelle muranesi con aziende a vocazione industriale come Alessi, Baccarat, Egizia, Fontana Arte, Serafino Zani e Swarovski che lo portano a confrontarsi sia con la precisione del taglio, sia con la secolare tradizione del cristallo.
La mostra darà conto anche della collaborazione col Cirva di Marsiglia, centro di sperimentazione del vetro, dove dal 2004 Sottsass realizza la serie delle «Kachinas», ispirata alle omonime bambole votive indiane.
A esemplificare la forza, la curiosità e l’originalità creativa dell’artista nei confronti del vetro, c’è, infine, anche una sala interamente dedicata a un ciclo di sculture inedite, realizzate nel 1999 su richiesta dello sceicco del Qatar, Saud Al Thani, per la sua Millenium House. Si tratta di ventuno sculture in vetro, di diverse dimensioni, talune oltre il metro, realizzate presso la Cenedese di Murano e che vengono qui presentate al pubblico per la prima volta.
L’intera mostra permette così di riflettere sull’attualità del vetro. A tal proposito Luca Massimo Barbero, curatore della mostra, afferma: «I vetri di Sottsass sono organismi complessi, disegnati come se fossero dei personaggi. L’architetto-artista spezza i confini tecnici degli oggetti con l’intrusione di materiali come vetro, plastica, Corian, vivificandoli. Sono delle presenze composte da più elementi che ruotano comunque attorno al vetro, elemento puro e misterioso, che nasce da un’alchimia di elementi naturali trasformati dal fuoco».Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Ettore Sottsass, Kachina 05, 2009-11. Cirva. © Ph Jean Bernard; [fig. 2] Ettore Sottsass, Allodola, 2003. Vetreria Etrusca. © Ph Riccardo Bianchi; [fig. 3] Ettore Sottsass, Upupa, 2003. Vetreria Etrusca. © Ph Riccardo Bianchi
Informazioni utili
Ettore Sottsass: il vetro. Le stanze del vetro - Fondazione Giorgio Cini, Isola di San Giorgio Maggiore – Venezia. Orari: tutti i giorni, ore 10.00– 19.00, chiuso il mercoledì. Ingresso libero. Catalogo: Skira, Milano. Informazioni: info@lestanzedelvetro.org o info@cini.it. Sito internet: www.lestanzedelvetro.org o www.cini.it. Fino al 30 luglio 2017.
lunedì 8 maggio 2017
Venezia, Vik Muniz e i maestri della Fondazione Cini
Ha da poco riaperto i battenti a Venezia la Galleria di Palazzo Cini a San Vio. A inaugurare la nuova stagione espositiva è, negli spazi del secondo piano, la mostra «Vik Muniz Afterglow: Pictures of Ruins», a cura di Luca Massimo Barbero, direttore dell’Istituto di Storia dell’arte della Fondazione Giorgio Cini.
L’esposizione, aperta fino al 24 luglio, raccoglie una serie di fotografie inedite dell’artista brasiliano ispirate ai grandi maestri della tradizione italiana esposti nella galleria veneziana, da Francesco Guardi a Dosso Dossi e Canaletto.
Il progetto è nato nel 2016 in seguito alla visione della mostra «Capolavori ritrovati della collezione di Vittorio Cini» e a una serie di conversazioni con Luca Massimo Barbero.
Muniz, affascinato dal capriccio italiano e dalla tradizione veneziana, presenta al pubblico sia fotografie inedite tratte dalla recente serie «Repro», sia lavori realizzati ex novo in una scala cromatica straordinariamente vivida, attingendo ai dipinti della collezione di Vittorio Cini e ponendosi così in un dialogo ideale con le opere esposte in galleria.
La tradizione del capriccio architettonico, che unisce edifici reali e immaginari, rovine archeologiche e una varietà di altri elementi architettonici combinati in modo creativo e fantasioso, divenne un vero e proprio fenomeno nella pittura italiana del XVII e XVIII secolo che fu molto apprezzato, condiviso e stimato. Muniz rivisita questo tema in chiave contemporanea, simulando le pennellate di questi quadri con ritagli di dipinti riprodotti in volumi di storia dell’arte attentamente selezionati non solo per i loro valori cromatici ma anche per le immagini che contengono, che incollati insieme richiamano una superficie tattile, a impasto. Proseguendo la tradizione degli artisti del XVII e XVIII secolo, Muniz ricombina in modo creativo questi elementi ricostruendo nuove immagini che, attraverso un gioco di rimandi e citazioni, incuriosiscono lo spettatore.
In mostra è esposta anche un’originale scultura in vetro, in omaggio alla città lagunare, che riproduce in grandi dimensioni un bicchiere della tradizione veneziana del Settecento. L’opera è stata realizzata a Murano nel 1989 (Berengo Studio) ed è frutto di diverse tecniche di lavorazione del vetro; il colore prevalente è rosso rubino, ed è stata utilizzata anche la foglia d’oro.
La mostra di Vik Muniz inaugura la stagione 2017 della Galleria di Palazzo Cini a San Vio, «luogo straordinario, nascosto in evidenza» – come ama affermare Luca Massimo Barbero. Riaperto nel 2014 e situato tra le Gallerie dell'Accademia, la Collezione Peggy Guggenheim e Punta della Dogana, il museo conserva al suo interno capolavori di Giotto, Guariento, Botticelli, Filippo Lippi, Piero di Cosimo e Dosso Dossi, ai quali verrà dedicato quest’anno un catalogo la cui presentazione è in agenda per il prossimo 29 maggio.
Informazioni utili
«Vik Muniz Afterglow: Pictures of Ruins». Palazzo Cini, San Vio, Dorsoduro 864 – Venezia. Orari: ore 11.00-19.00; chiuso il martedì – ultimo ingresso alle ore 18.15. Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8,00. Informazioni: palazzocini@cini.it. Sito Web: www.palazzocini.it. Fino al 24 luglio 2017.
L’esposizione, aperta fino al 24 luglio, raccoglie una serie di fotografie inedite dell’artista brasiliano ispirate ai grandi maestri della tradizione italiana esposti nella galleria veneziana, da Francesco Guardi a Dosso Dossi e Canaletto.
Il progetto è nato nel 2016 in seguito alla visione della mostra «Capolavori ritrovati della collezione di Vittorio Cini» e a una serie di conversazioni con Luca Massimo Barbero.
Muniz, affascinato dal capriccio italiano e dalla tradizione veneziana, presenta al pubblico sia fotografie inedite tratte dalla recente serie «Repro», sia lavori realizzati ex novo in una scala cromatica straordinariamente vivida, attingendo ai dipinti della collezione di Vittorio Cini e ponendosi così in un dialogo ideale con le opere esposte in galleria.
La tradizione del capriccio architettonico, che unisce edifici reali e immaginari, rovine archeologiche e una varietà di altri elementi architettonici combinati in modo creativo e fantasioso, divenne un vero e proprio fenomeno nella pittura italiana del XVII e XVIII secolo che fu molto apprezzato, condiviso e stimato. Muniz rivisita questo tema in chiave contemporanea, simulando le pennellate di questi quadri con ritagli di dipinti riprodotti in volumi di storia dell’arte attentamente selezionati non solo per i loro valori cromatici ma anche per le immagini che contengono, che incollati insieme richiamano una superficie tattile, a impasto. Proseguendo la tradizione degli artisti del XVII e XVIII secolo, Muniz ricombina in modo creativo questi elementi ricostruendo nuove immagini che, attraverso un gioco di rimandi e citazioni, incuriosiscono lo spettatore.
In mostra è esposta anche un’originale scultura in vetro, in omaggio alla città lagunare, che riproduce in grandi dimensioni un bicchiere della tradizione veneziana del Settecento. L’opera è stata realizzata a Murano nel 1989 (Berengo Studio) ed è frutto di diverse tecniche di lavorazione del vetro; il colore prevalente è rosso rubino, ed è stata utilizzata anche la foglia d’oro.
La mostra di Vik Muniz inaugura la stagione 2017 della Galleria di Palazzo Cini a San Vio, «luogo straordinario, nascosto in evidenza» – come ama affermare Luca Massimo Barbero. Riaperto nel 2014 e situato tra le Gallerie dell'Accademia, la Collezione Peggy Guggenheim e Punta della Dogana, il museo conserva al suo interno capolavori di Giotto, Guariento, Botticelli, Filippo Lippi, Piero di Cosimo e Dosso Dossi, ai quali verrà dedicato quest’anno un catalogo la cui presentazione è in agenda per il prossimo 29 maggio.
Informazioni utili
«Vik Muniz Afterglow: Pictures of Ruins». Palazzo Cini, San Vio, Dorsoduro 864 – Venezia. Orari: ore 11.00-19.00; chiuso il martedì – ultimo ingresso alle ore 18.15. Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8,00. Informazioni: palazzocini@cini.it. Sito Web: www.palazzocini.it. Fino al 24 luglio 2017.
domenica 7 maggio 2017
Le sculture di Marialuisa Tadei in mostra a Venezia
Acciaio, alluminio, bronzo, vetroresina, alabastro, onice e vetro soffiato: sono svariati i materiali con cui si è confrontata nel corso della sua carriera Marialuisa Tadei (Rimini, 1964), artista riminese che, dopo aver frequentato il corso di pittura all’Accademia di Belle arti di Bologna, ha completato i propri studi a Düsseldorf sotto la guida di Jannis Kounellis e al Goldsmiths’ College di Londra.
Le opere scultoree della Taddei, oltre a un nucleo di lavori fotografici e di acquarelli su carta, saranno al centro di un’esposizione, a cura di Alan Jones, organizzata dalla galleria «Il giardino bianco – Art Space» di Venezia, in concomitanza con la cinquantasettesima edizione della Biennale.
Osservando i lavori dell’artista, la cui ricerca è rivolta allo spazio e al dialogo che crea con essa, risalta la prerogativa di invertire la specificità del materiale impiegato, il ferro diviene leggero, il vetro soffiato assume densità e viene di conseguenza annullata quella contrapposizione tra leggero e pesante, chiuso e aperto, opaco e trasparente.
Un altro aspetto importante sono le forme, che nella maggior parte dei casi presentano la caratteristica della sinuosità; i ritmi armonici e ben bilanciati, sono espressi da linee curve, sia che si tratti di opere in alabastro come «Abbraccio» (2016) che si contraddistingue per la grazia superlativa, o di lavori in acciaio, come «Sospiro» (2017) che racchiude nella forma di una goccia un’infinita delicatezza.
L’elemento impattante è il colore, la scelta di toni molto accesi e vivaci crea un richiamo magnetico ulteriormente evidenziato da elementi che si intrecciano, che si sfiorano e che si accostano l’uno all’altro. L’esito è il medesimo seppure si tratti di un incontro tra individui provenienti da luoghi e culture diverse metaforicamente rappresentato nella scultura in acciaio inossidabile e vetro «Incontro» (2015), di petali variopinti che esplodono dal pistillo come si osserva nella fusione in bronzo «Fiore» (2016), di volumi complementari che si intersecano alla perfezione e che originano «Vita» (2017) o infine di corpi dinamici che si uniscono in un profondo abbraccio, «Insieme» (2017). L’artista si sofferma inoltre sulla luce e sugli effetti generati, dalla trasparenza, all’assorbimento, al riflesso; l’elemento luminoso crea con i materiali un profondo legame e contribuisce a dare nuovi significati alle opere.
Marialuisa Tadei trova nella natura, nella scienza e nella biologia le principali fonti d’ispirazione e le reinterpreta attraverso forme astratte, allegoriche e ricche di simboli; molto attenta alla realtà tangibile le sue opere divengono il trait d’union con la realtà spirituale e proprio attraverso la sua arte aspira infatti ad avvicinare gli uomini alla dimensione dell’assoluto e dell’infinito. «Infinitamente» (2017), realizzata ad hoc per la mostra, simboleggia proprio questo concetto.
