ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

martedì 29 giugno 2010

Ritorna in Italia il «Salvator Mundi» di Carpaccio

Trova casa nel Bresciano, nella cittadina di Carzago di Calvagese, la prima opera firmata da Vittorio Carpaccio (Venezia, 1465 circa – 1525/1526). La preziosa tavola giovanile, raffigurante il Salvator Mundi tra quatto santi, sarà esposta al pubblico presso la Fondazione Luciano e Agnese Sorlini, ricca pinacoteca nei pressi del lago di Garda, al cui interno sono conservati dipinti, soprattutto d’arte lombarda e veneta e in particolare del Sei e Settecento.
La prestigiosa tavola, che reca visibile l’iscrizione del cognome dell’artista nella forma veneziana originaria, «Vetor Scarpazo», andrà così ad arricchire l’elegante quadreria del seicentesco palazzo di Carzago di Calvagese, nella quale sono visibili, tra l’altro, grandi maestri come Bellini, Veronese, Canaletto o Tiepolo, che hanno contribuito allo splendore artistico della Serenissima.
L’opera di Carpaccio, acquistata nel 2009 da un collezionista privato di Londra, ha conosciuto diversi passaggi di proprietà, a partire dalla fine dell’800, quando la sua presenza venne documentata a Venezia presso il conte Antonio Contin di Castelseprio, ingegnere idraulico impegnato nella risistemazione del Lido. Alla morte di questi, come ha ricostruito Enrico Maria Dal Pozzolo, il dipinto passò a Firenze, presso il celebre antiquario Elia Volpi, e, in breve, divenne proprietà del banchiere inglese Thomas Brocklebank. Nel 1938, la tavola venne, quindi, acquistata dallo storico d’arte russo Vitale Bloch, per poi passare nella prestigiosa collezione del conte Alessandro Contini Bonacossi. Qui rimase fino al 1986, quando venne venduta a un collezionista di New York, volando, in seguito, in una raccolta londinese.
Sicura e illustre, dunque, la provenienza del dipinto di Carpaccio, mentre è ancora dibattuta la data d’esecuzione. Il Berenson collocò la realizzazione della tavola intorno al 1480, sulla scia della prima monografia del corpus carpaccesco, a cura di Giuseppe Fiocco, nella quale venivano evidenziati i raccordi con l’arte di Gentile Bellini, Marco Marziale e Antonello da Messina. Successivi studiosi, sottolineando di volta in volta l’«antonellismo convinto e militante» o la solennità e severità dell’impianto «in sintonia con la reinterpretazione umanistica del mondo antico, proposta […] da Tullio Lombardo», hanno teso a spostarne la datazione di qualche anno: tra il 1485 e il 1490.
La recente campagna di riflettologia effettuata del laboratorio Laniac dell’Università di Verona ha dato ragione a quest’ultima ipotesi, datando l’esecuzione della tavola in prossimità dell’Arrivo degli Ambasciatori a Colonia, dipinto nel 1490, e del Polittico di San Martino al Museo d’arte sacra a Zara, realizzato tra il 1487 e il 1493. Questo studio ha, inoltre, confermato la presenza di alcuni vecchi restauri e un pentimento nell’area della mano che sorregge il globo, ha anche confermato la congruità della iscrizione con la firma, l’alta qualità del disegno sottostante, soprattutto nelle teste dei santi.
Un ottimo acquisto, dunque, quello della Fondazione Sorlini che con questa tela, ammirata in Italia solo nel 1963, in occasione della rassegna monografica al Palazzo Ducale di Venezia, regala al suo pubblico una tela fondamentale per il racconto del passaggio tra il Quattrocento e la stagione rinascimentale della Grande maniera.

Informazioni
Fondazione Luciano e Agnese Sorlini, piazza Roma, 1 - Carzago di Calvagese (Brescia). Orari: giovedì pomeriggio, dalle 14.30 alle 18.00 (previa prenotazione). Informazioni: tel. 030.601031(esclusi sabato e domenica) o info@fondazionesorlini.com. Sito Web: www.fondazionesorlini.com.

lunedì 28 giugno 2010

Roma, una notte di luci e colori con la Girandola

«Pare che tutte le stelle del cielo caschino in terra»: così l’incisore Ambrogio Brambilla, nel 1579, descriveva la Girandola di Castel San’Angelo, cerimonia di luci, spari, mortaretti, colpi di cannone e fuochi d’artificio, che, per secoli, incantò le rive del Tevere e il cuore sacro di Roma.
Andato in disuso con l’unità d’Italia, questo fantasmagorico spettacolo pirotecnico, considerato una vera e propria «maraviglia del tempo», è stato riportato alla luce lo scorso anno grazie a un minuzioso lavoro di ricerca del Gruppo IX Invicta. E lunedì 28 giugno, in occasione della festa dei santi Pietro e Paolo, ritornerà ancora una volta ad incantare la Città eterna. L’appuntamento è fissato per le 21.30; i migliori punti di avvistamento saranno il lungotevere Tor di Nona, il lungotevere Altoviti, ponte Vittorio Emanuele II, ponte Principe Amedeo Savoia Aosta, ponte Umberto I e via Banco Spirito.
Immortalata nelle stampe del Piranesi e dai grandi pittori del passato, raccontata dal poeta romano Gioacchino Belli e da Charles Dickens, la Girandola di Castel Sant’Angelo si ritrova già nei racconti dei maestri delle celebrazioni liturgiche dei papi di un tempo, come ad esempio Paride De Grassis, il Servanzio ed il Mucanzio, vissuti tra il 1500 e il 1600.
«Oggi, grazie a un apparato tecnologico sofisticatissimo, che si avvale di centraline radio per l’accensione dei fuochi, diciotto tecnici ed un progettista sono in grado di far fronte -in assoluta sicurezza per loro e per l’ambiente circostante- a un lavoro che in passato -si legge nella nota stampa- vedeva il coinvolgimento di oltre cento uomini, con un notevole risparmio anche sui costi della manodopera che altrimenti sarebbero proibitivi».
Ma cos’era la Girandola? Introdotta a Roma nel 1481 per celebrare il pontificato di papa Sisto IV, questa festa di luci e rumori è stata utilizzata fino al 1860 per celebrare alcune delle principali festività romane: la Pasqua e la patronale, nonchè l'ascesa al soglio pontificio di nuovi papi.
Per oltre trecento anni, lo spettacolo pirotecnico di Castel Sant'Angelo ha richiamato spettatori da tutta Europa e ha visto tanti “maestri” contribuire nel tempo alla sua spettacolarità. Tra questi pare si siano cimentati – secondo un’ipotesi su cui sono tutt’ora in corso studi e ricerche per dimostrarne la veridicità – anche Michelangelo Buonarroti, nel periodo in cui lavorava su committenza di papa Giulio II, e il Bernini.

Informazioni utili
Girandola di Castel Sant’Angelo La Maraviglia del Tempo. Roma, Ponte Sant’Angelo. Informazioni: 060608 (tutti i giorni, 9.00 – 21.00). Lunedì 28 giugno 2009 dalle 21.30 alle 22.00.

