ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

lunedì 15 aprile 2024

Milano Design Week #1, gli appuntamenti da non perdere in Triennale e all’Adi Design Museum

«Le altre città hanno delle colline come Roma, Firenze e Torino; altre hanno il mare come Genova e Napoli che ha anche il Vesuvio. Dio ha aiutato molto la bellezza di queste città, ma per Milano, Dio non ha fatto niente, quindi sta a noi fare in modo che Milano sia una bella città. È una questione di creazione». Vengono in mente queste parole dell’architetto Gio’ Ponti pensando all’aprile ricco di creatività, e dunque di bellezza, che sta vivendo il capoluogo lombardo. Spenti i riflettori sulla fiera d’arte moderna e contemporanea miart e su Mia Photo Fair, prestigiosa vetrina per la fotografia d’autore, la città si prepara a diventare protagonista della scena internazionale con il design e i complementi d’arredo grazie alla sessantaduesima edizione del Salone del mobile che, da martedì 16 a domenica 21 aprile, porterà negli spazi di Milano Rho Fiera più di 1.900 espositori, tra cui 600 giovani talenti e 22 scuole di design.

In contemporanea con la kermesse mercantile, istituzioni culturali, fondazioni private, progettisti, designer, gallerie, aziende storiche, showroom, brand emergenti, scuole, università e anche palazzi storici come Villa Mozart a Palazzo Morando (dove sarà allestita una personale del fotografo Carlo Valsecchi), presentano mostre, momenti di condivisione e di confronto delle idee, installazioni, conversazioni per dare forma al nostro presente e provare a immaginare il futuro che verrà, almeno dal punto di vista della sostenibilità ambientale nel processo creativo e progettuale. «Materia natura» è, infatti, il titolo dell’edizione 2024 del Fuorisalone, che, insieme con il palinsesto comunale della Milano Design Week, prevede oltre mille eventi disseminati in tutta la città, dalle zone storicamente protagoniste della settimana del design - Brera, 5Vie, Durini, Isola, Statale e Tortona – alle new entries di Porta Venezia e del distretto di via Paolo Sarpi, fino ai quartieri di Porta Romana, Stazione centrale, San Vittore, Quadrilatero della moda, Bocconi e Castello sforzesco.

Alessandro Mendini, Philippe Starck e Inga Sempé in Triennale
Il percorso alla scoperta del meglio di questa vivace settimana milanese può partire proprio dai dintorni del grosso complesso fortificato fatto erigere nel XV secolo da Francesco Sforza e più precisamente da quella che per la città è la casa del design e dell’architettura: la Triennale. In questi spazi è previsto, in collaborazione con Fondation Cartier pour l’art contemporain, un duplice omaggio ad Alessandro Mendini, architetto, designer, artista e teorico che ha segnato le rivoluzioni del pensiero e del costume del Novecento e del nuovo millennio e che ha colorato il mondo del design con il suo approccio postmodernista e a tratti ironico, lasciandoci pezzi iconici come la poltrona di Proust, la Petite Cathédrale, il cavatappi Alessandro M di Alessi o la lampada Slide. Nello spazio Cubo va in scena la retrospettiva «Io sono un drago», a cura di Fulvio Irace e con il progetto di allestimento di Pierre Charpin, che rimarrà poi aperta fino al 13 ottobre; mentre nell’Impuvium per due mesi, a partire dal 16 aprile, sarà possibile vedere l’installazione site specific «What?», ideata da Philippe Starck, un viaggio impressionistico guidato da suoni e immagini in costante trasformazione.

In Triennale è aperta anche la mostra «Inga Sempé. La casa imperfetta», curata da Marco Sammicheli e con il progetto di allestimento di Studio A/C di Alessia Pessano e Chiara Novello, che mette in scena progetti, oggetti e disegni in uno scenario domestico, una vera e propria abitazione che ha l’obiettivo di trasmettere al visitatore la complessità e l’approfondimento del lavoro della designer francese. Il visitatore può interagire con ambienti come camera da letto, cucina, corridoio, disimpegno, spazio esterno, e svolgere gesti quotidiani, come leggere un libro, sedersi sul divano, accendere e spegnere le luci. L’esposizione, visitabile nei giorni del Salone del mobile e poi fino al 23 settembre, presenta anche alcuni oggetti disegnati da Vico Magistretti e Massimo Morozzi, e opere di artisti internazionali, tra cui Gilbert & George, Domenico Gnoli, Mette Ivers e Saul Steinberg.

In occasione della Milano Design Week la Triennale - oltre a queste mostre e a un cartellone di public program e party come «The Night of the Dragon» (16 aprile, ore 19.00- 23.00), che prende spunto dal disco «Architettura sussurrante» (1983) di Alessandro Mendini - propone un omaggio a Cini Boeri, una retrospettiva sui venticinque anni del Salone Satellite, un focus sul design ungherese, una mostra sui bastoni da passeggio, una rassegna sull’azienda americana di mobili Emeco, e, ultima ma non ultima, l’esposizione «Generating Visions. Alcantara in the Arts», per la curatela di Damiano Gullì, con opere tessili di Yuri Ancarani, Alberto Biasi, Zhang Chun Hong, Qin Feng, Soundwalk Collective, Nanda Vigo e Lorenzo Vitturi. Im questi spazi sono, inoltre, visitabili due mostre che hanno aperto i battenti nelle scorse settimane: «Dan Graham. The Passing time City» (fino al 12 maggio), con i padiglioni di grandi dimensioni «London Rococo» (2012) e «Sagitarian Girl» (2008), e «Ettore Sottsass. Design Metaphors» (fino al 15 settembre), con una serie di fotografie, raggruppate sotto il nome di «Metafore», scattate dal designer tra il 1972 e il 1978.

Suggestioni orientali all’Adi Design Museum e in zona Sarpi

Ci si può, quindi, spostare in un altro tempio cittadino votato allo studio e alla divulgazione della cultura del progetto: l’Adi Design Museum, in piazza Compasso d’Oro, che, anche grazie alla nascita del nuovo distretto urbano di zona Paolo Sarpi, la vivace e colorata Chinatown meneghina, propone un viaggio attraverso l’Oriente, partendo dal Giappone, passando per la Corea e arrivando alla Cina.

Il progetto principale è «Origin of Simplicity. 20 Visions of Japanese Design», a cura di Rossella Menegazzo e con l’allestimento di Kenya Hara, che allinea (fino al 9 giugno) centocinquanta opere, molte delle quali mai presentate in Italia, che hanno segnato la storia della progettazione e dell’artigianalità nipponica a partire dagli anni Sessanta del Novecento. Il percorso della mostra, concepito come una foresta dove passeggiare, offre così uno sguardo trasversale tra design e artigianato per comprendere le origini del concetto di semplicità, ora declinabile come vuoto (ku), spazio o silenzio (ma), talvolta leggibile come povertà (wabi) e consunzione legata all’uso nel tempo (sabi), altre come asimmetria, non definitezza e imperfezione, in correlazione con i diversi pensieri filosofici appartenenti alla cultura del Sol Levante: dal buddhismo zen al pensiero animista shintoista, quasi opposti alla razionalità occidentale.

Sempre all’Adi Design Museum è esposta, nel giardino antistante, la microarchitettura «Mobile Home Helios», ultima innovazione nel campo delle soluzioni abitative mobili per il turismo open air, frutto della collaborazione tra Crippaconcept e Matteo Thun & Benedetto Fasciana. Mentre all’interno è possibile vedere «Feeling Good – Caimi design per il futuro», una mostra a cura di Aldo Colonetti e Valentina Fisichella, con il progetto di allestimento di Matteo Vercelloni, che ripercorre i settantacinque anni di attività di un’icona del made in Italy, la Caimi, che ha dato vita a oggetti semplici e di uso quotidiano come la schiscetta, ovvero il contenitore ermetico che permetteva agli operai di portare con sé con sicurezza il pasto nel percorso casa-lavoro, ma che si è interessata anche alle esigenze della vita in casa e in ufficio attraverso lo studio di pannelli fotoassorbenti.

Rimanendo in zona Sarpi, distretto che ha una propria simbolica porta d’accesso nell’installazione site specific realizzata dal creativo Tommaso Lanciani e dallo street artist Pao con stilemi orientali e italiani e con disegni di bambini del quartiere, meritano una tappa il Centro culturale cinese, che propone delle attività laboratoriali sul tema del riuso dei capi di vestiario e dei progetti per i più piccoli, e la Fabbrica del Vapore, che mette in scena un caleidoscopio di eventi nei suoi circa 5mila metri quadrati di superficie espositiva. 
Si spazia da «Changes, Know now China», con venti progetti che esplorano i cambiamenti in atto nel lifestyle cinese, a una mostra sullo zen design nelle calligrafie classiche orientali, che propone anche momenti di meditazione e cerimonie tradizionali, come quella del the, in compagnia di un monaco buddhista. Si va dall’omaggio di Matteo Mezzadri ad Artemisia Gentileschi al focus «Abitare è essere ovunque a casa propria» su Ugo La Pietra e i suoi progetti per il territorio urbano di Milano, passando per l’installazione «Post Global Village. Oggetti migratori» sul fenomeno delle migrazioni climatiche, la mostra «Futuro Anteriore. Casva Cabinet Of Design Thinking», la rassegna al femminile «UpTo fino a che punto ci si può spingere» e tanti altri progetti che guardano ai cambiamenti in atto e che propongono alternative alla guerra, all’intolleranza e all’ingiustizia. 
Questi spazi si aprono anche alla musica con un festival con alcuni dei nomi più interessanti della scena elettronica come Sama Abdulhadi, Francesco Del Garda, Lele Sacchi, Alex Neri, Rollover, Le Cannibale, Fabio Monesi, solo per citare alcuni dei protagonisti che si alterneranno alla consolle, in una scenografia che strizza l’occhio al futuro.

