Prosegue al cinema teatro Manzoni di Busto Arsiziol’omaggio alle coppie da palcoscenico, uno dei due temi guida, insieme con la riflessione sul mondo femminile, della stagione «Mettiamo in circolo la cultura», che vede alla direzione artistica Maria Ricucci dell’agenzia «InTeatro» di Opera (Milano).
Dopo Lorella Cuccarini e Giampiero Ingrassia, Gianfranco Jannuzzo e Debora Caprioglio, Valentina Lodovini e Ivano Marescotti, la sala di via Calatafimi aprirà le porte, nell’ambito della stagione cittadina «BA Teatro», a due volti noti e apprezzati della comicità italiana: Max Pisu e Claudio Batta.
I due attori e cabarettisti saranno protagonisti nella serata di venerdì 13 aprile, alle ore 21, dello spettacolo «Il rompiballe» di Francis Veber, apprezzato drammaturgo, sceneggiatore, regista e scrittore di Neuilly-sur-Seine, definito dalla critica il «Neil Simon francese», che il pubblico conosce soprattutto per lo script del film «Il vizietto», diretto da Edouard Molinaro e interpretato da Ugo Tognazzi, e per la commedia demenziale «La cena dei cretini», diventata un cult dopo essere approdata sul grande schermo nel 1998.
A firmare la regia della commedia , la cui traduzione in italiano è firmata da Filippo Ottoni, sarà Marco Rampoldi, che torna con questo testo in teatro, dopo il successo di lavori come «Nudi e crudi» e «Neurone innamorato», avventurandosi nel territorio della «farsa moderna», con l’assistenza di Paola Ornati.
Sul palco, con Max Pisu e Claudio Batta, saliranno alcuni fondamentali compagni d’avventura come Claudio Moneta, Stefania Pepe, Roberta Petrozzi e Giorgio Verduci. Le scene sono state ideate dal dal tre volte premio Ubu (e scenografo degli ultimi capolavori di Luca Ronconi) Marco Rossi e da Mattia Bordoni; i costumi sono stati realizzati da Francesca Faini.
La storia ha una tipica comicità alla francese, paradossale e briosa: in due camere d’albergo adiacenti si trovano Ralf Milan (Claudio Batta), un abile e meticoloso killer che esegue omicidi su commissione per conto della malavita, e François Pignon (Max Pisu), un fotografo «rompiballe» con tendenze suicide, un imbranato e instancabile pasticcione. Entrambi aspettano la comparsa sul balcone del palazzo di fronte di un uomo politico, che sta per fare rivelazioni sconvolgenti. Incaricato di uccidere il politico, il cecchino finirà per rimanere incastrato suo malgrado in un balletto frenetico di mogli esasperate, amanti aggressivi, cameriere impiccione e poliziotti maldestri.
Lo spettacolo finisce così per rivelarsi -a detta della produzione, l'associazione culturale CaNoRa- «veloce, agile, divertente e con un (falso) finale thriller», anche e soprattutto grazie al rapporto, complice e affiatato, tra i due protagonisti, che si scambiano continuamente le parti di vittima e carnefice in un gioco di ribaltamenti, che arriva alle dinamiche delle comiche del muto e che dà vita a un crescendo di divertimento.
Ciò che mi piace di questo spettacolo, oltre alla comicità un po’ paradossale tipica del francesi, -spiega il legnanese Max Pisu- è il fatto che sia io che Claudio abbiamo potuto modellare i personaggi a modo nostro, cucirceli addosso come meglio credevamo. Il mio Pignon, quindi, è un tipo tenero e pacioso come me, che si avvale di una comicità che è anche molto fisica. Mi ci rivedo molto, in questo personaggio, ed è anche per questo che continuo a interpretarlo molto volentieri».
All’insegna delle risate sarà anche l’ultimo appuntamento della stagione «Mettiamo in circolo la cultura» fissato per venerdì 4 maggio, alle ore 21, quando a salire sul palcoscenico del cinema teatro Manzoni sarà «Freddy Aggiustatutto» di Lorenzo Riopi e Tobia Rossi, testo vincitore della quinta edizione del concorso «Una commedia in cerca d'autori», con il quale la sala di via Calatafimi prosegue la propria collaborazione con «La Bilancia Produzioni» (società che gestisce i teatri Martinitt di Milano e de’ Servi di Roma) nella ricerca di talentuosi drammaturghi under 40 che diano nuovo vigore a un genere, quale quello del teatro brillante, che fa parte della nostra storia. Lo spettacolo, per la regia di Roberto Marafante, offre una fotografia spietata e cinica del mondo televisivo, emblema della superficialità e della manipolazione, raccontando la storia di Freddy, un ragazzo ipocondriaco e ingenuo, che, sul piccolo schermo, si trasforma in un macho palestrato disponibile ad aiutare casalinghe disperate.
Il costo del biglietto per la commedia «Il rompiballe» è fissato ad € 33,00 per la poltronissima, € 30,00 (intero) o € 27,00 (ridotto) per la poltrona, € 28,00 (intero) o € 25,00 (ridotto) per la galleria. Le riduzioni sono previste per studenti, over 65 e per gruppi (Cral, scuole, biblioteche e associazioni) composti da minimo dieci persone. Il diritto di prevendita è di euro 1,00.
Il botteghino del cinema teatro Manzoni di Busto Arsizio è aperto per la prevendita con i seguenti orari: dal lunedì al sabato, dalle ore 17 alle ore 19. I biglietti sono comodamente acquistabili anche on-line, tramite il circuito Crea Informatica, sui siti www.cinemateatromanzoni.it e www.webtic.it.
Per maggiori informazioni sulla programmazione della sala è possibile contattare il numero 339.7559644 o lo 0331.677961 (negli orari di apertura del botteghino e in orario serale, dalle ore 20.30 alle ore 21.30, tranne il martedì) o scrivere all’indirizzo info@cinemateatromanzoni.it.
Informazioni utili
www.cinemateatromanzoni.it
ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
mercoledì 11 aprile 2018
lunedì 9 aprile 2018
«Art Around», le gallerie italiane hanno la loro guida on-line
Le gallerie italiane hanno, finalmente, una loro guida on-line. Si tratta di «Art Around - The Italian Gallery Guide», piattaforma nata da un'idea di Cristiana Campanini, giornalista esperta d’arte e design, che vanta collaborazioni con «Abitare», «Arte» e «La Repubblica». L'obiettivo di questo progetto, consultabile su www.artaround.info, è quello di raccontare e valorizzare l'attività delle gallerie italiane, veri e propri centri culturali che ospitano non solo la grande arte storicizzata dei maestri, ma che oggi sono di fatto anche laboratori creativi di innovazione e sperimentazione all'avanguardia.
Il sito si presenta come un grande archivio curato e geolocalizzato, consultabile sia da pc che da smartphone e tablet, che permette ricerche trasversali a vari livelli. A oggi conta un database di oltre trecentosessanta gallerie e circa duemila mostre, raccolte in tre anni su tutto il panorama italiano, disseminate su circa cinquanta città. Ciascuna galleria ha una propria scheda, una breve storia e tutti i dettagli per facilitarne la visita, magari combinata a quella di altre mostre e altre gallerie. Ogni appuntamento è accompagnato da un breve testo ed è illustrato da una ricca raccolta d’immagini, con una speciale attenzione alle installation views.
Al primo sguardo www.artaround.info è un’agenda che offre una scansione cronologica degli appuntamenti («Prossimamente», «Inaugurazioni», «Mostre in corso», «Ultima Occasione»). Allo stesso modo però è un atlante che ci restituisce il mondo delle mostre in galleria attraverso una divisione geografica. E per ciascuna sede o appuntamento, la piattaforma suggerisce anche ciò che accade nelle vicinanze, nel raggio di un chilometro e mezzo, in altre gallerie.
Per approfondimenti o ricerche mirate, si possono anche seguire percorsi per artista (inserendo nome e cognome dell’autore) oppure circoscrivere la selezione a un target specifico (Maestri», Giovani», ecc.). Si può procedere anche inseguendo semplicemente una tecnica («Pittura», «Scultura», «Collage», «Fotografia», ecc.) oppure circoscrivendo una più ampia area d’interesse (Moderna, Contemporanea, Architettura e Design, ecc.). Tra le altre curiosità c’è una ricerca che punta addirittura sui materiali («Vetro», «Ceramica», «Marmo», ecc).
Così mappati, gli eventi delineano un paesaggio nuovo, una scena complessiva, una fiera permanente e in progress, che trattiene in sé la straordinaria ricchezza e la varietà dei percorsi individuali delle gallerie italiane, dall’arte moderna e dai grandi maestri sino alla pura sperimentazione e ai giovani. L’esperienza del sito mira a solleticare la curiosità del collezionista esperto, ma anche a offrire un panorama ampio all'appassionato e accompagnare i primi passi del neofita.
L’idea è di suggerire al visitatore una visita reale in galleria, raccontandone i programmi ma anche le sedi: altrettanto inaspettate, segrete e spettacolari - da ex spazi industriali a magazzini, da ex cinema a sale affrescate di antichi palazzi – le gallerie come luoghi da scoprire quasi mai rientrano nei percorsi classici di una città, anche se da sole a volte potrebbero valere una visita.
«Credo nel valore degli archivi -spiega Cristiana Campanini, ideatrice del progetto- e credo che l'universo delle gallerie italiane delinei un museo diffuso che attende di essere valorizzato. Ogni mese da oltre 10 anni raccolgo i materiali digitali di tutte le mostre in galleria per le mie ricerche giornalistiche, un materiale che ogni mese veniva cestinato dopo una spunta di una decina di eventi. Tre anni fa ho deciso che avrei dovuto trovare il modo per non disperdere la memoria di quelle ricerche, introvabili se non frammentate per città. E per valorizzarle ho capito presto che sarebbe stato necessario sistematizzarle e condividerle, rendendole disponibili in un grande archivio delle gallerie italiane, www.artaround.info».
Informazioni utili
www.artaround.info
Il sito si presenta come un grande archivio curato e geolocalizzato, consultabile sia da pc che da smartphone e tablet, che permette ricerche trasversali a vari livelli. A oggi conta un database di oltre trecentosessanta gallerie e circa duemila mostre, raccolte in tre anni su tutto il panorama italiano, disseminate su circa cinquanta città. Ciascuna galleria ha una propria scheda, una breve storia e tutti i dettagli per facilitarne la visita, magari combinata a quella di altre mostre e altre gallerie. Ogni appuntamento è accompagnato da un breve testo ed è illustrato da una ricca raccolta d’immagini, con una speciale attenzione alle installation views.
Al primo sguardo www.artaround.info è un’agenda che offre una scansione cronologica degli appuntamenti («Prossimamente», «Inaugurazioni», «Mostre in corso», «Ultima Occasione»). Allo stesso modo però è un atlante che ci restituisce il mondo delle mostre in galleria attraverso una divisione geografica. E per ciascuna sede o appuntamento, la piattaforma suggerisce anche ciò che accade nelle vicinanze, nel raggio di un chilometro e mezzo, in altre gallerie.
Per approfondimenti o ricerche mirate, si possono anche seguire percorsi per artista (inserendo nome e cognome dell’autore) oppure circoscrivere la selezione a un target specifico (Maestri», Giovani», ecc.). Si può procedere anche inseguendo semplicemente una tecnica («Pittura», «Scultura», «Collage», «Fotografia», ecc.) oppure circoscrivendo una più ampia area d’interesse (Moderna, Contemporanea, Architettura e Design, ecc.). Tra le altre curiosità c’è una ricerca che punta addirittura sui materiali («Vetro», «Ceramica», «Marmo», ecc).
Così mappati, gli eventi delineano un paesaggio nuovo, una scena complessiva, una fiera permanente e in progress, che trattiene in sé la straordinaria ricchezza e la varietà dei percorsi individuali delle gallerie italiane, dall’arte moderna e dai grandi maestri sino alla pura sperimentazione e ai giovani. L’esperienza del sito mira a solleticare la curiosità del collezionista esperto, ma anche a offrire un panorama ampio all'appassionato e accompagnare i primi passi del neofita.
L’idea è di suggerire al visitatore una visita reale in galleria, raccontandone i programmi ma anche le sedi: altrettanto inaspettate, segrete e spettacolari - da ex spazi industriali a magazzini, da ex cinema a sale affrescate di antichi palazzi – le gallerie come luoghi da scoprire quasi mai rientrano nei percorsi classici di una città, anche se da sole a volte potrebbero valere una visita.
«Credo nel valore degli archivi -spiega Cristiana Campanini, ideatrice del progetto- e credo che l'universo delle gallerie italiane delinei un museo diffuso che attende di essere valorizzato. Ogni mese da oltre 10 anni raccolgo i materiali digitali di tutte le mostre in galleria per le mie ricerche giornalistiche, un materiale che ogni mese veniva cestinato dopo una spunta di una decina di eventi. Tre anni fa ho deciso che avrei dovuto trovare il modo per non disperdere la memoria di quelle ricerche, introvabili se non frammentate per città. E per valorizzarle ho capito presto che sarebbe stato necessario sistematizzarle e condividerle, rendendole disponibili in un grande archivio delle gallerie italiane, www.artaround.info».
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giovedì 5 aprile 2018
Gino Rossi, un artista «contro»
Sessant’anni fa moriva, nel Manicomio di Sant'Artemio a Treviso, Gino Rossi (Venezia, 1884 – Treviso, 1947), artista tra i più interessanti dell’avanguardia veneziana che, nei primi anni del Novecento, trovò il suo centro lavorativo in quel luogo di grande innovazione artistica che fu Ca’ Pesaro tra il 1908 e i primi anni Venti.
In occasione dell’anniversario, la regione natale dell’artista, Il Veneto, propone, in questi giorni, ben due mostre che ne raccontano la parabola creativa, dando il meritato rilievo al suo bel catalogo produttivo che, stando a quanto stilato negli anni Settanta dal Menegazzi, allinea poco più di un centinaio di pezzi, alcuni dei quali dipinti recto-verso verosimilmente per ragioni di economia del supporto, che quasi sempre era cartone.
Nino Barbantini, storico direttore di Ca’ Pesaro, ebbe a ricordare, a tal proposito, che Gino Rossi riuscì a dipingere per pochi anni soltanto, ed è noto che una parte non trascurabile di quanto da lui creato finì distrutta o dispersa, per effetto delle sue vicissitudini personali e familiari.
Ci troviamo, dunque, di fronte a un «artista raro», per usare le parole di Marco Goldin, che ne cura l’omaggio in corso a Treviso, negli spazi del Museo Luigi Bailo, che già ha in collezione una decina di opere del pittore veneziano. Qui, in contemporanea con la grande retrospettiva che la città dedica ad Auguste Rodin, sono esposte diciotto tele dell’artista, uno dei più aggiornati del suo tempo sulla grande pittura figurativa europea, secondo una lezione che proviene dalla poetica cubista e da quella dei Fauves, oltre che dall’esperienza pittorica di Paul Gauguin.
Documenta bene questo tratto distintivo di Gino Rossi anche la mostra veneziana negli spazi della Galleria internazionale d’arte moderna di Ca’ Pesaro, organizzata in collaborazione con Barcor17, che si avvale della curatela di Luca Massimo Barbero ed Elisabetta Barisoni.
L’esposizione, allestita al secondo piano del museo, allinea nello specifico un prezioso nucleo di dipinti dell’artista, acquisiti con intelligenza e conservati con grande passione dalla Fondazione Cariverona, da tempo è impegnata nella promozione e nella valorizzazione del proprio patrimonio artistico.
È, dunque, grazie a un soggiorno a Parigi insieme all’amico e collega Arturo Martini, risalente al 1907, che Gino Rossi, pittore nato a Venezia da una famiglia benestante, si accosta al milieu artistico e culturale della Francia di inizio Novecento. Lì l’artista, che ha studiato tra Fiesole e Venezia, entra in contatto con alcune delle più importanti esperienze artistiche del tempo, che contribuiscono a formare la sua poetica con sguardo internazionale e cosmopolita.