venerdì 25 giugno 2010

«Se una notte d’estate…», concerti sotto le stelle a villa Panza

Musica e natura si incontrano a Varese, nella splendida cornice di villa Panza. Per il decimo anno consecutivo, il cortile d’onore della residenza settecentesca di proprietà del Fai (Fondo per l'ambiente italiano) ospita la rassegna Se una notte d’estate…., quest’anno dedicata al meglio del repertorio internazionale otto-novecentesco e animata dai vincitori dell’ultima edizione del prestigioso premio Borletti-Buitoni Trust.
Dopo il concerto inaugurale dello scorso 17 giugno -che ha visto il pianista torinese Gabriele Carcano cimentarsi con un programma dedicato al tema della notte e composto da brani di Frédéric Chopin, Gabriel Fauré e Maurice Ravel- la manifestazione permetterà di ascoltare, nella serata di giovedì 1° luglio, la georgiana Nino Gvetadze, vincitrice nel 2008 del secondo premio, del premio della stampa e del pubblico all’International Franz Liszt Piano Competition.
Il repertorio scelto dalla pianista di Tbilisi per il concerto varesino farà ritrovare al pubblico le note di Frédéric Chopin -quello però più vivace e salottiero dei Valzer– e di Maurice Ravel -quello neoclassico del Tombeau de Couperin-, ma consentirà anche di ascoltare la monumentale e impervia Sonata in si minore di Franz Liszt, che, secondo una solida tradizione, sarebbe ispirata al mito, tenebroso e notturno a un tempo, di Faust.
L’ultimo appuntamento sotto le stelle alla storica dimora del Fai vedrà, invece, “salire sul palco” Adam Walker, primo flauto della London Symphony Orchestra, e il pianista John Reid, membro della Royal Academy of Music e vincitore di prestigiosi premi quali il Gerald Moore Award e il Kathleen Ferrier and Maggie Teyte Accompaniment Prizes. Il loro concerto, in programma per giovedì 15 luglio, proporrà un breve, ma intenso tributo al tema della notte con l’esecuzione della Night Soliloquy del compositore americano Kent Kennan, pagina entrata stabilmente nel repertorio dei grandi flautisti fin dal suo primo apparire, nel 1936. Sarà, inoltre, possibile ascoltare la Suite Paysanne Hongroise di Béla Bartok, la Sonata per flauto e pianoforte di Francis Poulenc, lo Scherzo per flauto e pianoforte di Bohuslav Martinu e la Sonata in la maggiore di Cesar Franck.
Giovani stelle della musica brilleranno, dunque, nelle notti estive di Varese grazie a questa decima edizione di Se una notte d’estate…, la cui direzione è stata affidata al maestro Fabio Sartorelli, in collaborazione con la storica Società del Quartetto per Milano.
Il ricavato delle serate, che in caso di maltempo si terranno alla Sala napoleonica delle Ville Ponti, verrà utilizzato per sostenere il Fai nella sua missione di tutela dell’arte, della natura e del paesaggio italiani e nella sua attività di sensibilizzazione dei cittadini.

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Concerto a VIlla Panza. Foto: Giorgio Majno; [fig. 2] il flautista Adam Walker. Foto: Hanya Chlala; [fig. 3] il pianista Carcano Gabriele. Foto: Pilvaxstudio, Balazs Borocz. [Le foto sono state messe a disposizione da Elena Bertolaso, ufficio stampa del Fai]

Informazioni utili
Se una notte d’estate…. Villa Panza, Piazza Litta, 1 – Varese. Ingresso: € 25,00; iscritti Fai e soci del Quartetto di Milano: € 22,00. Informazioni: Villa Panza, tel. 0332.283960; faibiumo@fondoambiente.it; Società del Quartetto di Milano, tel. 02.795393; e-mail info@quartettomilano.it. Fino al 15 luglio 2010.

"Una storia vintage", quando il rock incontra il mambo

Dal sound trascinante di Pata Pata al fischiettio spensierato di Magic moment, passando per lo swing ironico di Tu vuo’ fa’ l’americano e il ritmo caraibico della canzone La bamba: la Star Dance di Turbigo aziona ancora una volta la macchina del tempo. Dopo aver portato il pubblico nella stagione della disco music e dei «figli dei fiori», con il suo vivace e coloratissimo Show Dance ’70, la scuola diretta da Elisa Vai strizza l’occhio a un altro decennio mitico della nostra storia recente: gli anni Cinquanta. Venerdì 25 giugno, a partire dalle 21.00, al teatro Sociale di Busto Arsizio si apre, dunque, l’album dei ricordi sull’epoca di Elvis Presley e Marilyn Monroe, di Grace Kelly e Brigitte Bardot, ma anche della Vespa Piaggio e della Lambretta, della Fiat Cinquecento e dell’Alfa Romeo Giulietta. Nell’ambito del cartellone comunale BA Estate 2010, la sala di piazza Plebiscito ospita, infatti, lo spettacolo Una storia vintage, nato da un'idea di Elisa Vai, che ne firma anche la regia, e coreografato da Stefania Barina e dal William Fernandez, ballerino nel cui prestigioso curriculum sono annoverate collaborazioni con Santiago Alfonso e con il Ballet ICRT della televisione cubana. A ricreare la moda del tempo, in bilico tra bon ton e seduzione, saranno le costumiste Rossana Ferrari e Lia Ballarati, che si sono sbizzarrite con gonne a ruota, “pinocchietti”, bustini, balze e tulle. Mentre le luci vedranno all’opera Maurizio “Billo” Aspes. La trama di Una storia vintage è fresca ed intrigante. Una sofistica cantante latino-americana sbarca in Italia, il «Paese della Dolce vita», per inaugurare un nuovo locale: l’elegante Garden Blue. Un ragazzo con la passione per i ritmi sfrenati di Elvis Presley e Chuck Berry viene rapito dalla sua bellezza. Tra i due scatta una competizione ritmica a colpi di mambo, cha cha cha e rock and roll, sulle note di tante canzoni cult del tempo e non, come Oh Pretty Woman e Mambo italiano. A fare da filo conduttore tra le varie coreografie e a narrare la storia dello spettacolo saranno, invece, alcuni dei più celebri brani di Adriano Celentano. Si chiude, dunque, nel segno dell’allegria la stagione 2009/2010 della Star Dance di Turbigo. Una stagione, questa, ricca di successi, tra i quali le recenti vittorie al campionato regionale Fids (Federazione italiana danza sportiva), gara riconosciuta dal Coni, dove Elisa Vai e i suoi allievi si sono aggiudicati il primo posto nelle categorie disco dance over 16, hip hop under 15 e hip hop over 16. Numerosi anche i premi singoli vinti nella manifestazione di Cornaredo, che hanno visto salire sul palco Cristina Canovi, Elena Cavaiani, Diego Console, Fabio Gentile, Silvia Giletto e Davi Roveda

Didascalie delle immagini [fig. 1. 2 e 3] Un momento dello spettacolo Show Dance '70, con la Star Dance di Turbigo. Le foto sono di Silvia Consolmagno. 

Informazioni utili 
Una storia vintage. Spettacolo di danza con la Star Dance di Turbigo. Coreografie di Elisa Vai, Stefania Barina, William Fernandez. Direzione artistica e regia: Elisa Vai. Data: venerdì 25 giugno 2010, ore 21.00. Ingresso: € 12.00/€ 10.00. Informazioni: tel. 0331.890443 (tutti i giorni feriali, dalle 16.00 alle 19.00.

