ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
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martedì 9 maggio 2023

Quarantacinque anni dopo: il «caso Moro», la letteratura e «Il dio disarmato» di Pomella

Sul sequestro e sull’assassinio di Aldo Moro (Maglie - Lecce, 23 settembre 1916 – Roma, 9 maggio 1978), uomo politico tra i fondatori della Democrazia cristiana e suo rappresentante alla Costituente, è stato scritto un numero consistente di libri, a partire dalle preziose edizioni critiche delle lettere e del Memoriale che lo statista pugliese, fautore del «compromesso storico» con il Pci di Enrico Berlinguer, redasse nei cinquantacinque giorni della sua prigionia (gli ultimi volumi sono stati pubblicati rispettivamente nel 2008 da Einaudi, per la curatela di Miguel Gotor, e nel 2019 da De Luca editore, con il coordinamento di Michele De Sivo).
 
Consultando l’elenco degli oltre duemila libri e saggi dedicati alla figura del presidente della Dc che lo storico Francesco M. Biscione ha recentemente aggiornato per l’Archivio Flamigni, si nota come siano principalmente due i filoni di trattazione dell’«affaire Moro». Da una parte ci sono i testi che accreditano la versione - mai totalmente accertata - dei brigatisti, usando come fonti informative le circa trecento pagine del corposo Memoriale di Valerio Morucci, consegnato nel marzo 1990 all’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga da suor Teresilla Barillà, e il libro «Il prigioniero» (Feltrinelli, Milano 2003), pubblicato da Anna Laura Braghetti, con la giornalista Paola Tavella, e liberamente ripreso anche da Marco Bellocchio nel film «Buongiorno, notte» (2003). Dall’altro c’è la cosiddetta «saggistica del complotto», che focalizza la propria attenzione su ciò che ancora oggi, dopo cinque processi e varie Commissioni parlamentari d’inchiesta, non torna nelle ricostruzioni ufficiali, a partire dagli errori nelle indagini durante i cinquantacinque giorni del sequestro. Scolpite nella memoria collettiva sono, per esempio, la farsa del Lago della Duchessa e il giallo di «Gradoli», con la misteriosa seduta spiritica di Romano Prodi. Ma molti sono anche i coni d’ombra dell’inchiesta giudiziaria, in gran parte nutriti dai colpevoli silenzi e dalle falsità dei testimoni diretti o indiretti. Tuttora, per esempio, non si sa chi fossero i due uomini sulla moto Honda presente in via Fani durante l’agguato e chi, il 18 aprile 1978, diffuse il falso comunicato n. 7 sull’avvenuta esecuzione del presidente della Dc.
 
In questa «montagna di carta ingiallita», per usare una suggestiva espressione di Ivan Carozzi sulla rivista «Esquire», ciò che resta dal punto di vista letterario, o meglio ciò che è stato scritto da narratori di professione, è ben poca cosa.
 
Nel settembre 1978, appena quattro mesi dopo il 9 maggio, il giorno del ritrovamento del corpo senza vita dello statista pugliese all’interno di una Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani, a Roma (quasi a metà strada tra piazza del Gesù, sede nazionale della Dc, e via delle Botteghe Oscure, quartier generale del Partito comunista), Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989) dava alle stampe, per l’editore palermitano Sellerio, «L’affaire Moro», «una – scrisse Marco Belpoliti, nel 2002 - delle più belle pagine della letteratura italiana degli ultimi trent’anni».
 
Il testo, che nelle ultime edizioni è corredato dalla relazione di minoranza che lo scrittore siciliano firmò, da deputato radicale, al termine della prima Commissione parlamentare di inchiesta, è di difficile catalogazione. In bilico tra il pamphlet di invettiva pubblica e lo studio dei documenti allora a disposizione (il Memoriale dello statista democristiano fu ritrovato solo nel 1990 durante dei lavori di ristrutturazione nel covo brigatista di via Monte Nevoso, a Milano), «L’affaire Moro» offre uno sguardo profondo e deciso sull’Italia degli anni Settanta e sul lato oscuro della politica nostrana. Ma, soprattutto, racconta - attraverso continui rimandi letterari a Pier Paolo Pasolini, Luigi Pirandello e Jorge Louis Borges, ma non solo - la dimensione più antropica che politica di un prigioniero inerme, privato di ogni forma di autorità, tradito dalla classe politica del tempo, considerato «pazzo» dai suoi stessi «amici» e, secondo un copione che sembrava già scritto nelle ore successive al rapimento, condannato a morte.

La letteratura ha incontrato i cinquantacinque giorni che cambiarono la nostra storia - «la più grande frattura emotiva, politica e sociale» dell’Italia repubblicana - anche in romanzi quali «Il tempo materiale» (minimum fax, Roma 2008) di Giorgio Vasta (Palermo, 1970), «Come imparare a essere niente. Moro, Pasolini, Lady D» (Guanda, Parma 2010) di Alessandro Banda (Bolzano, 1963), l’autobiografico «L’estate del ‘78» (Sellerio, Palermo 2018) di Roberto Alajmo (Palermo, 1959), «La seduta spiritica» (minimum fax, Roma 2021) di Antonio Iovane (Roma, 1974) e il fantascientifico «Ufo 78» (Einaudi, Torino 2022) del collettivo bolognese Wu Ming. La storia di ciò che avvenne in Italia tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978 viene ripercorsa anche nel libro «55 giorni» (Il Mulino, Bologna 2018) dello scrittore e drammaturgo Stefano Massini (Firenze, 1975), nel quale si ricostruisce il ritratto di un Paese che, mentre sui giornali abbondano editoriali e articoli sulla follia sanguinaria dei brigatisti, guarda «Portobello» in televisione, va al cinema per «Ecce bombo» di Nanni Moretti, canta con Raffaella Carrà «come è bello far l’amore da Trieste in giù». Vive, seppur con sgomento, i suoi riti quotidiani.
 
Ci sono, poi, in questo elenco anche testi tratti da spettacoli teatrali come «Corpo di Stato. Il delitto Moro: una generazione divisa» (Rizzoli, Milano 2003) di Marco Baliani (Verbania, 1950), che rilegge la storia degli anni Settanta attraverso gli occhi di un ragazzo del tempo, e il recente «Con il vostro irridente silenzio. Le lettere e il Memoriale: voci dalla prigionia di Aldo Moro» (Feltrinelli, Milano 2022) di Fabrizio Gifuni (Roma, 1966).

In questo filone letterario si innesta «Il dio disarmato» (Einaudi, Torino 2022) di Andrea Pomella (Roma, 1973), uno dei tentativi più riusciti dal punto di vista narrativo. Lo scrittore romano focalizza la propria attenzione sui tre minuti che trasformano una tranquilla via del quartiere Trionfale di Roma nel palcoscenico di una storia che ancora oggi interroga la nostra coscienza, quelli tra le 9:02 e le 9:05 del 16 marzo 1978. 

Seguendo la lezione di Javier Cercas in «Anatomia di un istante» (Guanda, Parma 2009), Andrea Pomella riavvolge più volte il nastro, dilata il tempo e racconta il sequestro di Aldo Moro e l’uccisione dei cinque uomini della sua scorta - Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi, due carabinieri e tre poliziotti - da più punti di vista. «Il metodo – si legge nella quarta di copertina – «è quello del realismo traumatico, lo stesso che usava Andy Warhol nelle sue immagini seriali: mettere in scena e replicare per sfiorare la verità. Non la verità storica, ma quella più sfuggente della percezione individuale e collettiva». Ci sono così i tre minuti dei testimoni oculari, quelli degli uomini della scorta, quelli dei brigatisti, quelli di Aldo Moro e dei suoi familiari, quelli di Andrea Pomella, quelli di noi che leggiamo.
 