Sulle orme di Paul Gauguin, il pittore veneziano si reca anche in Bretagna nel 1909; nascono così opere connotate da un temperamento forte e da vibranti interpretazioni personali. Si inizia a vedere in questi lavori di Gino Rossi anche un’eco cezanniana che emergerà soprattutto nelle nature morte, ma anche in taluni ritratti, della sua seconda fase artistica.
Il ritorno a Venezia avviene in un periodo in cui Nino Barbantini, appena diventato, a soli 23 anni, direttore della Galleria d’arte moderna e al contempo Segretario della neonata Opera Bevilacqua La Masa, comincia a promuovere la sede di Ca’ Pesaro come un luogo aperto alle tendenze più recenti dell’arte italiana, secondo una visione antiaccademica e antitetica alle prime edizioni dell’Esposizione Internazionale d’arte ai Giardini.
Fin dalla prima mostra, allestita nel 1908, risulta evidente quanto l’arte moderna italiana sia davvero nata tra le pareti del museo veneziano, o quanto meno ne abbia avuto piena espressione in un momento in cui doveva ancora svilupparsi, a livello nazionale, un più articolata rete dedicata alle nuove tendenze.
Tra i primi partecipanti alle mostre capesarine ci sono artisti come Felice Casorati, Umberto Boccioni, Pio Semeghini, Arturo Martini, cui si aggiunge, nel 1910, anche Gino Rossi.
Attraverso i suoi potenti ritratti degli ultimi e dei reietti, o con la sublimazione del colore nei paesaggi onirici della laguna veneta, l’artista emerge ben presto per il suo violento e irreversibile abbandono dell’accademismo e il ritorno ad un’espressività originaria, quasi arcaica.
La forma è per lui elemento «antigrazioso», lontano dalla leziosità di tanta arte dei primi anni del Novecento, in aperta contrapposizione con l’estetica decadente di molti suoi contemporanei. Sono gli anni in cui l’isola di Burano diventa per Gino Rossi la sua Bretagna, luogo ideale ma assolutamente non idilliaco dove passa lunghi soggiorni e dove si trasferisce anche a vivere, nel disagio e nella scomodità più assoluta.
Appartiene a questo periodo uno dei lavori più belli esposti a Treviso: «Case a Burano», un olio su cartone di medio formato, risalente al 1910, che fu tra i tre quadri portati dall’artista all’esposizione di Ca’ Pesaro dello stesso anno, insieme con «La fanciulla del fiore» e «Il muto» (1910), anch’esso presente al Museo Luigi Bailo.
La ritrattistica, come documenta quest’ultimo quadro, si concentra sugli umili, sugli individui ai margini della società. Rossi sceglie, tra l’altro, come protagonisti i pescatori o le loro mogli, cogliendo con pennellata energica e materica lo spirito di ogni figura ed esasperandone i tratti più duri, imperfetti ed esteticamente spiacevoli. Tra i ritratti esposti a Ca’ Pesaro troviamo «Bruto» (1913) uno dei migliori esempi dell’attenzione dell’artista verso i poveri e gli emarginati. Le pennellate forti scavano i tratti del volto, esaltando i segni di una vita difficile resa in tutta la sua crudezza.
Questo ritratto è messo a confronto con la scultura «Buffone» (1913-14) di Arturo Martini, compagno di strada dell’artista nell’essere «contro» l’arte accademica. Si tratta di un grande busto in gesso dipinto che esplicita, in un gioco di rimandi estetici, la grande affinità tra questi due artisti e le similitudini nelle loro ricerche.
Rossi sa, infatti, dare plasticità alle sue opere, dando loro un’illusoria tridimensionalità, come nel caso della bella «Testa di creola» (1913), esposta a Treviso.
L'artista si dimostra, inoltre, differente sai suoi contemporanei anche nella ritrattistica femminile. Le aristocratiche e le borghesi che fecero la fortuna di un altro italiano che molto deve alla Francia, Boldini, lasciano il posto qui a popolane, spesso madri, vestite di scuro e con abiti semplici, distanti anni luce dalle donne sofisticate fin de siècle. Ne danno un ottimo esempio le opere «Ritratto di Signora» (1914) e «Maternità» (1913), esposte a Ca’ Pesaro, a raffronto con «Le Signorine» (1912) di Felice Casorati, tela che racconta, invece, di giovani figlie della borghesia, riprese in un luogo ricco di simboli e riferimenti alla loro vita e alla loro condizione sociale.
In Rossi si percepisce un’impronta espressionista, che abbandona la piacevolezza estetica concentrandosi sulla crudezza. La sua ritrattistica è, a tutti gli effetti, la risposta polemica al decadentismo floreale che troverà la sua conclusione solo con la Prima guerra mondiale.
Anche i paesaggi sono improntati ad un forte espressionismo, e risultano fortemente influenzati dai primi soggiorni in Bretagna: «Douarnenez» (1912) e «Paesaggio nordico» (1911), entrambe esposte a Venezia, e «Primavera in Bretagna» (1909 circa) e «Cittadella bretone in riva al mare» (1910), in mostra a Treviso, risalgono proprio a quel periodo e segnano l’inizio di un approccio che porterà l’artista a un nuovo vedutismo, ancora una volta in contrapposizione con le esperienze artistiche contemporanee.
Il soggetto prediletto, così come per molti suoi colleghi capesarini, è l’isola di Burano: lontana dal fasto decadente del centro storico, la piccola isola è un rifugio e un’inesauribile fonte di ispirazione.
«Barene a Burano» (1912-13) presenta al pubblico della mostra veneziana lo sguardo di Gino Rossi su questo ambiente primitivo ed ancestrale in cui uomo e natura si integrano in un legame indissolubile.
Uno sguardo sulla bellezza della Laguna lo offre anche la rassegna di Treviso con opere come «San Francesco nel deserto» (1912-1913), con le sue macchie di varie tonalità di verde dal segno rapido e stilizzato.
Nelle opere degli anni Dieci, il colore assume per Rossi un significato profondo che non si limita alla sola trasposizione della realtà: i blu, i verdi, i toni caldi dei suoi paesaggi sono in netto contrasto con i toni scuri dei ritratti. Il non-finito diventa mezzo di espressione costante e permette ai vuoti e ai pieni di bilanciarsi, lasciando quel senso di precarietà e di sospensione, tipico dei grandi artisti nella fase più matura.
L’esperienza della Prima guerra mondiale segna per sempre Gino Rossi: i lavori dopo il 1918 sono più articolati e strutturati, incentrati su forme e volumi che riprendono la lezione di Cézanne. Lo dimostrano diversi bozzetti su carta e linoleumgrafie esposti a Venezia, nei quali si nota un avvicinamento allo studio della composizione. È il caso di «Studio per natura morta con violino e pipa» (1922), un disegno a gessetti colorati, e di «Poemetto della sera» (1923), una scena bucolica con animali al chiaro di luna, un senso di quiete precaria in cui il colore si fa più rarefatto e le forme diventano schematiche e archetipiche.
L’esperienza della guerra combattuta al fronte e la prigionia segnano, però, Gino Rossi anche sul piano personale, conducendolo verso l’abisso della malattia mentale.
Nel 1926, dopo solo venti anni di produzione, l’artista viene internato nel manicomio di Sant’Artemio a Treviso: non dipingerà mai più e morirà nel 1947, lasciando una grande incognita su come la sua ricerca artistica avrebbe potuto proseguire, su quali altre importanti pagine avrebbe potuto lasciare Rossi alla storia dell’arte, se il buio dell’anima e degli occhi non lo avesse inghiottito per sempre.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Gino Rossi, Burano, 1912-1914. Olio su cartone, cm 42 x 57,5. Collezione Fondazione Cariverona. ©Archivio Fotografico Fondazione Cariverona; [fig. 2] Gino Rossi, Burano, 1912-1914. Olio su cartone, cm 42 x 57,5, Collezione Fondazione Cariverona. ©Archivio Fotografico Fondazione Cariverona; [fig. 3] Gino Rossi, Maternità, 1913. Olio su cartone, cm 72x64. Fondazione Musei Civici di Venezia, Ca' Pesaro - Galleria Internazionale d'Arte Moderna. ©Archivio fotografico - Fondazione Musei Civici di Venezia; [fig. 4] Gino Rossi, Pescatore Buranese, 1913 ca. Olio su tavola, cm 46x32. Fondazione Musei Civici di Venezia, Ca' Pesaro - Galleria Internazionale d'Arte Moderna. ©Archivio fotografico - Fondazione Musei Civici di Venezia; [fig. 5] Gino Rossi, Paese sul Montello, 1913 circa, olio su cartone, cm 46,5 x 55, collezione privata. © Giuseppe Dall'Arche; [fig. 6] Gino Rossi, Testa di creola, 1913 olio su cartone, cm 35, 8 x 35, collezione privata; [fig. 7] Gino Rossi, San Francesco nel deserto, 1912, olio su cartone, cm 45 x 72, collezione privata. © Giuseppe Dall'Arche; [fig. 8] Gino Rossi, Composizione, 1923-1925. Olio su cartone, cm 40,4 x 61. Collezione Fondazione Cariverona. ©Archivio Fotografico Fondazione Cariverona
Informazioni utili
Omaggio a Gino Rossi. Museo Luigi Bailo, Borgo Cavour, 24 - Treviso. Orari di apertura: da lunedì a giovedì, ore 9-18; da venerdì a domenica, ore 9-19. Ingresso: intero € 6,00, ridotto € 4,00 (gruppi o esibendo il biglietto della mostra Rodin. Un grande scultore al tempo di Monet), ingresso gratuito per le scuole. Informazioni: info@museicivicitreviso.it. Sito internet: www.lineadombra.it. Fino al 3 giugno 2018
Gino Rossi a Venezia. Ca’ Pesaro - Galleria Internazionale d’Arte Moderna - Venezia. Orari: ore 10.00 – 17.00 fino al 31 marzo, ore 10.00 – 18.00 dal 1 aprile (la biglietteria chiude un’ora prima), chiuso il lunedì. Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 7,50 (Ragazzi da 6 a 14 anni; studenti da 15 ai 25 anni; accompagnatori (max. 2) di gruppi di ragazzi o studenti; cittadini over 65; personale del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (MiBACT); titolari di Carta Rolling Venice; titolari di ISIC – International Student Identity Card; soci di TRA Treviso Ricerca Arte), ridotto scuole € 4,00; gratuito per residenti e nati nel Comune di Venezia; bambini da 0 a 5 anni; portatori di handicap con accompagnatore; guide turistiche abilitate e interpreti turistici che accompagnino gruppi o visitatori individuali, per ogni gruppo di almeno 15 persone, 1 ingresso gratuito (solo con prenotazione); docenti accompagnatori di gruppi scolastici, fino ad un massimo di 2 per gruppo; membri ICOM; titolari AMACI Card; partner ordinari MUVE; volontari del Servizio Civile; possessori MUVE Friend Card, Possessori di The Cultivist card (più tre accompagnatori); soci dell’associazione “Amici dei Musei e Monumenti Veneziani”; possessori di Art Pass Venice Foundation.Informazioni: info@fmcvenezia.it, call center 848082000 (dall’Italia), +3904142730892 (dall’estero). Sito internet: www.capesaro.visitmuve.it. Fino al 20 maggio 2018
In occasione dell’anniversario, la regione natale dell’artista, Il Veneto, propone, in questi giorni, ben due mostre che ne raccontano la parabola creativa, dando il meritato rilievo al suo bel catalogo produttivo che, stando a quanto stilato negli anni Settanta dal Menegazzi, allinea poco più di un centinaio di pezzi, alcuni dei quali dipinti recto-verso verosimilmente per ragioni di economia del supporto, che quasi sempre era cartone.
Nino Barbantini, storico direttore di Ca’ Pesaro, ebbe a ricordare, a tal proposito, che Gino Rossi riuscì a dipingere per pochi anni soltanto, ed è noto che una parte non trascurabile di quanto da lui creato finì distrutta o dispersa, per effetto delle sue vicissitudini personali e familiari.
Ci troviamo, dunque, di fronte a un «artista raro», per usare le parole di Marco Goldin, che ne cura l’omaggio in corso a Treviso, negli spazi del Museo Luigi Bailo, che già ha in collezione una decina di opere del pittore veneziano. Qui, in contemporanea con la grande retrospettiva che la città dedica ad Auguste Rodin, sono esposte diciotto tele dell’artista, uno dei più aggiornati del suo tempo sulla grande pittura figurativa europea, secondo una lezione che proviene dalla poetica cubista e da quella dei Fauves, oltre che dall’esperienza pittorica di Paul Gauguin.
Documenta bene questo tratto distintivo di Gino Rossi anche la mostra veneziana negli spazi della Galleria internazionale d’arte moderna di Ca’ Pesaro, organizzata in collaborazione con Barcor17, che si avvale della curatela di Luca Massimo Barbero ed Elisabetta Barisoni.
L’esposizione, allestita al secondo piano del museo, allinea nello specifico un prezioso nucleo di dipinti dell’artista, acquisiti con intelligenza e conservati con grande passione dalla Fondazione Cariverona, da tempo è impegnata nella promozione e nella valorizzazione del proprio patrimonio artistico.
È, dunque, grazie a un soggiorno a Parigi insieme all’amico e collega Arturo Martini, risalente al 1907, che Gino Rossi, pittore nato a Venezia da una famiglia benestante, si accosta al milieu artistico e culturale della Francia di inizio Novecento. Lì l’artista, che ha studiato tra Fiesole e Venezia, entra in contatto con alcune delle più importanti esperienze artistiche del tempo, che contribuiscono a formare la sua poetica con sguardo internazionale e cosmopolita.
Sulle orme di Paul Gauguin, il pittore veneziano si reca anche in Bretagna nel 1909; nascono così opere connotate da un temperamento forte e da vibranti interpretazioni personali. Si inizia a vedere in questi lavori di Gino Rossi anche un’eco cezanniana che emergerà soprattutto nelle nature morte, ma anche in taluni ritratti, della sua seconda fase artistica.
Il ritorno a Venezia avviene in un periodo in cui Nino Barbantini, appena diventato, a soli 23 anni, direttore della Galleria d’arte moderna e al contempo Segretario della neonata Opera Bevilacqua La Masa, comincia a promuovere la sede di Ca’ Pesaro come un luogo aperto alle tendenze più recenti dell’arte italiana, secondo una visione antiaccademica e antitetica alle prime edizioni dell’Esposizione Internazionale d’arte ai Giardini.
Fin dalla prima mostra, allestita nel 1908, risulta evidente quanto l’arte moderna italiana sia davvero nata tra le pareti del museo veneziano, o quanto meno ne abbia avuto piena espressione in un momento in cui doveva ancora svilupparsi, a livello nazionale, un più articolata rete dedicata alle nuove tendenze.
Tra i primi partecipanti alle mostre capesarine ci sono artisti come Felice Casorati, Umberto Boccioni, Pio Semeghini, Arturo Martini, cui si aggiunge, nel 1910, anche Gino Rossi.
Attraverso i suoi potenti ritratti degli ultimi e dei reietti, o con la sublimazione del colore nei paesaggi onirici della laguna veneta, l’artista emerge ben presto per il suo violento e irreversibile abbandono dell’accademismo e il ritorno ad un’espressività originaria, quasi arcaica.
La forma è per lui elemento «antigrazioso», lontano dalla leziosità di tanta arte dei primi anni del Novecento, in aperta contrapposizione con l’estetica decadente di molti suoi contemporanei. Sono gli anni in cui l’isola di Burano diventa per Gino Rossi la sua Bretagna, luogo ideale ma assolutamente non idilliaco dove passa lunghi soggiorni e dove si trasferisce anche a vivere, nel disagio e nella scomodità più assoluta.