Didascalie delle immagini
[Figg. 1, 2 e 3] Alessandro Mendini in Triennale. Foto: Delfino Sisto Legnani - DSL Studio. © Triennale Milano;     [fig. 4] Courtesy Inga Sempé; [fig. 5] Coutery Hay; [figg. 6, 7 e 8] Veduta della mostra «Origin of Simplicity. 20 Visions of Japanese Design». Foto di Denise Manzi 

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venerdì 12 aprile 2024

«Miart, «no time no space»: al via la ventottesima edizione di miart

178 gallerie
provenienti da 28 Paesi, oltre 1000 opere di maestri moderni e artisti contemporanei affermati ed emergenti, 10 riconoscimenti tra premi, fondi acquisizioni e nuove committenze e altrettanti direttori di museo provenienti da tutto il mondo tra i propri giurati: sono questi i numeri della 28ª edizione di miart, la fiera internazionale d’arte moderna e contemporanea, in programma fino al 14 aprile all’Allianz MiCo di Milano, dove negli stessi giorni si tiene anche il Mia Photo Festival.
«No time no space» è la frase, tratta da una canzone di Franco Battiato, musicista, artista ed esploratore «di mondi lontanissimi e di civiltà sepolte», scelta come filo conduttore di questa edizione della kermesse mercantile, che vede alla guida, per il quarto anno consecutivo, Nicola Ricciardi.

Attraverso due sezioni inedite, pensate come portali dimensionali o ideali macchine del tempo, la fiera allarga ulteriormente i propri confini geografici e temporali. «Portal», a cura di Abaseh Mirvali, propone, per esempio, otto piccole mostre con lavori, tra gli altri, di Franco Mazzucchelli (ChertLüdde, Berlino), Francesco Gennari (Ciaccia Levi, Parigi - Milano /ZERO…, Milano), Anna Boghiguian (Galleria Franco Noero, Torino), Troy Makaza e Gresham Tapiwa Nyaude (First Floor Gallery, Harare - Victoria Falls). «Timescape», progetto espositivo anch’esso presentato all’interno di «Established» (il segmento della fiera che vede dialogare alcune tra le più importanti realtà operanti a livello internazionale nei settori dell’arte moderna, contemporanea e del design), offre, invece, un viaggio all’interno del Novecento grazie a micro-esposizioni come quella della Galleria Gomiero (Montegrotto Terme), che racconta il ritratto nell'ambito della scultura con opere di Medardo Rosso e Giacomo Manzù, o quella curata da Bottegantica (Milano), con opere di Giacomo Balla e Umberto Boccioni, nonché con un focus sul Futurismo e sull’Aeropittura.
Fa, poi, il suo ritorno in fiera «Emergent», la sezione curata da Attilia Fattori Franchini e riservata alle gallerie specializzate nella promozione dei giovani artisti, che quest'anno accoglie 23 realtà provenienti da tutto il mondo, dalle ormai consolidate Bel Ami (Los Angeles), Sébastien Bertrand (Ginevra) e Sans titre (Parigi) alle new entries Arcadia Missa (Londra), Lovay Fine Arts (Ginevra) e Sweetwater (Berlino).

All’interno delle diverse sezioni sono presenti, come consuetudine, opere di ogni genere, dai dipinti ai disegni, dalle sculture alle installazioni, ma non solo. Molti sono i lavori di carattere museale. Ne danno l’esempio «Caribbean Tea Time», uno spettacolare paravento di David Hockney, proposto da Galerie Lelong & Co. (Parigi - New York), le opere «Combustione B.A.» (1960) e «Combustione plastica» (1957) di Alberto Burri, esposte da Tornabuoni Arte (Firenze - Milano - Forte dei Marmi - Roma - Parigi - Crans Montana), e l’installazione di Vivian Suter per kaufmann repetto (Milano - New York), frutto della decennale ricerca dell'artista sulle vicissitudini della foresta pluviale del Guatemala.

Numerose sono anche le opere commissionate appositamente per questa edizione di miart come la poetica e monumentale altalena di Francesco Arena per Galleria Raffaella Cortese (Milano - Albisola) o la performance «Thyself Agency» di Luca de Leva, che trasforma lo stand di Pinksummer (Genova) in «un’agenzia di viaggio per spedizioni verso l’ignoto», proponendo metodi di ricerca personale volti a scardinare automatismi comportamentali.
Non mancano, poi, le mostre personali come quelle di Tomasz Kowalski da Dawid Radziszewski (Varsavia), di Lucy Stein da Galerie Gregor Staiger (Zurigo - Milano), di Pietro Consagra da Mucciaccia Gallery (Roma - Londra - Cortina d’Ampezzo - Singapore) o di Giosetta Fioroni da Marcorossi (Milano - Verona - Torino - Pietrasanta - Roma).

Proseguendo nel percorso, l’arte moderna, storica spina dorsale della fiera milanese, è ben rappresentata dal progetto «Artisti italiani nella collezione Peggy Guggenheim», proposto da ML fine art (Milano), con opere di Giorgio de Chirico, Marina Apollonio e Piero Dorazio, o dalla mostra di Gió Marconi (Milano), con lavori di Enrico Baj, Lucio del Pezzo e Mario Schifano.

L’imminente inaugurazione della 60. Esposizione internazionale d'arte della Biennale di Venezia ha, infine, portato numerose gallerie a dare risalto in fiera agli artisti selezionati dal curatore Adriano Pedrosa per «Stranieri Ovunque». Ecco così che Louis Fratino espone alla Galerie Neu (Berlino), mentre Greta Schödl, Bertina Lopes e Xiyadie da Richard Saltoun Gallery (Londra – Roma). La Galleria dello Scudo (Verona) propone, invece, un focus sullo Spazialismo veneziano con opere degli anni Cinquanta di artisti quali Emilio Vedova, Tancredi Parmeggiani, Renato Birolli e Edmondo Bacci, mentre ED Gallery (Piacenza) presenta una selezione di opere che vennero realizzate dai maestri vetrai di Murano per la Biennale di Venezia del 1914.

Sempre in fiera il main sponsor Intesa San Paolo offre al pubblico la mostra «Io sono una forza del passato», a cura di Luca Beatrice, per una riflessione sulla pittura contemporanea come dialogo tra nuovi orientamenti – che vedono sempre più l’adozione dell’artificiale e del digitale e la rinuncia del ‘fatto a mano’ – e il recupero delle forme classiche del passato.

Mentre all’esterno dell’Allianz MiCo, grazie alla rinnovata partnership con il brand di moda Msgm, è visibile un'opera site specific di Jenna Bliss (1984, Yonkers, New York) con una serie di schermi dove scorreranno le sue opere video: «evocazioni - si legge nella nota stampa - di un passato recente ormai dimenticato, memorie personali e collettive, incontri e osservazioni della vita quotidiana e del legame con le convenzioni sociali e i contesti storici che mettono in discussione ipotesi comuni ed espandono narrazioni consolidate».

Come ogni anno la kermesse mercantile esce fuori dai padiglioni fieristici grazie alla Milano Art Week, manifestazione diffusa coordinata dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano, che mette in rete le principali istituzioni pubbliche e private della città dedicate all’arte moderna e contemporanea, con un programma di mostre e attività, per un totale di quasi duecento eventi, molti dei quali proseguiranno anche nei giorni dell’imminente Milano Design Week

Pino Pascali da Fondazione Prada, Alessandro Mendini e Cino Boeri in Triennale, Nari Ward e Chiara Camoni da Pirelli Hangar Bicocca, Adrian Piper al Pac, Dolce & Gabbana a Palazzo Reale, i Masbedo e FormaFantasma da Fondazione Ica sono solo alcune delle proposte da non perdere. La Fondazione Nicola Trussardi torna, invece, a invadere la città con «Italia70 – I nuovi mostri», un’esplosione di immagini realizzate da 70 artisti, tra grandi maestri e talenti emergenti, per una vera e propria caccia al tesoro che coinvolge tutti i quartieri, dal Cimitero monumentale al centro storico, da City Life a Porta Romana.