Sequestro di Aldo Moro. Via Fani, Roma. 16 marzo 1978.
Autore: AP Foto. Immagine di dominio pubblico
Grazie alle testimonianze dei familiari dello statista pugliese, lo scrittore romano prova anche a immaginare le otto ore di vita dello statista pugliese prima del sequestro, consegnandoci il ritratto intimo e privato di un uomo che, smessi i panni del politico, si occupa dell’amata moglie Noretta, del nipotino Luca e dei figli Maria Fida, Anna, Agnese e Giovanni. Prega e legge. Pensa e ricorda. Fa colazione e si sbarba. Medita sul destino, suo e degli altri, animato da una sorta di inquietudine che ha del profetico. In quelle otto ore Aldo Moro è «Il dio disarmato», non il politico noto per «l’abilità del tessitore e il talento dell’equilibrista», ma l’uomo privato che «depone i fardelli della forza e del potere per godere pienamente della propria disadorna umanità», perché – scrive ancora Andrea Pomella – per lo statista pugliese «la famiglia è da sempre il luogo in cui può lasciar scorrere le proprie angosce, l’indecisione, le sue piccole manie» (p. 118). Fuori da quelle mura domestiche c’è un nuovo Governo a cui votare la fiducia, il primo monocolore democristiano con l’appoggio esterno del Partito comunista. Fuori da quelle mura, sulla strada verso Montecitorio, Aldo Moro conosce la solitudine del potere e un «vento d’acciaio»: centoottanta secondi di «stridio di gomme sull’asfalto», «proiettili che fendono l’aria», violenza, sangue, paura e, infine, un silenzio irreale. «Siamo appena all’inizio – scrive Andrea Pomella (p. 198) – ed è già la fine». 

Bibliografia essenziale
Giovanni Bianconi, «16 marzo 1978», Economica Laterza, Roma 2021
Filippo Bona, «Gli eroi di Via Fani. I cinque agenti della scorta di Aldo Moro», Longanesi, Milano 2018
Agnese Moro, «Un uomo così. Ricordando mio padre», Rizzoli, Milano 2003
Luca Moro, «Mio nonno Aldo Moro», Ponte Sisto, Roma 2016
Maria Fida Moro, «In viaggio con mio papà»,Rizzoli, Milano 1985
Maria Fida Moro, «La casa dei cento natali», prefazione di Leonardo Sciascia, Rizzoli, Milano 1982

venerdì 20 novembre 2020

I musei? «Servizi pubblici essenziali», ma chiusi al pubblico. E l’arte va on-line e in piazza

I musei e i siti archeologici hanno qualcosa in comune con gli ospedali e i trasporti. Sono servizi pubblici essenziali.
A stabilirlo è stato il «Decreto Colosseo» del 20 settembre 2015, convertito in una legge dello Stato italiano, la n. 182 del 12 novembre dello stesso anno. Quel provvedimento sulla fruizione del nostro patrimonio storico-artistico, legiferato in attuazione dell’articolo 9 della nostra Costituzione, fu la risposta ferma del Governo di allora, guidato da Matteo Renzi, alle proteste sindacali dei lavoratori del Parco archeologico del Colosseo che, in un momento incredibilmente positivo per il turismo italiano -nei giorni del Giubileo straordinario della misericordia a Roma e dell’Expo a Milano- avevano deciso, senza preavviso, di tenere chiusi i cancelli del complesso monumentale romano tra lo sbigottimento dei tanti visitatori stranieri in fila e l’interesse dei media internazionali.

I MUSEI? SERVIZI ESSENZIALI, CHE FANNO BENE ALLA SALUTE 
In occasione del Question Time che portò all’approvazione del «Decreto Colosseo» in Parlamento, l’allora ministro dei Beni culturali Dario Franceschini definì «una conquista di civiltà» la scelta di inserire i musei e i siti archeologici tra i servizi pubblici essenziali.
Cinque anni dopo, in questo 2020 che è stato definito l’annus horribilis del Coronavirus, anche queste realtà, come altre forme di attività produttiva, sono state sacrificate in virtù del «diritto alla salute», sancito dall’articolo 32 della Costituzione. 
Musei e siti archeologici sono stati così chiusi per ben due volte nell’arco di otto mesi, prima in ottemperanza al Dpcm del 9 marzo e ora, dopo la riapertura dello scorso 18 maggio, in virtù del Dpcm del 3 novembre, che avrà efficacia per un intero mese (salvo proroghe).
Ma se è vero che l’arte fa bene alla salute (soprattutto a quella mentale), come ha di recente confermato l’Organizzazione mondiale della sanità con lo studio «What is the evidence of the role of the arts in improving health and well-being?» (disponibile anche in italiano grazie alla versione redatta dal Cultural Welfare Center), i musei, attenti da subito a tutti i protocolli di sicurezza e oggettivamente poco frequentati negli ultimi mesi, avrebbero meritato una chance in più.
Saltato il sistema di tracciamento nelle Ats, è certamente difficile da confutare la tesi di Dario Franceschini -ancora ministro dei Beni culturali, ora nella formazione di governo capitanata dal premier Giuseppe Conte- che in televisione, intervistato su RaiTre da Fabio Fazio, ha definito i musei «luoghi di possibile contagio». Ma in un momento storico nel quale anche le nostre case non sono posti sicuri, anzi sembrano essere tra i maggiori diffusori del virus, la visita a una mostra o alla collezione di una pinacoteca è davvero meno prudente per la salvaguardia della salute -nostra e degli altri- di una piega dal parrucchiere o di un viaggio in treno? È lecito avere qualche dubbio e motivare la chiusura dei musei con la necessità di diminuire gli spostamenti e i contatti tra le persone rende la decisione del Governo ancora più dolorosa, soprattutto dopo le scene folli viste, all’inizio di questa settimana, nei supermercati Lidl di tutta Italia per acquistare sneakers e ciabatte griffate con il logo della nota catena low cost