martedì 4 maggio 2010

Brescia, la moda vintage trova casa ai musei Mazzucchelli

Julia Roberts scelse un vecchio abito Valentino, nero con i profili bianchi, per la serata degli Oscar 2001, quella in cui vinse l’ambita statuetta come miglior attrice protagonista per Erin Brokovich. Jennifer Lopez è stata fotografata a Miami, sul red carpet della premierre del film The Back-Up Plan, con un vestito leopardato di Monique Lhuillier, in perfetto stile anni Ottanta. E Sienna Miller, in un'intervista rilasciata all’edizione inglese di Vogue, ha raccontato che metà del suo guardaroba è formato da pezzi d’annata. A Hollywood, ma anche a New York, Tokyo, Parigi, Londra, Roma è, dunque, sempre più di moda il capo vintage. E «vecchio è bello» sembra essere diventato il motto preferito dalle fashion victims, che non disdegnano di frequentare mercatini e fiere dell’usato alla ricerca di autentiche chicche del passato da mischiare con abiti e accessori visti alle ultime sfilate.
Agli amanti di questo mondo dal fascino retrò, ma molto à la page è dedicato il Festival del vintage: tre giornate per i collezionisti e per gli operatori del settore moda, ma anche per i semplici curiosi, in agenda da venerdì 7 a domenica 9 maggio presso i musei Mazzucchelli di Ciliverghe di Mazzano, in provincia di Brescia e in prossimità del lago di Garda.
Dopo il successo della prima edizione, che lo scorso settembre ha visto la partecipazione di oltre 3.000 visitatori, le gallerie espositive della splendida villa neo-palladiana, oggi sede anche di un ricco museo della moda e del costume e di una curiosa collezione sul vino e sui cavatappi, accoglieranno una ventina di espositori, riconosciuti a livello internazionale, che proporranno, con scenografie e ambientazioni ad hoc, tanti pezzi curiosi della moda vintage, realizzati tra la fine dell’Ottocento e gli anni Novanta del Novecento: da articoli da viaggio a bauli, da cappelli a bastoni da passeggio, da bijoux a occhiali, senza dimenticare l’abbigliamento uomo e donna dei più importanti marchi degli anni ’50 e capi di ricerca etnico-tribale degli anni ’60-’80. Tra gli espositori figurano i nomi dei più noti archivi specializzati italiani, fonte d’ispirazione per diversi stilisti contemporanei e appassionati di moda, quali Tara Vintage, Art House, No Logo, Shabby Chic, Officina Vintage di Firenze, Lamù Vintage, Arcadia ed Eclater.
In occasione del festival, i musei Mazzucchelli ospiteranno anche, nella Sala delle colonne, l’inaugurazione della mostra Alta moda, con una sessantina di pezzi provenienti dall'archivio privato di Patrizia Fissore, affermata stilista di biancheria intima e costumi da bagno, la cui collezione allinea duecento pezzi di altissimo livello, con un’attenzione particolare alla biancheria: guêpières, reggiseni e mutandine di pizzo, ma anche calze e pizzi.
La rassegna, in programma fino a domenica 12 settembre, si aprirà con un corpino del 1890 di Charles Frederick Worth, primo vero coutourier parigino che ha vestito grandi dive quali Eleonora Duse e Sarah Bernhardt, e si chiuderà con alcune geniali invenzioni di Gianni Versace, disegnate negli anni Ottanta del Novecento.
Tappe salienti del percorso espositivo, che documenterà quasi un secolo di storia del costume, saranno i preziosi abiti Delphos di Mariano Fortuny, i charleston degli anni ’20, gli elegantissimi abiti da sera dal sapore cinematografico di Maggy Rouff, Christian Dior e Pierre Balmain, oltre alla moda da giorno di Cristobal Balenciaga ed Emilio Pucci. Tra le curiosità della mostra, il curatore Massimo Capella segnala i corpini di Paco Rabanne in alluminio dorato. Capi, questi, che fecero gridare allo scandalo Chanel: «Questo non è un sarto, ma un metallurgico».

Didascalie delle immagini
[fig. 1] locandina del Festival del vintage; [fig. 2] Paco Rabanne, Maglia metallica, anni ’60; [fig. 3] Mariano Fortuny, Delphos, 1910 [Le immagini sono state fornite da Valeria Merighi Comunicazione]

Informazioni utili
Festival del vintage. Musei Mazzucchelli, via Giammaria Mazzucchelli, 2 – Ciliverghe di Mazzano (Brescia). Orari: venerdì 7 maggio, dalle 18.00 alle 22.00; sabato 8 e domenica 9 maggio,dalle 10.00 alle 20.00. Ingresso: € 7.00. Informazioni: tel. 030.212421. Sito web: www.museimazzucchelli.it. Da venerdì 7 a domenica 9 maggio 2010.

martedì 23 marzo 2010

Milano, alla galleria Ala la pittura scultorea di Turi Simeti

Ci sono artisti che sembrano dire una sola parola per tutta la vita, rimanendo coerentemente fedeli a un iniziale assunto pittorico o scultoreo. Uno di questi è Turi Simeti (Alcamo-Trapani, 1929). La sua ricerca creativa, da quasi cinquant'anni (la prima mostra, una collettiva, è del 1963), ruota attorno a un ristretto numero di elementi, sempre identici: la costituzione di un apparato architettonico aggettante, la pittura monocroma frontale e l'introduzione nelle proprie composizioni di una o più forme ellittiche od ovoidali differenti per colore, grandezza e posizione sulla tela.
Il risultato di questo procedere -lo ha scritto Francesco Tedeschi- è «una pittura che sa di scultura», dove è evidente l'interesse dell'artista siciliano per l'analisi del rapporto spazio-luce e del lento dinamismo creato sulla tela dai moduli seriali. Un dinamismo, questo, dai poetici ritmi musicali, simile a una danza di purificazione dell'anima tesa a portare lo “spettatore” in contatto con il mistero cosmico. A ciò concorrono un uso razionale del segno e un metodo costruttivo di ascendenza scultorea, oltre a una pittura «ton sur ton», che trova la propria base teorica nel minimalismo, ma da cui se ne discosta per le implicazioni emozionali.
Turi Simeti compie la sua iniziazione artistica alla fine degli anni Cinquanta, nell'ultima fase della stagione informale. Le sue prime opere riprendono la lezione materica e cromatica di Alberto Burri. L'avvio artistico è, infatti, caratterizzato da tele a fondo scuro o bianco, con frammenti di stracci, tessuti e altri materiali, a cui fanno seguito, sul principio degli anni Sessanta, lavori monocromi dal fondo nero, su cui sono applicate buste commerciali rossastre, bruciacchiate e annerite. E' questo il primo passo di Turi Simeti verso la ricerca della serializzazione dell'arte. Una ricerca che, in quegli stessi anni, porta l'artista a realizzare, sulla scia di Agostino Bonalumi ed Enrico Castellani, i grandi Legni ovali e i Cartoni neri, opere dove compare per la prima volta la forma ellittica sovrapposta alla tela in precise sequenze ritmiche che tendono a ricoprire l'intero spazio compositivo. Da qui l'artista siciliano, che nel 1965 entra a far parte del gruppo Zero Avantgarde, costituitosi sotto l'egida di Lucio Fontana, prosegue nella propria ricerca di una nuova configurazione dell'arte in rapporto alla spazio, giungendo a realizzare sul finire degli anni Sessanta le sue prime estroflessioni e introflessioni. Si tratta di opere, a cui Turi Simeti lavora tutt'oggi, in cui una forma ogivale in legno, fissata trasversalmente sul telaio, in posizione solitamente decentrata, crea una danza di luci e ombre, resa ancora più evidente dallo sfondo monocromo delle tele, nell'uniforme stesura di toni forti come il rosso, il giallo, il blu, il bianco e il nero. L'artista invita così lo spettatore a mettere in relazione spazi, oggetti, movimenti, «in modo che - ebbe a dire Friedrich W. Heckmanns, nel catalogo della mostra tedesca alla galleria Uli Lang di Biberach del 1996- tutto ciò giunga a dischiudere stati d'animo di armonica quiete».
Una selezione di questi opere sono esposte, fino a sabato 10 aprile, alla galleria a Salvatore + Caroline Ala di Milano. Si tratta di una ventina di acrilici su tela, realizzati tra il 1992 e il 2009, nei quali è evidente come la dinamicità sia il fattore essenziale della produzione dell'artista di Alcamo. Il bisogno di rompere la rigidità della superficie –un bisogno già presente, seppure in modo latente nelle ripetizioni seriali degli esordi e nelle successive essenzializzazioni degli anni Settanta e Ottanta- si rivela nei lavori degli ultimi anni sia nella disposizione marginale degli elementi sia nella loro combinazione o in sequenza o in piena libertà di movimento nello spazio sia, ancora, nell'inclinazione dei rilievi ellittici.
Non minore importanza in questa ricerca della terza dimensione in pittura è la scelta coloristica. Simeti predilige toni più caldi rispetto a quelli di qualche decennio fa (blu, bianco, giallo, rosso e nero sono i colori prediletti di quest’ultima stagione pittorica) e crea sulla tela sfumature impreviste che sottolineano la singolarità e l'unicità del suo lavoro. E', dunque, la componente emotiva, tanto bistrattata dai minimali, ad assumere grande importanza nell'attuale produzione del maestro siciliano.
Il risultato è, per usare le parole di Gianluca Ranzi, «uno spettacolo poderoso e ineffabile ammantato della danza di luce e ombra che fa vibrare gli ovali che premono dal di sotto della tela, come a voler fuoriuscire dallo spazio limitato del quadro, a voler forzare il limite della pelle della pittura che li contiene».

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Turi Simeti, Polittico colorato, 2006, tela sagomata, acrilico, 30 x 200 cm; [fig. 2] Turi Simeti, Sei ovali rossi, 2006, tela sagomata, acrilico, 150 x 90 cm; [fig. 3] Turi simeti, Superficie gialla con cinque ovali, 2005, tela sagomata, acrilico, 150 x 200 cm; [fig. 4] Turi Simeti, Tre ovali color cielo, 2008,
tela sagomata, acrilico, 200 x 140 cm.