Appartiene a questo periodo uno dei lavori più belli esposti a Treviso: «Case a Burano», un olio su cartone di medio formato, risalente al 1910, che fu tra i tre quadri portati dall’artista all’esposizione di Ca’ Pesaro dello stesso anno, insieme con «La fanciulla del fiore» e «Il muto» (1910), anch’esso presente al Museo Luigi Bailo.
La ritrattistica, come documenta quest’ultimo quadro, si concentra sugli umili, sugli individui ai margini della società. Rossi sceglie, tra l’altro, come protagonisti i pescatori o le loro mogli, cogliendo con pennellata energica e materica lo spirito di ogni figura ed esasperandone i tratti più duri, imperfetti ed esteticamente spiacevoli. Tra i ritratti esposti a Ca’ Pesaro troviamo «Bruto» (1913) uno dei migliori esempi dell’attenzione dell’artista verso i poveri e gli emarginati. Le pennellate forti scavano i tratti del volto, esaltando i segni di una vita difficile resa in tutta la sua crudezza.
Questo ritratto è messo a confronto con la scultura «Buffone» (1913-14) di Arturo Martini, compagno di strada dell’artista nell’essere «contro» l’arte accademica. Si tratta di un grande busto in gesso dipinto che esplicita, in un gioco di rimandi estetici, la grande affinità tra questi due artisti e le similitudini nelle loro ricerche.
Rossi sa, infatti, dare plasticità alle sue opere, dando loro un’illusoria tridimensionalità, come nel caso della bella «Testa di creola» (1913), esposta a Treviso.
L'artista si dimostra, inoltre, differente sai suoi contemporanei anche nella ritrattistica femminile. Le aristocratiche e le borghesi che fecero la fortuna di un altro italiano che molto deve alla Francia, Boldini, lasciano il posto qui a popolane, spesso madri, vestite di scuro e con abiti semplici, distanti anni luce dalle donne sofisticate fin de siècle. Ne danno un ottimo esempio le opere «Ritratto di Signora» (1914) e «Maternità» (1913), esposte a Ca’ Pesaro, a raffronto con «Le Signorine» (1912) di Felice Casorati, tela che racconta, invece, di giovani figlie della borghesia, riprese in un luogo ricco di simboli e riferimenti alla loro vita e alla loro condizione sociale.
In Rossi si percepisce un’impronta espressionista, che abbandona la piacevolezza estetica concentrandosi sulla crudezza. La sua ritrattistica è, a tutti gli effetti, la risposta polemica al decadentismo floreale che troverà la sua conclusione solo con la Prima guerra mondiale.
Anche i paesaggi sono improntati ad un forte espressionismo, e risultano fortemente influenzati dai primi soggiorni in Bretagna: «Douarnenez» (1912) e «Paesaggio nordico» (1911), entrambe esposte a Venezia, e «Primavera in Bretagna» (1909 circa) e «Cittadella bretone in riva al mare» (1910), in mostra a Treviso, risalgono proprio a quel periodo e segnano l’inizio di un approccio che porterà l’artista a un nuovo vedutismo, ancora una volta in contrapposizione con le esperienze artistiche contemporanee.
Il soggetto prediletto, così come per molti suoi colleghi capesarini, è l’isola di Burano: lontana dal fasto decadente del centro storico, la piccola isola è un rifugio e un’inesauribile fonte di ispirazione.
«Barene a Burano» (1912-13) presenta al pubblico della mostra veneziana lo sguardo di Gino Rossi su questo ambiente primitivo ed ancestrale in cui uomo e natura si integrano in un legame indissolubile.
Uno sguardo sulla bellezza della Laguna lo offre anche la rassegna di Treviso con opere come «San Francesco nel deserto» (1912-1913), con le sue macchie di varie tonalità di verde dal segno rapido e stilizzato.
Nelle opere degli anni Dieci, il colore assume per Rossi un significato profondo che non si limita alla sola trasposizione della realtà: i blu, i verdi, i toni caldi dei suoi paesaggi sono in netto contrasto con i toni scuri dei ritratti. Il non-finito diventa mezzo di espressione costante e permette ai vuoti e ai pieni di bilanciarsi, lasciando quel senso di precarietà e di sospensione, tipico dei grandi artisti nella fase più matura.
L’esperienza della Prima guerra mondiale segna per sempre Gino Rossi: i lavori dopo il 1918 sono più articolati e strutturati, incentrati su forme e volumi che riprendono la lezione di Cézanne. Lo dimostrano diversi bozzetti su carta e linoleumgrafie esposti a Venezia, nei quali si nota un avvicinamento allo studio della composizione. È il caso di «Studio per natura morta con violino e pipa» (1922), un disegno a gessetti colorati, e di «Poemetto della sera» (1923), una scena bucolica con animali al chiaro di luna, un senso di quiete precaria in cui il colore si fa più rarefatto e le forme diventano schematiche e archetipiche.
L’esperienza della guerra combattuta al fronte e la prigionia segnano, però, Gino Rossi anche sul piano personale, conducendolo verso l’abisso della malattia mentale.
Nel 1926, dopo solo venti anni di produzione, l’artista viene internato nel manicomio di Sant’Artemio a Treviso: non dipingerà mai più e morirà nel 1947, lasciando una grande incognita su come la sua ricerca artistica avrebbe potuto proseguire, su quali altre importanti pagine avrebbe potuto lasciare Rossi alla storia dell’arte, se il buio dell’anima e degli occhi non lo avesse inghiottito per sempre.
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Gino Rossi, Burano, 1912-1914. Olio su cartone, cm 42 x 57,5. Collezione Fondazione Cariverona. ©Archivio Fotografico Fondazione Cariverona; [fig. 2] Gino Rossi, Burano, 1912-1914. Olio su cartone, cm 42 x 57,5, Collezione Fondazione Cariverona. ©Archivio Fotografico Fondazione Cariverona; [fig. 3] Gino Rossi, Maternità, 1913. Olio su cartone, cm 72x64. Fondazione Musei Civici di Venezia, Ca' Pesaro - Galleria Internazionale d'Arte Moderna. ©Archivio fotografico - Fondazione Musei Civici di Venezia; [fig. 4] Gino Rossi, Pescatore Buranese, 1913 ca. Olio su tavola, cm 46x32. Fondazione Musei Civici di Venezia, Ca' Pesaro - Galleria Internazionale d'Arte Moderna. ©Archivio fotografico - Fondazione Musei Civici di Venezia; [fig. 5] Gino Rossi, Paese sul Montello, 1913 circa, olio su cartone, cm 46,5 x 55, collezione privata. © Giuseppe Dall'Arche; [fig. 6] Gino Rossi, Testa di creola, 1913 olio su cartone, cm 35, 8 x 35, collezione privata; [fig. 7] Gino Rossi, San Francesco nel deserto, 1912, olio su cartone, cm 45 x 72, collezione privata. © Giuseppe Dall'Arche; [fig. 8] Gino Rossi, Composizione, 1923-1925. Olio su cartone, cm 40,4 x 61. Collezione Fondazione Cariverona. ©Archivio Fotografico Fondazione Cariverona
Informazioni utili
Omaggio a Gino Rossi. Museo Luigi Bailo, Borgo Cavour, 24 - Treviso. Orari di apertura: da lunedì a giovedì, ore 9-18; da venerdì a domenica, ore 9-19. Ingresso: intero € 6,00, ridotto € 4,00 (gruppi o esibendo il biglietto della mostra Rodin. Un grande scultore al tempo di Monet), ingresso gratuito per le scuole. Informazioni: info@museicivicitreviso.it. Sito internet: www.lineadombra.it. Fino al 3 giugno 2018
Gino Rossi a Venezia. Ca’ Pesaro - Galleria Internazionale d’Arte Moderna - Venezia. Orari: ore 10.00 – 17.00 fino al 31 marzo, ore 10.00 – 18.00 dal 1 aprile (la biglietteria chiude un’ora prima), chiuso il lunedì. Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 7,50 (Ragazzi da 6 a 14 anni; studenti da 15 ai 25 anni; accompagnatori (max. 2) di gruppi di ragazzi o studenti; cittadini over 65; personale del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (MiBACT); titolari di Carta Rolling Venice; titolari di ISIC – International Student Identity Card; soci di TRA Treviso Ricerca Arte), ridotto scuole € 4,00; gratuito per residenti e nati nel Comune di Venezia; bambini da 0 a 5 anni; portatori di handicap con accompagnatore; guide turistiche abilitate e interpreti turistici che accompagnino gruppi o visitatori individuali, per ogni gruppo di almeno 15 persone, 1 ingresso gratuito (solo con prenotazione); docenti accompagnatori di gruppi scolastici, fino ad un massimo di 2 per gruppo; membri ICOM; titolari AMACI Card; partner ordinari MUVE; volontari del Servizio Civile; possessori MUVE Friend Card, Possessori di The Cultivist card (più tre accompagnatori); soci dell’associazione “Amici dei Musei e Monumenti Veneziani”; possessori di Art Pass Venice Foundation.Informazioni: info@fmcvenezia.it, call center 848082000 (dall’Italia), +3904142730892 (dall’estero). Sito internet: www.capesaro.visitmuve.it. Fino al 20 maggio 2018
mercoledì 28 marzo 2018
Da Amelia a Montone, arte e cibo nei borghi dell’Umbria
Terra di arte e spiritualità, ma anche di prelibatezze enogastronomiche come l’olio e il Sagrantino: l’Umbria è una regione dai mille volti, che vale la pena di scoprire durante le vacanze pasquali, magari andando a visitare uno dei suoi tanti borghi fortificati.
Il viaggio può avere inizio da Amelia, dove proprio nei giorni della Settimana santa, o meglio nella giornata di sabato 31 marzo, inaugurerà «Sentieri», un festival di arte contemporanea, alla sua prima edizione, che porterà nei palazzi nobiliari e nelle note cisterne sotterranee della bella cittadina, di origine romana, una trentina di giovani artisti e poeti di varie nazionalità, invitati da Claudio Pieroni del Centro ricerca arte contemporanea.
L’esposizione, realizzata con la consulenza dell’associazione culturale «Feng Huang», che vede alla guida Luo Guixia, «immagina -a detta degli organizzatori- le tappe di un percorso visivo e simbolico che accomuna, sfiorandole, la memoria e la metafora di viaggi lontani, tra «La Via della seta» e la «Via Francigena», che in questo territorio di orizzonti a perdita d’occhio, si sono incrociate secoli addietro».
Dipinti, fotografie, video e installazioni racconteranno, dunque, quel ricco tessuto di scambi culturali che si costruiva durante i lunghi viaggi di pellegrini e mercanti tra Oriente e Occidente, dando vita a feconde commistioni di lingue, abitudini, riti e comportamenti.
La mostra, che rimarrà aperta nei giorni di Pasqua, Pasquetta e tutti i sabati e le domeniche fino al 29 aprile (dalle ore 11.30 alle ore 19; sono possibili aperture straordinarie chiamando i numeri 335.7077948 o 3487595963), offrirà anche l’occasione per visitare spazi solitamente chiusi al pubblico, da antiche dimore come il prestigioso e rinascimentale Palazzo Venturelli, riqualificato in elegante residenza d’epoca con annessa osteria, a luoghi in abbandono che popolano le vie del centro storico come botteghe chiuse, officine in disuso e magazzini dimenticati, ma abitati ancora da oggetti, strumenti e suppellettili che ne conservano la memoria.
Per l’occasione saranno visitabili anche gli spazi monumentali delle cisterne romane, risalenti al II secolo a.C.. Questo sito, di grande suggestione, è ubicato sotto piazza Matteotti ed è costituito da un sistema di dieci locali deputati alla raccolte delle acque piovane per dissetare gli antichi abitanti della città di Amelia, conosciuta anche per essere la patria dei fichi girotti.
Spostandoci verso il nord dell’Umbria, una visita nei giorni di Pasqua la merita anche il borgo di Montone. Qui, lunedì 2 aprile è in programma la prima ostensione della Santa Spina, una festa ricca di spiritualità, fortemente legata alla storia del borgo. La festa si svolge in due tappe, una di un giorno, il lunedì dell’Angelo, e la seconda nella settimana di ferragosto, con un programma incentrato su una rievocazione storica fedelissima che richiama a Montone migliaia di visitatori.
I documenti storici narrano che proprio il Lunedì dell’Angelo Carlo Fortebracci, figlio del celebre condottiero Braccio, donò a Montone la Spina della corona di Cristo ricevuta dalla Serenissima Repubblica di Venezia, per i suoi servigi militari. C’è anche una leggenda secondo la quale questa Spina, oggi conservata nel convento di Sant’Agnese, sarebbe fiorita il Venerdì Santo, emanando un dolcissimo profumo.
La Pro Loco e il Comune di Montone predispongono ogni anno un programma di eventi molto ricco che si apre la mattina con la lettura del Proclama del Gran Gonfaloniero e con l’arrivo del conte Carlo Fortebracci e dei suoi soldati a cavallo, seguito dal corteo storico della Donazione della Santa Spina con i rappresentanti dei tre rioni, accompagnato dai tamburi e dalle chiarine del Castello.
Il reliquiario della Santa Spina sarà visitabile per l’intero pomeriggio nella chiesa della Collegiata. Oltre ai riti religiosi sono previsti diversi appuntamenti ricreativi, dal mercato medievale dei mestieranti del contado di Montone e dei castelli vicini, ai giochi in piazza e agli spettacoli di burattini per i bambini. In programma, infine, l’omaggio alla corte degli «Arcieri Malatesta» di Montone e l’esibizione dei locali sbandieratori.
Punta, invece, sulle sue specialità enogastronomiche il borgo di Montefalco, la patria del Sagrantrino e degli affreschi di Benozzo Gozzoli sulla vita di San Francesco, per i giorni pasquali. Dal 31 marzo al 2 aprile ci sarà, infatti, nella cittadina umbra la manifestazione «Terre del Sagrantino», una rassegna dove sarà possibile trovare anche formaggi, salumi, ceramiche e tessuti, i protagonisti per eccellenza del territorio umbro nel magnifico Chiostro di Sant'Agostino.
In questi primi giorni di primavera merita una visita anche Trevi, dove il 21 e il 22 aprile andrà in scena l’undicesima edizione di«Pic & Nic. Arte, musica e merende tra gli ulivi» , che offrirà l’occasione per conoscere una parte di quel suggestivo paesaggio della Fascia Olivata Assisi-Spoleto, recentemente premiato come Paesaggio rurale storico dal Ministero delle Politiche agricole.
Didascalie delle immagini
[Figg. 1 e 2] Amelia; [figg. 3 e 4] Montone; [fig. 5] Trevi, una scena della festa «Pic & Nic. Arte, musica e merende tra gli ulivi» [Si ringrazia per le immagini Michela Federici di www.addcomunicazione.it]
Informazioni utili
www.sentieriartecontemporanea.com
www.comunemontone.it
www.treviturismo.it
www.picnicatrevi.it
Il viaggio può avere inizio da Amelia, dove proprio nei giorni della Settimana santa, o meglio nella giornata di sabato 31 marzo, inaugurerà «Sentieri», un festival di arte contemporanea, alla sua prima edizione, che porterà nei palazzi nobiliari e nelle note cisterne sotterranee della bella cittadina, di origine romana, una trentina di giovani artisti e poeti di varie nazionalità, invitati da Claudio Pieroni del Centro ricerca arte contemporanea.
L’esposizione, realizzata con la consulenza dell’associazione culturale «Feng Huang», che vede alla guida Luo Guixia, «immagina -a detta degli organizzatori- le tappe di un percorso visivo e simbolico che accomuna, sfiorandole, la memoria e la metafora di viaggi lontani, tra «La Via della seta» e la «Via Francigena», che in questo territorio di orizzonti a perdita d’occhio, si sono incrociate secoli addietro».