Il rimando all’elemento naturale e alla scienza è sempre presente anche negli acquerelli e nelle opere fotografiche; queste ultime nascono dalla pittura per poi evolvere in lavori di grande formato su fondo nero, come si osserva in «Lampo» (2010) e «Farfalla» (2011).
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Marialuisa Tadei, «Fiore», 2016. Fusione in bronzo, cm 78x35x23. © Marialuisa Tadei, [fig. 2] Marialuisa Tadei, «Cigno», 2016. Alabastro, cm 52x78x35. © Marialuisa Tadei; [fig. 3] Marialuisa Tadei, «Infinitamente», 2017. Vetroresina, cm 230x208x102. © Marialuisa Tadei
Informazioni utili
Marialuisa Tadei. Endlessly. Il Giardino Bianco - Art Space, Castello 1814 - via Garibaldi – Venezia. Orari da martedì a domenica, ore 10.00-18.00; lunedì chiuso. Ingresso libero. Informazioni: info@ilgiardinobianco.it. Sito internet: www.marialuisatadei.it. Dal 10 maggio al 5 novembre 2017. Chiusura prorogata al 28 novembre 2017.
Le opere scultoree della Taddei, oltre a un nucleo di lavori fotografici e di acquarelli su carta, saranno al centro di un’esposizione, a cura di Alan Jones, organizzata dalla galleria «Il giardino bianco – Art Space» di Venezia, in concomitanza con la cinquantasettesima edizione della Biennale.
Osservando i lavori dell’artista, la cui ricerca è rivolta allo spazio e al dialogo che crea con essa, risalta la prerogativa di invertire la specificità del materiale impiegato, il ferro diviene leggero, il vetro soffiato assume densità e viene di conseguenza annullata quella contrapposizione tra leggero e pesante, chiuso e aperto, opaco e trasparente.
Un altro aspetto importante sono le forme, che nella maggior parte dei casi presentano la caratteristica della sinuosità; i ritmi armonici e ben bilanciati, sono espressi da linee curve, sia che si tratti di opere in alabastro come «Abbraccio» (2016) che si contraddistingue per la grazia superlativa, o di lavori in acciaio, come «Sospiro» (2017) che racchiude nella forma di una goccia un’infinita delicatezza.
L’elemento impattante è il colore, la scelta di toni molto accesi e vivaci crea un richiamo magnetico ulteriormente evidenziato da elementi che si intrecciano, che si sfiorano e che si accostano l’uno all’altro. L’esito è il medesimo seppure si tratti di un incontro tra individui provenienti da luoghi e culture diverse metaforicamente rappresentato nella scultura in acciaio inossidabile e vetro «Incontro» (2015), di petali variopinti che esplodono dal pistillo come si osserva nella fusione in bronzo «Fiore» (2016), di volumi complementari che si intersecano alla perfezione e che originano «Vita» (2017) o infine di corpi dinamici che si uniscono in un profondo abbraccio, «Insieme» (2017). L’artista si sofferma inoltre sulla luce e sugli effetti generati, dalla trasparenza, all’assorbimento, al riflesso; l’elemento luminoso crea con i materiali un profondo legame e contribuisce a dare nuovi significati alle opere.
Marialuisa Tadei trova nella natura, nella scienza e nella biologia le principali fonti d’ispirazione e le reinterpreta attraverso forme astratte, allegoriche e ricche di simboli; molto attenta alla realtà tangibile le sue opere divengono il trait d’union con la realtà spirituale e proprio attraverso la sua arte aspira infatti ad avvicinare gli uomini alla dimensione dell’assoluto e dell’infinito. «Infinitamente» (2017), realizzata ad hoc per la mostra, simboleggia proprio questo concetto.
Il rimando all’elemento naturale e alla scienza è sempre presente anche negli acquerelli e nelle opere fotografiche; queste ultime nascono dalla pittura per poi evolvere in lavori di grande formato su fondo nero, come si osserva in «Lampo» (2010) e «Farfalla» (2011).
L’artista sostiene che l’arte permette di compiere un percorso spirituale, che coinvolge lo spettatore e lo conduce in un’esperienza sensoriale volta alla scoperta del mondo emotivo, capace di portare l’anima ad elevarsi da uno spazio materiale a quello metafisico, ed afferma: «Con la mia arte cerco di rivelare l’invisibile, il mistero, di far diventare visibile l’invisibile, cioè la dimensione spirituale».
Le sue opere sono un invito a cogliere gli aspetti positivi della vita e trasmettono messaggi di speranza e fiducia nel presente e nel futuro.Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Marialuisa Tadei, «Fiore», 2016. Fusione in bronzo, cm 78x35x23. © Marialuisa Tadei, [fig. 2] Marialuisa Tadei, «Cigno», 2016. Alabastro, cm 52x78x35. © Marialuisa Tadei; [fig. 3] Marialuisa Tadei, «Infinitamente», 2017. Vetroresina, cm 230x208x102. © Marialuisa Tadei
Informazioni utili
Marialuisa Tadei. Endlessly. Il Giardino Bianco - Art Space, Castello 1814 - via Garibaldi – Venezia. Orari da martedì a domenica, ore 10.00-18.00; lunedì chiuso. Ingresso libero. Informazioni: info@ilgiardinobianco.it. Sito internet: www.marialuisatadei.it. Dal 10 maggio al 5 novembre 2017. Chiusura prorogata al 28 novembre 2017.
venerdì 5 maggio 2017
A Milano un cine-concerto dedicato a Harry Potter
Il cinema incontra la musica dal vivo. Dopo lo straordinario successo di critica e pubblico ottenuto lo scorso dicembre all’Auditorium Conciliazione di Roma con quattro date sold out e oltre settemila spettatori, l’Orchestra italiana del cinema approda a Milano con il suo cine-concerto «Harry Potter e la pietra filosofale». Scenario dell’appuntamento, in cartellone nelle giornate dal 12 al 14 maggio, sarà il teatro degli Arcimboldi di Milano. Il tour italiano si sposterà, quindi, nelle serate del 2 e del 3 giugno a Napoli, negli spazi dell’Etes Arena Flegrea.
L’evento, presentato da Marco Patrignani e patrocinato dal Consolato generale britannico, vedrà la partecipazione di oltre ottanta musicisti che suoneranno dal vivo -in sincronia con le immagini, i dialoghi e gli effetti speciali- ogni nota del primo film tratto dalla celebre saga fantasy sul ‘maghetto’ nato dalla fantasia di J.K. Rowling. Mentre l'orchestra eseguirà la colonna sonora firmata da John Williams, il pubblico potrà, dunque, rivivere la magia del film in alta definizione tramite uno schermo di ben quattordici metri.
A dirigere la formazione sarà a Milano il maestro Christian Schumann e a Napoli Justin Freer, presidente dellaCine-Concerts , la società ideatrice di questa tipologia di eventi nei quali la musica dal vivo si unisce alla visione cinematografica.
Il film-concerto in programma a Milano e a Napoli guarda alla prima opera della serie di Harry Potter, realizzata nel 2001 e nominata per sette Bafta e tre premi Oscar, tra cui quello per la miglior colonna sonora originale al 74° Academy Awards, uno dei più grandi successi cinematografici degli ultimi quindici anni.
«Siamo orgogliosi di portare per la prima volta in Italia una nuova ed emozionante forma di spettacolo cine-musicale dal vivo. Il ruolo della musica nel film –spiega Marco Patrignani- è cruciale e questa è un’occasione più unica che rara per scoprire come il talent di un grande compositore qual è John Williams abbia contribuito a dare vita a una storia. È anche sorprendente poter ammirare i singoli musicisti creare un suono straordinario unico e scoprire i colori e le suggestioni che ogni strumento è in grado di creare in relazione a ogni momento del film».
L’Orchestra italiana del cinema è il primo ensemble sinfonico italiano ad essersi dedicato esclusivamente all’interpretazione di colonne sonore. È nata nell’ambito del Forum Music Village, lo storico studio di registrazione fondato alla fine degli anni Sessanta da quattro pietre miliari della musica da film: Ennio Morricone, Piero Piccioni, Armando Trovajoli e Luis Bacalov. Suo obiettivo è quello di promuovere in tutto il mondo la straordinaria eredità musicale delle colonne sonore di film sia italiani che internazionali.
Impegnata su un vasto programma di colonne sonore, l’orchestra presta una particolare attenzione al repertorio storico italiano, e grazie alla collaborazione di esperti del settore ha recuperato partiture di capolavori non pubblicati o mai registrati, con il sostegno di numerose associazioni, fondazioni e archivi pubblici e privati.
Tra i lavori presentati, il concerto multimediale «Il suono del Neorealismo» (Roma, 2010), «Cinematology» (Beijing International Film Festival, 2011), «The Artist» (Ravello Festival, 2012), «Beyond La Dolce Vita» (Ucla, Los Angeles, 2013) e «La febbre dell’oro» di Charlie Chaplin (Auditorium Parco della Musica, Roma, 2015). I biglietti per la tappa milanese sono già in vendita sul sito Ticketone.it o alle casse del teatro degli Arcimboldi.
Informazioni utili
Harry Potter e la pietra filosofale - cine-concerto. Teatro degli Arcimboldi, viale dell’Innovazione, 20 – Milano. Quando: venerdì 12 maggio, ore 20.30; sabato 13 maggio, ore 15.30 e ore 20.30; domenica 14 maggio, ore 15.30. Ingresso: da € 35,00 a € 90,00 + diritto di prevendita. Biglietteria: www.ticketone.it o Teatro degli Arcimboldi, Tel. 02.641142212. Informazioni: Orchestra italiana del cinema, piazza Euclide, 34 - Roma, tel. + 39.068084259o info@orchestraitalianadelcinema. Sito internet: www.orchestraitalianadelcinema.it o www.harrypotterinconcert.com. Dal 12 al 14 maggio 2017
L’evento, presentato da Marco Patrignani e patrocinato dal Consolato generale britannico, vedrà la partecipazione di oltre ottanta musicisti che suoneranno dal vivo -in sincronia con le immagini, i dialoghi e gli effetti speciali- ogni nota del primo film tratto dalla celebre saga fantasy sul ‘maghetto’ nato dalla fantasia di J.K. Rowling. Mentre l'orchestra eseguirà la colonna sonora firmata da John Williams, il pubblico potrà, dunque, rivivere la magia del film in alta definizione tramite uno schermo di ben quattordici metri.
A dirigere la formazione sarà a Milano il maestro Christian Schumann e a Napoli Justin Freer, presidente della
Il film-concerto in programma a Milano e a Napoli guarda alla prima opera della serie di Harry Potter, realizzata nel 2001 e nominata per sette Bafta e tre premi Oscar, tra cui quello per la miglior colonna sonora originale al 74° Academy Awards, uno dei più grandi successi cinematografici degli ultimi quindici anni.
«Siamo orgogliosi di portare per la prima volta in Italia una nuova ed emozionante forma di spettacolo cine-musicale dal vivo. Il ruolo della musica nel film –spiega Marco Patrignani- è cruciale e questa è un’occasione più unica che rara per scoprire come il talent di un grande compositore qual è John Williams abbia contribuito a dare vita a una storia. È anche sorprendente poter ammirare i singoli musicisti creare un suono straordinario unico e scoprire i colori e le suggestioni che ogni strumento è in grado di creare in relazione a ogni momento del film».
L’Orchestra italiana del cinema è il primo ensemble sinfonico italiano ad essersi dedicato esclusivamente all’interpretazione di colonne sonore. È nata nell’ambito del Forum Music Village, lo storico studio di registrazione fondato alla fine degli anni Sessanta da quattro pietre miliari della musica da film: Ennio Morricone, Piero Piccioni, Armando Trovajoli e Luis Bacalov. Suo obiettivo è quello di promuovere in tutto il mondo la straordinaria eredità musicale delle colonne sonore di film sia italiani che internazionali.