Una segnalazione merita, infine, «Abbandonare il locale», la prima mostra monografica in Italia dedicata a David Horvitz, che porta in un ufficio dismesso di Bim (mbizioso progetto di rigenerazione urbana nel quartiere Bicocca che sta trasformando un iconico edificio progettato da Vittorio Gregotti in una work destination all'avanguardia), 20 opere dell’artista americano, che ripercorrono quasi altrettanti anni di carriera, selezionate da Nicola Ricciardi. La mostra – si legge nella nota stampa - «nasce dalla volontà di dare una forma tangibile all’espressione «no time no space», alternando lavori storici con nuove produzioni e oggetti trovati che provano a complicare l’idea standardizzata di tempo e a sovvertire la logica dei confini a cui siamo abituati».
 
Con l’edizione 2024, miart conferma, dunque, il suo ruolo centrale tra gli appuntamenti del mercato dell’arte rendendo ancora più estesi e permeabili i propri confini tematici, spaziali e temporali e ponendosi come piattaforma di osservazione della società e dei suoi cambiamenti. 

Didascalie delle immagini 
Miart 2024. Foto di Nicola Gnesi studio 

Informazioni utili 
miart 2024 - Allianz MiCo, Padiglione 3, viale Scarampo – Milano. Orari: 12 e 13 aprile: dalle 11.30 alle 20.00 | 14 aprile: dalle 11.00 alle 19.00. Biglietto: intero: 18€, ridotto (minori dai 4 ai 17 anni e studenti): 14€. Sito internet: https://www.miart.it. Fino al 14 aprile 2024

giovedì 11 aprile 2024

Canaletto, un «ospite illustre» al Palazzo Ducale di Venezia

«Venezia è la perla d’Italia. Quando si volge lo sguardo a questi palazzi marmorei, a questi ponti, a queste chiese, a questo merletto stupendo di colonne, balconi e finestre, si comprende perché veniamo tutti qui». Così il francese Hippolyte Tayne dava voce ai tanti stranieri che vedevano nella Serenissima una tappa obbligata del loro Grand Tour, il viaggio tra i Paesi dell’Europa che, a partire dal Seicento e fino ai primi decenni dell’Ottocento, fu considerato parte essenziale nel percorso educativo dei giovani rampolli dell'aristocrazia inglese, francese e tedesca.

In quegli stessi anni nacque l’industria del ricordo. Le élite europee non rinunciavano, infatti, a portarsi a casa un «souvenir d’Italie». Per soddisfare la domanda di questo esigente stuolo di turisti-compratori, a caccia di una statuetta in biscuit o di un piccolo acquerello, di un cammeo o di un oggetto in vetro, artisti e artigiani diedero vita a una lucrosa attività, realizzando copie di capolavori d’arte antica o creando nuove opere, in alcuni casi commissionate dagli stessi viaggiatori. Il risultato di questa pratica fu l’impetuoso sviluppo di alcuni generi artistici, in particolare i ritratti e le vedute, vere e proprie cartoline di viaggio che servivano a ricordare i luoghi e i paesaggi rimasti nel cuore. Pompeo Batoni, Canaletto, Zuccarelli, Gaspar Van Wittel, Joseph Wright of Derby, Luca Carlevarijs e Giovan Battista Piranesi sono solo alcuni degli artisti coinvolti in questa attività nelle varie città italiane: Roma, Firenze, Napoli, Milano, il Golfo dei poeti, la Costiera amalfitana e, ovviamente, Venezia.

Nella Serenissima, tra i soggetti più amati e più richiesti dagli aristocratici del Grand Tour, c’era la veduta del Bacino di San Marco con Palazzo Ducale, massima espressione della bellezza luminosa e acquatica della città, diventata immagine e «oggetto del desiderio» in tutta Europa proprio grazie alla diffusione del vedutismo. Antonio Canal, meglio noto come Canaletto (Venezia, 1697-1768), era un maestro indiscusso di questo genere, con le sue vedute così accurate e minuziose da sembrare una fotografia. E il cuore pulsante della Serenissima, un vero e proprio museo a cielo aperto, ma anche un palcoscenico per eventi storici come l’incontro tra l'imperatore Barbarossa e papa Alessandro (1177) o le grandi feste per il Carnevale, era uno degli scorci più pittoreschi della sua produzione.

Tra le opere più iconiche del pittore veneziano, non si può, dunque, non annoverare «Il molo verso Riva degli Schiavoni con la colonna di San Marco» (1735-1740): un dipinto, acquistato come souvenir di lusso da Thomas Osborne (1713-1789), quarto duca di Leeds, in cui «la coerenza prospettica dell’impianto spaziale, la resa precisa delle architetture e la qualità della luce cristallina, che evoca in lontananza il pulviscolo atmosferico, riassumono al meglio la sua straordinaria produzione». Ogni elemento della narrazione concorre, infatti, «alla resa dello spazio, alla vastità della visione, alla celebrazione di Venezia come città che sorge dalle acque, suscitando stupore e meraviglia».


L’opera è il terzo degli «Ospiti a Palazzo», la rassegna che porta nelle sale del Palazzo Ducale di Venezia grandi esempi di opere pittoriche, volte a esaltare il ruolo della città lagunare e dei suoi protagonisti nella storia e nella cultura europea e che, al contempo, rafforza il dialogo tra istituzioni museali. Inaugurato nel 2022, con la presentazione del capolavoro «Maria Maddalena in estasi» di Artemisia Gentileschi, e proseguito lo scorso anno, con «L’ultimo Senato della Repubblica di Venezia» di Vittorio Emanuele Bressanin, il progetto espositivo stringe in questa edizione, in cartellone fino al 21 luglio nella rinnovata Quadreria, e più precisamente nella Sala del Magistrato alle Leggi, un sodalizio con il Castello sforzesco di Milano. È, infatti, in queste sale che è usualmente esposto il dipinto «Il molo verso Riva degli Schiavoni con la colonna di San Marco», conservato, a partire dal 1995 (l’anno dell’acquisto a Finarte da parte dell’istituzione meneghina), insieme con un altro lavoro del Canaletto, «Il molo verso la Zecca con la Colonna di San Teodoro», anch’esso proveniente dalla collezione dei duchi di Leeds, dove era entrato nel Settecento probabilmente attraverso la mediazione del banchiere, mercante e collezionista inglese Joseph Smith, dal 1744 console britannico a Venezia, protettore e agente ufficiale dello stesso artista, che nel suo palazzo ai Santi Apostoli esponeva, a scopo promozionale, dodici vedute canalettiane del Canal Grande.

La mostra non si configura solo come un «ritorno a casa» del telero, ma offre anche l’occasione per un confronto con un interlocutore coevo, tra i massimi esponenti della pittura veneziana del Settecento: Giambattista Tiepolo (Venezia 1696 – Madrid 1770) con la sua opera «Nettuno offre a Venezia i doni del mare» (1757-1758), appositamente realizzata per Palazzo Ducale, rappresentando il mito di Venezia, regina del mare, che la classe dirigente voleva perpetuare. 

«I due artisti, pressoché coetanei, non potrebbero essere più differenti nella loro poetica – si legge nei pannelli descrittivi in mostra -. Se Canaletto si specializza nell’arte della veduta, nella resa precisa, lenticolare, della realtà circostante, eleggendo la città di Venezia a sua musa ispiratrice, Giambattista Tiepolo origina visioni d’incanto con scene popolate da divinità classiche, personaggi mitologici e allegorie. Affascinati inizialmente dall’aspro contrasto di luce e ombra, nel crescere degli anni la tensione chiaroscurale si apre, in entrambi, a una luminosità tersa, a uno stile più controllato e nitido». Canaletto non restituisce però alla nostra vista solo le architetture della città, ma ci porta all’interno della vita quotidiana dei suoi abitanti, figure che rendono ancora più reale e animata la scena raffigurata, un mercato. Come scriveva Pietro Zampetti, nel 1967, il pittore ci racconta così «la realtà schietta e sincera, il senso delle cose scrutate nella loro essenza più vera e profonda».