Informazioni utili
Turi Simeti. Galleria Salvatore è Caroline Ala, via Monte di Pietà, 1 – Milano. Orari: da martedì a sabato, 10.00-19.00. Ingresso libero e gratuito. Informazioni: tel. 02.8900901 o galleria.ala@iol.it. Fino a sabato 10 aprile 2010.

Pinocchio, un burattino tra i libri della Biblioteca di Busto Arsizio

«C'era una volta... -Un re!- diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C'era una volta un pezzo di legno […]». Era il luglio 1881 e il Giornale dei bambini, inserto settimanale del quotidiano Il Fanfulla, pubblicava la prima puntata di Storia di un burattino, romanzo di Collodi (pseudonimo dello scrittore Carlo Lorenzini) destinato a diventare, con il titolo Le avventure di Pinocchio, il libro più tradotto al mondo dopo la Bibbia. Esuberante fino allo sfinimento, intollerante a qualsiasi regola, bugiardo di fronte all’evidenza, ma anche fiducioso nel prossimo, disposto a fare ammenda dei propri errori e ingenuo come solo i sognatori sanno essere, il «burattino più discolo di tutti i discoli» ha conquistato generazioni di piccoli lettori. Agli albori del Novecento, Le avventure di Pinocchio contavano, infatti, ben trecentomila copie stampate; oggi il libro può essere letto in oltre duecentocinquanta lingue (latino ed esperanto compresi) e dialetti. La mostra Pinocchio. Il capolavoro di Collodi nella Biblioteca di Busto, realizzata in occasione dello spettacolo per bambini Tutti allegramente insieme a Pinocchio, intende ripercorrere la fortuna del capolavoro collodiano, a partire dal 1883 (data della sua prima pubblicazione a volume), attraverso esemplari storici, libri illustrati, traduzioni e saggi critici conservati presso la stessa Biblioteca civica di Busto Arsizio. Ad aprire l’esposizione, articolata in cinque sezioni e una quarantina di volumi, sono tre edizioni "antiche" dell’opera: una pregevole copia del 1912 con illustrazioni di Carlo Chiostri, edita dalla Benporad di Firenze, dialoga, infatti, con una riproduzione tipografica, risalente al 1967, e una ristampa anastatica, datata 1983, della prima edizione di Storia di un burattino, quella con i disegni originali in nero di Enrico Mazzanti, pubblicata nel 1883 dalla Felice Paggi Libraio Editore di Firenze. Il percorso, curato dalla dottoressa Loredana Vaccani, prosegue, quindi, con una curiosa sezione dal titolo Pinocchio e…dintorni, che allinea cinque rivisitazioni della storia del burattino più amato al mondo, tra le quali una traduzione in lingua latina, il Pinoculus di Enrico Maffaccini (Bemporad, Firenze 1950), e una in dialetto bustocco, Ul Pinochiu dul Collodi (Lions Club, Busto Arsizio 1997), a cura di Mariolino Rimoldi e con illustrazioni di Elisabetta Mariani, che ambienta la storia nella Busto Arsizio dell'Ottocento, facendo volare la Fata turchina sopra le cupole delle basiliche di San Giovanni Battista e di Santa Maria di piazza. Ad animare la terza sezione della rassegna sono, invece, tredici edizioni del libro collodiano datate tra il 1990 e il 2010, che riportano illustrazioni, tra gli altri, di Emanuele Luzzati (Nuages, Milano 2002), Alvaro Mairani (Lito editrice, Milano 1990) e Cecco Mariniello (Piemme, Casale Monferrato 2002), ma anche saggi di Italo Calvino (Einaudi, Torino 2002) e della coppia Carlo Fruttero e Franco Lucentini (Oscar Mondadori, Milano 2009). Non manca in questa parte una curiosità bibliografica: il Pinocchio di Futiqua, nome d'arte dell'illustratore bolognese Giocondo Faggioni. Le sue opere (18 tavole a colori e 54 disegni), preparate tra il 1945 e il 1949, rimasero abbandonate negli archivi della Giunti di Firenze per quasi cinquant'anni, fino a quando nel 2000 vennero ritrovate, in seguito a un riordino della casa editrice, e videro –finalmente- la luce. La mostra, che nei giorni scorsi è stata presentata presso le sale del teatro Sociale di Busto Arsizio, prosegue, quindi, con una parte intitolata E' sempre Pinocchio, che allinea, in ordine cronologico, una decina di esemplari con rivisitazioni della storia originale, come gli adattamenti per la prima infanzia di Roberto Piumini (EL, Trieste 2002) e Giusi Quarenghi (Giunti Kids, Firenze 2006), con illustrazioni rispettivamente di Lucia Salemi e Nicoletta Costa, o la poetica e coloratissima animazione dei maestri della Walt Disney, vincitrice nel 1941 di due premi Oscar. A chiudere l’esposizione è una sezione sulla fortuna di Collodi e del suo romanzo, contenente quattordici saggi su Pinocchio scritti tra il 1964 e il 2006, tra i quali si segnalano due riletture teatrali: Pinocchio da Carlo Collodi. Musiche originali di Alessandro Nidi (Teatro alla Scala–Rizzoli, Milano 1992) e Pinocchio nero. Diario di un viaggio teatrale di Marco Baliani (Rizzoli, Milano 2005). Cambiano mode e generazioni, dunque, ma la storia del burattino «condannato» dal suo naso ad essere sincero in un mondo di ipocrisia continua a solleticare la fantasia di grandi e piccini, senza mai conoscere eclissi ed oblio, forse perché, per dirla con le parole di Benedetto Croce, questo libro «trova facilmente la via del cuore». 


 Didascalie delle immagini 
[fig. 1] Illustrazione di Enrico Mazzanti per il romanzo Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, edito nel 1883 dalla casa editrice Felice Paggi Libraio Editore di Firenze; [fig. 2 e fig. 3] Illustrazione di Carlo Chiostri per il romanzo Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, edito nel 1901 dalla casa editrice Benporad di Firenze (la Biblioteca civica di Busto Arsizio conserva una copia del 1912); [fig. 4] Illustrazione di Emanuele Luzzati per il romanzo Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, edito nel 2002 dalla casa editrice Nauges di Milano; [fig. 5] Illustrazione di Cecco Mariniello per romanzo Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, edito nel 1998 dalla casa editrice Piemme di Casale Monferrato. Informazioni utili Pinocchio. Il capolavoro di Collodi nella Biblioteca di Busto. Biblioteca civica di Busto Arsizio, piazza Vittorio Emanuele II, 3 - Busto Arsizio. Orari: lunedì-venerdì 9.00-12.30 e 14.30-19.00; sabato 9.00-12.30 e 14.30-18.00. Ingresso libero e gratuito. Catalogo: disponibile in mostra. Informazioni: tel. 0331.635123. Fino al 31 marzo 2010.

lunedì 22 marzo 2010

Una sirena per il manifesto balneare «Rimini 2010»