Dipinti, fotografie, video e installazioni racconteranno, dunque, quel ricco tessuto di scambi culturali che si costruiva durante i lunghi viaggi di pellegrini e mercanti tra Oriente e Occidente, dando vita a feconde commistioni di lingue, abitudini, riti e comportamenti.
La mostra, che rimarrà aperta nei giorni di Pasqua, Pasquetta e tutti i sabati e le domeniche fino al 29 aprile (dalle ore 11.30 alle ore 19; sono possibili aperture straordinarie chiamando i numeri 335.7077948 o 3487595963), offrirà anche l’occasione per visitare spazi solitamente chiusi al pubblico, da antiche dimore come il prestigioso e rinascimentale Palazzo Venturelli, riqualificato in elegante residenza d’epoca con annessa osteria, a luoghi in abbandono che popolano le vie del centro storico come botteghe chiuse, officine in disuso e magazzini dimenticati, ma abitati ancora da oggetti, strumenti e suppellettili che ne conservano la memoria.
Per l’occasione saranno visitabili anche gli spazi monumentali delle cisterne romane, risalenti al II secolo a.C.. Questo sito, di grande suggestione, è ubicato sotto piazza Matteotti ed è costituito da un sistema di dieci locali deputati alla raccolte delle acque piovane per dissetare gli antichi abitanti della città di Amelia, conosciuta anche per essere la patria dei fichi girotti.
Spostandoci verso il nord dell’Umbria, una visita nei giorni di Pasqua la merita anche il borgo di Montone. Qui, lunedì 2 aprile è in programma la prima ostensione della Santa Spina, una festa ricca di spiritualità, fortemente legata alla storia del borgo. La festa si svolge in due tappe, una di un giorno, il lunedì dell’Angelo, e la seconda nella settimana di ferragosto, con un programma incentrato su una rievocazione storica fedelissima che richiama a Montone migliaia di visitatori.
I documenti storici narrano che proprio il Lunedì dell’Angelo Carlo Fortebracci, figlio del celebre condottiero Braccio, donò a Montone la Spina della corona di Cristo ricevuta dalla Serenissima Repubblica di Venezia, per i suoi servigi militari. C’è anche una leggenda secondo la quale questa Spina, oggi conservata nel convento di Sant’Agnese, sarebbe fiorita il Venerdì Santo, emanando un dolcissimo profumo.
La Pro Loco e il Comune di Montone predispongono ogni anno un programma di eventi molto ricco che si apre la mattina con la lettura del Proclama del Gran Gonfaloniero e con l’arrivo del conte Carlo Fortebracci e dei suoi soldati a cavallo, seguito dal corteo storico della Donazione della Santa Spina con i rappresentanti dei tre rioni, accompagnato dai tamburi e dalle chiarine del Castello.
Il reliquiario della Santa Spina sarà visitabile per l’intero pomeriggio nella chiesa della Collegiata. Oltre ai riti religiosi sono previsti diversi appuntamenti ricreativi, dal mercato medievale dei mestieranti del contado di Montone e dei castelli vicini, ai giochi in piazza e agli spettacoli di burattini per i bambini. In programma, infine, l’omaggio alla corte degli «Arcieri Malatesta» di Montone e l’esibizione dei locali sbandieratori.
Punta, invece, sulle sue specialità enogastronomiche il borgo di Montefalco, la patria del Sagrantrino e degli affreschi di Benozzo Gozzoli sulla vita di San Francesco, per i giorni pasquali. Dal 31 marzo al 2 aprile ci sarà, infatti, nella cittadina umbra la manifestazione «Terre del Sagrantino», una rassegna dove sarà possibile trovare anche formaggi, salumi, ceramiche e tessuti, i protagonisti per eccellenza del territorio umbro nel magnifico Chiostro di Sant'Agostino.
In questi primi giorni di primavera merita una visita anche Trevi, dove il 21 e il 22 aprile andrà in scena l’undicesima edizione di
Didascalie delle immagini
[Figg. 1 e 2] Amelia; [figg. 3 e 4] Montone; [fig. 5] Trevi, una scena della festa «Pic & Nic. Arte, musica e merende tra gli ulivi» [Si ringrazia per le immagini Michela Federici di www.addcomunicazione.it]
Informazioni utili
www.sentieriartecontemporanea.com
www.comunemontone.it
www.treviturismo.it
www.picnicatrevi.it
lunedì 26 marzo 2018
«Marie Antoinette», a Prato «i costumi di una regina da Oscar»
È il 2006 quando Sofia Coppola presenta sugli schermi cinematografici di tutto il mondo una versione inedita della vita della giovane regina Maria Antonietta. Partendo dalla lettura della biografia scritta nel 1932 dallo storico Stefan Zweig, la regista americana restituisce agli spettatori una versione più autentica della giovane austriaca della casata d’Asburgo-Lorena, diventata nel 1791 regina di Francia, e degli eventi che, a corte, determinarono la sua personalità.
Salita al trono a soli diciannove anni con un marito come re Luigi XVI inadeguato alla vita coniugale, Maria Antonietta, interpretata su grande schermo da Kirsten Dunst, compensa le mancanze affettive rifugiandosi nel lusso.
Il clima di leggerezza e freschezza della giovane, quasi una moderna adolescente talvolta annoiata, talaltra felice all’eccesso, viene rappresentato da Sofia Coppola con frequenti scene di balli, giochi, risate, ambientazioni caratterizzate da colori pastello, presenza di dolci e dolciumi, lussuosi abiti di seta ideati dalla costumista Milena Canonero.
Sono proprio questi vestiti al centro della nuova mostra promossa dal Museo del tessuto di Prato, in occasione della rassegna «Il Capriccio e la ragione. Eleganze del Settecento europeo», organizzata con le Gallerie degli Uffizi e il Museo Stibbert di Firenze.
«Marie Antoinette. I costumi di una regina da Oscar», questo il titolo dell’esposizione, si avvale della collaborazione di «The One», la più giovane sartoria cinematografica e teatrale di Roma, che custodisce un vastissimo patrimonio di abiti tesi a raccontare la storia dello spettacolo televisivo, teatrale e cinematografico italiano e straniero.
I costumi esposti, ritenuti dalla critica frutto della migliore reinterpretazione cinematografica mai realizzata dell’abbigliamento del XVIII secolo, sono stati premiati con un premio Oscar nel 2007. Il tutto ha concorso a fare di questa pellicola un fenomeno di costume e di moda che ha segnato un nuovo modo di interpretare il soggetto storico nel cinema: la selezione sweet candy dei colori hanno reso preziosa, contemporanea e glamour l’immagine della protagonista, osando in dettagli paradossali -le scarpe di Manolo Blahnik e le All Star Converse indossate dalla regina- la cui citazione ha generato un potente ponte mediatico con il pubblico giovanile.
Il percorso espositivo si apre con una sezione dedicata alla figura di Maria Antonietta. Un’istallazione multimediale ripercorre non solo le tappe più significative della sua vita, ma racconta anche il contesto sociale in cui è vissuta e soprattutto la sua grande passione per la moda.
La sua immagine pubblica è frutto della fantasiosa inventiva dei migliori artigiani di Francia: abiti sontuosi, accessori raffinati, parrucche stravaganti e preziosi gioielli definiscono il suo stile, imitato non solo dalle nobildonne di Versailles, ma da tutte le corti europee.
Accanto ad alcuni corsetti e sottogonne - allestiti come delle istallazioni contemporanee ad evocare le rigide e complesse sottostrutture degli abiti femminili del secolo– risalta l’abito realizzato per lo shooting che la rivista «Vogue America» ha dedicato al film e che generato, grazie all’originalità delle scene e delle immagini, spunti e suggestioni nei creativi del fashion.
Da questa presentazione storica la mostra prosegue nella grande sala che accoglie oltre venti costumi maschili e femminili indossati dai protagonisti del film: dall’abito invernale da giorno indossato dalla protagonista alla partenza dalla corte di Vienna all’abito composto da busto e doppio panier della famosa scena della vestizione alla francese; dai costumi indossati da Maria Antonietta e Luigi XVI per l’incoronazione a quelli legati agli incontri con il duca di Fersen e Madame du Barry fino a quelli delle scene della fuga da Versailles.
Tutti i pezzi esposti sono di proprietà dell’archivio di «The One», sartoria che si è occupata di dare anima alle idee della Canonero, realizzando circa centosettanta costumi, di cui più di cento solo per la protagonista Kirsten Dunst. Il lavoro ha tenuto conto del ritratto psicologico della protagonista proposto dalla regista americana ed è frutto di un’approfondita indagine iconografica sulla pittura europea del Settecento che ha permesso di studiare le fogge, i gioielli, le acconciature, i ricami e le sottostrutture.
«La ricerca dei materiali – racconta Alessandra Cinti, titolare della sartoria romana- è stata minuziosa, lunga e complessa, soprattutto per quanto riguarda le rifiniture con l’impiego di merletti, ricami e applicazioni, alcuni dei quali addirittura originali dell’epoca. Una volta cucite ai costumi, le rifiniture hanno contribuito a valorizzare la preziosità dei tessuti, come nel caso dell’abito in seta dalla mano “croccante” che Maria Antonietta indossa per l’incoronazione, uno dei più belli e complessi di tutta la produzione».
Per l’occasione la sala espositiva del Museo del tessuto di Prato è stata trasformata in un’architettura che evoca i grandi saloni di Versailles, con cornici sospese e un’imponente scalinata a gradoni, metafora della parabola di successi e drammi vissuti da Marie Antoinette.
Al centro della grande pedana una proiezione inventa uno spazio all’aperto che richiama i giardini del Trianon, ambiente tanto caro alla regina; mentre alcuni frame del film creano una relazione stringente tra i costumi e il racconto cinematografico di Sofia Coppola. Quasi a dire che, certe volte, pizzi, merletti, acconciature a puf e profumi di cipria possono trasformare un’attrice in una regina tra le più discusse della storia. In una regina per un giorno.
Didascalie delle immagini
[Figg.1,2, e 3] Veduta della mostra «Maria Antoinette. I costumi di una regina da Oscar». Foto di Leonardo Salvini; [fig. 4] Maria Antonietta riceve una lettera dalla madre. Progetto Milena Canonero. Manifattura Gabriele Mayer, 2006. Abiti di corte con doppio panier. Archivio storico Sartoria The One, Roma. Indossato da: Kirsten Dunst; [fig. 5] La toilette di Maria Antonietta. Progetto Milena Canonero. Manifattura Gabriele Mayer, 2006. Robe a l'Anglaise e sottoveste. Archivio storico Sartoria The One, Roma. Indossato da: Kirsten Dunst
Informazioni utili
Maria Antoinette. I costumi di una regina da Oscar. Museo del Tessuto, via Puccetti, 3 – Prato. Orari: martedì – giovedì, ore 10.00-15.00; venerdì e sabato, ore 10.00-19.00; domenica, ore 15.00-19.00; chiuso il lunedì. Ingresso: intero € 7,00, ridotto € 5,00. Sito web: www.museodeltessuto.it. Fin al 27 maggio 2018.
Salita al trono a soli diciannove anni con un marito come re Luigi XVI inadeguato alla vita coniugale, Maria Antonietta, interpretata su grande schermo da Kirsten Dunst, compensa le mancanze affettive rifugiandosi nel lusso.
Il clima di leggerezza e freschezza della giovane, quasi una moderna adolescente talvolta annoiata, talaltra felice all’eccesso, viene rappresentato da Sofia Coppola con frequenti scene di balli, giochi, risate, ambientazioni caratterizzate da colori pastello, presenza di dolci e dolciumi, lussuosi abiti di seta ideati dalla costumista Milena Canonero.
Sono proprio questi vestiti al centro della nuova mostra promossa dal Museo del tessuto di Prato, in occasione della rassegna «Il Capriccio e la ragione. Eleganze del Settecento europeo», organizzata con le Gallerie degli Uffizi e il Museo Stibbert di Firenze.
«Marie Antoinette. I costumi di una regina da Oscar», questo il titolo dell’esposizione, si avvale della collaborazione di «The One», la più giovane sartoria cinematografica e teatrale di Roma, che custodisce un vastissimo patrimonio di abiti tesi a raccontare la storia dello spettacolo televisivo, teatrale e cinematografico italiano e straniero.
I costumi esposti, ritenuti dalla critica frutto della migliore reinterpretazione cinematografica mai realizzata dell’abbigliamento del XVIII secolo, sono stati premiati con un premio Oscar nel 2007. Il tutto ha concorso a fare di questa pellicola un fenomeno di costume e di moda che ha segnato un nuovo modo di interpretare il soggetto storico nel cinema: la selezione sweet candy dei colori hanno reso preziosa, contemporanea e glamour l’immagine della protagonista, osando in dettagli paradossali -le scarpe di Manolo Blahnik e le All Star Converse indossate dalla regina- la cui citazione ha generato un potente ponte mediatico con il pubblico giovanile.
Il percorso espositivo si apre con una sezione dedicata alla figura di Maria Antonietta. Un’istallazione multimediale ripercorre non solo le tappe più significative della sua vita, ma racconta anche il contesto sociale in cui è vissuta e soprattutto la sua grande passione per la moda.
La sua immagine pubblica è frutto della fantasiosa inventiva dei migliori artigiani di Francia: abiti sontuosi, accessori raffinati, parrucche stravaganti e preziosi gioielli definiscono il suo stile, imitato non solo dalle nobildonne di Versailles, ma da tutte le corti europee.
Accanto ad alcuni corsetti e sottogonne - allestiti come delle istallazioni contemporanee ad evocare le rigide e complesse sottostrutture degli abiti femminili del secolo– risalta l’abito realizzato per lo shooting che la rivista «Vogue America» ha dedicato al film e che generato, grazie all’originalità delle scene e delle immagini, spunti e suggestioni nei creativi del fashion.
Da questa presentazione storica la mostra prosegue nella grande sala che accoglie oltre venti costumi maschili e femminili indossati dai protagonisti del film: dall’abito invernale da giorno indossato dalla protagonista alla partenza dalla corte di Vienna all’abito composto da busto e doppio panier della famosa scena della vestizione alla francese; dai costumi indossati da Maria Antonietta e Luigi XVI per l’incoronazione a quelli legati agli incontri con il duca di Fersen e Madame du Barry fino a quelli delle scene della fuga da Versailles.
Tutti i pezzi esposti sono di proprietà dell’archivio di «The One», sartoria che si è occupata di dare anima alle idee della Canonero, realizzando circa centosettanta costumi, di cui più di cento solo per la protagonista Kirsten Dunst. Il lavoro ha tenuto conto del ritratto psicologico della protagonista proposto dalla regista americana ed è frutto di un’approfondita indagine iconografica sulla pittura europea del Settecento che ha permesso di studiare le fogge, i gioielli, le acconciature, i ricami e le sottostrutture.
«La ricerca dei materiali – racconta Alessandra Cinti, titolare della sartoria romana- è stata minuziosa, lunga e complessa, soprattutto per quanto riguarda le rifiniture con l’impiego di merletti, ricami e applicazioni, alcuni dei quali addirittura originali dell’epoca. Una volta cucite ai costumi, le rifiniture hanno contribuito a valorizzare la preziosità dei tessuti, come nel caso dell’abito in seta dalla mano “croccante” che Maria Antonietta indossa per l’incoronazione, uno dei più belli e complessi di tutta la produzione».
Per l’occasione la sala espositiva del Museo del tessuto di Prato è stata trasformata in un’architettura che evoca i grandi saloni di Versailles, con cornici sospese e un’imponente scalinata a gradoni, metafora della parabola di successi e drammi vissuti da Marie Antoinette.