Informazioni utili
Ospiti a Palazzo: Canaletto. Palazzo Ducale, Quadreria, piazza San Marco - Venezia. Orario: tutti i giorni, ore 9.00 – 19.00 (ultimo ingresso ore 18.00) | Domenica 28 aprile il Museo aprirà al pubblico alle ore 14:00 | Aperture speciali: dal 1° maggio al 30 settembre 2024, ogni venerdì e sabato apertura fino alle ore 23.00 (ultimo ingresso ore 22.00). Ingresso: i costi dei biglietti sono consultabili al link https://palazzoducale.visitmuve.it/it/pianifica-la-tua-visita/biglietti/. Informazioni: tel. +39.041.2715911 o https://palazzoducale.visitmuve.it/it/contattaci/. Fino al 21 luglio 2024

mercoledì 10 aprile 2024

«Restaurando Canova», nuova vita per l’«Apollino» e la «Testa di vecchio» delle Collezioni comunali d’arte di Bologna

Due anni fa, in occasione del bicentenario della morte di Antonio Canova (Possagno, 1757 – Venezia, 1822), i Musei civici d’arte antica di Bologna diedero vita un progetto di tutela, valorizzazione e conservazione dell’opera dell’artista ottocentesco, restaurando due sculture appartenenti alle collezioni comunali d’arte: l’«Apollino» (1797) e la «Testa di vecchio» (1820-1830). I due progetti conservativi – che hanno coinvolto l’Opificio delle Pietre Dure, il Museo Gypsotheca Antonio Canova e il Politecnico di Milano – Dipartimento di design e Laboratorio di restauro «Ottorino Nonfarmale» - sono stati recentemente presentati, anche in diretta streaming, al grande pubblico nella Cappella Farnese di Palazzo D’Accursio.
Entrambe le sculture sono pervenute alle collezioni comunali d’arte grazie alla donazione disposta nel 1878 dallo scultore Cincinnato Baruzzi (Imola, 1796 – Bologna, 1878), allievo di Canova e a lungo direttore del famoso studio romano del maestro in via delle Colonnette, a favore del Comune di Bologna, nominato suo erede universale.

L’«Apollino» (cm 53 x 145 x 44 x 62, altezza base cm 78), capolavoro della fase giovanile, fu restituito al catalogo dell’artista veneto nel 2013 da Antonella Mampieri, storica dell’arte dei Musei civici d’arte antica di Bologna, sito in cui la statua era sempre stata esposta, a partire dagli anni Trenta del Novecento, ma riferita allo scultore Cincinnato Baruzzi, che lo aveva acquistato sul mercato antiquario internazionale negli anni Cinquanta dell’Ottocento.
Il lavoro, in marmo bianco apuano, deriva da una lunga riflessione dell'artista sul tema del nudo giovanile, iniziata con l'«Amorino Lubomirski» (1786 - 88), conservato nel Castello Łańcut in Polonia, e proseguita con altre tre versioni idealizzate del medesimo tema: l’«Amorino Campbell» (1787 - 89) dell’Anglesey Abbey di Cambridge, l’«Amorino La Touche» (1789) della National Gallery of Ireland a Dublino e l’«Amorino alato Jusupov» (1793 - 97) all’Ermitage di San Pietroburgo.
Il dio è rappresentato come un giovane nudo dalle forme perfette, in appoggio sulla gamba destra e con la sinistra flessa, leggermente scartata di lato. Il corpo è animato da una lieve torsione serpentinata. Il volto androgino è incorniciato da una chioma di capelli lievemente arricciati e raccolti classicamente sulla sommità del capo in un nodo, che esalta l’effetto etereo della luce. Apollo trattiene con la mano sinistra l’arco, che termina con delle piccole teste di rapace, appoggiato al suolo, in evidenza rispetto alla corteccia del tronco posto dietro di lui. Con la mano destra tratteneva una freccia di metallo, ora perduta. La faretra è legata con un fiocco al tronco d’albero dove il serpente Pitone sta avviluppando le sue spire.
La scultura, scolpita a tutto tondo, è associata al piedistallo di marmo, concepito come un’antica ara. Questo, un cilindro dalla forma a rocchetto, è decorato con festoni vegetali trattenuti da nastri e borchie sul fusto. Gli elementi decorativi sono scolpiti a basso e alto rilievo. Il disco superiore o bilico è variamente modanato e decorato da una fascia perlinata sormontata da una decorazione vegetale dal profilo convesso. La base del piedistallo si presenta variamente modanata e con una fascia concentrica decorata con foglie e bacche di alloro a profilo convesso di imposta al fusto. Il basamento cilindrico è ancora dotato del congegno originario che permetteva la rotazione a 360° della scultura, presente anche in altre opere scultoree di Canova, e in occasione del restauro è stato ripristinato e rimesso in funzione.
L'intervento conservativo ha interessato la pulitura delle superfici e lo studio degli strati superficiali protettivi applicati in passato, per procedere all’eliminazione dei materiali dannosi e non più idonei per l’opera (materiale di deposizione, incrostazioni e collanti).

In occasione del restauro, il Dipartimento di design del Politecnico di Milano, con la direzione scientifica di Giuseppe Amoruso, si è posto l’obiettivo di riprodurre l’opera con le più moderne tecnologie per proporne un nuovo allestimento interattivo ed esperienziale. Il team di ricerca è partito da alcune domande: cosa può giustificare la replica di un capolavoro artistico? Come è possibile, superando le difficoltà tecniche e operative della riproduzione, trasmettere a coloro che la visiteranno quei valori tangibili e intangibili che riflettono ed amplificano i concetti di materialità, fragilità e immaginazione tattile?
Nella prima fase di sviluppo è stata completata l’acquisizione tridimensionale dell’opera tramite la tecnica di scansione senza contatto, attualmente considerata il metodo più efficace per ricavare la morfologia della superficie di un oggetto di forma complessa e di difficile riproduzione fotografica a causa dei numerosi dettagli anatomici e decorativi. Il procedimento ha sperimentato l’utilizzo di uno scanner a luce strutturata, tecnologia che permette di ricostruire la geometria degli oggetti attraverso la proiezione di pattern di luce codificati, che vengono deformati quando si proiettano sul soggetto. I pattern di luce strutturata, solitamente bianca, sono costituiti da motivi geometrici codificati; la fotocamera acquisisce questi modelli di luce distorti, fotogramma dopo fotogramma, mentre il software di scansione analizza la griglia e ricostruisce accuratamente le superfici dell'oggetto. A seconda delle dimensioni dell'oggetto e della durata della scansione, in una sola sessione lo scanner 3D può acquisire decine, centinaia o addirittura migliaia di fotogrammi. La luce riflessa viene trasformata in un modello ad alta risoluzione tramite gli algoritmi di riconoscimento e ricostruzione. Con questo procedimento iterativo si determinano i punti sulla superficie che sono rispettivamente più vicini o più lontani dalla fotocamera. Dal modello geometrico, completato con la rappresentazione dello stato superficiale della scultura (la sua texture), sono state rappresentate le ortofoto (proiezioni ortografiche) a beneficio del successivo intervento di conservazione e il prototipo della maniglia presente sul bilico rotante su cui poggia la statua per poterne poi realizzare una copia e integrare quella mancante. Infine è stata realizzata la replica tattile in scala 1:1 (tramite la stampa 3D) per poter portare il visitatore alla scoperta di quei dettagli che svelano il mito e la sua traduzione nella forma scolpita: i capelli raccolti in un nodo nella parte superiore del cranio, le lunghe ciocche che accarezzano il collo e le spalle del giovane Apollo, i lineamenti del viso che rappresentano la perfezione classica e il desiderio di purezza espressiva.

La «Testa di vecchio» (cm 51 x 52 x 24, altezza base cm 22), databile tra il 1820 e 1830, è un'opera non certa del catalogo di Antonio Canova ed è considerata la sua unica scultura in terracotta, stando a quanto è riportato su una base in marmo con epigrafe latina («Unicum Canovae Plasma») commissionata da Cincinnato Baruzzi. L'attendibilità dell’attribuzione è stata messa in discussione da parte della critica e forse proprio grazie a questo restauro sarà possibile affrontare nuovamente il problema. Tuttavia va sottolineata l'alta qualità del ritratto particolarmente vivo, alla cui naturalezza contribuiscono la lieve rotazione su cui si dispone il personaggio e il torso nudo, altre volte presente nella produzione ritrattistica dello scultore.
L’intervento conservativo, condotto da Giovanni Giannelli del Laboratorio di restauro «Ottorino Nonfarmale», ha recuperato a una migliore leggibilità il lavoro, che torna così alla fruizione del pubblico e all’attenzione degli storici dell’arte, libera da colorazioni incoerenti e da restauri inadeguati, offrendosi a una nuova valutazione critica. Le operazioni di restauro sono state finalizzate alla pulitura completa di tutta la superficie del busto e della base, alla rimozione di tutte le stuccature di giunzione tra i vari elementi e di ricostruzione, alla rifinitura della pulitura della superficie.

Durante l'intervento sono state, inoltre, rilevate nella parte retrostante della scultura delle impronte digitali rimaste sull’argilla durante le fasi di plasmatura. Queste sono state analizzate e comparate dall’Università degli Studi di Padova con il dataset di impronte di Antonio Canova conservato alla Gipsoteca di Possagno, con l’acquisizione di ulteriori dati utili per quanto riguarda l’attribuzione dell’opera. Ora tocca agli studiosi dire la loro.