Coda verde prato, viso di conchiglia, sorriso malizioso e occhialini a 3D: è una sirena moderna, disincantata e piena di gioia di vivere quella disegnata dalla talentuosa fumettista e illustratrice Francesca Ghermandi (Bologna, 1964), la «mamma» di Pasticca, per il manifesto balneare Rimini 2010.
Dopo la pittura seducente di Milo Manara, il disegno pop di Jovanotti, il richiamo tribale di Pablo Echaurenn e il gioco di parole di Alessandro Bergonzoni, la lunga storia dell’affiche balneare riminese vede, dunque, per la prima volta un’autrice donna dare volto e colori all’immagine testimonial per la campagna di promozione turistica della cittadina romagnola.
La ricchezza cromatica e l’elegante segno dell’artista bolognese -nota, tra l’altro, per aver realizzato la sigla animata della 62° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e alcuni modelli d’orologio per la Swatch- fanno proprio e innovano l’idea cardine di uno dei manifesti-simbolo della cartellonistica legata alla città di Rimini, quello realizzato nel 1922 da Marcello Dudovich. La pinna rossa del pesce disegnato, a pennarello e grafite, da Francesca Ghermandi vuole, infatti, ricordare il festoso delfino tratteggiato dal maestro triestino. Identico è, poi, nei due lavori lo spirito di libertà, fantasia e ironia che si respira.
L’artista bolognese mostra, inoltre, tutta la modernità della nuova dimensione riminese: una città che ha nel mare e nell’estate la sua naturale vocazione, ma che, al tempo stesso, offre altre possibilità, dalle grandi mostre d’arte (organizzate dallo scorso autunno da Marco Goldin) al divertimento per i giovanissimi.
«L'idea che ho cercato per le immagini –spiega Francesca Ghermandi- è quella di «Rimini come luogo a più dimensioni», dove c'è spazio per altre visioni oltre al mare. Con i colori ho cercato di rendere la sensazione dell'estate. La pinna rossa ricorda il pesce rosso del vecchio manifesto di Dudovich. Per arrivare a realizzare l'immagine di Rimini, a differenza dei disegni che faccio di solito (che vengono stampati molto più in piccolo degli originali e si guardano nel limite di una pagina) mi sono immaginata di guardare una pagina gigantesca e con i colori vivaci dei manifesti del circo».
E’ nata così un’immagine giocosa che, a partire dal periodo pasquale, farà la sua comparsa sui manifesti, le cartoline, la pubblicità e i materiali di informazioni turistica realizzati dall’assessorato al Turismo del Comune di Rimini.
Con questa opera Francesca Ghermandi entra, inoltre, ufficialmente a far parte della collezione del Museo della città e della galleria di grandi personaggi che -dal 2000 ad oggi- hanno rappresentato la cittadina romagnola, dando ideale proseguimento alla celebre tradizione che, dagli anni Venti del XX secolo, ha consentito di annoverare tra i creatori di immagini balneari legate a questa città artisti quali Adolfo Busi, Alberto Bianchi, Ugo Nespolo, Milton Glaser e René Gruau.

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Manifesto di Francesca Ghermandi per
Rimini 2010; [fig. 2] Manifesto di Marcello Dudovich per Rimini 1922

Vedi anche

Rimini 2009, un’estate firmata da Alessandro Bergonzoni

mercoledì 10 febbraio 2010

"Il barbiere di Siviglia", coup de théâtre alla Gioacchino Rossini

Un’eccellente medicina contro le preoccupazioni e le difficoltà della vita di tutti i giorni: così si presenta Il barbiere di Siviglia, opera buffa in due atti che il compositore pesarese Gioacchino Rossini, allora già conosciuto al grande pubblico per il successo dei lavori lirici L’italiana in Algeri (1813) e Il turco in Italia (1814), scrisse all’inizio del 1816, in poco meno di tre settimane, per le celebrazioni carnevalesche del teatro Argentina di Roma.
A far rivivere sul palco del teatro Sociale di Busto Arsizio la magia del capolavoro rossiniano, definito dalla critica come «il più grande poema musicale comico, satirico e umoristico dell’umanità», sarà il Teatro dell’Opera di Milano, già protagonista in questa stagione di un apprezzato allestimento del melodramma La traviata di Giuseppe Verdi.
L’appuntamento è fissato per la serata di venerdì 12 febbraio (ore 21.00), nell’ambito di BA Teatro, stagione cittadina che, sotto l’egida e con il contributo economico dell’amministrazione comunale di Busto Arsizio, riunisce i cartelloni di PalkettoStage international theatre productions e dei teatri Manzoni, San Giovanni Bosco e Sociale.
Insieme con i giovani cantanti-attori del teatro dell’Opera di Milano, guidati dal regista Mario Riccardo Migliara, saranno in scena l’Orchestra filarmonica di Milano e la Corale lirica ambrosiana, dirette rispettivamente da Vito Lo Re e Roberto Ardigò.
Il componimento, su libretto di Cesare Sterbini, trae la propria trama della commedia Le barbier de Séville ou La précaution inutile di Pierre-Augustin-Caron de Beaumarchais, già oggetto di varie versioni musicali, tra le quali quella, molto applaudita, di Giovanni Paisiello, i cui sostenitori (secondo i pettegolezzi del tempo) fischiarono lungamente il debutto della versione rossiniana.
Nonostante l’insuccesso della prima rappresentazione, andata in scena il 20 febbraio 1816 con il titolo Almaviva ossia l’inutile precauzione (l’attuale nome sarà utilizzato solo a partire dalla ripresa bolognese dello stesso anno), il capolavoro del musicista marchigiano, con il suo meccanismo teatrale perfetto e le sue frizzanti e giocose invenzioni musicali, era destinato a diventare uno dei più grandi successi del teatro musicale italiano, incantando, tra gli altri, personaggi del calibro di Ludwig van Beethoven, Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Stendhal e Giuseppe Verdi, che ebbe a dire: «Non posso che credere “Il barbiere di Siviglia”, per abbondanza d'idee, per verve comica e per verità di declamazione, la più bella opera buffa che esista».
La vicenda è ambientata nel tardo Settecento ed ha come scenario la calda e solare Spagna. Qui il maturo don Bartolo tiene segregata in casa la pupilla Rosina, che egli desidererebbe sposare. Il barbiere Figaro, fantasioso e pieno di risorse, aiuta l’innamorato conte di Almaviva a conquistare la giovane, che ricambia i suoi sentimenti. Dopo arditi travestimenti, scambi di biglietti, colpi di scena e la corruzione di don Basilio, maestro di musica della fanciulla, Figaro e Almaviva riescono a compiere il loro progetto: i due giovani innamorati si sposano, don Bartolo riceve in dono la dote della ragazza e l’opera si chiude nell’allegria generale.
Tra i brani entrati prepotentemente nell’immaginario collettivo, per quella che il critico Giuseppe Radiciotti ha definito la «giocondità serena e benefica» delle loro note, si ricordano l’ ouverture iniziale, la cavatina Largo al factotum e l’ aria La calunnia è un venticello.
L’allestimento del Teatro dell’Opera di Milano, grazie alla regia e all’ideazione scenica di Mario Riccardo Migliara, evidenzia l’estremo umorismo, la pazzia giocosa e i coup de théâtre presenti nel libretto e nella musica rossiniana.
La scenografia ricalca un antico palco della Commedia dell’arte, che, a seconda delle scene, si trasforma in balcone, in disimpegno o in interno casa. Giganteschi ventagli danno vita alla piazza di Siviglia; cavalli a dondolo, pezzi di domino, fionde e varie frivolezze trovano dimora tra le mura della casa di don Bartolo, settecentesco Peter Pan, animato dall'idea di possedere tutto e tutti. Sul palco ci saranno anche pupet mecanique, bambole meccaniche a grandezza naturale, tipiche del Settecento, e un gigantesco orologio che funziona al contrario. Una girandola di artifici anima, dunque, questa versione del capolavoro rossiniano, dando ancora più vigore a quell’insieme di burla, gags, estrema energia dettata dall’amore e spirito vitale giovanile che sprigiona da tutto Il barbiere di Siviglia.

Didascalie delle immagini
[fig. 1, 2 e 3] Una scena dell'opera buffa Il barbiere di Siviglia, con il teatro dell'Opera di Milano. Foto di repertorio

Informazioni utili

Il barbiere di Siviglia, con il teatro dell'Opera di Milano. Data: venerdì 12 febbraio 2010, ore 21.00. Biglietti: € 32,00 per la platea, € 25,00 per la galleria, € 20,00 per il ridotto, riservato a giovani fino ai 21 anni, ultra 65enni, militari, soci TCI (previa presentazione della tessera nominale), Cral, biblioteche, dopolavoro e associazioni con minimo dieci persone. Informazioni: tel. 0331.679000. Sito internet: www.teatrosociale.it.