ARTE A PORTATA DI CLIC PER IL SECONDO LOCKDOWN DELLA CULTURA
La seconda ondata del virus non ha, però, trovato impreparati i musei italiani, che -come abbiamo già raccontato- hanno reagito al nuovo «lockdown della cultura» (sono chiusi al pubblico anche i teatri, i cinema e le biblioteche) tornando immediatamente fruibili on-line, sul sito istituzionale e sui profili social, ma anche su piattaforme come Zoom, Google Meet, WhatsApp.
La Rete si è trasformata così in una piazza virtuale, nella quale condividere esperienze e conoscenze, dove continuare a sperimentare l’arte grazie un ricco programma (fin troppo ricco) di visite guidate virtuali, talk con artisti e curatori, podcast, approfondimenti sulle collezioni permanenti, laboratori per bambini, contenuti multimediali di approfondimento sulle mostre allestite (e purtroppo non visitabili in presenza), recital artistico-teatrali, presentazioni di libri, visione di cinema d’artista e molto altro ancora.
Di giorno in giorno, l’agenda si infittisce di appuntamenti; nessuno vuole mancare all’appello. È, per esempio, fresco di presentazione il progetto «DuaFoto», spazio espositivo virtuale dedicato alla fotografia contemporanea, nato a Siena da un’idea del giovane programmatore Juljan Kaci, che racconta la bellezza del nostro Paese proponendo un viaggio virtuale, di regione in regione, attraverso luoghi, persone, tradizioni, stili di vita ed espressioni del meglio del made in Italy.
L’associazione MuseoCity, in collaborazione con Milanoguida, presenta, invece, «Connessioni culturali», un ciclo di quattro appuntamenti su Zoom - in programma dal 24 novembre al 15 dicembre, ogni martedì alle ore 21 – grazie ai quali si potrà conoscere meglio il capoluogo lombardo e il suo patrimonio museale, ma anche scambiare idee e commenti con i propri compagni di viaggio o rivolgere domande alla guida turistica. 
Si inizierà con un incontro su «Il Quarto Stato» di Giuseppe Pellizza da Volpedo, il grande quadro che apre il percorso di visita al Museo del Novecento. Si proseguirà con un approfondimento sulla Sala dell’Asse al Castello sforzesco, all’interno della quale è stata riscoperta, grazie a un accurato restauro, un’opera di Leonardo da Vinci, tra i vertici della sua pittura. Gli intrecci di rami, nastri, frutti e radici svelano, infatti, tutta la sapienza di pittore scientifico, di studioso di ottica e di grande botanico del maestro toscano. Si passeggerà, poi, tra le strade della Milano ottocentesca, accompagnati da foto d'epoca e da suggestivi dipinti realizzati da artisti che, nel XIX secolo, trovarono il successo immortalando scorci, angoli e panorami cittadini oggi non più visibili. Mentre a chiudere il programma sarà un incontro dal titolo «Dialoghi tra arte e architettura milanese 1930 -1960»
I partecipanti potranno ritrovare tutti i luoghi visitati virtualmente, a titolo gratuito e previa prenotazione sul sito istituzionale della rassegna, sulla App di MuseoCity.  


«MISSING MASTERPIECES», UNA MOSTRA DIGITALE PER SAMSUNG 
Mentre Samsung ha da poco lanciato la mostra digitale «Missing Masterpieces», una raccolta di opere iconiche non più accessibili al pubblico, perché rubate o perse per sempre, disponibile gratuitamente, tramite App Store, su tutti i TV Samsung The Frame, televisori dal design unico in grado di fondersi armoniosamente con l’arredamento di casa quando non sono in uso. 
Questa collezione, che sarà live per i prossimi tre mesi e che può essere visionata anche sul sito istituzionale dell’azienda, include dodici opere selezionate da Noah Charney, esperto di crimini d'arte e fondatore della Association for Research into Crimes Against.
Nella selezione sono inclusi lavori di valore inestimabile come «Anatra bianca» di Jean Baptiste Oudry e «Ritratto del dottor Gachet» di Vincent Van Gogh, entrambi visti per l'ultima volta quasi trent’anni fa. In questa pinacoteca virtuale è possibile ammirare anche «Vista di Auvers-sur-Oise» di Paul Cézanne, un quadro rubato come in un film con i ladri che, approfittando dei festeggiamenti per il Capodanno 1999, si sono arrampicati su un’impalcatura, hanno sfondato un lucernario, calato una scala di corda e schermato le telecamere con una bomba fumogena. Altre due opere dalla storia sorprendente inserite nella galleria di Samsung sono «Il ponte di Waterloo» e «Il ponte di Charing Cross», tele entrambe di Claude Monet, rubate nell'ottobre 2012 dal Kunsthal di Rotterdam e probabilmente bruciate dalla madre del ladro poco prima del recupero.
Mentre ad aprire simbolicamente la mostra virtuale di «Missing Masterpieces» è la tela «Giardino di primavera» di Vincent Van Gogh, scomparsa il 30 marzo di quest’anno, nel giorno della nascita dell’artista, in un furto a sorpresa. L’opera non è stata ancora trovata, ma si spera possa esserci presto un lieto fine e per aiutare chi è attivamente coinvolto nella ricerca di questa tela (e degli altri pezzi perduti) Samsung invita gli amanti dell'arte e gli aspiranti detective a condividere qualsiasi suggerimento, teoria o indizio su Instagram, taggando @samsungitalia e usando l’hashtag #MissingMasterpieces. L'interazione con l'utente è, infatti, uno dei punti di forza dell'esperienza digitale. 

UNA VIRTUAL EXHIBITION PER IL CENTENARIO DELLA MORTE DI MODIGLIANI
Un’altra virtual exhibition da non perdere è quella promossa, sotto la direzione artistica di Roberto Pantè e con il contributo della Regione Lazio, per ricordare i cento anni dalla morte di Amedeo Modigliani (1920-2020), pittore geniale e trasgressivo, «senza maestri e senza allievi», soffocato dalla malattia che l’ha costretto a un’esistenza breve, ma intensa, drammatica e memorabile.
Sul sito www.nelsegnodimodigliani.it è possibile conoscere la vita e le opere dell'artista attraverso un percorso, guidato da voci narranti, che si articola in otto stanze con sessanta opere, decine di fotografie storiche, alcuni video e oggetti d’uso quotidiano, dall’ultima tavolozza al taccuino con gli appunti.
Ad accogliere il visitatore in mostra è lo stesso Amedeo Modigliani che presenta il suo atelier, allestito nella casa paterna a Grugua, in Sardegna. Kiki di Montparnasse svela, poi, i nudi. L’amata Jeanne Hébuterne introduce alla visione delle tele a lei dedicate. L’amico pittore Moïse Kisling guida i visitatori virtuali nella stanza dei ritratti. La poetessa e giornalista Beatrice Hasting fa conoscere più da vicino i mentori dell’artista livornese, dal mercante Paul Alexandre all’amica Lunia Czechowska, dal poeta e gallerista Leopold Zborowski ad Hanka Zborowska.
Durante la visita virtuale, offerta a titolo gratuito, l'utente può avvicinarsi ai quadri, interagire con essi, ingrandirli per coglierne la qualità pittorica, leggerne le didascalie, i commenti tecnici e storici esattamente come all’interno di un'esposizione fisica.
Ad arricchire il percorso, al quale fa da sottofondo la musica del compositore e pianista francese Éric Alfred Leslie Satie, sono la stanza dei ricordi, con all’interno alcune foto degli affetti più cari, e una sala del cinema con tre video, tra i quali si segnala il docufilm sulla storia d’amore tra l’artista e Jeanne Hébuterne, realizzato da Sky Arte e presentato dall'attrice Samantha Morton per il ciclo «Artists in Love».
Non manca, poi, il bookshop (modigliani.joyd.it), dove il visitatore potrà acquistare i prodotti di merchandising della mostra, tenendo con sé un ricordo dell’esperienza, come fosse davvero avvenuta in presenza. 