Informazioni utili
Collezioni comunali d’arte - Palazzo d’Accursio, piazza Maggiore 6 - 40121 Bologna, tel. +39 051 2193998, museiarteantica@comune.bologna.it | www.museibologna.it/arteantica | Facebook: Musei Civici d'Arte Antica | Instagram: @museiarteanticabologna | TiKTok: @museiarteanticabologna | X: @MuseiCiviciBolo

martedì 9 aprile 2024

Una storia fragile, ma antica: la Barovier&Toso diventa una fondazione per diffondere la tradizione del vetro muranese

Ventiduemila schizzi di Ercole Barovier (1889-1974), migliaia di disegni tecnici di lampadari, foto storiche di prodotti o di ospiti illustri (tra tutti la regina Elisabetta con il marito Filippo), lettere, vecchie cartoline, antichi strumenti di lavoro e una collezione di quasi duecento oggetti ideati all'interno di una delle fornaci più affermate di Venezia: è un tesoro quello che Barovier&Toso, storica azienda muranese in Fondamenta dei Vetrai 28, il canale che in tutto il mondo è sinonimo di «cristallo veneziano» soffiato a bocca e lavorato a mano, ha deciso di mettere a disposizione degli studiosi.
 
L’archivio storico aziendale, per la cui realizzazione sono al momento previsti due anni di lavoro, è il primo progetto della neonata Fondazione Barovier&Toso, istituita dal presidente Rinaldo Invernizzi, a scopo sia conservativo che documentativo, ovvero per tramandare al futuro e contemporaneamente far conoscere al grande pubblico di oggi le fasi di lavorazione di opere e collezioni come i grandi vasi a policrome murrine trasparenti, di ascendenza Liberty, o gli animali della serie «Primavera» (1929), in vetro biancastro striato e craquelé, profilati da grossi filamenti vitrei neri. Sono, questi, due esempi di una tradizione artigianale secolare dal sapore alchemico, che affonda le proprie radici nel 1295 e nell’attività di un tal Jacobello Barovier, di professione phiolarius (soffiatore di fiale in vetro comune, ovvero bottiglie), capostipite di una famiglia che ha visto le proprie opere esposte nei più famosi musei del mondo, dal Louvre di Parigi al Victoria&Albert Museum di Londra, e che ha lasciato alla storia di Venezia alcune delle principali tecniche di lavorazione, da quella del «vetro a ghiaccio», citata per la prima volta nel 1570 in una carta veneziana, a quella detta «rugiada», inventata nel 1938, che si ottiene fissando a caldo, in fase di lavorazione, minuti frammenti di vetro all'oggetto per donargli estrema brillantezza.

Il vero fondatore della gloria familiare fu però, sul finire del Quattrocento, Angelo Barovier (1405?-1460). Di lui si hanno poche notizie, ma è certo – stando alle indicazioni fornite dal Filarete nel suo «De Architectura» - che il maestro muranese eccelse nella composizione di paste vitree e in decorazioni «intarsiate» di vetri colorati «a guisa di mosaico», ma che fu anche, e soprattutto, l’inventore della rivoluzionaria tecnica del «cristallo veneziano», un vetro incolore, dalle straordinarie caratteristiche di estrema trasparenza e brillantezza, di cui si parla per la prima volta in un decreto della Repubblica di Venezia del 1455.
 
Particolarmente apprezzata fu anche l’attività della figlia, Marietta Barovier, imprenditrice e designer che nel 1497, per concessione del doge Agostino Barbarigo, aprì una propria piccola fornace in cui cuocere i vetri decorati a smalto e dove inventò anche la «rosetta», una perla che riproduceva i petali di una rosa mescolando, strato dopo strato, il bianco, il rosso e il blu.
All’arista muranese viene, oggi, attribuita anche la realizzazione della celebre «coppa Barovier» (1460-1470), un contenitore dalle tonalità blu, dipinta a mano e decorata in oro, con motivi ornamentali e medaglioni smaltati, che fa parte della collezione dei Musei civici veneziani, nonché – scrive Giulio Lorenzetti sulla Treccani - «altri preziosi esemplari, come quelle mirabili coppe, bicchieri, tazze conservate nello Schlossmuseum di Berlino, nelle collezioni Dutuit e del barone Maurice de Rothschild a Parigi, nelle raccolte del South Kensington Museum di Londra. Di forma assai semplice, con ampie superfici lisce, questi vetri, […] di colorazioni a tinte cupe imitanti le pietre rare, come il rosso rubino, il verde smeraldo, il viola ametista, sono ornate con pittura a smalto, a semplici motivi ornamentali, a strisce, a squame, a puntini, a racemi, o con figurazioni di soggetti sacri e soprattutto profani, tratte da incisioni e xilografie del tempo […]».

Di secolo in secolo, di creazione in creazione, si arriva al 1878 quando i Barovier fondarono la «Artisti Barovier», la prima vera società della famiglia, che si fuse, nel 1936, con la «Saiar Ferro Toso» e, nel 1942, con la «Fratelli Toso» per diventare l’odierna Barovier&Toso e rinnovare così una traduzione lunga sette secoli, che, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, conobbe anche l’introduzione della lavorazione detta dei «murrini fusi» (tessuti vitrei per modelli figurativi, spesso floreali, e per modelli astratti) e l’ottenimento di due brevetti per la produzione del «vetro madreperla» e del «rosso corniola senza oro».

Il Novecento fu anche il secolo di Ercole Barovier (1889-1974), a capo dell’azienda dal 1926 al 1972. Sotto la sua guida artistica videro la luce le collezioni «Crepuscolo» (un vetro a tenui arborescenze brunastre ottenute con la lana di ferro inglobata nella parete, modellato in forme massicce e decorato a grossi anelli di cristallo), «Autunno gemmato» (vetro a chiazze rossastre ottenute con la colorazione a caldo senza fusione), «Rostrati» (caratterizzati da grosse punte rifrangenti la luce, ottenute con un particolare espediente tecnico e brevettati), «Rilievi aurati e argentati» (ciotole con frutta, fiori e foglie a rilievo, ricoperti da una foglia d'oro e d'argento) e un'infinita serie di altri lavori dai nomi pittoreschi, fino alle «Neomurrine» del 1972. Oggi, infine, l’azienda è, in tutto il mondo, sinonimo di illuminazione di lusso in vetro soffiato.

Per rendere realtà il progetto di un archivio aziendale della Barovier & Toso è previsto un importante lavoro di ricerca critica, catalogazione e archiviazione di migliaia di documenti e manufatti che verranno resi accessibili, per la prima volta, in formato digitale. Ma la Fondazione ha anche altri importanti scopi statutari. La Barovier&Toso intende, infatti, «promuovere – si legge nella nota stampa - le arti e la cultura da tutto il mondo, approcciando le espressioni artistiche contemporanee da una prospettiva storica, e dando priorità alle iniziative creative legate a Venezia e al suo patrimonio», con un’attenzione particolare, naturalmente, alla lavorazione del vetro, una delle più prestigiose creazioni culturali della Serenissima nel mondo. Lo staff della Fondazione pensa, nello specifico, di creare una collezione d’arte attraverso le donazioni degli artisti e di presentare questi lasciati con mostre temporanee. L’ambizione è di diventare, in questo modo, un crocevia innovativo, dove la tradizione vetraria si fonde con le più moderne espressioni creative – non solo le arti visive, ma anche la musica, la letteratura, la danza e la teatro – creando un dialogo unico e senza tempo.

Le esposizioni sono, in realtà, già da tempo nel Dna di Barovier&Toso, che ha anche un museo privato di arte vetraria sull’isola di Murano, nelle sale di Palazzo Contarini. Per esempio, per la Milano Design Week lo showroom meneghino dell’azienda, in via Durini, ospita, dal 16 al 21 aprile, «Endless | Light Reflections», un’installazione luminosa immersiva dall’aspetto onirico, realizzata da vandersandestudio, composta da sottili colonne in vetro soffiato con effetti luminosi di accensione e spegnimento alternato che poggiano su alcune pareti specchianti installate a terra e soffitto. Mentre, in occasione della 60° Biennale d’arte di Venezia la neonata Fondazione debutta con il suo calendario di mostre presentando la collettiva «H2O Venezia: Diari d’acqua / Water Diaries», in agenda dal 18 aprile al 24 novembre allo SPUMA – Space for the Arts, nel complesso dell'ex Birrificio Dreher, alla Giudecca. Il progetto è il punto di arrivo di un programma di residenza per il quale sono state selezionate cinque artiste - Alizée Gazeau (dalla Francia), Marija Jaensch (dai Paesi Bassi), Amy Thai (dall’Australia), Sofia Toribio (dall’Argentina) e Jiaying Wu (dalla Cina) –, invitate a confrontarsi con un elemento, l’acqua, che da sempre fa parte della vita di Venezia e dei veneziani, vista ora come disagio e minaccia, ora come simbolo di commerci e ricchezza.