Al centro della grande pedana una proiezione inventa uno spazio all’aperto che richiama i giardini del Trianon, ambiente tanto caro alla regina; mentre alcuni frame del film creano una relazione stringente tra i costumi e il racconto cinematografico di Sofia Coppola. Quasi a dire che, certe volte, pizzi, merletti, acconciature a puf e profumi di cipria possono trasformare un’attrice in una regina tra le più discusse della storia. In una regina per un giorno.
Didascalie delle immagini
[Figg.1,2, e 3] Veduta della mostra «Maria Antoinette. I costumi di una regina da Oscar». Foto di Leonardo Salvini; [fig. 4] Maria Antonietta riceve una lettera dalla madre. Progetto Milena Canonero. Manifattura Gabriele Mayer, 2006. Abiti di corte con doppio panier. Archivio storico Sartoria The One, Roma. Indossato da: Kirsten Dunst; [fig. 5] La toilette di Maria Antonietta. Progetto Milena Canonero. Manifattura Gabriele Mayer, 2006. Robe a l'Anglaise e sottoveste. Archivio storico Sartoria The One, Roma. Indossato da: Kirsten Dunst
Informazioni utili
Maria Antoinette. I costumi di una regina da Oscar. Museo del Tessuto, via Puccetti, 3 – Prato. Orari: martedì – giovedì, ore 10.00-15.00; venerdì e sabato, ore 10.00-19.00; domenica, ore 15.00-19.00; chiuso il lunedì. Ingresso: intero € 7,00, ridotto € 5,00. Sito web: www.museodeltessuto.it. Fin al 27 maggio 2018.
sabato 24 marzo 2018
Lugano, un Klee a misura di bambini al «Museo in erba»
«I miei disegni possono volare! Con la mia immaginazione posso andare dove desidero senza muovermi… e quello che vedo lo disegno. La mia fantasia e la mia matita sono le mie ali». Così Paul Klee (Münchenbuchsee, Berna, 1879 - Locarno 1940) parlava della sua arte, fatta di case, strade, persone, ma anche di tanti, tantissimi colori.
La capacità dell'artista svizzero di trasformare la realtà in un mondo poetico di favole e sogni e di raccontare sulla tela i propri pensieri e le proprie emozioni, rendendo visibile ciò che non è percepibile ai nostri occhi, non può non affascinare i più piccoli e a proprio a loro è dedicato il nuovo progetto del Museo in erba di Lugano.
Nelle sale dell’edificio di Riva Caccia è, infatti, in corso fino al prossimo 31 agosto la mostra interattiva «I giochi di Klee», ideata da Marilune Aeberhard e Roland Besse, con il sostegno economico della Credit Suisse Foundation.
«Le tavole del mio piccolo Felix sono migliori delle mie, troppo spesso filtrate dal mio cervello» (Félix Klee, «Souvenir de mon père», in Klee, Fondation Pierre Gianadda, Martigny, 1985): questa citazione dell’artista spiega bene l’attrazione che su di lui ha esercitato la produzione infantile. I bambini, i giovani e tutti quelli che hanno un cuore da bambino si ritrovano così ben espressi nel suo universo creativo e ancora si meravigliano di fronte al suo mondo di linee e colori.
Paul Klee è stato un ricercatore curioso, un artista completo che ha saputo giocare con forme, suoni e tecniche sempre diverse: dal disegno al ricalco, dall’acquarello all’olio, alla vaporizzazione dei colori ad acqua. La sua opera coinvolge tutti i sensi: l’odore acre della tela di juta, la musica onnipresente, la rugosità dei materiali, la poesia dei colori, il gusto delle dolci tonalità raccontano un universo creativo caleidoscopico, che ha guardato anche alla filosofia e alle scienze naturali.
I moduli variopinti del percorso espositivo contengono riproduzioni di dipinti e invitano i bambini a interagire con originali manipolazioni che coinvolgono i sensi e l’immaginazione. Passo dopo passo, i piccoli visitatori entrano in un universo magico di emozioni e divertimento popolato da personaggi simpatici e «fuori dagli schemi», da strane invenzioni, scacchiere e paesaggi colorati. Da protagonisti, possono animare la «Macchina cinguettante», comporre personali «Armonie», sistemare gli occhi del simpatico «Senecio», illuminare «Il pesce d’oro», usare la bilancia dei colori, e tanto altro ancora.
Accanto all’animazione classica, il Museo in erba propone alle scuole e alle famiglie anche un nuovo approccio multidisciplinare, ideato in collaborazione con Lisa Monn (educatrice in campo musicale) e Francesca Sproccati (danzatrice e coreografa), che invita a comprendere l’opera attraverso i sensi, a mettersi in gioco per interpretarla con gli occhi, il corpo, la voce e le mani.
Uno spazio speciale della mostra è rappresentato dall’atelier, dove i più piccoli trovano lo spazio, gli strumenti, le tecniche e l’ispirazione per creare i loro personali capolavori e hanno la possibilità di approfondire la conoscenza di Klee e di alcuni suoi amici del Blaue Reiter. Le attività del laboratorio si arricchiscono di due nuovi progetti: «Il mio primo libro dell’arte» e «Giochi d’arte». La prima proposta invita i bambini a creare la loro personalissima raccolta di opere, aggiungendo di volta in volta una pagina dedicata a un artista diverso, da Vermeer a Lichtenstein. La seconda iniziativa prevede, invece, la sperimentazione di tecniche inusuali che stimolano la curiosità verso il mondo dell’arte.
Sono in programma anche attività ed eventi particolari come il laboratorio «Ciak, si gira» con Alessia Tamagni (24 marzo), una lezione con le matite sonore di Luca Congedo (7 aprile) e la visita guidata «Piccoli esploratori in città» (22 aprile). Il Museo in erba proporrà anche un ricco calendario di iniziative per l’estate, in cantiere dal 18 giugno al 26 luglio e dal 20 al 31 agosto.
La mostra permette, dunque, un incontro creativo tra i bambini e Klee. Scoprire l'artista di Berna attraverso il gioco permetterà ai più piccoli di ritrovare un immaginario simile alla loro interpretazione del mondo che li circonda, giocando, decorando, sperimentando, osservando e -perché no- sognando di diventare un artista famoso.
Informazioni utili
I giochi di Paul Klee. Museo in erba, Riva Caccia, 1A - Galleria Central Park 1° piano - Lugano. Orari: lunedì - venerdì, ore 8.30 - 11.30 e ore 13.30 - 16.30; sabato, domenica, ore 14.00 - 17.00 | aperture straordinarie: 19 marzo, 2 aprile e 21 maggio | dal 18 giugno al 26 luglio, martedì-mercoledì-giovedì, ore 9.00 – 12.00 (e su appuntamento per gruppi). Ingresso:Fr. 5.-. Informazioni: tel. + 41 91 835.52.54; ilmuseoinerba@bluewin.ch. Sito internet: www.museoinerba.com. Fino al 31 agosto 2018.
La capacità dell'artista svizzero di trasformare la realtà in un mondo poetico di favole e sogni e di raccontare sulla tela i propri pensieri e le proprie emozioni, rendendo visibile ciò che non è percepibile ai nostri occhi, non può non affascinare i più piccoli e a proprio a loro è dedicato il nuovo progetto del Museo in erba di Lugano.
Nelle sale dell’edificio di Riva Caccia è, infatti, in corso fino al prossimo 31 agosto la mostra interattiva «I giochi di Klee», ideata da Marilune Aeberhard e Roland Besse, con il sostegno economico della Credit Suisse Foundation.
«Le tavole del mio piccolo Felix sono migliori delle mie, troppo spesso filtrate dal mio cervello» (Félix Klee, «Souvenir de mon père», in Klee, Fondation Pierre Gianadda, Martigny, 1985): questa citazione dell’artista spiega bene l’attrazione che su di lui ha esercitato la produzione infantile. I bambini, i giovani e tutti quelli che hanno un cuore da bambino si ritrovano così ben espressi nel suo universo creativo e ancora si meravigliano di fronte al suo mondo di linee e colori.
Paul Klee è stato un ricercatore curioso, un artista completo che ha saputo giocare con forme, suoni e tecniche sempre diverse: dal disegno al ricalco, dall’acquarello all’olio, alla vaporizzazione dei colori ad acqua. La sua opera coinvolge tutti i sensi: l’odore acre della tela di juta, la musica onnipresente, la rugosità dei materiali, la poesia dei colori, il gusto delle dolci tonalità raccontano un universo creativo caleidoscopico, che ha guardato anche alla filosofia e alle scienze naturali.
I moduli variopinti del percorso espositivo contengono riproduzioni di dipinti e invitano i bambini a interagire con originali manipolazioni che coinvolgono i sensi e l’immaginazione. Passo dopo passo, i piccoli visitatori entrano in un universo magico di emozioni e divertimento popolato da personaggi simpatici e «fuori dagli schemi», da strane invenzioni, scacchiere e paesaggi colorati. Da protagonisti, possono animare la «Macchina cinguettante», comporre personali «Armonie», sistemare gli occhi del simpatico «Senecio», illuminare «Il pesce d’oro», usare la bilancia dei colori, e tanto altro ancora.
Accanto all’animazione classica, il Museo in erba propone alle scuole e alle famiglie anche un nuovo approccio multidisciplinare, ideato in collaborazione con Lisa Monn (educatrice in campo musicale) e Francesca Sproccati (danzatrice e coreografa), che invita a comprendere l’opera attraverso i sensi, a mettersi in gioco per interpretarla con gli occhi, il corpo, la voce e le mani.
Uno spazio speciale della mostra è rappresentato dall’atelier, dove i più piccoli trovano lo spazio, gli strumenti, le tecniche e l’ispirazione per creare i loro personali capolavori e hanno la possibilità di approfondire la conoscenza di Klee e di alcuni suoi amici del Blaue Reiter. Le attività del laboratorio si arricchiscono di due nuovi progetti: «Il mio primo libro dell’arte» e «Giochi d’arte». La prima proposta invita i bambini a creare la loro personalissima raccolta di opere, aggiungendo di volta in volta una pagina dedicata a un artista diverso, da Vermeer a Lichtenstein. La seconda iniziativa prevede, invece, la sperimentazione di tecniche inusuali che stimolano la curiosità verso il mondo dell’arte.
Sono in programma anche attività ed eventi particolari come il laboratorio «Ciak, si gira» con Alessia Tamagni (24 marzo), una lezione con le matite sonore di Luca Congedo (7 aprile) e la visita guidata «Piccoli esploratori in città» (22 aprile). Il Museo in erba proporrà anche un ricco calendario di iniziative per l’estate, in cantiere dal 18 giugno al 26 luglio e dal 20 al 31 agosto.
La mostra permette, dunque, un incontro creativo tra i bambini e Klee. Scoprire l'artista di Berna attraverso il gioco permetterà ai più piccoli di ritrovare un immaginario simile alla loro interpretazione del mondo che li circonda, giocando, decorando, sperimentando, osservando e -perché no- sognando di diventare un artista famoso.
Informazioni utili
I giochi di Paul Klee. Museo in erba, Riva Caccia, 1A - Galleria Central Park 1° piano - Lugano. Orari: lunedì - venerdì, ore 8.30 - 11.30 e ore 13.30 - 16.30; sabato, domenica, ore 14.00 - 17.00 | aperture straordinarie: 19 marzo, 2 aprile e 21 maggio | dal 18 giugno al 26 luglio, martedì-mercoledì-giovedì, ore 9.00 – 12.00 (e su appuntamento per gruppi). Ingresso:Fr. 5.-. Informazioni: tel. + 41 91 835.52.54; ilmuseoinerba@bluewin.ch. Sito internet: www.museoinerba.com. Fino al 31 agosto 2018.
giovedì 22 marzo 2018
Venezia, con un touch alla scoperta di San Giorgio Maggiore e della Fondazione Cini
Accessibilità, valorizzazione e conservazione: sono queste tre parole a tessere la trama della politica culturale della Fondazione Giorgio Cini. In quest’ottica si inserisce il nuovo programma di visite guidate all’istituzione veneziana, ubicata sull’isola di San Giorgio Maggiore, in programma fino al prossimo 15 luglio, anche grazie alla collaborazione della società D’Uva di Firenze. L’azienda toscana ha, infatti, progettato un apposito percorso videoguidato, con tecnologia touch e un’interfaccia semplice e intuitiva, ideale anche per i più piccini.
Il progetto, realizzato grazie alla preziosa partnership di Assicurazioni Generali, è in cinque lingue (italiano, inglese, spagnolo, francese e tedesco) e comprende diciassette punti d’interesse più tre approfondimenti multimediali, per circa un’ora complessiva di ascolto.
In questo modo il complesso monumentale veneziano rimarrà aperto sette giorni su sette, dalle ore 10 alle ore 17, attivando così anche un meccanismo sostenibile e duraturo di recupero delle risorse da destinare al restauro conservativo dei beni di proprietà dell’istituzione veneziana.
Per organizzare al meglio l’accoglienza dei visitatori la Fondazione Cini ha aperto contestualmente anche un nuovo punto informativo di circa cento metri quadrati, sede della biglietteria e del bookshop, nella quale è possibile prenotare la visita guidata, chiedere informazioni sulle sue iniziative e acquistare prodotti di merchandising dedicati.
Allo scoccare di ogni ora i visitatori vengono raccolti in gruppi di venticinque persone e accompagnati da un operatore lungo il percorso.
La tecnologia progettata dalla società D’Uva permette di vivere un’esperienza unica, che grazie a foto, video e interviste può costruire una memoria personale dell’esperienza di visita.
Le videoguide sono, inoltre, dotate del sistema groupguide, che consente al dispositivo dell’accompagnatore di avviare contemporaneamente un certo numero di guide multimediali nello stesso punto di ascolto per rendere il gruppo compatto nello spostamento, permettendo così la visita in contemporanea di gruppi di nazionalità e lingue diverse.
L’esperienza di visita sarà ulteriormente arricchita in una seconda fase da nuove funzionalità: la tecnologia beacon, che permette ai visitatori di individuare la propria posizione e visualizzare automaticamente sul proprio dispositivo il contenuto legato all’ambiente in cui si trovano, e la realtà aumentata, per scoprire, attraverso la videocamera del dispositivo, il panorama visibile dall’Isola di San Giorgio.
Il tour inizia con il Chiostro Palladiano, seguito dal Chiostro Buora o dei Cipressi, che dei due è quello più antico. Si passa allo spazio del refettorio che si sviluppa attraverso tre ambienti: i due vestiboli e l’aula del Cenacolo vero e proprio, dove si può ammirare il facsimile de «Le Nozze di Cana», realizzato da Factum Arte. Un approfondimento viene dato alla boiserie creata e disegnata da Michele De Lucchi nel 2011. La visita prosegue nella Sala delle Fotografie, dove si può vedere lo stato del complesso monumentale di San Giorgio prima dell’avvio dei restauri intrapresi da Vittorio Cini nel 1951.
Seguendo il percorso indicato dalla nuova segnaletica di orientamento, che è stata progettata per l’occasione, si giunge quindi allo Scalone del Longhena, che porta al primo piano. Da qui si visitano le due biblioteche: la Biblioteca del Longhena, senza dubbio uno degli ambienti più interessanti della Venezia barocca, e la Nuova Manica Lunga, ex dormitorio dei benedettini trasformato in biblioteca dall’intervento di Michele De Lucchi. L’itinerario termina con la vista del Labirinto Borges, disegnato da Randoll Coate e ispirato al racconto borgesiano «Il giardino dei sentieri che si biforcano».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Chiostro del Palladio - Venezia, Fondazione Cini. Foto di Davide Repetto per D'Uva; [fig. 2] - Venezia, Fondazione Cini. Foto di Davide Repetto per D'Uva; [fig. 3] Scalone del Longhena - - Venezia, Fondazione Cini. Foto di Davide Repetto per D'Uva; [fig. 4] Servizio videoguide di D'Uva
Informazioni utili
D'Uva - Call center, tel. +39.366.4202181 o visitcini@duva.eu (lunedì – venerdì, dalle ore 10.00 alle ore 17.00)
Il progetto, realizzato grazie alla preziosa partnership di Assicurazioni Generali, è in cinque lingue (italiano, inglese, spagnolo, francese e tedesco) e comprende diciassette punti d’interesse più tre approfondimenti multimediali, per circa un’ora complessiva di ascolto.