DA MILANO A NAPOLI, ARTE ALL'ARIA APERTA 
 Ma c’è anche chi, in questi giorni difficili della seconda ondata del virus, ha deciso di esporre all’aperto e di dialogare con un mondo in costante trasformazione, anche se «stranamente congelato» per via delle restrizioni imposte dall’ultimo Dpcm. È il caso di Base a Milano che lo scorso 12 novembre ha inaugurato il progetto pluriennale «In-Beetween» con un'inedita installazione site specific dell’artista e poeta scozzese Robert Montgomery. Sulla soglia dell’ex Ansaldo è stata collocata la scritta luminosa «The future is an invisible playground», una light poem che parla del domani e delle sfide che ci attendono.
Luci e parole sono al centro anche dell’installazione artistica «Nessuno escluso», che il duo Bianco e Valente ha ideato per Napoli, nell’ambito del progetto di riqualificazione di via Marina, porta orientale del capoluogo campano. L’opera, collocata nella notte tra il 10 e l’11 novembre, all’altezza della rotatoria tra via Vespucci e corso Lucci, racconta lo spirito di una città che ha fatto dell’accoglienza e della tolleranza il suo punto di forza.
Mentre, con l’avvicinarsi del Natale, Torino non rinuncia alle sue «Luci d’artista»: ventisei installazioni, quattordici collocate nel centro storico e dodici nelle circoscrizioni, firmate da importanti artisti internazionali come Daniel Buren, Michelangelo Pistoletto, Mario Airò, Giulio Paolini e molti altri ancora.
Infine, a Roma, in cento luoghi all’aperto, è allestita fino al prossimo 6 dicembre la mostra «Volontà di ferro», a cura di Werner Bortolotti, nella quale i fratelli Cristiano e Patrizio Alviti espongono, grazie all'inconsueto utilizzo degli spazi dedicati alla cartellonistica pubblicitaria, una vasta selezione di incisioni monotipo, prove d'autore e lastre, opere tutte scaturite nel periodo di isolamento forzato. 

CONTENUTI PLUS E A PAGAMENTO: IL FUTURO DA SPERIMENTARE 
Non c’è, dunque, che l’imbarazzo della scelta per godere dell’arte in questi nuovi giorni di chiusura dei musei e delle mostre. Ma se nel primo lockdown il moltiplicarsi delle iniziative serviva soprattutto a mantenere un legame di fiducia con il proprio pubblico e a offrire occasioni di conoscenza e sollievo in un momento di sospensione della quotidianità, ora l’uso del digitale andrebbe ridefinito. 
Qualità dei contenuti e sostenibilità dell’offerta, in un’ottica legata non alla semplice contingenza del momento, dovrebbero diventare le parole chiave della futura programmazione Web e social dei luoghi della cultura (il discorso vale anche per i teatri). Se è, infatti, certo che sul fronte museale, le varie iniziative digitali e i virtual tour servono a incuriosire gli utenti nella speranza che l’esperienza in streaming o on demand si trasformi in una visita in presenza, è anche vero che è arrivato il tempo di far pagare quell’offerta culturale quando dietro c’è un lavoro di ricerca. 
In quest’ottica si muove, per esempio, BreraPlus, un abbonamento sperimentale - totalmente gratuito fino alla fine del 2020 e in seguito a pagamento - che consente l'accesso fisico alla Pinacoteca (quando riaprirà) e, parallelamente, propone contenuti multimediali esclusivi, a partire dal documentario «Performing Raffaello», in agenda il prossimo 23 novembre.
Quello della Pinacoteca di Brera è un primo passo, ma è la direzione da seguire. Perché anche se è piacevole vedere che a fronte di un lockdown delle strutture museali (e di quelle teatrali) non c’è stato un lockdown dell’offerta culturale, una domanda aleggia nella mente: la gratuità dei tanti eventi digitali in programma non finirà, alla fine, per penalizzare il settore, facendo credere ancora una volta che la cultura è un hobby e non un lavoro?

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venerdì 12 giugno 2020

Teatri e Covid-19, il coraggio di riaprire. Da Milano a Bologna, da Novara ad Ancona, gli spettacoli di chi il 15 giugno alza il sipario

È un momento difficile per il settore dello spettacolo dal vivo. Pensare che il lockdown dovuto all’emergenza Coronavirus sia stato solo un intervallo tra il primo e il secondo tempo di una stessa pièce potrebbe essere fatale per il mondo del teatro e della musica. Lo sostengono in molti.
Sono le stesse norme presenti nel Decreto del presidente del Consiglio, pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» del 17 maggio, a far capire che quella che dovrebbe essere la «nuova quotidianità» per chi sale sul palco o si siede in platea, almeno fino alla scoperta del vaccino, presenta non poche criticità.
Sulla carta la ripresa delle attività è prevista per lunedì 15 giugno; ma le misure di contingentamento, che di fatto diminuiscono drasticamente i posti a sedere, e altre norme contenute nel Decreto -dalla sanificazione quotidiana di tutti gli ambienti alla predisposizione di apposita segnaletica per il distanziamento fisico di almeno un metro tra le persone, senza dimenticare gli investimenti per un’adeguata areazione degli spazi e per la protezione del personale- rendono la riapertura poco sostenibile economicamente per molte realtà, soprattutto per le più piccole.

Musei versus teatri: la «Fase 2 della cultura» in una ricerca della Bocconi
A evidenziare la situazione è stato di recente l’SDA Bocconi Arts and Culture Knowledge Centre con una ricerca coordinata da Andrea Rurale, che ha messo a confronto musei e teatri. I primi, durante la quarantena, hanno fatto ricorso agli ammortizzatori sociali nel 48,7% dei casi, gli altri per il 76,5% del campione preso in esame formato da fondazioni liriche sinfoniche, teatri di tradizione e associazioni indipendenti.
Le percentuali, molto diverse, parlano anche di una differente ripresa. «I musei avranno più facilità a riaprire -racconta Andrea Rurale, presidente anche del Fai Lombardia e del Conservatorio di Cremona-. Il distanziamento sociale è impensabile in una sala teatrale sia tra il pubblico, dove metà della platea risulterebbe vuota, sia sul palcoscenico dove si potrebbero mettere in scena solo monologhi. Inoltre nei musei le opere sono già presenti ed esposte e ci si può organizzare per limitare gli accessi e predisporre nelle sale percorsi obbligatori. I teatri, invece, devono interagire con manager e artisti oltre che con il pubblico». A supporto di questa considerazione, la ricerca presenta un dato che parla da solo: il 73,5% dei teatri ha risolto, o pensa di risolvere, contratti per causa di forza maggiore; i musei solo nel 17,9 dei casi.

Gli italiani e la cultura durante la quarantena: #iorestoacasa, ma vado a teatro in streaming
Anche il rapporto con il web è stato differente: i musei hanno creato un vero e proprio storytelling con curiosità sulle loro collezioni, lezioni di storia dell’arte e visite virtuali; i teatri hanno, nella maggior parte dei casi, pescato dai loro archivi per creare contenuti offrendo, a titolo gratuito, spettacoli delle passate stagioni. Basti pensare all’esperienza del Carlo Felice di Genova, che ogni sera sulla sua web tv ha proposto concerti e balletti, o al San Carlo di Napoli, alla Fenice di Venezia, al Piccolo di Milano e al teatro dell’Opera di Roma, che hanno aperto virtualmente, e sempre gratuitamente, i loro sipari sui social.
Molte sono, poi, le piccole compagnie che hanno usato il web per mantenere un contatto, una relazione, un filo con il pubblico offrendo intrattenimento e lettere performative a titolo gratuito, proposte in molti casi da dimenticare per il collegamento incerto o per la pochezza dei contenuti.
L’offerta gratuita di spettacoli sul web «ha sottolineato ulteriormente la precarietà di un modello di business che dipende troppo dagli introiti dei biglietti e dalle sponsorizzazioni, che - ricorda Andrea Rurale- in questa fase sono state quasi interamente riversate sul fronte sanitario». Tanto è vero che molti teatri italiani hanno chiesto al loro pubblico di rinunciare a voucher e rimborsi degli abbonamenti e dei biglietti per gli spettacoli non andati in scena, manifestando così concretamente la propria solidarietà nei confronti di un settore che più di altri sta subendo la crisi.
Lo streaming, ma a pagamento, con la creazione di una sorta di Netflix della cultura, è stata la prima proposta del ministro Dario Franceschini per una ripresa del settore. Ma l’idea non è piaciuta agli addetti ai lavori perché il teatro, quello vero, è un linguaggio di prossimità e di contatto che vive del rapporto e dell’affiatamento tra gli attori, tra i musicisti, tra chi sta sul palco e il pubblico, tra chi recita e lo spazio circostante: elementi, questi, che rendono lo stesso spettacolo differente e unico ogni sera.