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lunedì 8 aprile 2024

Firenze, restaurata la «Trasfigurazione» di Pier Francesco Foschi

Fu uno dei pittori fiorentini di maggior successo nei decenni centrali del Cinquecento, eppure Pier Francesco Foschi (1502-1567), allievo di Andrea del Sarto e collaboratore di Pontormo, fu per lungo tempo dimenticato. Nonostante l'ampia committenza che lo vide all'opera per alcune delle più illustri famiglie della sua città natale - i Medici, i Pucci, i Torrigiani -, e la partecipazione alla costituzione dell'Accademia delle Arti del Disegno, di cui fu anche console nel 1566, il pittore venne citato solo marginalmente da Giorgio Vasari nelle sue «Vite», e questo, forse, contribuì a farlo dimenticare.
È solo nel Novecento, con la riscoperta del Manierismo e dei suoi protagonisti, che il nome dell'artista riaffiora: il primo a interessarsi al suo lavoro è Roberto Longhi in un saggio del 1952; seguono gli studi di Antonio Pinelli (1967), Louis A. Waldman (2001) e Simone Giordani (2007). La prima importante mostra monografica organizzata in Europa (ancora visibile per qualche giorno alle Gallerie dell’Accademia di Firenze) risale, invece, alla fine del 2023.
Mentre circa una quarantina di opere autografe, tra dipinti e disegni, hanno, dunque, riacceso le luci sulla vita e sulla carriera artistica di Pier Francesco Foschi, anche grazie al recupero e alla riscoperta di alcuni suoi dipinti religiosi presenti nel territorio fiorentino, un restauro ha tolto la grigia patina del tempo da una delle sue tre opere per la fiorentina Basilica di Santo Spirito: la «Trasfigurazione», importante pala d'altare conservata nella cappella Capponi d’Altopascio.
 
L’intervento conservativo, commissionato dalle Gallerie dell'Accademia, è stato eseguito da Kyoko Nakahara, per quanto riguarda la superficie pittorica della tavola, e da Francesca Brogi, in collaborazione con la Bottega d’Arte Maselli di Gabriele Maselli, per la cornice originale, intagliata e dorata, sotto la Direzione Lavori e l’Alta sorveglianza della Soprintendenza Archeologia, Belle arti e Paesaggio per la città metropolitana di Firenze e le province di Pistoia e Prato (SABAP-FI), in accordo con il Priore della Basilica, padre Giuseppe Pagano. Il dipinto, viste anche le dimensioni, è stato smontato dall’altare, tolto dalla cornice e spostato in un cantiere creato ad hoc all’interno della chiesa, una pratica più appropriata per la conservazione dell’opera che così non ha subito particolari cambiamenti climatici e neppure sollecitazioni, dovute al trasporto in un laboratorio esterno.
 
La «Trasfigurazione» è una delle tre pale di Foschi che sono ancora nella Basilica di Santo Spirito e che già Vasari ricorda in questo luogo, pur senza precisarne i soggetti, fin dal 1550. Il dipinto era stato commissionato dal facoltoso mercante fiorentino Piero di Giovanni Bini nel corso del 1545 e completato al più tardi entro il 1546. L’opera, ornata di una cornice monumentale ascrivibile alla bottega di Baccio d’Agnolo, fu collocata sull’altare della Cappella Bini nel transetto sinistro, ma nell’Ottocento venne trasferita nella Cappella Capponi d’Altopascio, dove tuttora si trova. Il soggetto prescelto è estremamente significativo poiché, secondo Sant’Agostino, la Trasfigurazione di Cristo tra Mosè e Elia alla presenza degli apostoli Giacomo e Giovanni è un episodio che prefigura la Morte e Resurrezione di Gesù. Il pittore mette in scena una vera e propria visione, in cui la raffinata scelta cromatica impreziosita di effetti cangianti, le lunghe e ascetiche figure dei Profeti fluttuanti accanto allo squarcio luminoso tra le nubi e gli Apostoli, sgomenti ai piedi del Cristo, fanno del dipinto uno dei vertici della produzione di Foschi, alla metà del Cinquecento. Le altre due pale, ubicate nei primi due altari, a destra e a sinistra, entrando nella Basilica, raffigurano la «Concezione della Vergine» e la «Resurrezione». Il Foschi viveva proprio nel quartiere di Santo Spirito, ed era cresciuto in contesto familiare non estraneo al savonarolismo. Le tre opere furono eseguite a distanza di pochi anni e i soggetti raffigurati sono tutti in relazione con i misteri di Santo Spirito, a cui la chiesa è dedicata ed è possibile che gli agostiniani, come aveva sottolineato Roberto Longhi, avessero avuto un ruolo in quella scelta. Sono gli anni in cui la basilica agostiniana era al centro di un acceso dibattito religioso, a ridosso del Concilio di Trento del 1545.

Malgrado l’imperfezione del legno, la tavola si trovava in una buona condizione da un punto di vista strutturale. La superficie pittorica appariva piuttosto opaca, offuscata dall’accumulo di depositi di origine atmosferica e di nero fumo di candele, con una pesante patina di natura diversa. L’opera aveva subito una pulitura pregressa molto grossolana e drastica, presumibilmente nel secolo XIX, se non prima. Era stata alterata da alcuni ritocchi situati sui panneggi dei santi e da una ridipintura sulle nuvole, all’altezza del braccio alzato di San Pietro, per nascondere il degrado causato presumibilmente dal fumo di candela.
 
Sono state effettuate varie indagini diagnostiche non invasive: la tecnica di fotografia in VIS - IR riflesso - IR falso colore, l’analisi spettroscopica Fors (Spettroscopia in riflettanza con fibre ottiche) e la Xrf (Fluorescenza Raggi X), al fine di comprendere la tecnica di esecuzione e le condizioni conservative, soprattutto nelle parti più critiche, dovute ai pregressi restauri aggressivi.
Come prima operazione, quindi, è stata effettuata la disinfestazione anossica, in quanto sia la tavola sia la cornice hanno subito un’ingente infestazione di insetti xilofagi, seguita poi dalla disinfestazione preventiva. Il dipinto è stato successivamente sottoposto all’intervento di pulitura. Il restauro effettuato ha voluto garantire una buona stabilità del supporto dell’opera e una buona conservazione degli strati preparatori, pittorici e dorati nel tempo, in particolare, di restituire una migliore lettura del valore formale e cromatico della pala notevolmente offuscata, e contribuire, dunque, ad una maggiore leggibilità.
 
La cornice in legno intagliato nello stile del manierismo fiorentino, dorata a foglia d’oro con la tecnica a guazzo, è quella originale. Il restauro è consistito sostanzialmente nell’intervento di pulitura della superficie dorata e dello stemma policromo/dorato con la rimozione degli strati di depositi atmosferici e dello spesso strato di ‘patine’ scure con i materiali e la metodologia idonei (solventi organici neutri, le basi, tensioattivi, addensanti, ecc.). Su indicazione della Direzione Lavori, non sono stati ricostruiti gli elementi lignei decorativi mancanti, come alcune teste dei putti o le numerose roselline e palmette, in quanto tale intervento sarebbe stato arbitrario. Sull’intera cornice è stato dato, infine, uno strato protettivo.

«Grazie al restauro, un omaggio all’artista caduto ingiustamente nell’oblio, la «Trasfigurazione» – racconta Cecilie Hollberg delle Gallerie dell'Accademia di Firenze – ha recuperato l’originale freschezza e ci ha riservato delle sorprese riguardo le modalità operative del Foschi, di cui sono state, anche, rivenute, sulla superficie pittorica, le impronte digitali. Attraverso l’analisi dei pigmenti, è stato possibile capire meglio la tavolozza dell'artista e le caratteristiche della sua pittura, contraddistinta da effetti di raffinato cangiantismo. Nel corso della movimentazione della «Resurrezione», un’altra grande pala che il Foschi realizzò per la stessa Chiesa di Santo Spirito, eccezionalmente esposta in mostra, abbiamo individuato invece il monogramma-firma del pittore, finora non conosciuto». Un ulteriore tassello, questo, per approfondire la conoscenza di un pittore del Cinquecento, a torto dimenticato.

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venerdì 5 aprile 2024

Giacomo Puccini, si arricchisce l’archivio del museo di Torre del Lago

«Gaudio supremo, paradiso, eden, empireo, turris eburnea, vas spirituale, reggia… abitanti 120, 12 case. Paese tranquillo con macchie splendide fino al mare, popolate di daini, cignali, lepri, conigli […]. Tramonti lussuriosi e straordinari»: con queste parole, nel 1900, Giacomo Puccini (1858-1929) celebrava la quiete e la bellezza di Torre del Lago. In questo ridente borgo toscano, dove il maestro compose e sue opere maggiori, tra cui la «Tosca» (1900), «Madama Butterfly» (1904), «La Fanciulla del West» (1910) e «La Rondine» (1917), oggi ha sede la Villa Museo Giacomo Puccini, che custodisce al proprio interno oltre 28.500 pezzi tra missive, fotografie, documenti amministrativi, musica manoscritta e a stampa, carteggi familiari e professionali.
Questo patrimonio consistente, dichiarato fondo di interesse storico dal ministero della Cultura, viene costantemente integrato grazie al lavoro della Fondazione Simonetta Puccini per Giacomo Puccini, che, anno dopo anno, ha portato tra le sale del museo un insieme di documenti unici e inediti, preziosi per lo studio del grande compositore e della sua immensa produzione artistica. In queste settimane, ovvero quelle che conducono al centenario della morte del compositore (che si commemorerà il prossimo 29 novembre), l’archivio si è arricchito di nuovo materiale: manoscritti musicali autografi, lettere, appunti scritti di proprio pugno da Giacomo Puccini e libretti originali delle sue opere liriche, ma non solo.
 