Impegnata su un vasto programma di colonne sonore, l’orchestra presta una particolare attenzione al repertorio storico italiano, e grazie alla collaborazione di esperti del settore ha recuperato partiture di capolavori non pubblicati o mai registrati, con il sostegno di numerose associazioni, fondazioni e archivi pubblici e privati.
Tra i lavori presentati, il concerto multimediale «Il suono del Neorealismo» (Roma, 2010), «Cinematology» (Beijing International Film Festival, 2011), «The Artist» (Ravello Festival, 2012), «Beyond La Dolce Vita» (Ucla, Los Angeles, 2013) e «La febbre dell’oro» di Charlie Chaplin (Auditorium Parco della Musica, Roma, 2015). I biglietti per la tappa milanese sono già in vendita sul sito Ticketone.it o alle casse del teatro degli Arcimboldi.
Informazioni utili
Harry Potter e la pietra filosofale - cine-concerto. Teatro degli Arcimboldi, viale dell’Innovazione, 20 – Milano. Quando: venerdì 12 maggio, ore 20.30; sabato 13 maggio, ore 15.30 e ore 20.30; domenica 14 maggio, ore 15.30. Ingresso: da € 35,00 a € 90,00 + diritto di prevendita. Biglietteria: www.ticketone.it o Teatro degli Arcimboldi, Tel. 02.641142212. Informazioni: Orchestra italiana del cinema, piazza Euclide, 34 - Roma, tel. + 39.068084259o info@orchestraitalianadelcinema. Sito internet: www.orchestraitalianadelcinema.it o www.harrypotterinconcert.com. Dal 12 al 14 maggio 2017
giovedì 4 maggio 2017
Busto Arsizio, la vita di Gioachino Rossini diventa una favola musicale
Dall’ouverture dell’opera «Il signor Bruschino» alle note finali del «Guglielmo Tell», passando per il «Duetto buffo dei gatti», «La danza» e il suo ritmo da tarantella napoletana, la sinfonia iniziale de «La gazza ladra» e le arie più famose dei melodrammi «Il barbiere di Siviglia» e «La Cenerentola, ossia la bontà in trionfo». È un viaggio tra le note e la vita di uno dei compositori italiani più famosi dell’Ottocento quello che propone la favola musicale «C’era una volta…Gioachino Rossini», in agenda lunedì 8 maggio, alle ore 20.45, al cinema teatro Manzoni di Busto Arsizio.
«Attori in erba», venticinque bambini sul palco
L'appuntamento, realizzato anche grazie alla preziosa collaborazione dei volontari della sala di via Calatafimi, vedrà salire sul palco venticinque bambini di età compresa tra i sei e i tredici anni iscritti al corso «Attori in erba», un laboratorio di animazione e di educazione alla teatralità e allo spettacolo per studenti delle scuole primarie e secondarie di primo grado, promosso dall'associazione «Culturando» nell’ambito della scuola multidisciplinare di teatro «Il cantiere delle arti».
Firma la regia Gerry Franceschini, che si è avvalso dell’aiuto per il montaggio delle varie scene di Davide De Mercato e Stefano Montani, entrambi sul palco all’inizio e alla fine dello spettacolo nei panni di monsieur Stendhal e di uno scrittore contemporaneo. Le coreografie sono state curate da Elisa Vai e Serena Biagi; luci e fonica vedranno all'opera Maurizio «Billo» Aspes.
Il testo della favola, elaborato da Annamaria Sigalotti, è stato redatto a partire degli esercizi di scrittura creativa e dalle improvvisazioni teatrali tenutesi durante l’anno su vari libri scritti per avvicinare i più piccoli all’opera lirica e all’universo creativo del maestro di Pesaro: «Piano pianissimo, forte fortissimo» (Rueballu, Palermo 2015) di Lina M. Ugolini, «A cena con Giachino Rossini» (Babetta's World, Baltimora 2012) di Monica E. Lapenta e Stefania Pravato, «Figaro qua, Figaro là» (Vallardi, Milano 2014) di Fiorella Colombo e Laura Di Biase, «Rossini - Ascoltando ‘Il barbiere di Siviglia’, ‘La Cenerentola’ e ‘Guglielmo Tell’» (Sillabe, Livorno 2015) di Isabella Vasilotta, «Omaggio a Rossini» di Lele Luzzati e Giulio Gianini (Gallucci, Roma 2009), oltre ai volumi rossiniani redatti da Cecilia Gobbi per la collana «Magia dell’Opera - Alla scoperta del melodramma» delle Edizioni Curci di Milano e ai percorsi di sensibilizzazione e avvicinamento ai capolavori «La Cenerentola» e «Il barbiere, di Siviglia» curati da Fiorella Colombo e Laura Di Biase per la serie «Recitar cantando» della casa editrice Erga di Genova.
Lo spettacolo con gli «Attori in erba», inserito nelle attività della scuola multidisciplinare di teatro «Il cantiere delle arti» di «Culturando», chiude il progetto «Tutti all’opera con…Gioachino Rossini e Lele Luzzati», un corso di recitazione, danza, musica, scrittura creativa e arte per bambini dai 6 ai 13 anni ideato con l’intento di avvicinare i più piccoli al mondo della scena attraverso la figura del compositore pesarese e le musiche di alcune delle sue opere più note, rivisitate anche attraverso le illustrazioni di Lele Luzzati e di altri artisti contemporanei. Trentacinque i moduli di due ore e trenta ciascuno, tenutisi dal 7 ottobre 2016 all’8 maggio 2017, che hanno visto la presenza complessiva di trentasette bambini. Parte del materiale realizzato durante il corso viene pubblicato in questi giorni sulla pagina Facebook di «Culturando» (www.facebook.com/associazioneculturando) permettendo di approfondire la figura del compositore pesarese e delle sue opere liriche, ma anche di seguire, passo passo, le fasi conclusive dell’allestimento di «C’era una volta…Gioachino Rossini».
«La Cenerentola» e «Il barbiere di Siviglia» in versione junior
La nuova favola musicale degli «Attori in erba» trasporta il pubblico nella Bologna di inizio Ottocento. È il 18 febbraio 1806. Gioachino Rossini sta per iscriversi alle classi di violoncello e contrappunto del neonato Liceo filarmonico cittadino. Qualche giorno dopo compirà quattordici anni. La passione musicale sembra essere nata con lui: pur essendo ancora un ragazzino, sa già pizzicare le corde della viola e strimpellare vari strumenti a tastiera, tra cui la spinetta; è in grado di cavarsela nel canto, nell’accompagnamento al clavicembalo e nella trascrizione degli spartiti; da tre anni studia composizione e sta per musicare la sua prima opera lirica, «Demetrio e Polibio», destinata a rimanere per un po’ nel cassetto.
È Carnevale. In piazza Maggiore si esibisce una compagnia di comici della Commedia dell’arte: Arlecchino e Pulcinella danzano sulle note di una tarantella. Gioachino Rossini sogna di essere in teatro, tra gli strumenti festanti dell’orchestra e il gorgheggiare divertito dei cantanti. Ha appena deciso il suo futuro: da grande farà il compositore.
Fantastica di portare sul palcoscenico «scale di seta per salire indisturbato tra le nuvole, navi turche, la regina Elisabetta I, il nero Otello e il signor Guglielmo Tell». Vuole far cantare due gatti e scrivere brevi divertissement musicali sulle acciughe e il burro. Immagina anche di far piovere in scena e di scatenare tempeste imitando con gli strumenti il vento, i fulmini e le saette, ovvero quel «clima burrascoso» che lo aveva visto nascere il 29 febbraio 1792 a Pesaro.
Rossini sogna, infine, che da grande scriverà per il Carnevale due opere buffe destinate a diventare famose in tutto il mondo: una su un giovane sempre allegro, «pronto a far tutto la notte e il giorno», l’altra su una servetta che sarà principessa». Quei due lavori, che ormai da duecento anni incantano il pubblico, sono «Il Barbiere di Siviglia» (1816) e «La Cenerentola, ovvero la bontà in trionfo» (1817), le due storie che gli «Attori in erba» racconteranno più nel dettaglio per far comprendere tutta la bellezza di una musica per cui Stendhal parlò di «follia organizzata e completa». Tra verità biografica e finzione teatrale, tra ricette gourmet e aneddoti curiosi, lo spettatore verrà così condotto, grazie a divertenti quadri scenici e a movimentate coreografie, in un viaggio alla scoperta di un compositore «bravo, bravissimo, di qualità, di qualità», del quale nel 2018 ricorreranno i centocinquanta anni dalla morte.
Informazioni utili
«C’era una volta…Gioachino Rossini». Cinema teatro Manzoni, via Calatafimi, 5 - Busto Arsizio. Quando: lunedì 8 maggio 2017, ore 20.45. Ingresso: intero € 10,00, ridotto per i bambini fino ai 12 anni € 7,00. Botteghino: i biglietti saranno in vendita on-line sul sito www.cinemateatomanzoni.it e, da giovedì 4 maggio, anche al botteghino della sala di via Calatafimi, aperto con i seguenti orari: dal lunedì al venerdì, dalle ore 17.00 alle ore 19.00. Informazioni e prenotazioni: associazione «Culturando», cell. 347.5776656 o info@associazioneculturando.com.
«Attori in erba», venticinque bambini sul palco
L'appuntamento, realizzato anche grazie alla preziosa collaborazione dei volontari della sala di via Calatafimi, vedrà salire sul palco venticinque bambini di età compresa tra i sei e i tredici anni iscritti al corso «Attori in erba», un laboratorio di animazione e di educazione alla teatralità e allo spettacolo per studenti delle scuole primarie e secondarie di primo grado, promosso dall'associazione «Culturando» nell’ambito della scuola multidisciplinare di teatro «Il cantiere delle arti».
Firma la regia Gerry Franceschini, che si è avvalso dell’aiuto per il montaggio delle varie scene di Davide De Mercato e Stefano Montani, entrambi sul palco all’inizio e alla fine dello spettacolo nei panni di monsieur Stendhal e di uno scrittore contemporaneo. Le coreografie sono state curate da Elisa Vai e Serena Biagi; luci e fonica vedranno all'opera Maurizio «Billo» Aspes.
Il testo della favola, elaborato da Annamaria Sigalotti, è stato redatto a partire degli esercizi di scrittura creativa e dalle improvvisazioni teatrali tenutesi durante l’anno su vari libri scritti per avvicinare i più piccoli all’opera lirica e all’universo creativo del maestro di Pesaro: «Piano pianissimo, forte fortissimo» (Rueballu, Palermo 2015) di Lina M. Ugolini, «A cena con Giachino Rossini» (Babetta's World, Baltimora 2012) di Monica E. Lapenta e Stefania Pravato, «Figaro qua, Figaro là» (Vallardi, Milano 2014) di Fiorella Colombo e Laura Di Biase, «Rossini - Ascoltando ‘Il barbiere di Siviglia’, ‘La Cenerentola’ e ‘Guglielmo Tell’» (Sillabe, Livorno 2015) di Isabella Vasilotta, «Omaggio a Rossini» di Lele Luzzati e Giulio Gianini (Gallucci, Roma 2009), oltre ai volumi rossiniani redatti da Cecilia Gobbi per la collana «Magia dell’Opera - Alla scoperta del melodramma» delle Edizioni Curci di Milano e ai percorsi di sensibilizzazione e avvicinamento ai capolavori «La Cenerentola» e «Il barbiere, di Siviglia» curati da Fiorella Colombo e Laura Di Biase per la serie «Recitar cantando» della casa editrice Erga di Genova.