15 giugno: le regole per la riapertura dei teatri
E così il 15 giugno, dopo quattro mesi di silenzio, il mondo del teatro riparte, o almeno prova a ripartire. Il sì alla nuova fase è legato a una serie di misure da rispettare «imprescindibilmente», tutte contenute nell’allegato numero 9 del Dpcm datato 17 maggio 2020: capienza di massimo mille posti all'aperto e duecento al chiuso, misurazione della temperatura corporea all'ingresso, posti a sedere preassegnati, utilizzo obbligatorio della mascherina per gli spettatori, distanziamento sociale per attori e pubblico, periodica igienizzazione degli spazi anche con gel sanificanti a disposizione degli utenti, adeguata aerazione naturale della sala e ricambio d'aria costante, limitazione dell'uso del contante, comunicazione, anche tramite video, delle misure di sicurezza da seguire all’interno del teatro.

Milano, Novara, Bologna: teatri ai nastri di partenza
Ci vuole una buona dose di coraggio a riaprire il sipario in queste condizioni e quel coraggio non manca a Emilio Russo, reduce da una lunga battaglia per la sopravvivenza della sua sala che rischiava di essere trasformata in un parcheggio.
«Ci sarà tempo per le lotte, per gli aggiustamenti, per il buon senso. Ora no! Ora è il tempo di esserci anche con 100, 10, 1 spettatore, non importa, davvero non importa», dice il direttore artistico del teatro Menotti di Milano. Da qui la decisione di riaprire subito: lunedì 15 giugno, un minuto dopo la mezzanotte, Andrea Mirò, Enrico Ballardini e Musica da ripostiglio saliranno in scena, nel rispetto delle norme sanitarie, con «Far finta di essere sani» di Giorgio Gaber e Sandro Luporini, nell’adattamento e per la regia di Emilio Russo.
Lo spettacolo, in replica alle 20.30 del 15 e del 16 giugno, «affronta -raccontano dal Menotti di Milano- i temi universali del disagio sociale e generazionale, puntando l’attenzione sull’essere schizoide dell’uomo contemporaneo. Da una parte pronto agli slanci ideali, dall’altra tenuto a terra dal proprio egoismo e dai finti bisogni materiali. Temi e contenuti quanto mai attuali in questo tempo post Covid».
Riparte subito anche il teatro Faraggiana di Novara, che in questi mesi di quarantena ha abbracciato virtualmente il suo pubblico con i «Vespri danteschi», una lettura della «Divina Commedia» a cura di Lucilla Giagnoni, e «I racconti da casa»; mentre l’altro teatro della città piemontese, il Coccia, sperimenta le potenzialità dell’on-demand a pagamento sulla nuovissima piattaforma digitale OnTheatre, con «Alienati – Opera Smart Working», storia di un gruppo di persone alle quali è richiesto di rimanere chiusi in casa a causa di un’invasione aliena.
«Magnificat nostop» è la proposta che il teatro Faraggiana fa al suo pubblico per la ripartenza: sette ore di performance, fino alle undici di sera, e tre repliche consecutive -alle 16, alle 19 e alle 21.30- per festeggiare una data simbolo, carica di speranze, come quella del 15 giugno e nello stesso tempo per ringraziare il personale medico e infermieristico, al quale sarà offerto il biglietto omaggio fino al raggiungimento dei centonovanta posti disponibili in sala per ogni replica.
Sul palco ci sarà ancora una volta Lucilla Giagnoni, che farà da guida in un avvincente viaggio attraverso la storia e gli archetipi del pensiero umano –dalla BibbiaSan Francesco, dai miti classici a Dante– alla riscoperta del principio femminile come armonia e forza rigeneratrice del mondo. Lo spettacolo -che prende a prestito le parole di testi come «La bella addormentata» di Charles Perrault, la «Clitemnestra» di Eschilo, il «Cantico delle creature» e, ovviamente, il «Magnificat»- assume la forza di una preghiera, che è insieme una poesia e una speranza verso il futuro.
Un segnale di speranza arriva anche dal teatro Lo Spazio di Roma, dove Attilio Fontana e Emiliano Reggente presenteranno il loro nuovo spettacolo «Fase Show», una maratona di teatro musicale, che proporrà brani di repertorio dei due artisti, gag, canzoni e «interazioni a norma con il pubblico». Per tre giorni e in fasce orarie divise, il duo andrà in scena per nove repliche della durata di un’ora, alle 18, alle 20 e alle 21, intervallate dalla sanificazione degli ambienti nel rispetto delle misure di sicurezza, con dovuto distanziamento sociale e per un massimo di trentacinque spettatori per replica. Il risultato -assicurano gli attori- sarà «un'occasione per cercare insieme a chi vorrà esserci, gli anticorpi per il virus gemello del Covid, ovvero la distanza umana ed empatica di cui stiamo per rimanere ostaggi, per far sì che il pubblico vada via con un sorriso e un'emozione».
Sorrisi ed emozioni non mancheranno anche a Bologna, al Duse, un teatro privato con una funzione pubblica da sempre, dove il 15 giugno, alle 21, salirà sul palco Gianni Morandi con un concerto-live gratuito, riservato a un numero contingentato di spettatori -duecento contro i novecentonovantanove che di solito trovano posto nella sala di via Cartoleria e gli oltre cinquemila che hanno chiesto di presenziarvi-, ma aperto a tutta la città grazie alla diretta radiofonica e televisiva di Radio Bruno (canali 256 e 71 del digitale terrestre).