Tra le più recenti acquisizioni, c’è un libretto che la Fondazione ha comprato all’incanto, contenente alcuni scritti del maestro indirizzati alla famiglia della madre, Albina Magi, a partire dal 1898. A tal proposito va ricordato che Giacomo Puccini, sesto di nove figli, orfano del padre in giovanissima età, fu molto legato ai fratelli e ai parenti materni, tant’è che tra i suoi primi insegnanti di musica ci fu proprio lo zio Fortunato Magi, poi divenuto direttore del Conservatorio di Venezia. Mentre da una nota casa d’aste proviene un lotto di manoscritti musicali per pianoforte e organo, che costituiscono le parti mancanti di composizioni già custodite presso l’archivio e perciò elementi indispensabili per la completezza della raccolta.

L’importante operazione di ricostruzione dell’archivio è resa possibile anche grazie alla generosa iniziativa dei privati. Una minuta autografa e alcuni libretti d’opera dell’epoca sono stati, infatti, donati da Luciano Birghillotti, preside in pensione di una scuola fiorentina, appassionato di musica e in particolare di quella pucciniana, che nel 1991 aveva conosciuto la nipote di Puccini, Simonetta, durante la cerimonia di intitolazione di una scuola elementare al maestro. Birghillotti ha devoluto alla Fondazione anche un ritaglio del quotidiano «La Nazione» del novembre 1924, giorno successivo alla scomparsa dell’operista, e un telegramma autografo ricevuto in eredità dal nonno – capostazione a Capalbio nei primi decenni del Novecento, presso il quale il compositore si recava ogni settimana per inviare le sue comunicazioni – che Giacomo Puccini spedì dal paese toscano al drammaturgo e librettista Giovacchino Forzano per avvertirlo che avrebbe assistito alla prova di un’opera al Teatro Regio di Torino. Sandra Nicolini, invece, ha donato una rivista storica, il numero unico pubblicato con la «Gazzetta Mondana» in occasione della scomparsa del compositore, avvenuta nel 1924.
Ma oltre al Puccini autore, conosciuto e acclamato in tutto il mondo, dalle nuove acquisizioni emerge anche una dimensione più intima, quella delle sue relazioni sentimentali, come documentano i sette ritagli di quotidiani sui quali l’operista scrisse degli appunti relativi alla triste vicenda di Doria Manfredi, la giovane cameriera suicidatasi perché accusata dalla moglie di Puccini, Elvira, di avere una relazione con il maestro. Questi frammenti, rinvenuti tra le carte dell’ammiraglio Luigi Romani, che li ha donati con piacere alla Fondazione, possono contribuire a gettare un po’ di nuova luce sul Puccini uomo, marito e amante. A darci la possibilità di indagare, parallelamente alla produzione artistica, anche la sfera privata del musicista, c’è, poi, un fondo composto da una ventina di lettere e memorie, anche queste contenenti commenti autografi relativi alla storia della Manfredi, che la Fondazione ha invece acquistato presso il mercato antiquario.

Infine, ad integrare un fondo già presente in archivio, acquistato da Simonetta Puccini, sono appena giunte al museo di Torre del Lago due lettere che Giacomo Puccini scrisse all’amico e pittore Ferruccio Pagni, donate da Mauro Masini. Quella tra l’operista e l’artista livornese, che frequentò l'Accademia delle belle arti di Firenze sotto la guida di Giovanni Fattori, fu un’amicizia profonda e di lungo corso, iniziata nel 1891 proprio sulle rive del lago di Massaciuccoli, dove Puccini abitava e dove Pagni amava dipingere le sue tele.

Le nuove acquisizioni sono, dunque, documenti di valore eccezionale, che arricchiscono e completano il patrimonio storico-documentario legato alla memoria del grande compositore, aperto agli studiosi di tutto il mondo, e che permettono alla comunità accademica di creare nuove sinergie, dal punto di vista musicale, artistico e documentario.

Informazioni utili 
Fondazione Simonetta Puccini, Viale Giacomo Puccini, 266 - 55049 Torre del Lago, Lucca, tel. +39.0584.341445, e-mail info@fondazionesimonettapuccini.it. Sito web: www.giacomopuccini.it

giovedì 4 aprile 2024

Roma, alla Galleria Borghese una delle prime opere di Diego Velázquez

Diego Velázquez (1599-1660), Donna in cucina con cena in Emmaus, c.1617-1618. © National Gallery of Ireland

È il dialogo artistico e culturale fra due giganti della pittura barocca il cardine della mostra «Un Velázquez in Galleria», che ha fatto volare da Dublino a Roma l’opera «Donna in cucina con Cena di Emmaus», uno dei primi lavori conosciuti di Diego Velázquez (1599-1660), usualmente conservato nella collezione permanente della National Gallery of Ireland. La sede dell’esposizione capitolina, allestita fino al 23 giugno, è, infatti, una delle stanze più amate della Galleria Borghese, la numero 8 conosciuta come Sala del Sileno, al cui interno sono ospitati sei pregevoli dipinti del Caravaggio.
Il prezioso focus di ricerca rivela prospettive inedite di critica e approfondimento, collocando la mostra in quel filone dedicato allo sguardo degli artisti stranieri sulla Città Eterna a cui il museo dedica da tempo una parte consistente della sua attività di studio.
Diego Velázquez visitò Roma ben due volte nel corso della vita e come Rubens, che incontrò a Madrid nel 1629, ebbe un rapporto privilegiato con l’Urbe, cosa che lo inserisce di fatto in quella schiera di artisti stranieri che dalla città e dai suoi maestri trassero insegnamento e ispirazione.
La pittura di Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571-1610) fu rivoluzionaria per le sorti artistiche di tutto il Seicento. Fin dalle prime tele svelate al pubblico nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma nel 1600, il «rumore» (come scrisse Baglione) attorno alla sua opera fu eclatante, spingendo numerosi artisti a imitarne lo stile e copiare i suoi dipinti. Nacque così il fenomeno del caravaggismo, che nel giro di pochi anni divenne di portata europea, e i cui esiti più alti fiorirono spesso lontano dall’Italia, grazie a pittori fiamminghi, olandesi, francesi e spagnoli.
Questi artisti stranieri giungevano a Roma e in altre città italiane per vedere e imparare l’arte italiana, e anche la pittura di Caravaggio, esercitandosi nella riproduzione dei loro capolavori, in un viaggio di formazione che anticipava di un secolo il Grand Tour.
A Siviglia, nella calda e assolata Andalusia, si accese forse la luce più brillante di questa corrente artistica, con l’opera di Diego Velázquez (1599-1660), il cui legame a distanza con Caravaggio è di grande fascino e intensità.
La «Donna in cucina con Cena in Emmaus» è tra le prime opere del pittore spagnolo, dipinta intorno al 1618-1620 quando era da poco uscito dalla bottega di Francisco Pacheco, pittore sivigliano di cui sposò la figlia Juana nel 1618. 
Il dipinto rientra nel genere dei bodegón, filone di pittura spagnolo che ritraeva persone delle condizioni sociali più umili, in cucina o vicino a cibi e oggetti poveri.
Protagonista del dipinto è una giovane domestica affaccendata in cucina, che sembra aver appena finito di mettere in ordine dopo una cena, come dimostrano la brocca e le ciotole rovesciate a scolare e il panno bianco in primo piano. La natura morta degli oggetti è dipinta con grande realismo e vividezza, la luce rifulge nella pentola di rame e nel mortaio, accarezza la cesta di paglia appesa al muro e accende le brocche di ceramica che fanno pensare già alle opere di Giorgio Morandi. Sullo sfondo a sinistra, come fosse un quadro nel quadro, vediamo da una finestra una scena con l’episodio evangelico della Cena in Emmaus, che era stato celato da ridipinture ed è riemerso grazie a un restauro nel 1933.
Si tratta del momento in cui due discepoli riconoscono il Cristo risorto che si era presentato loro come un mendicante, nell’istante esatto in cui spezza il pane e lo benedice. La giovane domestica è immobile e trasognata, sembra aver percepito la sacralità dell’avvenimento, come se stesse ascoltando le parole pronunciate alla mensa sullo sfondo. 
Quest’opera è stata messa in relazione a un passo di santa Teresa d’Avila, la mistica spagnola del Cinquecento, che avrebbe detto alle sue sorelle monache: «Figlie mie non sconfortatevi se l’obbedienza vi porta a occuparvi di cose esteriori, sappiate che anche in cucina si trova il Signore, e tra le pentole vi aiuta nelle cose interiori e in quelle esteriori».
Così quella che potrebbe apparire come una consueta e semplice «scena di genere» assume significati più alti e spirituali, proprio come le opere giovanili di Caravaggio, come «Autoritratto in veste di Bacco», tra le prime opere note del Merisi, custodito fin dal Seicento nella Galleria Borghese. Nel rigoglioso grappolo poggiato sul piano e in quello tenuto in mano in cui si intravedono degli acini appassiti, nella foglia riarsa come in quella verde del serto, si sono visti significati allegorici e morali. Anche il dipinto spagnolo con la giovane e pudica domestica mostra una straordinaria natura morta ed entrambe, benché quella caravaggesca sia biologica («umile dramma biologico», secondo Longhi) e l’altra inanimata, sono fortemente drammatiche.
Velázquez soggiornò in Italia ben due volte, la prima nel 1629, per circa un anno e mezzo, e la seconda dal 1649 al 1651. Entrambi i viaggi furono di enorme importanza per la sua pittura, che fu nutrita dai grandi maestri veneti, lombardi ed emiliani. Come solo Raffaello prima di lui, il grande pittore spagnolo fu in grado di assimilare ogni cosa vista, di farla propria e reinterpretarla in una maniera unica. Tiziano, i Carracci, Caravaggio, Guido Reni e persino Bernini rivivono nei ritratti e nelle grandi tele storiche e mitologiche di Velázquez, che tiene assieme classicismo e naturalismo. Bisogna osservare però come la «Donna in cucina con Cena in Emmaus» sia stata eseguita oltre un decennio prima del suo soggiorno italiano, ed è, quindi, lecito domandarsi come gli sia giunta questa forte eco caravaggesca. Si può facilmente immaginare che le opere del Caravaggio fossero arrivate in Spagna per mezzo di alcune copie, che circolavano allora in grandi quantità, e che egli possa aver visto una replica della «Cena in Emmaus» a lungo conservata nella Galleria Borghese e oggi alla National Gallery di Londra.
È ad ogni modo certo che fin da subito i suoi esordi pittorici furono sotto il segno di Caravaggio, entrambi cercarono la verità nei bassifondi delle rispettive città, nelle strade, nelle taverne e nelle locande, collocando il sacro all’interno di ambientazioni umili e quotidiane.