Lo spettacolo con gli «Attori in erba», inserito nelle attività della scuola multidisciplinare di teatro «Il cantiere delle arti» di «Culturando», chiude il progetto «Tutti all’opera con…Gioachino Rossini e Lele Luzzati», un corso di recitazione, danza, musica, scrittura creativa e arte per bambini dai 6 ai 13 anni ideato con l’intento di avvicinare i più piccoli al mondo della scena attraverso la figura del compositore pesarese e le musiche di alcune delle sue opere più note, rivisitate anche attraverso le illustrazioni di Lele Luzzati e di altri artisti contemporanei. Trentacinque i moduli di due ore e trenta ciascuno, tenutisi dal 7 ottobre 2016 all’8 maggio 2017, che hanno visto la presenza complessiva di trentasette bambini. Parte del materiale realizzato durante il corso viene pubblicato in questi giorni sulla pagina Facebook di «Culturando» (www.facebook.com/associazioneculturando) permettendo di approfondire la figura del compositore pesarese e delle sue opere liriche, ma anche di seguire, passo passo, le fasi conclusive dell’allestimento di «C’era una volta…Gioachino Rossini».
«La Cenerentola» e «Il barbiere di Siviglia» in versione junior
La nuova favola musicale degli «Attori in erba» trasporta il pubblico nella Bologna di inizio Ottocento. È il 18 febbraio 1806. Gioachino Rossini sta per iscriversi alle classi di violoncello e contrappunto del neonato Liceo filarmonico cittadino. Qualche giorno dopo compirà quattordici anni. La passione musicale sembra essere nata con lui: pur essendo ancora un ragazzino, sa già pizzicare le corde della viola e strimpellare vari strumenti a tastiera, tra cui la spinetta; è in grado di cavarsela nel canto, nell’accompagnamento al clavicembalo e nella trascrizione degli spartiti; da tre anni studia composizione e sta per musicare la sua prima opera lirica, «Demetrio e Polibio», destinata a rimanere per un po’ nel cassetto.
È Carnevale. In piazza Maggiore si esibisce una compagnia di comici della Commedia dell’arte: Arlecchino e Pulcinella danzano sulle note di una tarantella. Gioachino Rossini sogna di essere in teatro, tra gli strumenti festanti dell’orchestra e il gorgheggiare divertito dei cantanti. Ha appena deciso il suo futuro: da grande farà il compositore.
Fantastica di portare sul palcoscenico «scale di seta per salire indisturbato tra le nuvole, navi turche, la regina Elisabetta I, il nero Otello e il signor Guglielmo Tell». Vuole far cantare due gatti e scrivere brevi divertissement musicali sulle acciughe e il burro. Immagina anche di far piovere in scena e di scatenare tempeste imitando con gli strumenti il vento, i fulmini e le saette, ovvero quel «clima burrascoso» che lo aveva visto nascere il 29 febbraio 1792 a Pesaro.
Rossini sogna, infine, che da grande scriverà per il Carnevale due opere buffe destinate a diventare famose in tutto il mondo: una su un giovane sempre allegro, «pronto a far tutto la notte e il giorno», l’altra su una servetta che sarà principessa». Quei due lavori, che ormai da duecento anni incantano il pubblico, sono «Il Barbiere di Siviglia» (1816) e «La Cenerentola, ovvero la bontà in trionfo» (1817), le due storie che gli «Attori in erba» racconteranno più nel dettaglio per far comprendere tutta la bellezza di una musica per cui Stendhal parlò di «follia organizzata e completa». Tra verità biografica e finzione teatrale, tra ricette gourmet e aneddoti curiosi, lo spettatore verrà così condotto, grazie a divertenti quadri scenici e a movimentate coreografie, in un viaggio alla scoperta di un compositore «bravo, bravissimo, di qualità, di qualità», del quale nel 2018 ricorreranno i centocinquanta anni dalla morte.
Informazioni utili
«C’era una volta…Gioachino Rossini». Cinema teatro Manzoni, via Calatafimi, 5 - Busto Arsizio. Quando: lunedì 8 maggio 2017, ore 20.45. Ingresso: intero € 10,00, ridotto per i bambini fino ai 12 anni € 7,00. Botteghino: i biglietti saranno in vendita on-line sul sito www.cinemateatomanzoni.it e, da giovedì 4 maggio, anche al botteghino della sala di via Calatafimi, aperto con i seguenti orari: dal lunedì al venerdì, dalle ore 17.00 alle ore 19.00. Informazioni e prenotazioni: associazione «Culturando», cell. 347.5776656 o info@associazioneculturando.com.
mercoledì 3 maggio 2017
Milano, tra le acque di Massimiliano Bisazza
Racconta un elemento di grande fascino come l’acqua la mostra «Mud», a cura di Massimiliano Bisazza, che Aldo Salucci presenta fino al prossimo 9 maggio negli spazi della Galleria d’arte contemporanea Statuto 13 di Milano.
La rassegna allinea una selezione di opere fotografiche inedite, tutte di grande formato (cm 122x182), nelle quali l’elemento naturale è ripreso da distanze ravvicinate ed è legato soprattutto alla rappresentazione di fondali, metafora dell'inconscio, da cui emergono emozioni e significati intimi.
Nei lavori di Aldo Salucci si scorge una particolare attenzione rivolta alla luce e al colore, che variano da un estremo all’altro, da colori luminosi e sfavillanti a toni scuri, legati alle profondità. Proprio a queste ultime fa riferimento il titolo «Mud» che rimanda ai fondali fangosi e bui che si contrappongono alle acque cristalline, in stretta analogia con gli stati d’animo della vita.
L’intensità delle immagini conduce il visitatore in atmosfere oniriche e introspettive, dove il più piccolo dettaglio assume pregnante importanza in quanto costituisce la connessione con sensazioni e vissuti personali e che allo stesso tempo crea innumerevoli possibilità di interpretazione.
Lo si può osservare in «Stromboli», una fotografia caratterizzata da una forza estrema, dai colori rossi accesi che attraverso piccole pietre vulcaniche e strisce di luce descrive un’atmosfera, un’esperienza impressa nell’animo dell’artista. In «Topazio azzurro e giallo» il fondale frastagliato vira il suo colore attraverso piccoli granelli di sabbia, che si mescolano e passano da una tonalità all’altra, e sembra rispecchiare i mutamenti del paesaggio interiore.
Sono, inoltre, presenti richiami evidenti al mondo reale sempre filtrato da un velo d’acqua come avviene in «Montagne estive», dove si scorge attraverso una sorta di visione satellitare un paesaggio montano o in «Ponza’s flowers» dove macchie di colore amaranto evocano un tappeto di fiori adagiati su un prato.
In relazione al tema dell’esposizione, che fa parte del circuito espositivo «Milano Photofestival», il curatore Massimiliano Bisazza afferma: «L'acqua dunque è sempre fautrice di vita ma può nascondere anche segreti che in quanto tali sono privati e confidenziali dove la capacità creativa dell'artista è palesata nel saper donare tante e tali sfumature ricche di lirismo e riletture inventive, fantasiose o...legate al suo vissuto».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Aldo Salucci, Ginostra al tramonto, 2016. C-Print Lambda montata sotto acrilico, cm 122x182. © Aldo Salucci; [fig. 2] Aldo Salucci, Montagne estive, 2016. C-Print Lambda montata sotto acrilico, cm 139x128. © Aldo Salucci
Informazioni utili
«Mud». Mostra personale di Aldo Salucci. Statuto13 - Galleria d’arte contemporanea, via Statuto, 13 (corte int.) – Milano. Orari: da martedì a sabato, ore 11.00 – 19.00. Ingresso libero. Informazioni: cell. 347.2265227 (negli orari di aperture della mostra) o info@statuto13.it. Sito internet: www.statuto13.it. Fino al 9 maggio 2017
La rassegna allinea una selezione di opere fotografiche inedite, tutte di grande formato (cm 122x182), nelle quali l’elemento naturale è ripreso da distanze ravvicinate ed è legato soprattutto alla rappresentazione di fondali, metafora dell'inconscio, da cui emergono emozioni e significati intimi.
Nei lavori di Aldo Salucci si scorge una particolare attenzione rivolta alla luce e al colore, che variano da un estremo all’altro, da colori luminosi e sfavillanti a toni scuri, legati alle profondità. Proprio a queste ultime fa riferimento il titolo «Mud» che rimanda ai fondali fangosi e bui che si contrappongono alle acque cristalline, in stretta analogia con gli stati d’animo della vita.
L’intensità delle immagini conduce il visitatore in atmosfere oniriche e introspettive, dove il più piccolo dettaglio assume pregnante importanza in quanto costituisce la connessione con sensazioni e vissuti personali e che allo stesso tempo crea innumerevoli possibilità di interpretazione.
Lo si può osservare in «Stromboli», una fotografia caratterizzata da una forza estrema, dai colori rossi accesi che attraverso piccole pietre vulcaniche e strisce di luce descrive un’atmosfera, un’esperienza impressa nell’animo dell’artista. In «Topazio azzurro e giallo» il fondale frastagliato vira il suo colore attraverso piccoli granelli di sabbia, che si mescolano e passano da una tonalità all’altra, e sembra rispecchiare i mutamenti del paesaggio interiore.
Sono, inoltre, presenti richiami evidenti al mondo reale sempre filtrato da un velo d’acqua come avviene in «Montagne estive», dove si scorge attraverso una sorta di visione satellitare un paesaggio montano o in «Ponza’s flowers» dove macchie di colore amaranto evocano un tappeto di fiori adagiati su un prato.
In relazione al tema dell’esposizione, che fa parte del circuito espositivo «Milano Photofestival», il curatore Massimiliano Bisazza afferma: «L'acqua dunque è sempre fautrice di vita ma può nascondere anche segreti che in quanto tali sono privati e confidenziali dove la capacità creativa dell'artista è palesata nel saper donare tante e tali sfumature ricche di lirismo e riletture inventive, fantasiose o...legate al suo vissuto».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Aldo Salucci, Ginostra al tramonto, 2016. C-Print Lambda montata sotto acrilico, cm 122x182. © Aldo Salucci; [fig. 2] Aldo Salucci, Montagne estive, 2016. C-Print Lambda montata sotto acrilico, cm 139x128. © Aldo Salucci
Informazioni utili
«Mud». Mostra personale di Aldo Salucci. Statuto13 - Galleria d’arte contemporanea, via Statuto, 13 (corte int.) – Milano. Orari: da martedì a sabato, ore 11.00 – 19.00. Ingresso libero. Informazioni: cell. 347.2265227 (negli orari di aperture della mostra) o info@statuto13.it. Sito internet: www.statuto13.it. Fino al 9 maggio 2017
martedì 2 maggio 2017
Milano, un Rodin ritrovato in mostra da Artcurial
Artcurial si appresta a celebrare il centenario della morte di Auguste Rodin (1840-1917), artista che ha rivoluzionato la raffigurazione prima di Picasso e Matisse. Il prossimo 30 maggio verrà battuta all’asta a Parigi «Andromède», un’opera in marzo realizzata nel 1887 per il diplomatico cileno Carlos Lynch de Morla e ritrovata di recente a Madrid da Stéphane Aubert e Bruno Jaubert.
La storia che sta dietro a questo lavoro -in mostra a Milano da giovedì 4 a sabato 6 maggio, dopo essere stata esposta a Brussels (dal 20 al 22 aprile) e a Vienna (dal 27 al 28 aprile) - è molto curiosa: nel 1888, il diplomatico cileno Carlos Lynch de Morla, stanziatosi a Parigi, chiede all’amico Auguste Rodin di realizzare un ritratto della giovane moglie, Luisa. Lo scultore immortala la bellezza della sposa cilena in un busto marmoreo. Il capolavoro che ne deriva viene, quindi, esposto presso il Salon National des Beaux-Arts dello stesso anno. L’opera viene osannata a tal punto che il governo francese esprime il desiderio di acquisirla per la collezione del Musée du Luxembourg,l’istituzione dedicata al contemporaneo in quell’epoca. In qualità di patrono delle arti e amico di Francia, Carlos Lynch de Morla acconsente alla cessione del busto, permettendo il suo ingresso nel patrimonio pubblico francese (il ritratto è oggi visibile presso il Musée d’Orsay).