venerdì 8 gennaio 2010

Sul lago di Garda il «Divino Infante» è da collezione

«L’Epifania tutte le feste si porta via», recita un vecchio adagio popolare. Non è così sulle sponde occidentali del lago di Garda, nella cittadina di Gardone Riviera, dove fino a domenica 17 gennaio, nei giorni concomitanti con la Pasqua e per tutta il periodo estivo sarà possibile visitare il museo del Divino Infante.
Dopo essere stata esposta a Brescia, Perugia, Milano, Parma, Cremona, ma anche a Monaco di Baviera e a Vienna, la preziosa collezione di Hiky Mayr Hinterkircher, la più significativa raccolta di bambini Gesù esistente in Europa, ha, infatti, trovato stabilmente casa negli spazi dell’ex hotel Villa Ella, a pochi passi dal Vittoriale degli Italiani, la celebre dimora di Gabriele D’Annunzio.
Dal 19 novembre 2005, in una struttura ottocentesca di oltre mille metri quadrati, situata in via dei Colli e articolata su due piani, è, dunque, possibile vedere oltre duecentocinquanta manufatti in legno intagliato e policromato, cera, terracotta e cartapesta dipinta, tutti di produzione italiana, che raccontano tecniche, usi, iconografie legati al tema della scultura avente per soggetto il Divino Infante e, in alcuni casi, la Maria Bambina, figura per la cui iconografia, nata nel ‘700 e legata soprattutto all’area lombarda, si fa riferimento alla francescana Chiara Isabella Fornari da Todi. Semplici oggetti artigianali destinati a un pubblico popolare e all'uso commerciale si alternano così ad opere di alto livello artistico, costruite da maestranze provenienti quasi esclusivamente dal sud Italia, e in particolare da Napoli e dalla Sicilia.
I lavori esposti, molti dei quali realizzati tra il XVII e il XVIII secolo, sono principalmente opere devozionali che non avevano uno specifico impiego presepiale, ma che erano connesse a un diffusissimo culto, come documentano le loro stesse dimensioni (60-90 centimetri per gli infanti in piedi, 50-60 per quelli assisi). Esposte sugli altari, portate in processione o destinate all'utilizzo domestico, queste «bambole sacre», dipinte a mano e spesso abbellite con preziosi accessori e vesti di seta, spesso intessute di perle, rubini ed altre gemme, furono, infatti, a partire dal Medioevo, un veicolo per l'attuazione di un rapporto più concreto e familiare con la sfera ultraterrena.
Numerose sono le tipologie di Gesù Bambino raccolte in oltre trentacinque anni di ricerche dalla tedesca Hiky Mayr Hinterkircher, residente sul lago di Garda da più quarant’anni. Si spazia dal Divino Infante ignudo o in fasce, seduto e in piedi, al Piccolo Re benedicente, passando per i bambini vestiti con abiti scelti in relazione allo svolgersi dell'anno liturgico, molti dei quali presentano simboli della Passione come la croce, i chiodi o un teschio. Camminando tra le sale, non si può non rimanere affascinati dalla straordinaria qualità della scultura, nonché dalla precisione della resa anatomica e dall’accuratezza del dettaglio, accresciuta dalla policromia (i gomiti del Bambino sono rossi, le labbra rosa-turgido, i dentini bianchi) e dalla polimatericità (gli occhi sono in pasta di vetro).
Non mancano, poi, in questa curiosa esposizione, la cui maggior parte delle opere sono state indicizzate nel 2003 in una prestigiosa pubblicazione da parte della casa editrice milanese Franco Maria Ricci, teche sontuose e piccolissime scatole che venivano utilizzate per il trasporto e l’esibizione del Divino Infante durante le processioni e successivamente collocate nella stanza di preghiera che si trovava nelle case delle famiglie nobili.
Chiude il percorso tra questi piccoli incanti della nostra tradizione religiosa, molti dei quali sono stati restaurati dalla loro stessa proprietaria, un presepe napoletano del Settecento, che si estende per oltre venticinque metri quadrati e che conta, sparsi in un’ambientazione suggestiva, circa duecento personaggi (per la maggior parte intagliati nel legno, con teste, mani e piedi in terracotta) e una sessantina di animali.

Didascalie delle immagini
[fig. 1]
Gesù Bambino. Italia del Sud, seconda metà del XVIII secolo; [fig. 2] Gesù Bambino dormiente nel giardino dell’Eden. Italia del Sud, seconda metà del XIX secolo; [fig. 3] Maria Bambina in culla, sotto una campana di vetro. Italia, inizi del XX secolo. Cera, occhi in pasta di vetro. Dimensioni cm. 38 x 30 x 18; [fig. 4]
Gesù Bambino seduto. Italia del Sud, seconda metà del XVIII secolo. Legno intagliato e dipinto, occhi in pasta di vetro. Veste in seta color crema con ricami in oro e argento e perline applicate; monogramma IHS ricamato. Altezza cm 42; [fig. 5] Particolare della Natività del presepe del Museo del Divino Infante.

Per saperne di più

Il Museo del Divino Infante

Informazioni utili
Museo del Divino Infante, via dei colli, 34 - Gardone Riviera (Brescia). Orari: 10.00-18.00; chiuso il lunedì. Ingresso: intero € 5,00, gruppi, ragazzi, anziani, disabili € 4,00, gratuito per i bambini fino ai 6 anni. Informazioni: tel. 0365.293105, fax 0365.293106, cell. 335.360520 o 347.8880691. Fino al 17 gennaio 2010.

giovedì 7 gennaio 2010

Fornelli futuristi, in cucina con Marinetti & C.

«Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerarietà […] il coraggio, l'audacia, la ribellione […] il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della vittoria di Samotracia». Con questa dichiarazione di intenti, pubblicata il 20 febbraio del 1909 sul giornale francese Le Figaro e ristampata poco dopo sulla rivista milanese Poesia, lo scrittore Filippo Tommaso Marinetti (Alessandria d'Egitto, 1876 – Bellagio, 1944) dava inizio all'avventura di uno dei più noti movimenti d'avanguardia del XX secolo: il Futurismo.
Presupposto teorico di questo gruppo, votato al mito del progresso e a quello della macchina, le cui alterne vicende segnarono profondamente la storia culturale del nostro Paese all'inizio del XX secolo, fu la volontà di modificare radicalmente non solo i vari settori delle cosiddette arti maggiori e di quelle applicate (pittura, scultura, architettura, fotografia, cinema, musica, teatro e letteratura), ma anche i diversi aspetti dell'esistenza pratica, ossia l'intero sistema sociale. Tra i campi d'intervento della «rivoluzione» futurista non poteva, dunque, mancare il mondo dei fornelli, le cui tradizioni vennero stravolte a favore di inusuali accostamenti di gusti e di strane combinazioni di alimenti, spesso dagli sfrenati cromatismi.
Un iniziale tentativo di sovvertire usi e abitudini relativi ai piaceri del palato venne sperimentato dagli artisti avanguardisti con la Cena a rovescio, che si tenne al Politeama Rossetti di Trieste il 12 gennaio 1910, in occasione della prima delle tante serate propagandistiche che il movimento marinettiano organizzò nei trent'anni della sua storia, e dove vennero servite - cominciando dal caffè per terminare con l'antipasto - portate dai nomi polemici e astrusi che, in realtà, di nuovo avevano ben poco come i Grumi di sangue in brodo, l'Arrosto di mummia con fegatini di professore e la Marmellata di gloriosi defunti.
Nei primi anni Dieci l'uso di vivande futuriste ricorse anche in altre occasioni, tra cui la più nota è la cena organizzata il 9 marzo del 1913 alle Venete, trattoria romana di via Campo Marzio amata da Pellegrino Artusi per i suoi saltimbocca, dove vennero portate in tavola pietanze come i Trafiletti con poemi d'Auro d'Alba, il Contro-Carrà di vitello con salsa Russola, i Panini Soffici e il Tim-Tim-Balla alla vaniglia, il tutto accompagnato da Boccioni di vino, in onore degli artisti che quella stessa sera si erano cimentati al teatro Costanzi in uno spettacolo inneggiante allo schiaffo e al pugno, ossia alla lotta politica e alla guerra.
Qualche mese dopo il banchetto capitolino, il 1° settembre del 1913, uscì sulla rivista francese Fantasio lo scritto La cuisine futuriste dello chef Jules Maincave, prima esplicita dichiarazione di rottura con la tradizione culinaria, dove si legge l'invito ad attaccare le «due formidabili Bastiglie della cucina moderna: le misture e gli aromi», e dove viene presentata la proposta, allora innovativa, di miscelare gli alimenti con liquidi abitualmente inutilizzati nella preparazione delle vivande come le essenze di rosa, violetta, mughetto, lillà e verbena, in modo da procurare sensazioni gustative nuove e sorprendenti.
A questo documento programmatico fece seguito il 9 maggio del 1920 il manifesto Culinaria futurista, pubblicato sulla rivista Roma futurista da una non meglio identificata Irba futurista, per la quale il rinnovamento gastronomico equivaleva a rompere con il «noiosissimo e passatista ordinamento» nella
successione delle vivande, con il servizio di «porcellana bianca con la riga bleu e d'oro, tanto caro ai borghesi» e con le «vivande che sembrano annoiarsi sull'uniformità dei piatti pedantescamente uguali», facendo ridere di gioia la tavola con «la diversità dei rosso-verdi-giallo-azzurro dei piatti grandi-piccoli-ovali-quadri-tondi».
Una vera e propria campagna per l'affermazione di una tavola avanguardista, con teorie e proposte concrete, prese, però, avvio soltanto il 28 dicembre del 1930, quando Filippo Tommaso Marinetti pubblicò sulla Gazzetta del Popolo di Torino il Manifesto della cucina futurista, scritto che venne rilanciato nel gennaio successivo sulla Cucina italiana di Umberto Notari.
La pubblicazione del documento programmatico fu anticipata, il 15 novembre del 1930, da una serata al ristorante Penna d'oca di Milano, ritrovo dei più noti e affermati giornalisti lombardi del tempo, in cui lo scrittore di Alessandria d'Egitto rese nota la propria vibrante sfida contro la pastasciutta, definita con espressioni enfatiche e dispregiative quali «assurda religione gastronomica», «alimento amidaceo (…) che si ingozza e non si mastica», «palla e rudere che gli italiani portano nello stomaco come ergastolani e archeologi», «vivanda passatista perché appesantisce, abbruttisce, illude sulla sua capacità nutritiva, rende scettici, lenti e pessimisti», in nome di una «cucina chimica» che dimentichi il «quotidiano mediocrista dei piaceri del palato» attraverso l'utilizzo di «nuove miscele apparentemente assurde».
Oltre all'eliminazione delle tagliatelle e dei maccheroni, cibi «antivirili» e «antiguerrieri», Filippo Tommaso Marinetti predicò l'abolizione della forchetta e del coltello a favore della riscoperta del «piacere tattile prelabiale»; auspicò la creazione di «bocconi simultanei e cangianti»; incoraggiò l'accostamento ai piatti di musiche, poesie e profumi; e invitò al consumo di riso, carne e verdure.
Ciò che, però, suscitò maggior interesse del suo manifesto fu la crociata contro gli spaghetti, a cui venne dato ampio spazio sulla stampa, dove si fronteggiarono pareri contrari e favorevoli: La cucina italiana aprì un'inchiesta accogliendo interventi di esponenti della cultura e di illustri medici del tempo; altri giudizi trovarono una tribuna su Il Giornale della Domenica di Roma, la Gazzetta del Popolo di Torino, il Secolo XIX di Genova e, persino, sul New York Times e sul Chicago Tribune; mentre alcuni giornali umoristici come il Guerin Meschino e il Marc'Aurelio si sbizzarrirono con vignette e battute.
Le polemiche infiammarono anche gli stessi sodali del gruppo: non tutti erano d'accordo nel mettere al bando «un piatto per cui l'Italia poteva menar vanto nel mondo». Il poeta Farfa definì, per esempio, i ravioli «lettere d'amore in busta color rosa»; mentre i futuristi liguri scrissero sulla rivista Oggi e Domani, nel primo numero del 1931, una lettera-supplica a Filippo Tommaso Marinetti affinché risparmiasse nella sua crociata contro la pasta almeno le trenette al pesto.
In questo clima di rivolta, la sera dell'8 marzo del 1931 aprì a Torino la Taverna del Santopalato, un locale di proprietà del ristoratore Angelo Gioachino che aveva «lo scopo preciso di passare dalla teoria alla pratica nella polemica futurista» attraverso un programma tecnico e di rinnovamento del gusto e delle abitudini alimentari degli italiani, realizzato con l'invenzione di nuove vivande. Il banchetto inaugurale vide l'aeropittore Fillia e il critico d'arte futurista Paolo Alcide Saladin in gara con i cuochi Piccinelli e Borghese nella preparazione del complesso menù della serata, in cui vennero serviti piatti dai nomi curiosi come l'Antipasto intuitivo, il Brodo solare, il Carneplastico, il Mare d'Italia e il Pollofiat.
Tra il febbraio del 1931 e il marzo del 1932, il movimento futurista portò avanti la propria crociata contro la pastasciutta, con una serie di conferenze in parecchie città italiane e straniere come Savona, Cuneo, Trieste, Brescia, Budapest, Sofia e Tunisi e con una serie di banchetti dimostrativi che toccarono le città di Parigi, Novara, Chiavari e Bologna, intorno ai quali fiorirono numerosi aneddoti. Stando a quanto racconta lo stesso Filippo Tommaso Marinetti, nel libro La cucina futurista, le donne aquilane uscirono dalla loro usuale apatia per firmare una solenne lettera-supplica a favore della pasta, a Napoli si fecero cortei popolari in difesa dei vermicelli, il piatto amato da Pulcinella, e su molti giornalisti scandalistici comparirono dei fotomontaggi in cui era immortalato il padre del Futurismo impegnato a ingozzarsi di spaghetti.
La storia di questi due anni di cucina avanguardista, all'insegna della sorpresa e della teatralità, venne pubblicata nel 1932 dalla Casa Treves, l'attuale Sonzogno, con un ricco corredo di lettere, di articoli, notizie sui grandi pranzi futuristi completi di menù e di ricette, nonché di un formulario futurista per ristoranti e bar, ribattezzati da Filippo Tommaso Marinetti e da Fillìa - autori del volume - «quisibeve», oltre che da un piccolo dizionario, in cui i termini relativi alla ristorazione erano stati riscritti in modo da abolire ogni parola straniera: il dessert era diventato il «peralzarsi», il cocktail la «polibibita», il picnic il «prestoalsole», il menù la «listavivande» e il sandwich il «traidue».
Con la pubblicazione di questo libro venne definitivamente codificato il regno di una gastronomia che, abbandonati i tempi medio-lunghi di cottura a fuoco lento e tutti i cibi complessi da cucinare, puntava sulla carne poco cotta, sugli accostamenti arditi e sconvolgenti, sul disordine nella presentazione delle
portate, su «miscugli non conformisti» come il dolce-salato e il cotto-crudo, su bocconi «simultanei», in cui si concentravano molteplici sapori da gustare in pochi attimi, sull'invenzione di nuove vivande ispirate all'originalità plastica e coloristica più che alla gradevolezza e alla commestibilità.
L'esperienza futurista non segnò, comunque, la svolta gastronomica desiderata dai suoi ideatori: la Taverna del Santopalato ebbe vita breve, gli aerobanchetti si esaurirono nell'indifferenza generale e le ricette «antipassatiste» non fecero presa sulle massaie, essendo più espressione artistica e appagamento cerebrale che non soddisfazione del gusto. Figlia del proprio tempo nell'esaltazione del nazionalismo e della guerra (lo documentano gli echi bellici o patriottici di pietanze come il Pollo d'acciaio e il Golfo di Trieste), ma figlia anche di un passato culinario glorioso che ha le proprie radici nella Roma Imperiale e nel Rinascimento dove si usava condire i piatti con petali di rosa, mosto o miele, la cucina di Marinetti e sodali è stata riscoperta solo in anni recenti, con l'avvento della nouvelle cuisine, come dimostrano il continuo ricorso ad alimenti esotici (carne di cammello, formaggio d'Olanda, noccioline, datteri, ananas, tamarindo, frutta candita, miele e zabaione), l'uso di accostare sapori tra loro distanti (datteri e acciughe o carne e banana) e, soprattutto, l'attenzione per l'aspetto pittorico e scultoreo delle portate, cosicché – diceva Martinetti – tutte le persone «abbiano la sensazione di mangiare, oltre che dei buoni cibi, anche delle opere d'arte».