In questo modo il complesso monumentale veneziano rimarrà aperto sette giorni su sette, dalle ore 10 alle ore 17, attivando così anche un meccanismo sostenibile e duraturo di recupero delle risorse da destinare al restauro conservativo dei beni di proprietà dell’istituzione veneziana.
Per organizzare al meglio l’accoglienza dei visitatori la Fondazione Cini ha aperto contestualmente anche un nuovo punto informativo di circa cento metri quadrati, sede della biglietteria e del bookshop, nella quale è possibile prenotare la visita guidata, chiedere informazioni sulle sue iniziative e acquistare prodotti di merchandising dedicati.
Allo scoccare di ogni ora i visitatori vengono raccolti in gruppi di venticinque persone e accompagnati da un operatore lungo il percorso.
La tecnologia progettata dalla società D’Uva permette di vivere un’esperienza unica, che grazie a foto, video e interviste può costruire una memoria personale dell’esperienza di visita.
Le videoguide sono, inoltre, dotate del sistema groupguide, che consente al dispositivo dell’accompagnatore di avviare contemporaneamente un certo numero di guide multimediali nello stesso punto di ascolto per rendere il gruppo compatto nello spostamento, permettendo così la visita in contemporanea di gruppi di nazionalità e lingue diverse.
L’esperienza di visita sarà ulteriormente arricchita in una seconda fase da nuove funzionalità: la tecnologia beacon, che permette ai visitatori di individuare la propria posizione e visualizzare automaticamente sul proprio dispositivo il contenuto legato all’ambiente in cui si trovano, e la realtà aumentata, per scoprire, attraverso la videocamera del dispositivo, il panorama visibile dall’Isola di San Giorgio.
Il tour inizia con il Chiostro Palladiano, seguito dal Chiostro Buora o dei Cipressi, che dei due è quello più antico. Si passa allo spazio del refettorio che si sviluppa attraverso tre ambienti: i due vestiboli e l’aula del Cenacolo vero e proprio, dove si può ammirare il facsimile de «Le Nozze di Cana», realizzato da Factum Arte. Un approfondimento viene dato alla boiserie creata e disegnata da Michele De Lucchi nel 2011. La visita prosegue nella Sala delle Fotografie, dove si può vedere lo stato del complesso monumentale di San Giorgio prima dell’avvio dei restauri intrapresi da Vittorio Cini nel 1951.
Seguendo il percorso indicato dalla nuova segnaletica di orientamento, che è stata progettata per l’occasione, si giunge quindi allo Scalone del Longhena, che porta al primo piano. Da qui si visitano le due biblioteche: la Biblioteca del Longhena, senza dubbio uno degli ambienti più interessanti della Venezia barocca, e la Nuova Manica Lunga, ex dormitorio dei benedettini trasformato in biblioteca dall’intervento di Michele De Lucchi. L’itinerario termina con la vista del Labirinto Borges, disegnato da Randoll Coate e ispirato al racconto borgesiano «Il giardino dei sentieri che si biforcano».
Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Chiostro del Palladio - Venezia, Fondazione Cini. Foto di Davide Repetto per D'Uva; [fig. 2] - Venezia, Fondazione Cini. Foto di Davide Repetto per D'Uva; [fig. 3] Scalone del Longhena - - Venezia, Fondazione Cini. Foto di Davide Repetto per D'Uva; [fig. 4] Servizio videoguide di D'Uva
Informazioni utili
D'Uva - Call center, tel. +39.366.4202181 o visitcini@duva.eu (lunedì – venerdì, dalle ore 10.00 alle ore 17.00)
martedì 20 marzo 2018
Roma, la Rigoni di Asiago restaura la fontana di Palazzo Venezia
Il lato dolce del restauro ha il volto di Rigoni di Asiago. Dal 2015 la famosa azienda veneta leader nella produzione biologica del miele e delle confetture di qualità, da sempre attenta ai valori legati alla tradizione e alla cultura, si occupa anche di dare nuova vita a importanti monumenti del nostro Paese. Dopo aver sostenuto, nel 2015, l’importante intervento di recupero dell’Atrio dei Gesuiti, l’entrata storica del prestigioso Palazzo di Brera a Milano, e, nel 2017, il restauro dell’originale della statua di San Teodoro al Palazzo Ducale di Venezia, Rigoni di Asiago ha deciso di proseguire il proprio percorso della valorizzazione dei beni culturali approdando nella capitale.
«La natura nel cuore di Roma» è la frase identificativa del progetto, promosso da Fondaco che, con l’occasione festeggia il settantesimo restauro della sua decennale storia. Al centro del progetto di riqualificazione c’è la fontana «Venezia sposa il mare», opera d’arte collocata nello splendido giardino di Palazzo Venezia, che rappresenta uno dei momenti più importanti della città lagunare: la festa della Sènsa, la cui celebrazione si tiene ogni anno da oltre mille nel bacino di San Marco, a ricordo della conquista della Dalmazia da parte delle navi capeggiate dal Doge Pietro Orseolo, evento che segna la liberazione del mar Adriatico dalla pirateria.
La scelta di restaurare questa fontana da parte di Fondaco e Rigoni di Asiago, due aziende che hanno il proprio cuore operativo in Veneto, rappresenta il collegamento perfetto di storie e contenuti tra la città lagunare e Roma. «Lo stesso Palazzo Venezia -ricordano Enrico Bressan, presidente di Fondaco, e Andrea Rigoni, amministratore delegato della Rigoni di Asiago- fu voluto dal cardinale veneziano Pietro Barbo, che fu anche vescovo di Vicenza e che divenne papa, con il nome di Paolo II, nel settembre del 1464. Questo magnifico luogo è stato per decenni il riferimento, il punto d’incontro sia per i veneti che risiedevano a Roma sia per quelli che soltanto vi transitavano, rappresentando così l’espressione di una comunità che, pur lontana dalla sua terra, poteva trovare una casa nella capitale».
L’intervento conservativo sulla fontana -operato di concerto con il Polo museale del Lazio, diretto da Edith Gabrielli- fa parte di un ben più ampio progetto di riqualificazione di Palazzo Venezia, che nel giugno 2016 ha visto il restauro del giardino, da tempo ridotto a parcheggio, e che, l’anno successivo, ha restituito alla sua funzione principale l'accesso su piazza Venezia, presentando anche itinerari inediti grazie ai quali è possibile comprendere la profonda relazione che sussiste tra il monumento e la sua collocazione all’interno della città di Roma. Si rileggono così immediatamente le prospettive rinascimentali e il rapporto con la chiesa di San Marco che era andato perduto nei secoli. Per chi attraversa il giardino, la fontana rappresenta, inoltre, un perno compositivo, visibile da tutti gli ingressi, un punto di attrazione che accoglie durante il giorno centinaia di visitatori e per molti significa una sosta, un momento inaspettato di pace che si presenta nel cuore più caotico della città.
Costruita nel 1730 dallo scultore stuccatore Carlo Monaldi per l'incarico dell'allora ambasciatore della repubblica veneta Barbon Morosini, la fontana di Palazzo Venezia è formata da una grande vasca ellittica, con bordo a fior di terra, fiancheggiata da un corridoio con due lunghi sedili in pietra ingentiliti da quattro graziosi puttini, aggiunti nel 1930 dal Prini, che sostengono gli stemmi dei territori d'oltremare conquistati da Venezia: Cipro, Dalmazia, Morea e Candia.
Nella vasca numerosi pesci in travertino gettano sottili zampilli d'acqua mentre al centro, su una doppia conchiglia sostenuta da tre robusti tritoni, si erge una statua marmorea raffigurante Venezia, in fiero atteggiamento, con il corno dogale sul capo e in atto di gettare l'anello nuziale per lo sposalizio del mare.
Ai sui piedi figura da una parte il leone alato di San Marco con un libro aperto, dall'altra un sorridente puttino che svolge un rotolo con un’iscrizione in latino.
Le operazioni di riqualificazione della fontana, eseguite dalla ditta Pantone Restauri di Roma, avranno inizio con lo svuotamento dalla vasca e una serie di indagini diagnostiche, documentate attraverso immagini fotografiche ad alta risoluzione, che ne evidenzieranno il degrado e i fattori inquinanti.
Il substrato lapideo che presenta diffuse decoesioni, prevalentemente sulle zone usurate dal passaggio dell’acqua, sarà temporaneamente stuccato con malta composta da minor legante aereo rispetto alla carica.
Dopo aver messo in sicurezza le parti pericolanti si potrà procedere alla pulitura meccanica con pennellesse e specifici aspiratori.
Le superfici in cui è presente guano saranno disinfestate; sarà, quindi, effettuato un trattamento per l’eliminazione di muschi, licheni, funghi, muffe, alghe e piante superiori.
Prima dei lavaggi tutti gli elementi in ferro verranno trattati per evitare la dispersione di ruggine e il rischio di macchiare la superficie del marmo con l’ossido di ferro.
Le malte cementizie delle connessure tra gli elementi lapidei e delle stuccature saranno rimosse mediante scalpelli e microscalpelli pneumatici.
Per le nuove stuccature sarà impiegata la calce idraulica naturale caratterizzata da compattezza, buon potere legante, ottima dilatazione termica.
Per equilibrare le stuccature alle superfici lapidee circostanti verranno aggiunte le polveri di marmo. Per le stuccature maggiori che prevedono anche ricostruzioni di piccoli porzioni di modellato sarà impiegato il Traver Stuc, che verrà idoneamente pigmentato a somiglianza della superficie limitrofa da reintegrare.
L’intervento all’interno della vasca prevedrà la rimozione degli strati di malta aggiunti negli anni, in arte sconnessi e localmente fessurati, e la nuova impermeabilizzazione previa rinzaffatura e sigillatura delle sottostanti superfici lapidee. Il nuovo rivestimento impermeabilizzante sarà effettuato impiegando speciale malta idraulica composta da leganti ad alta resistenza chimico-meccanica.
«Per il restauro della fontana «Venezia sposa il mare», la cui conclusione è prevista per l’estate 2018, si è pensato -racconta, infine, Sonia Martone, direttore di Palazzo Venezia- a un cantiere aperto, che permetterà di apprezzare la progressione delle attività e di organizzare visite guidate di approfondimento e divulgazione. Sarà inoltre possibile seguire in diretta le varie fasi del restauro grazie ad una webcam per la ripresa delle operazioni che sarà pubblicata in tempo reale sulla piattaforma web skylinewebcams.com in una pagina creata appositamente».
Ma in questi mesi di restauro sono in programma anche altri eventi, tra cui golose merende Rigoni per avvicinare le famiglie a questo bel luogo che permette di vivere naturalmente l’arte.
Informazioni utili
Museo nazionale di Palazzo Venezia, via del Plebiscito, 118 - Roma. Informazioni: tel. 06.69994284. Sito internet: www.museopalazzovenezia.beniculturali.it
«La natura nel cuore di Roma» è la frase identificativa del progetto, promosso da Fondaco che, con l’occasione festeggia il settantesimo restauro della sua decennale storia. Al centro del progetto di riqualificazione c’è la fontana «Venezia sposa il mare», opera d’arte collocata nello splendido giardino di Palazzo Venezia, che rappresenta uno dei momenti più importanti della città lagunare: la festa della Sènsa, la cui celebrazione si tiene ogni anno da oltre mille nel bacino di San Marco, a ricordo della conquista della Dalmazia da parte delle navi capeggiate dal Doge Pietro Orseolo, evento che segna la liberazione del mar Adriatico dalla pirateria.
La scelta di restaurare questa fontana da parte di Fondaco e Rigoni di Asiago, due aziende che hanno il proprio cuore operativo in Veneto, rappresenta il collegamento perfetto di storie e contenuti tra la città lagunare e Roma. «Lo stesso Palazzo Venezia -ricordano Enrico Bressan, presidente di Fondaco, e Andrea Rigoni, amministratore delegato della Rigoni di Asiago- fu voluto dal cardinale veneziano Pietro Barbo, che fu anche vescovo di Vicenza e che divenne papa, con il nome di Paolo II, nel settembre del 1464. Questo magnifico luogo è stato per decenni il riferimento, il punto d’incontro sia per i veneti che risiedevano a Roma sia per quelli che soltanto vi transitavano, rappresentando così l’espressione di una comunità che, pur lontana dalla sua terra, poteva trovare una casa nella capitale».
L’intervento conservativo sulla fontana -operato di concerto con il Polo museale del Lazio, diretto da Edith Gabrielli- fa parte di un ben più ampio progetto di riqualificazione di Palazzo Venezia, che nel giugno 2016 ha visto il restauro del giardino, da tempo ridotto a parcheggio, e che, l’anno successivo, ha restituito alla sua funzione principale l'accesso su piazza Venezia, presentando anche itinerari inediti grazie ai quali è possibile comprendere la profonda relazione che sussiste tra il monumento e la sua collocazione all’interno della città di Roma. Si rileggono così immediatamente le prospettive rinascimentali e il rapporto con la chiesa di San Marco che era andato perduto nei secoli. Per chi attraversa il giardino, la fontana rappresenta, inoltre, un perno compositivo, visibile da tutti gli ingressi, un punto di attrazione che accoglie durante il giorno centinaia di visitatori e per molti significa una sosta, un momento inaspettato di pace che si presenta nel cuore più caotico della città.
Costruita nel 1730 dallo scultore stuccatore Carlo Monaldi per l'incarico dell'allora ambasciatore della repubblica veneta Barbon Morosini, la fontana di Palazzo Venezia è formata da una grande vasca ellittica, con bordo a fior di terra, fiancheggiata da un corridoio con due lunghi sedili in pietra ingentiliti da quattro graziosi puttini, aggiunti nel 1930 dal Prini, che sostengono gli stemmi dei territori d'oltremare conquistati da Venezia: Cipro, Dalmazia, Morea e Candia.
Nella vasca numerosi pesci in travertino gettano sottili zampilli d'acqua mentre al centro, su una doppia conchiglia sostenuta da tre robusti tritoni, si erge una statua marmorea raffigurante Venezia, in fiero atteggiamento, con il corno dogale sul capo e in atto di gettare l'anello nuziale per lo sposalizio del mare.
Ai sui piedi figura da una parte il leone alato di San Marco con un libro aperto, dall'altra un sorridente puttino che svolge un rotolo con un’iscrizione in latino.
Le operazioni di riqualificazione della fontana, eseguite dalla ditta Pantone Restauri di Roma, avranno inizio con lo svuotamento dalla vasca e una serie di indagini diagnostiche, documentate attraverso immagini fotografiche ad alta risoluzione, che ne evidenzieranno il degrado e i fattori inquinanti.
Il substrato lapideo che presenta diffuse decoesioni, prevalentemente sulle zone usurate dal passaggio dell’acqua, sarà temporaneamente stuccato con malta composta da minor legante aereo rispetto alla carica.
Dopo aver messo in sicurezza le parti pericolanti si potrà procedere alla pulitura meccanica con pennellesse e specifici aspiratori.
Le superfici in cui è presente guano saranno disinfestate; sarà, quindi, effettuato un trattamento per l’eliminazione di muschi, licheni, funghi, muffe, alghe e piante superiori.
Prima dei lavaggi tutti gli elementi in ferro verranno trattati per evitare la dispersione di ruggine e il rischio di macchiare la superficie del marmo con l’ossido di ferro.
Le malte cementizie delle connessure tra gli elementi lapidei e delle stuccature saranno rimosse mediante scalpelli e microscalpelli pneumatici.