Quale gesto di riconoscenza e ammirazione nei confronti della coppia, Auguste Rodin dona un’altra opera in marmo alla famiglia cilena, raffigurante il corpo nudo di una giovane donna, accovacciata su una roccia. Lo scultore francese dava così forma al mito antico di Andromeda, una figura appartenente alla mitologia greca, figlia del re di Etiopia Cefeo e della regina Cassiopea, che si vantava di possedere una bellezza più grande di quella di tutte le Nereidi, le ninfe di Poseidone. La ninfe chiedono vendetta al Dio dei mari che risponde scagliando una mareggiata e un mostro marino contro il Regno di Cefeo collocato nell’attuale Striscia di Gaza. Il re consulta un oracolo che, al fine di acquietare Poseidone, gli consiglia di sacrificare la figlia Andromeda alla mostrosa creatura. Cefeo fa così incatenare la figlia a una roccia a pelo d’acqua, sperando di calmare il mostro con la sua offerta. Su quel masso, la ragazza rimane in agonia sino all’arrivo di Perseo che trovandola uccide il mostro e le restituisce la libertà.
Spesso confusa con «La Danae» create da Rodin nel 1885, la scultura infonde gli stessi sentimenti di disperazione, fatica e rassegnazione.
Lo scultore parigino realizzò cinque sculture dedicate al mito di Andromeda. La prima, probabilmente creata nel 1885 ed esposta per la prima volta nel 1886 alla Gallery Georges Petit a Parigi, era inizialmente di proprietà di Roger Marx ed è attualmente conservata presso il Philadelphia Rodin Museum. Un’altra, commissionata da Maurice Fenaille, è parte della raccolta del Paris Rodin Museum. La terza nasce come parte della collezione di Jacques Zoubaloff ed è ora esposta presso il Museo nazionale di Belle arti di Buenos Aires. Il quarto esemplare è stato incorporato in una collezione privata in seguito alla vendita in asta, circa una decina di anni fa. La copia che verrà battuta all’asta da Artcurial è segnalata nelle mani della famiglia Morla ancora nel 1930, da Georges Cluster, primo curatore del Museo Rodin. Per centotrenta anni è rimasta nelle mani della famiglia, prima di essere ritrovata nel 2017 Stéphane Aubert e Bruno Jaubert, i due direttori associati di Artcurial. Questa copia, che è presumibilmente la seconda realizzata dall’artista, costituisce l’esemplare più fedele alla trascrizione naturalistica.
Nell’introduzione del catalogo dell’asta, Serge Lemoine, scientific and cultural advisor di Artcurial, così descrive l’opera: «questo lavoro ha tutte le carte vincenti per sedurre il pubblico. Il soggetto, il materiale, le dimensioni, lo stato conservativo e, come abbiamo avuto modo di constatare, la storia. Questa scultura rappresenta una donna nuda ‘seduta su una roccia, quasi piegata in due’, come recita la descrizione stesa in occasione della mostra del 1886 presso la Georges Petit gallery a Parigi dal critico Gustave Geoffroy. Ciò che ovviamente impressiona maggiormente è il contrasto fra il trattamento della figura, con i suoi volume ben torniti, i profili morbidi e delicati, la superficie lisca e lucente, con quella della roccia che sorregge che la vergine, dall’apparenza ruvida e connotata da rare evocazioni arboree. Tutta l’arte di Rodin è caratterizzata dal dialogo tra l’immagine compiuta e il non finito del blocco a partire dal quale essa prende forma e a cui resta legato. Colpisce la varietà di profili e lo scorcio di tre quarti su cui è costruita la composizione, la sequenza di forme e le diverse inflessioni luminose. Si è poi commossi dalla realizzazione del dorso, la nuca delicata, la rotondezza delle natiche, la linea delle spalle e l’emergenza delle anche, enfatizzate dalla posizione del corpo. La sensualità della scultura di Rodin è ormai riconosciuta universalmente e ne ha garantito il successo. L’opera è stata pensata per un interno, favorendo l’intimità della contemplazione e ha preso il nome di Andromèda quando divenne chiaro il riferimento al mito greco».
Didascalie delle immagini
[Figg. 1, 2 e 3] Auguste Rodin, Andromeda, 1887, marmo, 28,1 x 30,7 x 18,5 cm. Provenienza: famiglia Lynch de Morla. Stima: €800,000-1,200,000 / $880,000-1,320,000
Informazioni utili
Il ritrovamento di un eccezionale Rodin in marmo. Artcurial in Italia, Corso Venezia, 22 – Milano. Informazioni: tel. 02.49763650 o gsardagnaferrari@artcurial.com. Dal 4 al 6 maggio 2017.
La storia che sta dietro a questo lavoro -in mostra a Milano da giovedì 4 a sabato 6 maggio, dopo essere stata esposta a Brussels (dal 20 al 22 aprile) e a Vienna (dal 27 al 28 aprile) - è molto curiosa: nel 1888, il diplomatico cileno Carlos Lynch de Morla, stanziatosi a Parigi, chiede all’amico Auguste Rodin di realizzare un ritratto della giovane moglie, Luisa. Lo scultore immortala la bellezza della sposa cilena in un busto marmoreo. Il capolavoro che ne deriva viene, quindi, esposto presso il Salon National des Beaux-Arts dello stesso anno. L’opera viene osannata a tal punto che il governo francese esprime il desiderio di acquisirla per la collezione del Musée du Luxembourg,l’istituzione dedicata al contemporaneo in quell’epoca. In qualità di patrono delle arti e amico di Francia, Carlos Lynch de Morla acconsente alla cessione del busto, permettendo il suo ingresso nel patrimonio pubblico francese (il ritratto è oggi visibile presso il Musée d’Orsay).
Quale gesto di riconoscenza e ammirazione nei confronti della coppia, Auguste Rodin dona un’altra opera in marmo alla famiglia cilena, raffigurante il corpo nudo di una giovane donna, accovacciata su una roccia. Lo scultore francese dava così forma al mito antico di Andromeda, una figura appartenente alla mitologia greca, figlia del re di Etiopia Cefeo e della regina Cassiopea, che si vantava di possedere una bellezza più grande di quella di tutte le Nereidi, le ninfe di Poseidone. La ninfe chiedono vendetta al Dio dei mari che risponde scagliando una mareggiata e un mostro marino contro il Regno di Cefeo collocato nell’attuale Striscia di Gaza. Il re consulta un oracolo che, al fine di acquietare Poseidone, gli consiglia di sacrificare la figlia Andromeda alla mostrosa creatura. Cefeo fa così incatenare la figlia a una roccia a pelo d’acqua, sperando di calmare il mostro con la sua offerta. Su quel masso, la ragazza rimane in agonia sino all’arrivo di Perseo che trovandola uccide il mostro e le restituisce la libertà.
Spesso confusa con «La Danae» create da Rodin nel 1885, la scultura infonde gli stessi sentimenti di disperazione, fatica e rassegnazione.
Lo scultore parigino realizzò cinque sculture dedicate al mito di Andromeda. La prima, probabilmente creata nel 1885 ed esposta per la prima volta nel 1886 alla Gallery Georges Petit a Parigi, era inizialmente di proprietà di Roger Marx ed è attualmente conservata presso il Philadelphia Rodin Museum. Un’altra, commissionata da Maurice Fenaille, è parte della raccolta del Paris Rodin Museum. La terza nasce come parte della collezione di Jacques Zoubaloff ed è ora esposta presso il Museo nazionale di Belle arti di Buenos Aires. Il quarto esemplare è stato incorporato in una collezione privata in seguito alla vendita in asta, circa una decina di anni fa. La copia che verrà battuta all’asta da Artcurial è segnalata nelle mani della famiglia Morla ancora nel 1930, da Georges Cluster, primo curatore del Museo Rodin. Per centotrenta anni è rimasta nelle mani della famiglia, prima di essere ritrovata nel 2017 Stéphane Aubert e Bruno Jaubert, i due direttori associati di Artcurial. Questa copia, che è presumibilmente la seconda realizzata dall’artista, costituisce l’esemplare più fedele alla trascrizione naturalistica.
Nell’introduzione del catalogo dell’asta, Serge Lemoine, scientific and cultural advisor di Artcurial, così descrive l’opera: «questo lavoro ha tutte le carte vincenti per sedurre il pubblico. Il soggetto, il materiale, le dimensioni, lo stato conservativo e, come abbiamo avuto modo di constatare, la storia. Questa scultura rappresenta una donna nuda ‘seduta su una roccia, quasi piegata in due’, come recita la descrizione stesa in occasione della mostra del 1886 presso la Georges Petit gallery a Parigi dal critico Gustave Geoffroy. Ciò che ovviamente impressiona maggiormente è il contrasto fra il trattamento della figura, con i suoi volume ben torniti, i profili morbidi e delicati, la superficie lisca e lucente, con quella della roccia che sorregge che la vergine, dall’apparenza ruvida e connotata da rare evocazioni arboree. Tutta l’arte di Rodin è caratterizzata dal dialogo tra l’immagine compiuta e il non finito del blocco a partire dal quale essa prende forma e a cui resta legato. Colpisce la varietà di profili e lo scorcio di tre quarti su cui è costruita la composizione, la sequenza di forme e le diverse inflessioni luminose. Si è poi commossi dalla realizzazione del dorso, la nuca delicata, la rotondezza delle natiche, la linea delle spalle e l’emergenza delle anche, enfatizzate dalla posizione del corpo. La sensualità della scultura di Rodin è ormai riconosciuta universalmente e ne ha garantito il successo. L’opera è stata pensata per un interno, favorendo l’intimità della contemplazione e ha preso il nome di Andromèda quando divenne chiaro il riferimento al mito greco».
Didascalie delle immagini
[Figg. 1, 2 e 3] Auguste Rodin, Andromeda, 1887, marmo, 28,1 x 30,7 x 18,5 cm. Provenienza: famiglia Lynch de Morla. Stima: €800,000-1,200,000 / $880,000-1,320,000
Informazioni utili
Il ritrovamento di un eccezionale Rodin in marmo. Artcurial in Italia, Corso Venezia, 22 – Milano. Informazioni: tel. 02.49763650 o gsardagnaferrari@artcurial.com. Dal 4 al 6 maggio 2017.
venerdì 28 aprile 2017
Bologna, Catherine Wagner interpreta Giorgio Morandi
Il Museo Morandi di Bologna prosegue nell'intento di valorizzare la propria collezione anche grazie a un programma di mostre temporanee tese ad accostare il lavoro di Giorgio Morandi all’opera di artisti che a vario titolo si sono a lui ispirati. Dopo Alexandre Hollan, Wayne Thiebaud, Tacita Dean, Rachel Whiteread e Brigitte March Niedermair, è la volta di Catherine Wagner.
L’artista americana espone ventuno lavori, realizzati tra il 2015 e il 2016, durante un suo soggiorno nella città felsinea, che l’ha vista operare sia nella casa del maestro emiliano sia nel suo studio di Grizzana. La mostra, intitolata «In Situ: Traces of Morandi», si avvale della curatela di Giusi Vecchi ed è accompagnata da un catalogo con un testo critico di Peter Benson Miller.
Catherine Wagner ha immaginato nuove nature morte con gli oggetti che Giorgio Morandi rappresentava nelle sue opere, astraendo da questi modelli, sia formalmente che concettualmente, nuove composizioni attraverso la ripetizione e la natura effimera dell'ombra. Ne è nata la prima serie in mostra, intitolata «Shadows», in cui sono fotografate solo le ombre proiettate delle sue composizioni, creando immagini dematerializzate in cui i solidi sembrano inafferrabili, racchiusi nell’aura vibrante al margine della loro parvenza. Gli oggetti di Morandi nelle fotografie di Wagner sono sollevati dalla loro tangibile presenza e diventano ombre effimere e trascendenti.