Venezia, Treviso, Padova e Ancona: il teatro e la musica vanno in piazza 
Riparte dalla musica anche il Teatro stabile del Veneto, che il 15 giugno sposta la sua attività all’aperto, in piazza, proponendo tre eventi live gratuiti (che verranno trasmessi anche in diretta streaming): «Teatro e musica» con Fabio Sartor e il primo violoncello dell’Orchestra di Padova e del Veneto nel cortile di Palazzo Moroni a Padova (ore 18.30), «La musica non si ferma» con Red Canzian (musicista dei Pooh) in piazza dei Signori a Treviso (ore 19.00) e «Sotto la maschera» dei comici Carlo & Giorgio, che per l’occasione saranno introdotti dalle voci della Big Vocal Orchestra e dei Vocal Skyline, in Campo San Polo a Venezia (ore 18.30).
Si sposta in piazza anche il teatro delle Muse di Ancona, che riparte con una performance che rappresenta perfettamente l’attuale condizione del mondo del teatro in cui artisti e pubblico devono rigorosamente mantenersi separati. Si tratta dello spettacolo «L’attore nella casa di cristallo», su testo e per la regia di Marco Baliani, nato da un’idea di Velia Papa.
Per mettere in scena il senso di spaesamento e solitudine causato negli individui dal lockdown, due attori reciteranno in altrettanti cubi di vetro dove, accennando passi di danza, declameranno alla rinfusa brandelli di testi e brani di canzoni per non perdere la memoria del loro antico mestiere.
È, dunque, ricco il cartellone del primo giorno dei teatri italiani e forse aveva ragione William Shakespeare, quando diceva che «siamo fatti della sostanza dei sogni». Quel sogno, oggi, è di ripartire. Ci sarà tempo per rispondere ai tanti quesiti che rimangono aperti in questa «Fase 2 della cultura». Fino al vaccino sarà possibile mettere in scena solo monologhi o mini-produzioni di breve durata, concerti da camera e assoli di danza? Il contingentamento del pubblico, con un massimo di duecento spettatori, farà lievitare il prezzo dei biglietti? L’offerta on-demand -di fatto più sicura per la salute, anche se meno affascinante- toglierà spettatori ai teatri?
Fra tutti questi dubbi, c’è solo una certezza e la racconta bene Emilio Russo, il direttore del Menotti di Milano: «chi fa questo lavoro sa benissimo che è destinato all’eternità finché ci sarà qualcuno che abbia voglia di raccontare una storia e qualcun altro che abbia voglia di ascoltarla».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Rendering per la disposizione del pubblico in occasione dello spettacolo «L’attore nella casa di cristallo», su testo e per la regia di Marco Baliani, in programma al teatro delle Muse di Ancona; [fig. 2 e fig 3] Gianni Morandi all'interno del teatro Duse di Bologna; [fig. 4] Locandina dello spettacolo «Far finta di essere sani» di Giorgio Gaber e Sandro Luporini, nell’adattamento e per la regia di Emilio Russo, in scena al teatro Menotti di Milano;   [fig. 5] Andrea Mirò, tra i protagonisti dello spettacolo Far finta di essere sani» di Giorgio Gaber e Sandro Luporini, nell’adattamento e per la regia di Emilio Russo, in scena al teatro Menotti di Milano; [fig. 6 e fig. 7] Attilio Fontana e Emiliano Reggente, in scena al teatro Lo Spazio di Roma; [fig. 8] Marco Baliani, regista dello spettacolo «L’attore nella casa di cristallo», in scena ad Ancona;  [fig. 9] Emilio Russo, direttore del teatro Menotti di Milano 

Per saperne di più
Teatro Menotti di Milano
Teatro Faraggiana di Novara
Teatro Lo Spazio di Roma
Teatro Duse di Bologna
Teatro stabile del Veneto
Marche Teatro 

venerdì 31 marzo 2017

Gioachino Rossini, un compositore tra note e fornelli

A nove anni pizzicava le corde della viola e strimpellava vari strumenti a tastiera, tra cui la spinetta. A dieci anni era in grado di cavarsela in molte discipline musicali come il canto, l’accompagnamento al clavicembalo e la trascrizione degli spartiti. A undici anni iniziava gli studi di composizione e, intanto, cantava e suonava in chiese e teatri. A quattordici anni si iscriveva alle classi di violoncello e contrappunto del neonato Liceo musicale di Bologna; si aggregava come cantore all’Accademia filarmonica felsinea e scriveva la sua prima opera, «Demetrio e Polibio», che sarebbe rimasta per qualche anno nel cassetto. È la storia di un uomo dotato di un talento straordinario e precoce quella di Gioachino Rossini, apprezzato compositore ottocentesco noto per opere famose come «Il barbiere di Siviglia» e il «Gugliemo Tell», nato a Pesaro il 29 febbraio 1792 da una famiglia di modesti musicisti.
Il papà, Giuseppe Rossini, suonava la tromba e il corno nella banda cittadina. Gli amici lo chiamavano «Vivazza» per quel suo carattere sempre allegro e tendente alla burla, ma anche per le sue veraci origini romagnole.
La mamma, Anna Giudarini, era una bella ragazza che cuciva cappelli e che, grazie alla sua voce dolce e piena di grazia, si esibiva nei teatri minori di opera buffa come cantante lirica «a orecchio».
Con l’arrivo a Bologna, datato intorno al 1798, il compositore ebbe la fortuna di trovarsi a vivere in una delle maggiori città musicali del tempo ed è qui che si accostò per la prima volta alle musiche di due grandi autori tedeschi, Wolfgang Amadeus Mozart e Franz Joseph Haydn, le cui partiture erano ancora difficilmente reperibili in Italia, tanto da guadagnarsi il soprannome di «tedeschino».
Poco dedito agli studi ufficiali e incapace di sopportare le regole, Gioachino non completò mai gli studi al Liceo musicale di Bologna, ma le sue idee erano così fresche e innovative che, a soli diciotto anni, nel 1810, riuscì a debuttare con una sua opera, «La cambiale di matrimonio», nel prestigioso teatro San Moisè di VeneziaFu l’inizio di una brillante carriera, che vide la sua musica dinamica, trascinante e di facile ascolto accogliere i favori del pubblico, anche se non mancò qualche insuccesso. È il caso de «Il turco in Italia», accolto con freddezza dagli appassionati del teatro alla Scala nel 1814, e dell’opera «Il signor Bruschino» (1813), le cui repliche furono totalmente annullate, ma la cui ouverture continua a far parlare di sé per il caratteristico percuotere ritmico degli archi dei violini sul leggio.
Dal 1810 al 1829 Gioachino Rossini compose quarantuno opere, a tamburo battente, con un ritmo di cinque o sei l’anno (con un «rallentando» negli ultimi anni della sua vita).
Già l’anno dopo il debutto veneziano andava in scena a Bologna un altro suo lavoro: «L’equivoco stravagante». E ben presto la fama del compositore pesarese si diffuse oltre i confini nazionali grazie a due opere come il «Tancredi», le cui arie più famose venivano addirittura cantate per le strade, e «L’Italiana in Algeri», della quale i giornali scrissero che alla ‘prima’ gli spettatori stavano quasi per soffocare dal ridere e per la quale Stendhal parlò di «follia organizzata e completa».
Nel 1815 Gioachino Rossini si trasferì a Napoli su invito di Domenico Barbaja, importante impresario del teatro San Carlo, e vi rimase fino al 1822. Appena arrivato nella città partenopea compose «Elisabetta Regina d’Inghilterra», opera che ebbe grande successo grazie anche alla magistrale interpretazione della bella cantante spagnola Isabella Colbran, con cui il compositore si sarebbe sposato sette anni dopo. Fu un periodo molto intenso, che vide il maestro pesarese scrivere anche per altri teatri. Basti pensare che, tra il 1816 e il 1817, videro la luce due delle sue opere più celebri: «Il barbiere di Siviglia» per il teatro Argentina di Roma (1816) e «La Cenerentola» per il teatro Valle di Roma (1817). In questi anni vennero scritti anche lavori come «La gazza ladra» (1817), «Mosè in Egitto» (1818), «La donna del lago» (1819) e «Maometto II» (1820).
Il compositore si trasferì, quindi, a Londra, ma vi rimase pochi mesi preferendo spostarsi a Parigi, dove gli avevano offerto la direzione del Thèâtre des Italiens. Lì compose «Il viaggio a Reims» (1825), la sua ultima opera in lingua italiana, e il «Guglielmo Tell», con cui lanciò un nuovo genere musicale detto grand-opèra, basato su soggetti storici e caratterizzato da spettacolari effetti scenici, balletti e grandi cori. Il debutto di questo lavoro si ebbe la sera del 3 agosto 1829. Il successo fu strepitoso e il compositore fu premiato con la Legione d’Onore, una delle massime onorificenze del Governo francese. Malgrado ciò Gioachino Rossini decise di ritirarsi dalle scene. Non compose più opere, ma continuò a scrivere per piacere sonate e composizioni per pianoforte, oltre a musiche sacre come lo «Stabat Mater» (1841) e la «Petit Messe Solennelle» (1863).
Al momento del ritiro il compositore pesarese aveva trentasette anni. Sarebbe morto trentanove anni dopo, il 3 novembre 1868, nella sua villa di Passy, vicino a Parigi.
La decisione di ritirarsi sorprese tutti i suoi amici e ammiratori che non riuscivano a spiegarsene il motivo. Ma non c’è da sorprendersi: Gioachino Rossini era un personaggio dalle mille sfaccettature: era suscettibile e collerico, ma anche ironico e spiritoso; amava la buona tavola e l’ozio, ma era anche un infaticabile lavoratore quando si trattava di comporre un’opera. Di lui si ricordano molti aneddoti e battute spiritose: «non conosco -diceva- un lavoro migliore del mangiare» o ancora «l’appetito è per lo stomaco quello che l’amore è per il cuore». Di lui si ricordano molti aneddoti e battute spiritose: «non conosco -diceva- un lavoro migliore del mangiare» o ancora «l’appetito è per lo stomaco quello che l’amore è per il cuore». Era talmente ossessionato dal buon mangiare che quando Richard Wagner si recò da lui a Parigi, Rossini continuò per tutta la visita ad alzarsi per andare a controllare un capriolo sul fuoco. Ed era un ghiottone così raffinato da essere sempre alla ricerca di cibi speciali che si faceva portare dai diversi paesi d’origine: da Gorgonzola il formaggio, da Milano il panettone, da Siviglia il prosciutto e così via. La sua passione per il buon cibo era così grande che a chi gli chiedeva se avesse mai pianto, rispondeva sorridendo: «sì, una volta in barca quando mi è caduto nel lago uno stupendo tacchino farcito con i tartufi. Quella volta ho proprio pianto».
Per il mondo della musica è noto non solo per alcune sue opere immortali, ma anche per aver inventato il «crescendo», un procedimento compositivo che consisteva nel ripetere in maniera ossessiva, e a intensità crescente, un modulo melodico-armonico inserendo gradualmente nuovi strumenti a ogni ripetizione.
Le sue spoglie riposano nella Basilica di Santa Croce a Firenze, definita da Ugo Foscolo «il Tempio dell’Itale glorie», perché al suo interno sono conservate le tombe di grandi personaggi italiani come Michelangelo Buonarroti, Galileo Galilei e Vittorio Alfieri.