Per le nuove stuccature sarà impiegata la calce idraulica naturale caratterizzata da compattezza, buon potere legante, ottima dilatazione termica.
Per equilibrare le stuccature alle superfici lapidee circostanti verranno aggiunte le polveri di marmo. Per le stuccature maggiori che prevedono anche ricostruzioni di piccoli porzioni di modellato sarà impiegato il Traver Stuc, che verrà idoneamente pigmentato a somiglianza della superficie limitrofa da reintegrare.
L’intervento all’interno della vasca prevedrà la rimozione degli strati di malta aggiunti negli anni, in arte sconnessi e localmente fessurati, e la nuova impermeabilizzazione previa rinzaffatura e sigillatura delle sottostanti superfici lapidee. Il nuovo rivestimento impermeabilizzante sarà effettuato impiegando speciale malta idraulica composta da leganti ad alta resistenza chimico-meccanica.
«Per il restauro della fontana «Venezia sposa il mare», la cui conclusione è prevista per l’estate 2018, si è pensato -racconta, infine, Sonia Martone, direttore di Palazzo Venezia- a un cantiere aperto, che permetterà di apprezzare la progressione delle attività e di organizzare visite guidate di approfondimento e divulgazione. Sarà inoltre possibile seguire in diretta le varie fasi del restauro grazie ad una webcam per la ripresa delle operazioni che sarà pubblicata in tempo reale sulla piattaforma web skylinewebcams.com in una pagina creata appositamente».
Ma in questi mesi di restauro sono in programma anche altri eventi, tra cui golose merende Rigoni per avvicinare le famiglie a questo bel luogo che permette di vivere naturalmente l’arte.
Informazioni utili
Museo nazionale di Palazzo Venezia, via del Plebiscito, 118 - Roma. Informazioni: tel. 06.69994284. Sito internet: www.museopalazzovenezia.beniculturali.it
domenica 18 marzo 2018
Shio Kusaka e le sue ceramiche in mostra a Roma
Sono strutture delicate e minimaliste, con lievi incisioni sulla superficie che ne danno un aspetto irregolare, quelle che Shio Kusaka, artista nipponica con base a Los Angeles, presenta per la sua prima mostra italiana, allestita dal 28 marzo al 26 maggio a Roma, negli spazi della galleria Gagosian, che da dieci anni vede alla sua guida Pepi Marchetti Franchi
.
Nota per i suoi lavori in continua tensione tra astratto e figurativo, Shio Kusaka, classe 1972, ha sviluppato per la rassegna nella capitale un progetto fortemente incentrato sulle geometrie dell’astrazione.
Le ceramiche in mostra, variazioni sulla forma del vaso, sono disegnate e incise con linee geodetiche continue tramite un processo contemporaneamente sistematico e intuitivo.
Ripetizioni minimaliste si estendono lungo i volumi stondati riecheggiando le griglie di Agnes Martin o i disegni a muro di Sol LeWitt, e rivelando le irregolarità della linea disegnata a mano per creare terreni sinuosi oscillanti.
Nella sua opera l'artista nipponica fonde la raffinata lavorazione tradizionale della ceramica con dettagli e soggetti giocosi quali palloni da basket, frutta, dinosauri, gocce di pioggia e venature del legno.
I lavori geometrici offrono una dimostrazione più immediata della sua padronanza tecnica, che, concentrandosi sull’elaborazione di un singolo processo, ne scopre le infinite varianti.
Nei precedenti lavori astratti Shio Kusaka spesso “terminava” una linea o un motivo a griglia appena questi venivano distorti dalla curvatura del vaso, producendo motivi frammentati, come dei disegni sovrapposti, che contraddicevano il volume tridimensionale dello stesso.
In queste nuove opere, invece, l’artista assume un approccio quasi topografico, sviluppando la manualità tattile necessaria per lavorare al tornio intagliando o disegnando linee intricate lungo ogni superficie del vaso.
Lasciando che la tridimensionalità di ciascun vaso determini le curve concentriche delle linee, Shio Kusaka fonde i primordiali atti creativi del disegno e della scultura. Mentre alcune linee appaiono sottili e parallele, altre assomigliano a delle onde e a schemi topografici.
Saranno presenti in mostra i vasi più grandi mai realizzati dall'artista disposti su un piedistallo lungo e curvo, e smaltati in vari colori, dal blu pallido, al rosa, al giallo fino ad un placido bianco sporco. Il liquido denso si ferma al di sopra della base di ognuno: una precauzione necessaria per la cottura a fuoco, e un sottile ricordo delle trasformazioni alchemiche tipiche di questa tecnica.
In una selezione di vasi più piccoli, l'artista giapponese ripropone molti dei motivi a incisione come disegni a matita su fondo bianco, creando echi più intimi, quasi degli schizzi, dei lavori più grandi. Shio Kusaka ribadisce così la tecnica dei Minimalisti basata sul metodo, e sottolinea anche l’infinito potenziale della forma stessa che varia da grande a piccola, da liquida a solida, da due a tre dimensioni.
Informazioni utili
Shio Kusaka - mostra personale. Gagosian Gallery, via Francesco Crispi, 16 - Roma. Orari: dal martedì al sabato, dalle ore 10.30 alle ore 19.00; domenica e lunedì chiuso. Informazioni: tel. 06.42086498. Sito internet: www.gagosian.com. Dal 28 marzo (inaugurazione dalle ore 18 alle ore 20) al 26 maggio 2018.
Nota per i suoi lavori in continua tensione tra astratto e figurativo, Shio Kusaka, classe 1972, ha sviluppato per la rassegna nella capitale un progetto fortemente incentrato sulle geometrie dell’astrazione.
Le ceramiche in mostra, variazioni sulla forma del vaso, sono disegnate e incise con linee geodetiche continue tramite un processo contemporaneamente sistematico e intuitivo.
Ripetizioni minimaliste si estendono lungo i volumi stondati riecheggiando le griglie di Agnes Martin o i disegni a muro di Sol LeWitt, e rivelando le irregolarità della linea disegnata a mano per creare terreni sinuosi oscillanti.
Nella sua opera l'artista nipponica fonde la raffinata lavorazione tradizionale della ceramica con dettagli e soggetti giocosi quali palloni da basket, frutta, dinosauri, gocce di pioggia e venature del legno.
I lavori geometrici offrono una dimostrazione più immediata della sua padronanza tecnica, che, concentrandosi sull’elaborazione di un singolo processo, ne scopre le infinite varianti.
Nei precedenti lavori astratti Shio Kusaka spesso “terminava” una linea o un motivo a griglia appena questi venivano distorti dalla curvatura del vaso, producendo motivi frammentati, come dei disegni sovrapposti, che contraddicevano il volume tridimensionale dello stesso.
In queste nuove opere, invece, l’artista assume un approccio quasi topografico, sviluppando la manualità tattile necessaria per lavorare al tornio intagliando o disegnando linee intricate lungo ogni superficie del vaso.
Lasciando che la tridimensionalità di ciascun vaso determini le curve concentriche delle linee, Shio Kusaka fonde i primordiali atti creativi del disegno e della scultura. Mentre alcune linee appaiono sottili e parallele, altre assomigliano a delle onde e a schemi topografici.
Saranno presenti in mostra i vasi più grandi mai realizzati dall'artista disposti su un piedistallo lungo e curvo, e smaltati in vari colori, dal blu pallido, al rosa, al giallo fino ad un placido bianco sporco. Il liquido denso si ferma al di sopra della base di ognuno: una precauzione necessaria per la cottura a fuoco, e un sottile ricordo delle trasformazioni alchemiche tipiche di questa tecnica.
In una selezione di vasi più piccoli, l'artista giapponese ripropone molti dei motivi a incisione come disegni a matita su fondo bianco, creando echi più intimi, quasi degli schizzi, dei lavori più grandi. Shio Kusaka ribadisce così la tecnica dei Minimalisti basata sul metodo, e sottolinea anche l’infinito potenziale della forma stessa che varia da grande a piccola, da liquida a solida, da due a tre dimensioni.
Informazioni utili
Shio Kusaka - mostra personale. Gagosian Gallery, via Francesco Crispi, 16 - Roma. Orari: dal martedì al sabato, dalle ore 10.30 alle ore 19.00; domenica e lunedì chiuso. Informazioni: tel. 06.42086498. Sito internet: www.gagosian.com. Dal 28 marzo (inaugurazione dalle ore 18 alle ore 20) al 26 maggio 2018.
venerdì 16 marzo 2018
Milano, Arturo Martini e il monumento per il Palazzo di Giustizia in una mostra del Fai
«Di Martini apprezzo il fatto che abbia cambiato il linguaggio della scultura». Così Claudia Gian Ferrari (1946-2010), gallerista e collezionista che per anni è stata un personaggio chiave del mercato e della storia dell’arte italiana del Novecento, raccontava il suo amore per l’opera dello scultore trevigiano, la cui produzione si è avvicinata all’esperienza del movimento «Valori plastici», con un’attenzione particolare alla purezza delle forme e alle suggestioni del mondo arcaico.
Figlia di Ettore Gian Ferrari, anima di una delle gallerie più dinamiche della Milano del Dopoguerra e direttore per oltre venticinque anni dell’ufficio vendite della Biennale di Venezia, Claudia Gian Ferrari è riuscita a coniugare nell’arco della sua vita appassionata l’eredità lavorativa del padre, caratterizzata dal successo mercantile, con una raffinata attività di ricerca, che l’ha vista vestire sia i panni della storica che della critica d’arte.
Parte di questo lavoro di studio, confluito nel novembre 2016 all’interno della donazione che la gallerista aveva fatto negli anni precedenti al Fai – Fondo per l’ambiente italiano, riguarda proprio Arturo Martini (Treviso, 1889-Milano, 1947). La documentazione, che ha trovato collocazione nei sotterranei di Villa Necchi Campiglio a Milano, «non comprende atti quali la corrispondenza o le pratiche personali dell’artista – fanno sapere dagli uffici della onlus milanese-, ma registra pressoché sistematicamente proprio la lunga attività della galleria Gian Ferrari relativamente all’opera dello scultore, alla sua conoscenza e alla sua divulgazione».
«Dalla battaglia contro il gruppo dei falsi cosiddetti «di Anticoli Corrado», con i quali si cercò di invadere il mercato negli anni ’70 e ’80, fino alla promozione di mostre e restauri e alla scoperta e riproposizione dell’importante gruppo di gessi originali delle maggiori sculture di «Valori Plastici» della collezione Becchini, scomparsi per decenni in un deposito alle falde del Monte Amiata e ritenuti dispersi, la vita professionale di Claudia Gian Ferrari -fanno ancora sapere dal Fai- è stata scandita, come quella di un appassionato detective, dalla costante ricerca di opere che potessero sempre meglio illustrare l’attività e le conquiste di questo grande genio della scultura europea del Novecento».
La gallerista milanese fu anche un’attenta collezionista dell’opera del trevigiano. Dei quarantacinque pezzi, donati nel 2008 al Fai – Fondo per l’ambiente italiano, ben quattro portano, infatti, la firma di Arturo Martini, a partire dall’importante capolavoro «L’amante morta», realizzato nel 1921 e appartenente al periodo di «Valori Plastici». Mentre il «Dormiente», copia dell’originale tuttora conservato a Roma, è arrivato a Villa Necchi in seguito alla scomparsa di Claudia Gian Ferrari.
Ed è proprio la residenza milanese a fare da scenario a una mostra dedicata ad Arturo Martini, per la curatela di Amedeo Porro, Paolo Baldacci e Nico Stringa, che ruota attorno all’opera più rappresentativa e grandiosa dell’artista conservata a Milano: il monumentale altorilievo della «Giustizia Corporativa», eseguito nel 1937 per l’atrio al primo piano del Palazzo di Giustizia, progettato da Marcello Piacentini.
L’opera è un racconto sulla vita e le attività dell’uomo, che appaiono tutte sottoposte al giudizio della «Legge», a cui richiama la «Giustizia», qui seduta sull’albero del «Bene» e del «Male», con il volto sereno e quasi impassibile, ma nello stesso tempo sollecito e attento, e in mano gli attributi tradizionali, la bilancia e la spada. Intorno alla Giustizia, un’enciclopedia di miti, figure e immagini che vanno a comporre un coro polifonico: le «Ambizioni» («Amore», «Arte» e «Bellezza»), affiancate dalla «Vanità», gli «Eroi», a cui si contrappone la «Viltà», la «Famiglia», la «Dottrina» (incarnata dagli «Intellettuali») e le «Opere assistenziali».
Martini modellava in creta e non scolpiva direttamente la pietra, lavoro che poi commissionava a figure intermediarie da lui dirette. Per la realizzazione della «Giustizia Corporativa» fu necessaria una grandiosa opera di montaggio: un basamento a gradoni di legno, sul quale venivano appoggiati e fissati i calchi in gesso delle colossali crete ad altezza umana uscite dalle mani dell’artista. Ogni gruppo, grazie a strutture e sostegni lignei retrostanti, veniva incastrato al suo posto e il tutto unificato da passaggi di gesso liquido su piedistalli e gradini, e infine chiuso da una cornice di legno gessato, come in una scatola. Una volta realizzati, i blocchi in gesso furono inviati a Carrara dove i marmisti, sotto il controllo e la direzione dell’artista, tradussero l’intera opera in marmo, creando blocchi e incastri di pietra che potessero quindi essere montati a Milano nell’atrio dell’edificio, cosa che avvenne nel 1940.
A Villa Necchi Campiglio sono esposti, per la prima volta riuniti, il bozzetto originale in gesso, due grandi altorilievi in gesso a grandezza naturale serviti come modelli per il gruppo degli «Intellettuali» e della «Famiglia», il grande marmo di «Dedalo e Icaro» e un bozzetto in bronzo del gruppo della «Famiglia». Insieme a questi pezzi è possibile seguire, attraverso la riproduzione di tutti gli ingrandimenti, l’interpretazione fotografica che Martini stesso volle dare della sua opera, dirigendo personalmente l’illuminazione e gli scatti per il libro a essa dedicato con la prefazione di Riccardo Bacchelli (edizioni del Milione, 1937).
In occasione della mostra, viene, inoltre, proposto un itinerario martiniano per conoscere e approfondire le opere del maestro che arricchiscono Milano, dall’Arengario al Museo del Novecento e all’Ospedale Maggiore. Un modo per riannodare le fila del complesso e ambivalente rapporto di Martini con la città, dove visse dal 1919 alla fine del 1920 e, quindi, dal 1933 al 1942, producendovi molte delle sue opere maggiori.
Didascalie delle immagini
[Figg. 1 e 2] Arturo Martini, Giustizia Corporativa, 1937. Particolare; [fig. 3] Arturo Martini, La famiglia - Figliol prodigo, 1937; [fig. 4] Arturo Martini, Gli intellettuali, 1937
Informazioni utili
Arturo Martini e il monumento per il Palazzo di Giustizia a Milano. villa Necchi Campiglio, Via Mozart, 14 - Milano.Orari: da mercoledì a domenica, dalle ore 10 alle 18; aperto lunedì 2 aprile e martedì 1 maggio Ingresso (con visita alla villa): intero € 12,00; ridotto (ragazzi 4-14 anni): € 4,00; iscritti FAI gratis. Per informazioni: www.villanecchicampiglio.it o www.mostramartini.it. Fino al 6 maggio 2018.
Figlia di Ettore Gian Ferrari, anima di una delle gallerie più dinamiche della Milano del Dopoguerra e direttore per oltre venticinque anni dell’ufficio vendite della Biennale di Venezia, Claudia Gian Ferrari è riuscita a coniugare nell’arco della sua vita appassionata l’eredità lavorativa del padre, caratterizzata dal successo mercantile, con una raffinata attività di ricerca, che l’ha vista vestire sia i panni della storica che della critica d’arte.