Didascalie delle immagini
[Figg. 2, 3, 4 e 5] Un Velazquez in Galleria. Installation view. Ph A. Novelli. Credit: Galleria Borghese, Roma

Informazioni utili
Un Velazquez in Galleria. Galleria Borghese, Piazzale Scipione Borghese, 5 - Roma. Orari: dal martedì alla domenica, dalle 9.00 alle 19.00. Ultimo ingresso alle ore 17.45Ingresso: € 13,00*  (ultimo turno € 8,00*) | *in Occasione della mostra Raffaello, Tiziano, Rubens. Capolavori dalla Galleria Borghese a Palazzo Barberini i biglietti subiscono una riduzione di € 2,00; ridotto 18-25 anni € 2,00; gratuito per i minori di 18 anni | prenotazione obbligatoria per tutte le tipologie di biglietto € 2,00. Sito internet: https://galleriaborghese.beniculturali.it. Fino al 23 giugno 2024

mercoledì 3 aprile 2024

La «Madonna Sorlini» di Giovanni Bellini in mostra a Venezia

Giovanni Bellini,Madonna in adorazione con bambino dormiente, tempera su tavola, 1470 circa, inv.n. 004. Fondazione Luciano Sorlini - Museo MarteS, Calvagese della Riviera (Brescia)

Rimarrà visibile ancora per pochi giorni, alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, la «Madonna in adorazione del Bambino dormiente» di Giovanni Bellini (1432/1433 circa - 1516), opera di proprietà della Fondazione Luciano Sorlini di Calvagese della Riviera, in provincia di Brescia.
Il prestito, che durerà fino al 7 aprile, precede l’importante intervento di restauro a cui sarà sottoposto il lavoro proprio a Venezia, sotto la mano esperta di Giulio Bono e con il patrocino di Banca Intesa Sanpaolo, nell’ambito del programma biennale di restauri «Restituzioni», che in oltre trent’anni ha riconsegnato più di duemila beni, testimonianze di espressioni artistiche datate dall’antichità al secondo Novecento, alla fruizione della collettività.
L’opera, che risale alla prima maturità del suo autore, è nota al mondo dell’arte con più nomi. Roberto Longhi la definì «Madonna in rosso» nel suo «Viatico per cinque secoli di pittura veneziana», pubblicato nel 1946, sottolineandone il cromatismo che la contraddistingue. I più la chiamano «Madonna Sorlini» dopo che, nel 2004, l’imprenditore e collezionista bresciano Luciano Sorlini (1925-2015) la acquisì e dopo che, dal 2018, è stata messa in mostra nel “suo” MarteS, un museo moderno e un punto di riferimento per l’arte veneziana in Lombardia, soprattutto per la pittura figurativa veneta del XVII e XVIII secolo, che oggi vanta una collezione di 184 opere, alcune delle quali portano la firma di Tiepolo, Ricci, Guardi,
Vista della sala n 4 alle Gallerie dell'Accademia di Venezia
Canaletto
e Rosalba Carriera, ma anche di autori meno conosciuti come Pittoni, Diziani, Molinari, Bellucci, Fontebasso e molti altri. Il titolo originario dell'opera belliniana in mostra alle Gallerie del'Accademia è, però, - come già ricordato - la «Madonna in adorazione del Bambino dormiente».
Il lavoro, che ritornerà nella sua abituale casa nel 2026, è visibile all’interno della Sala V al primo piano delle Gallerie dell’Accademia, quella adiacente alla Sala IV dedicata alle opere di piccolo formato dell’artista, e in particolare all’evoluzione interpretativa del grande «patriarca della pittura rinascimentale veneziana» sul tema della «Madonna col Bambino».
Vista della sala n 5 alle Gallerie dell'Accademia di Venezia
Giovanni Bellini fece parte della più importante impresa familiare della Venezia quattrocentesca, attiva tra gli anni Quaranta del XV secolo e il primo decennio del XVI secolo. L’accostamento di tele e tavole opera dei fratelli Giovanni e Gentile documenta i modi e la gradualità del processo di affrancamento dallo stile più arcaico del padre Jacopo, aprendosi alle novità del linguaggio rinascimentale elaborate a Padova da Francesco Squarcione, sulla base degli stimoli introdotti da Donatello. Nel corso della sua lunga vita, Giovanni traghettò, infatti, la pittura ancora influenzata dai modelli bizantini allo stile rinascimentale di Donatello e Mantegna, fino al tonalismo veneto di Giorgione e Tiziano.
La «Madonna Sorlini» è indicata dalla storiografia critica come centrale all’interno della produzione dell’artista veneziano ed è sempre presente all’interno dei principali cataloghi ragionati della sua opera, quelli pubblicati nel 1974, 1992 e 1997.
La tavola vanta un importante pedigree collezionistico ed espositivo: prima di giungere nelle Collezione Sorlini appartenne alla prestigiosa raccolta fiorentina del conte Alessandro Contini Bonacossi e fu esposta nell’importante mostra dedicata a Bellini, allestita a Palazzo Ducale di Venezia nel 1949. La Vergine, dalle fattezze dolci e delicate, appare, qui, saldamente ancorata nella composizione, mentre lo sguardo rivolto all’Infante tradisce la consapevolezza della Passione futura, confermata dagli elementi iconografici a corollario della composizione: il panneggio in cui è avvolto il bambino, trattato come un sudario, ed il manto rosso, all’epoca colore del lutto.
Al termine della mostra l’opera sarà direttamente trasferita nel laboratorio di restauro di Giulio Bono, a Venezia, e sarà oggetto anche di nuove indagini storico- artistiche, la cui curatela scientifica è stata affidata al professor Antonio Mazzotta, tra i massimi esperti di pittura belliniana. Di origini bresciane, insignito del Premio Grimani 2022 per il restauro artigiano e la conservazione delle opere storico-artistiche, Giulio Bono è il maggiore restauratore di opere veneziane di epoca rinascimentale. Suoi sono i restauri della «Vecchia» di Giorgione e della monumentale pala dedicata all’«Assunzione della Vergine», posta sull’altare maggiore della Basilica dei Frari, la più grandiosa opera su tavola eseguita da Tiziano, restaurata grazie al comitato internazionale Save Venice. Bono si è, inoltre, occupato di interventi conservativi su dipinti mobili su tavola e tela del XV e XVI secolo di Gentile Bellini, Piero della Francesca, Sebastiano del Piombo, Moretto, Jacopo Tintoretto, Paolo Veronese.

Informazioni utili
«La Madonna in rosso di Giovanni Bellini». Gallerie dell'Accademia, Campo della Carità – Venezia. Orari: lunedì, ore 8.15-14.00; martedì-domenica, ore 8.15 - 19.15 (La biglietteria chiude un’ora prima). Ingresso: intero € 15,00, ridotto € 2,00, altri biglietti e agevolazioni su https://www.beniculturali.it/agevolazioni. Informazioni: call center 800150666. Sito internet: gallerieaccademia.it. Fino al 7 aprile 2024.