Nell’altra serie, «Wrapped Objects», gli oggetti sono stati avvolti dall'artista in un foglio di alluminio per dotarli di una nuova pelle che mascherasse la patina della storia re-immaginandoli in un presente astratto.
Osservando le nature morte di Morandi, accanto alla gamma di colori tenui che le caratterizzano a prima vista, Catherine Wagner ha identificato aree distinte di colore saturo: variazioni di cobalto, ambra, vermiglio, arancio bruciato e verde chartreuse. L'artista ha classificato e registrato metodicamente questi colori per definire i gel colorati posti come filtri sulle luci in studio e creare così i campi di colore in cui sono immerse le fotografie in mostra. Anche l'apparente oggettività dei titoli rimanda al numero di catalogo dei filtri colorati usati dall'artista e nei casi in cui ha usato più di un filtro o due volte lo stesso, i numeri nel titolo sono due.
In numerosi lavori Catherine Wagner adotta un formato tipologico che sottolinea la giustapposizione tra similitudini e differenze riecheggiando la serialità morandiana. Con questa tassonomia l'artista californiana affronta un'incisiva e sistematica astrazione: per lei, infatti, la sfida alla dinamica tra rappresentazione e astrazione è motore essenziale del proprio lavoro e nelle opere in mostra al Museo Morandi si esamina il modo in cui questa tensione anima i concetti di tempo, solidità e forma.
Sono esposte anche due fotografie con cui Wagner rende omaggio alle vedute di paesaggio che il maestro bolognese amava contemplare e dipingere dalle finestre del suo studio a Grizzana.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Catherine Wagner, Ombre # 061, 2015. 95.3 x 127 cm. Courtesy l'artista, Anglim Gallery San Francisco e Gallery Luisotti Santa Monica; [fig. 2] Catherine Wagner, Ombre. # 017, 2015. 95.3 x 127 cm. courtesy l'artista, Anglim Gallery San Francisco e Gallery Luisotti Santa Monica; [fig. 3] Catherine Wagner, Oggetti Avvolti. # 728 : 750, 2015. Dittico. 45.7 x 36.8 cm cad. courtesy l'artista, Anglim Gallery San Francisco e Gallery Luisotti Santa Monica
Informazioni utili
«Catherine Wagner. In Situ: Traces of Morandi». Museo Morandi, via Don Minzoni, 14 – Bologna. Orari: fino a maggio, venerdì e sabato ore 14.00 - 16.00, domenica, ore 11.00 - 13.00; da giugno a settembre, venerdì e sabato, ore 17.00 - 19.00, domenica, ore 11.00 - 13.00. Ingresso: intero € 6,00, ridotto € 4,00. Informazioni: tel. 051.6496611 o info@mambo-bologna.org. Sito internet: www.mambo-bologna.org/museomorandi/ o www.catherinewagner.org. Fino al 18 settembre 2017.
L’artista americana espone ventuno lavori, realizzati tra il 2015 e il 2016, durante un suo soggiorno nella città felsinea, che l’ha vista operare sia nella casa del maestro emiliano sia nel suo studio di Grizzana. La mostra, intitolata «In Situ: Traces of Morandi», si avvale della curatela di Giusi Vecchi ed è accompagnata da un catalogo con un testo critico di Peter Benson Miller.
Catherine Wagner ha immaginato nuove nature morte con gli oggetti che Giorgio Morandi rappresentava nelle sue opere, astraendo da questi modelli, sia formalmente che concettualmente, nuove composizioni attraverso la ripetizione e la natura effimera dell'ombra. Ne è nata la prima serie in mostra, intitolata «Shadows», in cui sono fotografate solo le ombre proiettate delle sue composizioni, creando immagini dematerializzate in cui i solidi sembrano inafferrabili, racchiusi nell’aura vibrante al margine della loro parvenza. Gli oggetti di Morandi nelle fotografie di Wagner sono sollevati dalla loro tangibile presenza e diventano ombre effimere e trascendenti.
Nell’altra serie, «Wrapped Objects», gli oggetti sono stati avvolti dall'artista in un foglio di alluminio per dotarli di una nuova pelle che mascherasse la patina della storia re-immaginandoli in un presente astratto.
Osservando le nature morte di Morandi, accanto alla gamma di colori tenui che le caratterizzano a prima vista, Catherine Wagner ha identificato aree distinte di colore saturo: variazioni di cobalto, ambra, vermiglio, arancio bruciato e verde chartreuse. L'artista ha classificato e registrato metodicamente questi colori per definire i gel colorati posti come filtri sulle luci in studio e creare così i campi di colore in cui sono immerse le fotografie in mostra. Anche l'apparente oggettività dei titoli rimanda al numero di catalogo dei filtri colorati usati dall'artista e nei casi in cui ha usato più di un filtro o due volte lo stesso, i numeri nel titolo sono due.
In numerosi lavori Catherine Wagner adotta un formato tipologico che sottolinea la giustapposizione tra similitudini e differenze riecheggiando la serialità morandiana. Con questa tassonomia l'artista californiana affronta un'incisiva e sistematica astrazione: per lei, infatti, la sfida alla dinamica tra rappresentazione e astrazione è motore essenziale del proprio lavoro e nelle opere in mostra al Museo Morandi si esamina il modo in cui questa tensione anima i concetti di tempo, solidità e forma.
Sono esposte anche due fotografie con cui Wagner rende omaggio alle vedute di paesaggio che il maestro bolognese amava contemplare e dipingere dalle finestre del suo studio a Grizzana.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Catherine Wagner, Ombre # 061, 2015. 95.3 x 127 cm. Courtesy l'artista, Anglim Gallery San Francisco e Gallery Luisotti Santa Monica; [fig. 2] Catherine Wagner, Ombre. # 017, 2015. 95.3 x 127 cm. courtesy l'artista, Anglim Gallery San Francisco e Gallery Luisotti Santa Monica; [fig. 3] Catherine Wagner, Oggetti Avvolti. # 728 : 750, 2015. Dittico. 45.7 x 36.8 cm cad. courtesy l'artista, Anglim Gallery San Francisco e Gallery Luisotti Santa Monica
Informazioni utili
«Catherine Wagner. In Situ: Traces of Morandi». Museo Morandi, via Don Minzoni, 14 – Bologna. Orari: fino a maggio, venerdì e sabato ore 14.00 - 16.00, domenica, ore 11.00 - 13.00; da giugno a settembre, venerdì e sabato, ore 17.00 - 19.00, domenica, ore 11.00 - 13.00. Ingresso: intero € 6,00, ridotto € 4,00. Informazioni: tel. 051.6496611 o info@mambo-bologna.org. Sito internet: www.mambo-bologna.org/museomorandi/ o www.catherinewagner.org. Fino al 18 settembre 2017.
giovedì 27 aprile 2017
Rita Kernn-Larsen, i suoi dipinti surrealisti in mostra a Venezia
«Il periodo surrealista fu straordinario […] il periodo migliore della mia vita d'artista»: è questa la frase scelta dalla Collezione Peggy Guggenheim per fare da filo rosso alla mostra di
Rita Kernn-Larsen che Gražina Subelytė ha curato per il museo veneziano.
L’esposizione, visibile fino al 26 giugno, inaugura due nuove sale espositive dell’istituzione lagunare, le «Project Rooms»: spazi destinati ad accogliere progetti espositivi raccolti e mirati, finalizzati ad approfondire il lavoro di un artista o specifiche tematiche legate alla produzione di un determinato interprete del XX secolo, legato alla collezione della mecenate americana.
Nel 1937 Rita Kernn-Larsen (Hillerød 1904 – Copenhagen 1998) incontra a Parigi la collezionista e l'anno seguente viene invitata a esporre nella galleria londinese Guggenheim Jeune, in una personale che segna l'inizio della carriera surrealista di Peggy.
La mostra veneziana riunisce una preziosa selezione di dipinti dell’artista, pittrice tuttora poco nota al di fuori dell'ambiente danese, provenienti da collezioni pubbliche e private del suo Paese, tra cui la National Gallery of Denmark di Copenhagen, il Kunstmuseet dii Tønder e il Kunsten Museum of Modern Art di Aalborg.
L’esposizione -la prima di rilievo dedicata alla sua opera fuori dai confini nazionali, dopo quella londinese del 1938- presenta anche fotografie e documenti inerenti la personale nella galleria londinese di Peggy, oltre a una video-intervista realizzata in occasione della sua partecipazione alla Biennale di Venezia del 1986. br> La rassegna rivela come la Kernn-Larsen abbia ricoperto un ruolo determinante nell'ambito del movimento surrealista danese e internazionale. Nei primi anni ‘30 l’artista studia con Fernand Léger a Parigi, diventando una delle sue migliori studentesse. Nel 1934 si unisce al gruppo surrealista del suo Paese e viene soprannominata dalla critica «la Picasso danese». Continua a esporre con i surrealisti, affermandosi come figura cardine all’interno del gruppo stesso, e partecipa nel corso degli anni ’30 ad alcune importanti mostre internazionali in città come Copenhagen, Oslo, Lund, Londra, tra cui spicca l’Exposition Internationale du Surréalisme, alla Galerie Beaux-Arts di Parigi nel 1938, poco prima della sua personale alla Guggenheim Jeune.
In questa occasione lo storico dell'arte Herbert Read scrive delle opera dell’artista: «L'immaginazione è un punto focale inserito entro quel campo vago che è l'inconscio […]. Queste immagini sono personaggi fiabeschi, fantasmi delle oscure roccaforti nordiche che popolano la nostra mente […] e rivelano un po' del terrore e tutta la fascinazione dei loro antenati mitici».
In mostra si potrà osservare come la Kernn-Larsen riunisca, secondo la sua vena surrealista, sogni e memorie attraverso la tecnica dell'automatismo per far emergere, direttamente dall'inconscio, un flusso di immagini.
Tra le opere esposte si potrà vedere anche il dipinto che la Kernn-Larsen considerò «uno dei miei migliori quadri», il capolavoro «Danza e controdanza» (1936), nel quale vari ritmi legati all'automatismo pulsano gli uni contro gli altri.
L’esposizione veneziana mette, inoltre, in luce come la pittrice sia stata influenzata dal lavoro del belga Paul Delvaux, il cui dipinto «L'aurora» (1937), alla Collezione Peggy Guggenheim, ritrae delle donne-albero. L'identificazione dell'artista-donna surrealista con la natura fertile ritorna in diverse opere dell’artista danese, tra cui il suo singolare «Autoritratto (Conosci te stesso) » (1937), acquisito dalla Fondazione Solomon R. Guggenheim nel 2013. La mostra espone anche tre opere, incluso l'autoritratto, che furono esposte alla Biennale di Venezia del 1986, e che oggi, dopo oltre trent'anni, ritornano così a Venezia.
Informazioni utili
Rita Kernn-Larsen. Collezione Peggy Guggenheim - Palazzo Venier dei Leoni, Dorsoduro 701 - 30123 Venezia. Orari: tutti i giorni, ore 10.00-18.00, chiuso il martedì. Ingresso: Intero € 15,00, ridotto over 65 €13,00, ridotto studenti fino a 26 anni € 9,00. Informazioni: info@guggenheim-venice.it o tel. 041.2405411. Sito internet: www.guggenheim-venice.it. Fino al 26 giugno 2017.
L’esposizione, visibile fino al 26 giugno, inaugura due nuove sale espositive dell’istituzione lagunare, le «Project Rooms»: spazi destinati ad accogliere progetti espositivi raccolti e mirati, finalizzati ad approfondire il lavoro di un artista o specifiche tematiche legate alla produzione di un determinato interprete del XX secolo, legato alla collezione della mecenate americana.
Nel 1937 Rita Kernn-Larsen (Hillerød 1904 – Copenhagen 1998) incontra a Parigi la collezionista e l'anno seguente viene invitata a esporre nella galleria londinese Guggenheim Jeune, in una personale che segna l'inizio della carriera surrealista di Peggy.