Per saperne di più
Gaia Servadio, «Gioachino Rossini. Una vita», Feltrinelli, Milano 2015;
Lina M. Ugolini, Piano pianissimo, forte fortissimo, Rueballu, 2015;
Monica E. Lapenta, «A cena con Giachino Rossini», Babetta's World, Baltimora 2012;
Cecilia Gobbi e Nunzia Nigro, «Alla scoperta del melodramma. Il teatro e le sue storie», Edizioni Curci, Milano 2009;
Fiorella Colombo e Laura Di Biase, «Recitar cantando ovvero come accostare i bambini all’opera lirica attraverso il teatro», Erga edizioni, Genova 2006;
Giorgio Paganone, «Insegnare il melodramma. Saperi essenziali, proposte didattiche», Pensa MultiMedia, Lecce –Iseo 2010;
Fiorella Colombo e Laura Di Biase, «Il barbiere si Siviglia – Un percorso di sensibilizzazione e avvicinamento all’opera di Gioachino Rossini», Erga edizioni, Genova 2012;
Fiorella Colombo e Laura Di Biase, «Figaro qua, Figaro là», Vallardi, Milano 2014 (le immagini pubblicate sono tratte da questo libro);
Cecilia Gobbi e Nunzia Nigro, «Alla scoperta del melodramma – Il barbiere di Siviglia», Curci, Milano 2010;
Isabella Vasilotta (a cura di), «Rossini. Ascoltando Il barbiere di Siviglia, La Cenerentola e Guglielmo Tell», Sillabe, Livorno 2015
Fiorella Colombo e Laura Di Biase, «La Cenerentola – Un percorso di sensibilizzazione e avvicinamento all’opera di Gioachino Rossini», Erga edizioni, Genova 2009;
Cristina Pieropan, «La Cenerentola», Nuages, Milano 2010;
Cecilia Gobbi e Nunzia Nigro, «Alla scoperta del melodramma – La Cenerentola di Rossini», Curci, Milano 2015.

martedì 14 marzo 2017

Art for kids: «Il barbiere di Siviglia», Gioachino Rossini e la Commedia dell’arte

Un’eccellente medicina contro le preoccupazioni e le difficoltà della vita di tutti i giorni: si presenta così «Il barbiere di Siviglia», opera buffa in due atti che il compositore Gioacchino Rossini scrisse all’inizio del 1816, in poco meno di tre settimane (ma qualcuno parla addirittura di solo nove giorni), per le celebrazioni carnevalesche del teatro Argentina di Roma, allora di proprietà del duca Francesco Cesarini Sforza.
Il componimento, su libretto di Cesare Sterbini, trae la propria trama della commedia settecentesca «Le barbier de Séville ou La précaution inutile» del drammaturgo francese Pierre-Augustin-Caron de Beaumarchais, già oggetto di varie versioni musicali, tra le quali quella, molto applaudita, di Giovanni Paisiello, i cui sostenitori -secondo i pettegolezzi del tempo- fischiarono lungamente il debutto della versione rossiniana.
Ma alla «prima» dell’opera non accadde solo questo episodio sfortunato; pare addirittura che, durante lo spettacolo, un gatto sia passato quatto quatto sul palcoscenico.
Nonostante l’insuccesso della prima rappresentazione, andata in scena il 20 febbraio 1816 con il titolo «Almaviva ossia l’inutile precauzione» (l’attuale nome sarà utilizzato solo a partire dalla ripresa bolognese dello stesso anno), il capolavoro del musicista marchigiano, con il suo meccanismo teatrale perfetto e le sue frizzanti e giocose invenzioni musicali, era destinato a diventare uno dei più grandi successi del teatro musicale italiano.

Non a caso un altro importante compositore ottocentesco, Giuseppe Verdi, ebbe a dire: «Non posso che credere il Barbiere di Siviglia, per abbondanza d'idee, per verve comica e per verità di declamazione, la più bella opera buffa che esista».
Definito oggi dalla critica come «il più grande poema musicale, comico, satirico e umoristico dell’umanità», «Il barbiere di Siviglia» ambienta la propria vicenda nel tardo Settecento ed ha come scenario la calda e solare Spagna.
Qui il maturo don Bartolo tiene segregata in casa la pupilla Rosina, che egli desidererebbe sposare. Il barbiere Figaro, fantasioso e pieno di risorse, aiuta l’innamorato conte di Almaviva a conquistare la giovane, che ricambia i suoi sentimenti. Dopo arditi travestimenti, scambi di biglietti, colpi di scena e la corruzione di don Basilio, maestro di musica della fanciulla, Figaro e il conte di Almaviva riescono a compiere il loro progetto: i due giovani innamorati si sposano, don Bartolo non può che rassegnarsi alla situazione e l’opera si chiude nell’allegria generale.
Sembra abbastanza evidente, come ha scritto il regista Luis Jouvet, che nell’opera «Il barbiere di Siviglia» si trova tutta la tradizione della commedia dell’arte: Arlecchino, Scaramuccia e Scapino sono stati tramutati in Figaro, Pantalone in Bartolo, Lelio e Leandro nel conte d’Almaviva.
Tra i brani entrati nell’immaginario collettivo, per quella che il critico Giuseppe Radiciotti ha definito la loro «giocondità serena e benefica», si ricordano l’ ouverture iniziale, la cavatina «Largo al factotum» e l’ aria «La calunnia è un venticello».
Per l’ouverture Gioachino Rossini si autocopiò; la sinfonia esisteva già, era quella dell’«Aureliano in Palmira», opera composta tre anni prima de «Il barbiere di Siviglia». Questo ci mostra un’altra caratteristica del teatro d’opera all’epoca di Gioachino Rossini: l’ouverture era, infatti, sì il momento musicale che annunciava i toni e i temi dell’opera, ma era anche un vero e proprio segnale sonoro che avvisava gli spettatori dell’inizio dello spettacolo ed era, dunque, spesso eseguita tra chiassi e schiamazzi che si calmavano successivamente.