Parte di questo lavoro di studio, confluito nel novembre 2016 all’interno della donazione che la gallerista aveva fatto negli anni precedenti al Fai – Fondo per l’ambiente italiano, riguarda proprio Arturo Martini (Treviso, 1889-Milano, 1947). La documentazione, che ha trovato collocazione nei sotterranei di Villa Necchi Campiglio a Milano, «non comprende atti quali la corrispondenza o le pratiche personali dell’artista – fanno sapere dagli uffici della onlus milanese-, ma registra pressoché sistematicamente proprio la lunga attività della galleria Gian Ferrari relativamente all’opera dello scultore, alla sua conoscenza e alla sua divulgazione».
«Dalla battaglia contro il gruppo dei falsi cosiddetti «di Anticoli Corrado», con i quali si cercò di invadere il mercato negli anni ’70 e ’80, fino alla promozione di mostre e restauri e alla scoperta e riproposizione dell’importante gruppo di gessi originali delle maggiori sculture di «Valori Plastici» della collezione Becchini, scomparsi per decenni in un deposito alle falde del Monte Amiata e ritenuti dispersi, la vita professionale di Claudia Gian Ferrari -fanno ancora sapere dal Fai- è stata scandita, come quella di un appassionato detective, dalla costante ricerca di opere che potessero sempre meglio illustrare l’attività e le conquiste di questo grande genio della scultura europea del Novecento».
La gallerista milanese fu anche un’attenta collezionista dell’opera del trevigiano. Dei quarantacinque pezzi, donati nel 2008 al Fai – Fondo per l’ambiente italiano, ben quattro portano, infatti, la firma di Arturo Martini, a partire dall’importante capolavoro «L’amante morta», realizzato nel 1921 e appartenente al periodo di «Valori Plastici». Mentre il «Dormiente», copia dell’originale tuttora conservato a Roma, è arrivato a Villa Necchi in seguito alla scomparsa di Claudia Gian Ferrari.
Ed è proprio la residenza milanese a fare da scenario a una mostra dedicata ad Arturo Martini, per la curatela di Amedeo Porro, Paolo Baldacci e Nico Stringa, che ruota attorno all’opera più rappresentativa e grandiosa dell’artista conservata a Milano: il monumentale altorilievo della «Giustizia Corporativa», eseguito nel 1937 per l’atrio al primo piano del Palazzo di Giustizia, progettato da Marcello Piacentini.
L’opera è un racconto sulla vita e le attività dell’uomo, che appaiono tutte sottoposte al giudizio della «Legge», a cui richiama la «Giustizia», qui seduta sull’albero del «Bene» e del «Male», con il volto sereno e quasi impassibile, ma nello stesso tempo sollecito e attento, e in mano gli attributi tradizionali, la bilancia e la spada. Intorno alla Giustizia, un’enciclopedia di miti, figure e immagini che vanno a comporre un coro polifonico: le «Ambizioni» («Amore», «Arte» e «Bellezza»), affiancate dalla «Vanità», gli «Eroi», a cui si contrappone la «Viltà», la «Famiglia», la «Dottrina» (incarnata dagli «Intellettuali») e le «Opere assistenziali».
Martini modellava in creta e non scolpiva direttamente la pietra, lavoro che poi commissionava a figure intermediarie da lui dirette. Per la realizzazione della «Giustizia Corporativa» fu necessaria una grandiosa opera di montaggio: un basamento a gradoni di legno, sul quale venivano appoggiati e fissati i calchi in gesso delle colossali crete ad altezza umana uscite dalle mani dell’artista. Ogni gruppo, grazie a strutture e sostegni lignei retrostanti, veniva incastrato al suo posto e il tutto unificato da passaggi di gesso liquido su piedistalli e gradini, e infine chiuso da una cornice di legno gessato, come in una scatola. Una volta realizzati, i blocchi in gesso furono inviati a Carrara dove i marmisti, sotto il controllo e la direzione dell’artista, tradussero l’intera opera in marmo, creando blocchi e incastri di pietra che potessero quindi essere montati a Milano nell’atrio dell’edificio, cosa che avvenne nel 1940.
A Villa Necchi Campiglio sono esposti, per la prima volta riuniti, il bozzetto originale in gesso, due grandi altorilievi in gesso a grandezza naturale serviti come modelli per il gruppo degli «Intellettuali» e della «Famiglia», il grande marmo di «Dedalo e Icaro» e un bozzetto in bronzo del gruppo della «Famiglia». Insieme a questi pezzi è possibile seguire, attraverso la riproduzione di tutti gli ingrandimenti, l’interpretazione fotografica che Martini stesso volle dare della sua opera, dirigendo personalmente l’illuminazione e gli scatti per il libro a essa dedicato con la prefazione di Riccardo Bacchelli (edizioni del Milione, 1937).
In occasione della mostra, viene, inoltre, proposto un itinerario martiniano per conoscere e approfondire le opere del maestro che arricchiscono Milano, dall’Arengario al Museo del Novecento e all’Ospedale Maggiore. Un modo per riannodare le fila del complesso e ambivalente rapporto di Martini con la città, dove visse dal 1919 alla fine del 1920 e, quindi, dal 1933 al 1942, producendovi molte delle sue opere maggiori.
Didascalie delle immagini
[Figg. 1 e 2] Arturo Martini, Giustizia Corporativa, 1937. Particolare; [fig. 3] Arturo Martini, La famiglia - Figliol prodigo, 1937; [fig. 4] Arturo Martini, Gli intellettuali, 1937
Informazioni utili
Arturo Martini e il monumento per il Palazzo di Giustizia a Milano. villa Necchi Campiglio, Via Mozart, 14 - Milano.Orari: da mercoledì a domenica, dalle ore 10 alle 18; aperto lunedì 2 aprile e martedì 1 maggio Ingresso (con visita alla villa): intero € 12,00; ridotto (ragazzi 4-14 anni): € 4,00; iscritti FAI gratis. Per informazioni: www.villanecchicampiglio.it o www.mostramartini.it. Fino al 6 maggio 2018.
mercoledì 14 marzo 2018
«I have a dream», i grandi discorsi della storia in uno spettacolo teatrale
Era il 28 agosto 1963 quando Martin Luther King pronunciava, al Lincoln Memorial di Washington, il celebre discorso «I have a dream», diventato simbolo della lotta contro il razzismo. Quelle parole insieme alle tante altre affermazioni che hanno segnato la nostra storia sono al centro dell’omonimo atto unico che Valentina Lodovini e Ivano Marescotti porteranno in scena nella serata di giovedì 22 marzo, alle ore 21, al cinema teatro Manzoni di Busto Arsizio.
A rendere ancora più prezioso lo spettacolo, che si avvale della regia di Gabriele Guidi, saranno le voci fuori campo di Gigi Proietti, Catherine Spaak, Rosario e Beppe Fiorello, Arnoldo Foà. Le musiche sono di Matteo Cremolini, il disegno luci porta la firma di Patrick Vitali. Mentre le videoproiezioni vedranno al lavoro Gianluca del Torto.
Da Demostene a Robespierre, da Pericle a Elie Wiesel, passando per Gandhi, Kennedy, Churchill, Fidel Castro, Mandela, Umberto Eco e altri ancora: con questo appuntamento di alto valore civile, lo spettatore verrà accompagnato alla scoperta di parole memorabili pronunciate, in epoche differenti, da sedici uomini e donne che, con il loro pensiero e la loro azione, hanno inciso positivamente sul loro presente e scritto pagine importanti per il nostro futuro.
Il testo, scritto da Ennio Speranza e Gabriele Guidi, prende spunto da tre domande e un assunto: «Quante volte -si legge nella presentazione- le parole hanno contribuito a segnare un’epoca, svelando ideali e aspettative di intere generazioni? Quante volte un particolare momento storico viene ricordato grazie a una frase o il frammento di un discorso che ha lasciato un segno indelebile? E quante volte ancora i grandi oratori hanno saputo accendere passioni civili individuando i traguardi sociali da conquistare trascinando milioni di persone? Le parole -alla pari degli eventi, dunque- hanno inciso sul corso della storia; anzi, diventando esse stesse eventi, hanno fatto la storia».
Democrazia, identità etnica, ruolo delle donne, eccidi, intolleranza religiosa, ma anche arte e letteratura come strumenti di protezione dell’essere umano sono solo alcune delle tematiche che verranno affrontate con questo spettacolo, inserito nel programma della stagione «Mettiamo in circolo la cultura», che vede alla direzione artistica Maria Ricucci dell’agenzia «InTeatro» di Opera (Milano) e che è stata incluso dal Comune di Busto Arsizio nel cartellone cittadino «BA Teatro».
«L’atto unico -raccontano gli organizzatori- è da poco tornato in scena, a distanza di quasi dieci anni aggiornato, rivisto e concepito per due interpreti, legati fra loro da un rapporto molto particolare. Quello tra Valentina Lodovini e Ivano Marescotti è, infatti, un legame di grandi affinità, non privo di una sottile ironia derivante dal confronto tra generazioni differenti, che rende ancora più stimolante questo loro raffronto sul valore odierno delle parole.
Dopo Lorella Cuccarini e Giampiero Ingrassia, Gianfranco Jannuzzo e Debora Caprioglio, il cinema teatro Manzoni di Busto Arsizio, la cui stagione vanta quasi trecentoquaranta abbonati, punta, dunque, ancora una volta su una coppia da palcoscenico. E una coppia, questa volta di comici, sarà in scena anche nel successivo spettacolo della stagione: «Il rompiballe» di France Veber, per la regia di Marco Rampoldi, che venerdì 13 aprile, alle ore 21, vedrà in scena Max Pisu e Claudio Batta.
L’atto unico «I have a dream», particolarmente adatto per i più giovani e per gli studenti delle scuole secondarie di secondo grado, è stato definito dalla critica «prezioso come un’ostrica» per la sua capacità di suggerire, grazie alla straordinaria attualità delle tematiche affrontate, come la Storia stessa possa offrire alle coscienze gli strumenti per riflettere sui problemi che affliggono anche oggi il mondo.
Il costo del biglietto per la commedia «I have a dream – Le parole che hanno cambiato la storia» è fissato ad € 33,00 per la poltronissima, € 30,00 (intero) o € 27,00 (ridotto) per la poltrona, € 28,00 (intero) o € 25,00 (ridotto) per la galleria. Le riduzioni sono previste per studenti, over 65 e per gruppi (Cral, scuole, biblioteche e associazioni) composti da minimo dieci persone. Il diritto di prevendita è di euro 1,00.
Il botteghino del cinema teatro Manzoni di Busto Arsizio sarà aperto per la prevendita da giovedì 15 marzo con i seguenti orari: dal lunedì al sabato, dalle ore 17 alle ore 19. I biglietti sono già comodamente acquistabili on-line, tramite il circuito Crea Informatica, sui siti www.cinemateatromanzoni.it e www.webtic.it.
Per maggiori informazioni sulla programmazione della sala è possibile contattare il numero 339.7559644 o lo 0331.677961 (negli orari di apertura del botteghino e in orario serale, dalle ore 20.30 alle ore 21.30, tranne il martedì) o scrivere all’indirizzo info@cinemateatromanzoni.it.
Informazioni utili
www.cinemateatromanzoni.it
A rendere ancora più prezioso lo spettacolo, che si avvale della regia di Gabriele Guidi, saranno le voci fuori campo di Gigi Proietti, Catherine Spaak, Rosario e Beppe Fiorello, Arnoldo Foà. Le musiche sono di Matteo Cremolini, il disegno luci porta la firma di Patrick Vitali. Mentre le videoproiezioni vedranno al lavoro Gianluca del Torto.
Da Demostene a Robespierre, da Pericle a Elie Wiesel, passando per Gandhi, Kennedy, Churchill, Fidel Castro, Mandela, Umberto Eco e altri ancora: con questo appuntamento di alto valore civile, lo spettatore verrà accompagnato alla scoperta di parole memorabili pronunciate, in epoche differenti, da sedici uomini e donne che, con il loro pensiero e la loro azione, hanno inciso positivamente sul loro presente e scritto pagine importanti per il nostro futuro.
Il testo, scritto da Ennio Speranza e Gabriele Guidi, prende spunto da tre domande e un assunto: «Quante volte -si legge nella presentazione- le parole hanno contribuito a segnare un’epoca, svelando ideali e aspettative di intere generazioni? Quante volte un particolare momento storico viene ricordato grazie a una frase o il frammento di un discorso che ha lasciato un segno indelebile? E quante volte ancora i grandi oratori hanno saputo accendere passioni civili individuando i traguardi sociali da conquistare trascinando milioni di persone? Le parole -alla pari degli eventi, dunque- hanno inciso sul corso della storia; anzi, diventando esse stesse eventi, hanno fatto la storia».
Democrazia, identità etnica, ruolo delle donne, eccidi, intolleranza religiosa, ma anche arte e letteratura come strumenti di protezione dell’essere umano sono solo alcune delle tematiche che verranno affrontate con questo spettacolo, inserito nel programma della stagione «Mettiamo in circolo la cultura», che vede alla direzione artistica Maria Ricucci dell’agenzia «InTeatro» di Opera (Milano) e che è stata incluso dal Comune di Busto Arsizio nel cartellone cittadino «BA Teatro».
«L’atto unico -raccontano gli organizzatori- è da poco tornato in scena, a distanza di quasi dieci anni aggiornato, rivisto e concepito per due interpreti, legati fra loro da un rapporto molto particolare. Quello tra Valentina Lodovini e Ivano Marescotti è, infatti, un legame di grandi affinità, non privo di una sottile ironia derivante dal confronto tra generazioni differenti, che rende ancora più stimolante questo loro raffronto sul valore odierno delle parole.
Dopo Lorella Cuccarini e Giampiero Ingrassia, Gianfranco Jannuzzo e Debora Caprioglio, il cinema teatro Manzoni di Busto Arsizio, la cui stagione vanta quasi trecentoquaranta abbonati, punta, dunque, ancora una volta su una coppia da palcoscenico. E una coppia, questa volta di comici, sarà in scena anche nel successivo spettacolo della stagione: «Il rompiballe» di France Veber, per la regia di Marco Rampoldi, che venerdì 13 aprile, alle ore 21, vedrà in scena Max Pisu e Claudio Batta.
L’atto unico «I have a dream», particolarmente adatto per i più giovani e per gli studenti delle scuole secondarie di secondo grado, è stato definito dalla critica «prezioso come un’ostrica» per la sua capacità di suggerire, grazie alla straordinaria attualità delle tematiche affrontate, come la Storia stessa possa offrire alle coscienze gli strumenti per riflettere sui problemi che affliggono anche oggi il mondo.
Il costo del biglietto per la commedia «I have a dream – Le parole che hanno cambiato la storia» è fissato ad € 33,00 per la poltronissima, € 30,00 (intero) o € 27,00 (ridotto) per la poltrona, € 28,00 (intero) o € 25,00 (ridotto) per la galleria. Le riduzioni sono previste per studenti, over 65 e per gruppi (Cral, scuole, biblioteche e associazioni) composti da minimo dieci persone. Il diritto di prevendita è di euro 1,00.
Il botteghino del cinema teatro Manzoni di Busto Arsizio sarà aperto per la prevendita da giovedì 15 marzo con i seguenti orari: dal lunedì al sabato, dalle ore 17 alle ore 19. I biglietti sono già comodamente acquistabili on-line, tramite il circuito Crea Informatica, sui siti www.cinemateatromanzoni.it e www.webtic.it.
Per maggiori informazioni sulla programmazione della sala è possibile contattare il numero 339.7559644 o lo 0331.677961 (negli orari di apertura del botteghino e in orario serale, dalle ore 20.30 alle ore 21.30, tranne il martedì) o scrivere all’indirizzo info@cinemateatromanzoni.it.
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