La mostra veneziana riunisce una preziosa selezione di dipinti dell’artista, pittrice tuttora poco nota al di fuori dell'ambiente danese, provenienti da collezioni pubbliche e private del suo Paese, tra cui la National Gallery of Denmark di Copenhagen, il Kunstmuseet dii Tønder e il Kunsten Museum of Modern Art di Aalborg.
L’esposizione -la prima di rilievo dedicata alla sua opera fuori dai confini nazionali, dopo quella londinese del 1938- presenta anche fotografie e documenti inerenti la personale nella galleria londinese di Peggy, oltre a una video-intervista realizzata in occasione della sua partecipazione alla Biennale di Venezia del 1986. br> La rassegna rivela come la Kernn-Larsen abbia ricoperto un ruolo determinante nell'ambito del movimento surrealista danese e internazionale. Nei primi anni ‘30 l’artista studia con Fernand Léger a Parigi, diventando una delle sue migliori studentesse. Nel 1934 si unisce al gruppo surrealista del suo Paese e viene soprannominata dalla critica «la Picasso danese». Continua a esporre con i surrealisti, affermandosi come figura cardine all’interno del gruppo stesso, e partecipa nel corso degli anni ’30 ad alcune importanti mostre internazionali in città come Copenhagen, Oslo, Lund, Londra, tra cui spicca l’Exposition Internationale du Surréalisme, alla Galerie Beaux-Arts di Parigi nel 1938, poco prima della sua personale alla Guggenheim Jeune.
In questa occasione lo storico dell'arte Herbert Read scrive delle opera dell’artista: «L'immaginazione è un punto focale inserito entro quel campo vago che è l'inconscio […]. Queste immagini sono personaggi fiabeschi, fantasmi delle oscure roccaforti nordiche che popolano la nostra mente […] e rivelano un po' del terrore e tutta la fascinazione dei loro antenati mitici».
In mostra si potrà osservare come la Kernn-Larsen riunisca, secondo la sua vena surrealista, sogni e memorie attraverso la tecnica dell'automatismo per far emergere, direttamente dall'inconscio, un flusso di immagini.
Tra le opere esposte si potrà vedere anche il dipinto che la Kernn-Larsen considerò «uno dei miei migliori quadri», il capolavoro «Danza e controdanza» (1936), nel quale vari ritmi legati all'automatismo pulsano gli uni contro gli altri.
L’esposizione veneziana mette, inoltre, in luce come la pittrice sia stata influenzata dal lavoro del belga Paul Delvaux, il cui dipinto «L'aurora» (1937), alla Collezione Peggy Guggenheim, ritrae delle donne-albero. L'identificazione dell'artista-donna surrealista con la natura fertile ritorna in diverse opere dell’artista danese, tra cui il suo singolare «Autoritratto (Conosci te stesso) » (1937), acquisito dalla Fondazione Solomon R. Guggenheim nel 2013. La mostra espone anche tre opere, incluso l'autoritratto, che furono esposte alla Biennale di Venezia del 1986, e che oggi, dopo oltre trent'anni, ritornano così a Venezia.
Informazioni utili
Rita Kernn-Larsen. Collezione Peggy Guggenheim - Palazzo Venier dei Leoni, Dorsoduro 701 - 30123 Venezia. Orari: tutti i giorni, ore 10.00-18.00, chiuso il martedì. Ingresso: Intero € 15,00, ridotto over 65 €13,00, ridotto studenti fino a 26 anni € 9,00. Informazioni: info@guggenheim-venice.it o tel. 041.2405411. Sito internet: www.guggenheim-venice.it. Fino al 26 giugno 2017.
mercoledì 26 aprile 2017
A Bologna è Dalì-mania
Coinvolge l’intera città di Bologna la mostra «Dalì Experience», prima tappa di un progetto espositivo interdisciplinare e interattivo che inaugura la centralissima location di Palazzo Belloni, prestigioso edificio storico di via Berberia, strategicamente posizionato tra piazza Malpighi e piazza Maggiore.
In queste sale -costruite nel Settecento su progetto di Giuseppe Antonio Torri e decorate al suo interno da artisti come Giovanni Gioseffo dal Sole, Giovanni Girolamo Bonesi, Giovanni Antonio Burrini e Giacinto Garofalini- sono esposte, per iniziativa di con-fine Art, circa duecento opere provenienti dalla collezione «The Dalì Universe» di Beniamino Levi, una delle più ricche documentazioni sull’artista catalano. Si tratta, nello specifico, di ventidue sculture museali, dieci opere in vetro realizzate alla fine degli anni '60 con la famosa cristalleria Daum di Nancy, dodici gold objects, più di cento grafiche tratte da dieci libri illustrati e quattro sculture monumentali posizionate in punti strategici del centro storico: «Dance of time II» (1979-1984) nell’area check-in dell’aeroporto Marconi, «Homage to terpsichore» (1977-1984) in piazza Liber Paradiusus, «Horse saddled with time» (1980) negli storici Giardini Margherita e «Profile of time» (1977-1984) alla Stazione di fronte allo Shoah Memorial.
Il gruppo creativo Loop, eccellenza italiana nella progettazione di tecnologie interattive applicate all’arte e al design, ha creato un percorso in cui la multimedialità e l’interazione diventano parte integrante della narrazione trasmettendo così al pubblico un messaggio emozionale, non didascalico, del fantasmagorico artista catalano.
Dalla bidimensionalità delle grafiche alla tridimensionalità delle sculture, fino alla quarta dimensione virtuale al di là dello spazio e del tempo, la mostra bolognese è, nello specifico, un viaggio alla scoperta della mente poliedrica di Salvador Dalì che invita il visitatore a mettere in campo tutti i sensi per interagire con le diverse anime del maestro. Il contributo creativo dell’artista catalano non è, infatti, solo associato alla pittura surrealista ma tocca i più diversi e fertili ambiti della cultura del XX secolo: dal cinema alla moda, dal design alla pubblicità, dalla letteratura alla cucina, fino alla psicanalisi, alla fisica delle particelle e alle nuove tecnologie.
Le opere dialogano con installazioni interattive (animazioni 3d, realtà aumentata e proiezioni immersive) in un tour di continua scoperta e sorpresa, che invita a sperimentare. Ne sono un esempio l'installazione attraverso la quale si può assistete ad un dialogo surreale fra Dalí e il noto critico cinematografico Tati Sanguinetti e la sala totalmente immersiva dedicata a «Spellbound», film di Hitchcock del 1945, che mette in scena la sequenza del sogno in modo analogo a Salvador Dalí nelle sue opere.
La mostra bolognese mette a disposizione del pubblico anche una App di Realtà Aumentata per osservare il paesaggio urbano con lo sguardo dell’artista scoprendo gli strani oggetti del suo mondo distribuiti su tutto il territorio, e fare foto da condividerle sui principali social network, dove la mostra ha una presenza costante con l’hashtag #daliexperience.
Nelle zone più significative della città, da piazza Maggiore ai vari punti con le sculture monumentali, si trovano posizionati a terra dei tondi, con il volto di Dalí e la dicitura «AR Point», che permettono di scaricare l’apposita App semplicemente inquadrando il QR code. Ed ecco che magicamente compaiono elementi 3D animati, strani e sorprendenti oggetti del mondo dell’artista corredati da spiegazioni relative all’elemento visualizzato e da informazioni sulla mostra.
La mostra ha, inoltre, un prolungamento al Museo ebraico dove si tiene «Dalí. A Jewish Experience», che mette a confronto l’universo dell’artista catalano con la religione ebraica e la psicanalisi di Freud attraverso due serie grafiche facenti parte della collezione di Beniamino Levi, curatore e mercante d’arte di origine ebraica.
Il racconto comincia con le «Dodici tribù d’Israele» pensate dall’artista in occasione del 25° anniversario dello Stato d’Israele. Si tratta di 13 grafiche - incisioni più colore applicato con stencil - risalenti al 1972, che ritraggono i capostipiti delle tribù ebraiche. Abba Eban, allora ministro degli affari esteri per Israele, affermava in proposito: «O per la loro ambiguità o per la loro ambivalenza questi ritratti hanno un grande significato per noi. Attraverso la sua immaginazione, abbondante e diversa, Dalí in questo album aiuta a raccontare la civiltà israeliana agli inizi, il suo carattere mistico e la sua evoluzione».
Si prosegue con le illustrazioni per «Moïse et monothéisme», l’ultima opera di Sigmund Freud, in cui lo psicanalista esamina la natura delle religioni monoteiste, la figura di Mosè in relazione alla teoria sul complesso di Edipo e le similitudini che intercorrono tra figura paterna e divinità. Dalí, da sempre affascinato dalla psicanalisi freudiana, nel 1975 crea dieci litografie incise su lastre d’oro e stampate su pelle di pecora, dove intreccia figure erotiche con simboli primitivi, illustrando molti credo di religioni diverse e immagini che rappresentano l’ipotetico Mosè non ebreo di Freud, liberatore degli ebrei dalla schiavitù.
Didascalie delle immagini
[Figg. 1, 2, 3, 4] «Dalì Experience» a Bologna. Fotografie di Gianni Coppola
Informazioni utili
«Dalì Experience». Palazzo Belloni, via Barberia, 19 – Bologna. Orari: da martedì a giovedì e domenica, ore 10.00– 20.00, venerdì e sabato, ore 10.00 – 23.00; lunedì chiuso, la biglietteria chiude 45 minuti prima della mostra. Ingresso con audiopenna interattiva inclusa: intero € 14,00, ridotto € 12,00 o € 7,00. Informazioni: tel. 051.6555000 o info@con-fineart.com. Sito internet: www.daliexperience.it. Fino al 7 maggio 2017.
«Dalì – A Jewish Experience». Museo ebraico, via Valdonica, 1/5 – Bologna. Orari: da domenica a giovedì, ore 10.00-18.00, venerdì, ore 10.00-16.00, chiuso sabato e festività ebraiche. Ingresso: intero € 4,00; ridotto€ 2,00. Informazioni: tel. 051.2911280, info@museoebraicobo.it. Sito internet: www.museoebraicobo.it. Fino al 7 maggio 2017
In queste sale -costruite nel Settecento su progetto di Giuseppe Antonio Torri e decorate al suo interno da artisti come Giovanni Gioseffo dal Sole, Giovanni Girolamo Bonesi, Giovanni Antonio Burrini e Giacinto Garofalini- sono esposte, per iniziativa di con-fine Art, circa duecento opere provenienti dalla collezione «The Dalì Universe» di Beniamino Levi, una delle più ricche documentazioni sull’artista catalano. Si tratta, nello specifico, di ventidue sculture museali, dieci opere in vetro realizzate alla fine degli anni '60 con la famosa cristalleria Daum di Nancy, dodici gold objects, più di cento grafiche tratte da dieci libri illustrati e quattro sculture monumentali posizionate in punti strategici del centro storico: «Dance of time II» (1979-1984) nell’area check-in dell’aeroporto Marconi, «Homage to terpsichore» (1977-1984) in piazza Liber Paradiusus, «Horse saddled with time» (1980) negli storici Giardini Margherita e «Profile of time» (1977-1984) alla Stazione di fronte allo Shoah Memorial.
Il gruppo creativo Loop, eccellenza italiana nella progettazione di tecnologie interattive applicate all’arte e al design, ha creato un percorso in cui la multimedialità e l’interazione diventano parte integrante della narrazione trasmettendo così al pubblico un messaggio emozionale, non didascalico, del fantasmagorico artista catalano.