Didascalie delle immagini
[fig. 1, 2 e 3] Modello di listavivande (menù) della Taverna del Santopalato di Torino; [fig. 4] Disegno di Marialuisa de Romans per la copertina del volume La cucina futurista di Filippo Tommaso Marinetti e Fillìa (edizioni Marinotti, 1998); [fig. 5] Interno della Taverna del Santopalato di Torino, primo ristorante futurista italiano; [fig. 6 ] Filippo Tommaso Marinetti in cucina; [ fig. 7] Marinetti al ristorante Biffi di Milano mentre mangia un piatto di pastasciutta, 1930 ca. [ presunto fotomontaggio]

Bibliografia essenziale
Filippo Tommaso Marinetti, Fillìa, La cucina futurista, Milano, Sonzogno, s.d. [ma: 1932]
Filippo Tommaso Marinetti, Fillìa, La cucina futurista, Milano, Longanesi, [1986]
Filippo Tommaso Marinetti, Fillìa, La cucina futurista, Viennepierre, Milano 2007 (ristampa: 2009)
Filippo Tommaso Marinetti, Fillìa, La cucina futurista: un pranzo che evitò un suicidio, Milano, C. Marinotti, 1998
Claudia Salaris, Cibo futurista: dalla cucina nell’arte all’arte in cucina, Stampa Alternativa /Nuovi equilibri, Roma 2000
Maria Salemi, La cucina futurista. La cucina Liberty, Firenze, Libriliberi, 2003

mercoledì 6 gennaio 2010

Da Torino a Salerno, «Luci d’artista» per le feste

E' una notte dai mille colori quella che Torino sta vivendo in questo inizio 2010. Per il dodicesimo anno consecutivo, al tramonto del sole e fino all’una di notte, il capoluogo piemontese si trasforma, infatti, in un museo a cielo aperto. L'occasione è offerta dalla nuova edizione di Luci d'artista, iniziativa nata nel 1998 da un'idea dell'amministrazione comunale sabauda, di concerto con la Regione Piemonte, che trasforma le tradizionali luminarie natalizie in un evento artistico capace di rinnovare il volto della città, dal centro storico alla periferia. Ed è proprio all'entrata sud del capoluogo piemontese che si trova la prima delle quindici opere con cui grandi firme dell’arte contemporanea celebrano, quest'anno, la magia del Natale. Si tratta di Luce Fontana Ruota di Gilberto Zorio, una stella a cinque punte, fonte di energia e forma emblematica, che gira come un mulino sollevando, nelle acque del laghetto Italia '61, cascate e spruzzi illuminati da potenti fotocellule.
Il percorso espositivo, oltre a quest’opera, propone altri dodici lavori già noti al grande pubblico: dalla gioiosa e caleidoscopica Regno dei fiori: nido cosmico di tutte le anime, un giardino incantato, dalle cromie forti e intense, con cui Nicola De Maria ridisegna il volto di piazza san Carlo, alla spettacolare installazione Piccoli spiriti blu di Rebecca Horn, con cerchi di luce capaci di donare un aspetto surreale e onirico, quasi da astronave in volo, alla chiesa di santa Maria al Monte dei Cappuccini.
Quest’opera, formata da una serie di panelli trasparenti e di luce azzurra, allieta la vista anche di chi si ritrova ai Murazzi del Po, fulcro della movida torinese, dove l'artista americano Joseph Kosuth presenta le sue scritte luminose al neon per Doppio passaggio (Torino), un lavoro che –scrisse Franco Fanelli – propone «due citazioni di altrettanti genii loci, Italo Calvino e Friedrich Nietzsche, il filosofo che proprio a Torino avvertì i primi sintomi della pazzia».
Il punto di vista migliore per ammirare quest’installazione, le cui frasi sono montate in modo speculare, è il ponte verso la chiesa della Grande Madre di Dio, dalla cui scalinata si può vedere anche Il volo dei numeri del compianto Mario Merz, che mette sulla Mole Antonelliana, sede del Museo nazionale del cinema, un sottile filo di luce rossa, che corre lungo uno spigolo della cupola. Solo arrivando fin sotto l'edificio si scopre che quella strana insegna al neon è in realtà una sequenza di numeri: 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89. È la cosiddetta serie di Fibonacci, un crescendo numerico in cui ogni cifra è la somma delle due precedenti.
Partendo da qui ci si può spostare in via Po, dove Giulio Paolini ha allestito Palomar, una successione di forme astronomiche e geometriche che termina con la sagoma di un acrobata. Quest’opera è una vera e propria meraviglia per gli occhi così come le Cosmometrie di Mario Airò a Palazzo Carignano e il coloratissimo Tappeto volante di Daniele Buren nell’antica piazza delle Erbe (oggi conosciuta come piazza Palazzo di Città). Da qui si intravede il suggestivo intervento di Luigi Stoisa per via Garibaldi, Noi, nel quale due figure contrapposte rosse, una femminile e l'altra maschile, sono sospese nel cielo, quasi a dire che «il Natale più bello siamo noi, uomini e donne, uniti in un solo e unico pensiero, mente e corpi illuminati da una luce penetrante».
Poco lontano, a Porta Palazzo, contesto urbano in cui maggiormente si concentrano e si incontrano diverse etnie e religioni, Michelangelo Pistoletto ha posto la sua installazione Love difference - Amare le differenze, dove questa frase di apertura all’altro, al diverso da noi, appare scritta in trentanove lingue differenti. A chiudere il percorso tra le “vecchie" meraviglie luminose che rendono ancora più magica l'atmosfera invernale di Torino, tutte visibili fino a domenica 10 gennaio, si trovano le creature sospese nel vuoto dell'opera Volo su di Francesco Casorati in via Roma, gli ideogrammi al neon di Qingyun Ma per Neongraphy alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, e le frasi di Domenico Luca Pannoli sull'amore nel quartiere della Crocetta (corso De Gasperi, via Colombo e via Piazzi).
Questa edizione della manifestazione torinese, realizzata grazie al contributo di Fondazione Crt, Gruppo Iride, Compagnia San Paolo, Camera di Commercio e Ferrovie dello Stato, rimarrà, però, impressa nella mente per le sue due novità: i giochi di luci blu, bianche e rosse dell’opera L'energia che unisce si espande nel blu del torinese Marco Gastini alla Galleria Subalpina, storico passaggio al coperto tra piazza Castello e piazza Carlo Alberto, e il progetto Mosaico di Enrica Borghi in via Lagrange, centocinquanta pannelli costituiti da una struttura in alluminio ai cui lati sono posizionati fondi di bottiglia forati ed uniti tra loro da fascette autobloccanti. L'opera vuole essere un omaggio agli antichi decori realizzati all'interno del Duomo di Salerno e intende sottolineare la bellezza e le luci del Mediterraneo, luogo di scambio di merci, di profumi e di brusio di gente. Ed è proprio nella città campana che, da quattro anni, si ha, grazie alla collaborazione con il Comune di Torino, una nuova Luci d’artista. Tema di questa edizione, in programma fino a domenica 10 gennaio, è Il giardino incantato e le figure del mito, grazie al quale viene ricreato nelle strade del centro storico e della periferia un mondo da favola, popolato da fate, draghi, unicorni, maghi, cavallucci marini, pesci e fenici, ma anche da cieli stellati, angeli, alberi, rami luminosi e una grande slitta di Babbo Natale, carica di doni.

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Mario Merz, Il volo dei numeri – Luci d’artista, Torino; [ fig. 2] Daniel Buren, Tappeto volante – Luci d’artista, Torino; [fig. 3] Rebecca Horn, Piccoli spiriti blu – Luci d’artista, Torino; [fig. 4] Marco Gastini, L'energia che unisce si espande nel blu– Luci d’artista, Torino; [fig. 5] Enrica Borghi, Mosaico – Luci d’artista, Torino; [fig. 6] Un’opera di Luci d’artista: Il giardino incantato e le figure del mito, Salerno 2009.

Per saperne di più
Luci d'artista 2009 su Contemporary Art Torino Piemonte
Luci d’artista 2009 su Scatto – Il fotoblog della città di Torino
Luci d’artista 2009 sul sito del Comune di Torino
La cartina di Luci d'artista 2009 a Torino
Luci d’artista 2009 sul sito del Comune di Salerno

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Enrica Borghi e i suoi lavori con materiali di scarto