Dalla bidimensionalità delle grafiche alla tridimensionalità delle sculture, fino alla quarta dimensione virtuale al di là dello spazio e del tempo, la mostra bolognese è, nello specifico, un viaggio alla scoperta della mente poliedrica di Salvador Dalì che invita il visitatore a mettere in campo tutti i sensi per interagire con le diverse anime del maestro. Il contributo creativo dell’artista catalano non è, infatti, solo associato alla pittura surrealista ma tocca i più diversi e fertili ambiti della cultura del XX secolo: dal cinema alla moda, dal design alla pubblicità, dalla letteratura alla cucina, fino alla psicanalisi, alla fisica delle particelle e alle nuove tecnologie.
Le opere dialogano con installazioni interattive (animazioni 3d, realtà aumentata e proiezioni immersive) in un tour di continua scoperta e sorpresa, che invita a sperimentare. Ne sono un esempio l'installazione attraverso la quale si può assistete ad un dialogo surreale fra Dalí e il noto critico cinematografico Tati Sanguinetti e la sala totalmente immersiva dedicata a «Spellbound», film di Hitchcock del 1945, che mette in scena la sequenza del sogno in modo analogo a Salvador Dalí nelle sue opere.
La mostra bolognese mette a disposizione del pubblico anche una App di Realtà Aumentata per osservare il paesaggio urbano con lo sguardo dell’artista scoprendo gli strani oggetti del suo mondo distribuiti su tutto il territorio, e fare foto da condividerle sui principali social network, dove la mostra ha una presenza costante con l’hashtag #daliexperience.
Nelle zone più significative della città, da piazza Maggiore ai vari punti con le sculture monumentali, si trovano posizionati a terra dei tondi, con il volto di Dalí e la dicitura «AR Point», che permettono di scaricare l’apposita App semplicemente inquadrando il QR code. Ed ecco che magicamente compaiono elementi 3D animati, strani e sorprendenti oggetti del mondo dell’artista corredati da spiegazioni relative all’elemento visualizzato e da informazioni sulla mostra.
La mostra ha, inoltre, un prolungamento al Museo ebraico dove si tiene «Dalí. A Jewish Experience», che mette a confronto l’universo dell’artista catalano con la religione ebraica e la psicanalisi di Freud attraverso due serie grafiche facenti parte della collezione di Beniamino Levi, curatore e mercante d’arte di origine ebraica.
Il racconto comincia con le «Dodici tribù d’Israele» pensate dall’artista in occasione del 25° anniversario dello Stato d’Israele. Si tratta di 13 grafiche - incisioni più colore applicato con stencil - risalenti al 1972, che ritraggono i capostipiti delle tribù ebraiche. Abba Eban, allora ministro degli affari esteri per Israele, affermava in proposito: «O per la loro ambiguità o per la loro ambivalenza questi ritratti hanno un grande significato per noi. Attraverso la sua immaginazione, abbondante e diversa, Dalí in questo album aiuta a raccontare la civiltà israeliana agli inizi, il suo carattere mistico e la sua evoluzione».
Si prosegue con le illustrazioni per «Moïse et monothéisme», l’ultima opera di Sigmund Freud, in cui lo psicanalista esamina la natura delle religioni monoteiste, la figura di Mosè in relazione alla teoria sul complesso di Edipo e le similitudini che intercorrono tra figura paterna e divinità. Dalí, da sempre affascinato dalla psicanalisi freudiana, nel 1975 crea dieci litografie incise su lastre d’oro e stampate su pelle di pecora, dove intreccia figure erotiche con simboli primitivi, illustrando molti credo di religioni diverse e immagini che rappresentano l’ipotetico Mosè non ebreo di Freud, liberatore degli ebrei dalla schiavitù.
Didascalie delle immagini
[Figg. 1, 2, 3, 4] «Dalì Experience» a Bologna. Fotografie di Gianni Coppola
Informazioni utili
«Dalì Experience». Palazzo Belloni, via Barberia, 19 – Bologna. Orari: da martedì a giovedì e domenica, ore 10.00– 20.00, venerdì e sabato, ore 10.00 – 23.00; lunedì chiuso, la biglietteria chiude 45 minuti prima della mostra. Ingresso con audiopenna interattiva inclusa: intero € 14,00, ridotto € 12,00 o € 7,00. Informazioni: tel. 051.6555000 o info@con-fineart.com. Sito internet: www.daliexperience.it. Fino al 7 maggio 2017.
«Dalì – A Jewish Experience». Museo ebraico, via Valdonica, 1/5 – Bologna. Orari: da domenica a giovedì, ore 10.00-18.00, venerdì, ore 10.00-16.00, chiuso sabato e festività ebraiche. Ingresso: intero € 4,00; ridotto€ 2,00. Informazioni: tel. 051.2911280, info@museoebraicobo.it. Sito internet: www.museoebraicobo.it. Fino al 7 maggio 2017
lunedì 24 aprile 2017
Craigie Horsfield, riflessioni in forma di fotografia
È frutto di una virtuosa collaborazione del Masi – Museo d’arte della Svizzera italiana con il Centraal Museum di Utrecht e la galleria Large Glass di Londra la mostra «Craigie Horsfield. Of the Deep Present», allestita fino al prossimo 2 luglio negli spazi del Lac – Lugano arte cultura, per la curatela di Marco Franciolli, Edwin Jacobs (attuale direttore del Dortmunder U–Zentrum für Kunst und Kreativität di Dortmund) e Charlotte Schepke.
Nel lavoro di Craigie Horsfield, artista britannico che dagli anni Ottanta conduce una straordinaria indagine sulla natura stessa dell’immagine fotografica, ricorrono ritratti, nature morte, nonché momenti di vita quotidiana, riti e tradizioni popolari, temi e generi diversi rappresentati con tecniche innovative che tendono a stemperare i limiti fra le varie discipline artistiche. La fotografia costituisce, infatti, solo uno dei molteplici tasselli che si sovrappongono nella sua produzione artistica: a partire da un negativo, o da un fotogramma, l’artista produce opere di grande formato realizzate con tecniche sorprendenti e disparate come arazzi e affreschi.
La struttura narrativa della mostra si sviluppa in sezioni tematiche incentrate su opere emblematiche, sovente lavori monumentali come i maestosi arazzi dedicati alla scena apocalittica di Ground Zero o al Golfo di Napoli in un’ambigua visione notturna.
Lo straordinario percorso che ne scaturisce porta alla luce le relazioni che intercorrono fra eventi accaduti in luoghi e momenti apparentemente lontani, fra le persone che ne sono state partecipi e gli spettatori che ne fanno scoperta in mostra.
Per l’esposizione del Masi, l’artista ha realizzato, inoltre, una serie di ritratti inediti. Ciò che prevale in queste immagini è l’esplorazione dei processi attraverso i quali cerchiamo di comprenderci l’un l’altro e di esistere insieme. Al tempo stesso queste opere mostrano l’unicità delle persone che collaborano con l’artista e la loro singolare e unica esistenza nel presente, riconosciuta nell’attenzione dello spettatore, attraverso il raccoglimento, la sensibilità e l’empatia.
La rassegna presenta anche un’installazione sonora composta e mixata da Craigie Horsfield in collaborazione con Reinier Rietveld appositamente per lo spazio espositivo del Masi. Questo elemento sonoro, in dialogo con le altre opere e insieme a esse, contribuisce all’elaborazione di nuovi e specifici significati, documentando anche un profondo e mai abbandonato interesse dell’artista per la musica.
Il concetto di relazione –inteso sia come il legame tra individui sia come il narrare, il raccontare– è centrale nell’opera di Reinier Horsfield. Secondo l’artista un’opera d’arte si realizza pienamente solo grazie al ruolo attivo del pubblico: «Ciò che avviene qui è il riconoscimento di un passaggio di comprensione, di raccoglimento e di identificazione, l’impressione di dare tempo e profonda attenzione al mondo e agli altri, e a un presente profondo. […] A volte questi passaggi sono fluidi nelle loro interrelazioni, altre volte sono spigolosi e discordanti, e all’interno della struttura ci sono strati su strati di associazioni, citazioni e allusioni, dentro le opere, dentro la narrazione e nel corso della storia, la storia immaginata come un presente profondo».
Informazioni utili
Lac - Lugano Arte e Cultura, piazza Bernardino Luini, 6 – Lugano (Svizzera). Orari: martedì – domenica, ore 10.00 – 18.00; giovedì aperto fino alle ore 20.00, lunedì chiuso. Ingresso: intero chf 15.-, ridotto chf 10.- (AVS/AI, over 65 anni, gruppi, studenti 17-25 anni), gratuito per per minori di 16 anni e ogni prima domenica del mese. Informazioni: tel. +41.(0)58.8664230 o info@masilugano.ch. Sito internet: www.masilugano.ch. Fino al 2 luglio 2017.
Nel lavoro di Craigie Horsfield, artista britannico che dagli anni Ottanta conduce una straordinaria indagine sulla natura stessa dell’immagine fotografica, ricorrono ritratti, nature morte, nonché momenti di vita quotidiana, riti e tradizioni popolari, temi e generi diversi rappresentati con tecniche innovative che tendono a stemperare i limiti fra le varie discipline artistiche. La fotografia costituisce, infatti, solo uno dei molteplici tasselli che si sovrappongono nella sua produzione artistica: a partire da un negativo, o da un fotogramma, l’artista produce opere di grande formato realizzate con tecniche sorprendenti e disparate come arazzi e affreschi.
La struttura narrativa della mostra si sviluppa in sezioni tematiche incentrate su opere emblematiche, sovente lavori monumentali come i maestosi arazzi dedicati alla scena apocalittica di Ground Zero o al Golfo di Napoli in un’ambigua visione notturna.
Lo straordinario percorso che ne scaturisce porta alla luce le relazioni che intercorrono fra eventi accaduti in luoghi e momenti apparentemente lontani, fra le persone che ne sono state partecipi e gli spettatori che ne fanno scoperta in mostra.
Per l’esposizione del Masi, l’artista ha realizzato, inoltre, una serie di ritratti inediti. Ciò che prevale in queste immagini è l’esplorazione dei processi attraverso i quali cerchiamo di comprenderci l’un l’altro e di esistere insieme. Al tempo stesso queste opere mostrano l’unicità delle persone che collaborano con l’artista e la loro singolare e unica esistenza nel presente, riconosciuta nell’attenzione dello spettatore, attraverso il raccoglimento, la sensibilità e l’empatia.
La rassegna presenta anche un’installazione sonora composta e mixata da Craigie Horsfield in collaborazione con Reinier Rietveld appositamente per lo spazio espositivo del Masi. Questo elemento sonoro, in dialogo con le altre opere e insieme a esse, contribuisce all’elaborazione di nuovi e specifici significati, documentando anche un profondo e mai abbandonato interesse dell’artista per la musica.
Il concetto di relazione –inteso sia come il legame tra individui sia come il narrare, il raccontare– è centrale nell’opera di Reinier Horsfield. Secondo l’artista un’opera d’arte si realizza pienamente solo grazie al ruolo attivo del pubblico: «Ciò che avviene qui è il riconoscimento di un passaggio di comprensione, di raccoglimento e di identificazione, l’impressione di dare tempo e profonda attenzione al mondo e agli altri, e a un presente profondo. […] A volte questi passaggi sono fluidi nelle loro interrelazioni, altre volte sono spigolosi e discordanti, e all’interno della struttura ci sono strati su strati di associazioni, citazioni e allusioni, dentro le opere, dentro la narrazione e nel corso della storia, la storia immaginata come un presente profondo».
Informazioni utili
Lac - Lugano Arte e Cultura, piazza Bernardino Luini, 6 – Lugano (Svizzera). Orari: martedì – domenica, ore 10.00 – 18.00; giovedì aperto fino alle ore 20.00, lunedì chiuso. Ingresso: intero chf 15.-, ridotto chf 10.- (AVS/AI, over 65 anni, gruppi, studenti 17-25 anni), gratuito per per minori di 16 anni e ogni prima domenica del mese. Informazioni: tel. +41.(0)58.8664230 o info@masilugano.ch. Sito internet: www.masilugano.ch. Fino al 2 luglio 2017.
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