La cavatina «Largo al factotum», grande classico che ogni baritono ha nel proprio repertorio, è così famosa per le sue note gioiose e spavalde che se ne conosce addirittura un’interpretazione del gatto Tom, della celebre coppia Tom e Gerry, nel cartone animato «The Cat Above and the Mouse Below» (1964).
L’ aria «La calunnia è un venticello» è utile per comprendere il cosiddetto «crescendo rossiniano», una tecnica compositiva molto utilizzata da Gioachino Rossini che consiste nel ripetere in maniera ossessiva determinate battute inserendo gradualmente nuovi strumenti a ogni ripetizione.

Per saperne di più
Fiorella Colombo e Laura Di Biase, «Il barbiere si Siviglia – Un percorso di sensibilizzazione e avvicinamento all’opera di Gioachino Rossini», Erga edizioni, Genova 2012;
Fiorella Colombo e Laura Di Biase, «Figaro qua, Figaro là», Vallardi, Milano 2014 (le immagini pubblicate sono tratte da questo libro);
Cecilia Gobbi e Nunzia Nigro, «Alla scoperta del melodramma – Il barbiere di Siviglia», Curci, Milano 2010;
Isabella Vasilotta (a cura di), «Rossini. Ascoltando Il barbiere di Siviglia, La Cenerentola e Guglielmo Tell», Sillabe, Livorno 2015

lunedì 15 settembre 2014

«Aspettando Godot»: «una commedia in cui non accade nulla, per due volte»

«Una commedia in cui non accade nulla, per due volte»: così il critico irlandese Vivian Mercier, in un articolo apparso sull’«Irish Times» nel febbraio 1956, recensiva «Aspettando Godot», dramma in due atti di Samuel Beckett, premio Nobel per la letteratura nel 1969, scritto in francese tra l’ottobre 1948 e il febbraio 1949, la cui prima rappresentazione si tenne il 5 gennaio 1953 al Théâtre de Babylone di Parigi, per la regia di Roger Blin. È, infatti, la condizione dell’attesa a ordire la trama della piéce, pietra miliare della cultura novecentesca e opera emblematica di quella corrente drammaturgica d’avanguardia che ha raccontato la crisi esistenziale dell’uomo contemporaneo e che il critico inglese Martin Esslin ha definito Teatro dell’assurdo.
Con questa tragicommedia, nella quale l’azione vera e propria è ridotta a pochi atti insignificanti e persino surreali, l’autore irlandese si libera delle condizioni naturalistiche del teatro borghese ottocentesco, ormai trasformatesi in sterile routine, e prende a prestito la formula di quello che Peter Szondi ha definito «dramma di conversazione» per svuotarla di tutte le sue componenti più rilevanti, privando cioè il dialogo tra i personaggi della sua funzione significante e rendendolo così fine a se stesso. Samuel Beckett rivoluziona, in questo modo, il linguaggio scenico e lo mette in burletta -sostiene lo scrittore Federico Platania- «con la sua commistione di registri alti e bassi (citazioni teologiche e turpiloquio), il mix dei generi (tragedia, commedia, teatro comico, gag da cabaret), con il suo disinnescare quelli che fino ad allora erano considerati punti fermi intoccabili (azione, trama, significato), con le sue pause, i suoi silenzi, i suoi ritorni inconcludenti».
Vladimiro (Didi) ed Estragone (Gogo), i protagonisti della tragicommedia beckettiana, sono due mendicanti che vivono in strada e che in una landa desolata, definita unicamente dalla presenza di un albero, attendono un certo signor Godot, del quale non conoscono né le fattezze né il giorno e l’orario dell’arrivo, ma che sono certi li salverà dal misero stato in cui si trovano. Per ingannare l’attesa ed esorcizzare il vuoto e l’insicurezza che patiscono di fronte al ripetersi ciclico e privo di senso delle proprie vite, così tristi e inutili da far nascere in loro continui propositi di suicidio non portati a termine per fiacchezza o impossibilità materiale (l’albero è troppo basso, la cintura si spezza), i due uomini parlano del più e del meno. Scelgono a caso un’idea, un ragionamento, il commento di un fatto e subito lo abbandonano per un nuovo argomento di conversazione. Si ha così l’impressione di assistere a continui «numeri attoriali» messi in scena da due vecchi interpreti del teatro di varietà o delle comiche cinematografiche che ripetono, talora svogliatamente e per abitudine, un repertorio ormai consumato.
In questa situazione stagnante fatta di eventi minimi come togliersi le scarpe, mangiare una carota o scambiarsi i cappelli, Vladimiro ed Estragone incontrano una strana coppia di personaggi: Pozzo, un proprietario terriero che conduce legato a una corda il suo servo, Lucky, disfatto dalla fatica di trascinare valigie piene di sabbia e trattato come un animale a suon di frustate. Il passaggio di queste persone, che si ripresenteranno anche nel secondo atto (uno cieco, l’altro muto), non ha, però, alcun effetto concreto sulla situazione dei due clochard: «Beh, ha fatto passare il tempo» / «Sarebbe passato lo stesso» / «Sì, ma più adagio», dicono i due protagonisti.
Il dramma si chiude con l’immagine di Vladimiro ed Estragone che continuano ad aspettare Godot, incapaci di qualsiasi azione. «Allora, andiamo?» / «Andiamo» è il duetto che chiude l’opera, ma entrambi i personaggi -annota la didascalia scenica- non si muovono, perché non hanno progetti e non sanno dove recarsi; sono come anchilosati, impossibilitati a fuggire dalla monotona ripetitività della propria esistenza.
Ma chi è Godot? Sono stati scritti fiumi di inchiostro per dare una risposta a questa domanda. Si è parlato di destino, morte e fortuna; l’ipotesi critica più diffusa sostiene, però, che l’invisibile protagonista della tragicommedia sia il Dio cristiano, oltre che per l’evidente richiamo fonetico tra i termini Godot e God, anche per la descrizione di un giovane emissario mandato ai due clochard, che parla di un vecchio con la barba bianca. L’autore ha, però, sempre rifiutato questa lettura della sua opera, affermando a più riprese «Se avessi saputo chi è Godot, l’avrei scritto nel copione» o Se Godot fosse Dio, l’avrei chiamato così».
È, però, certo che a fare da filo conduttore al lavoro del drammaturgo irlandese sia l’idea di una condizione umana segnata dalla sofferenza e dall’assenza di senso della vita stessa. In Samuel Beckett –scrive, infatti, Paolo Bertinetti- «si trova esplicitamente l’eco di Leopardi e di Schopenauer.

Da un lato c’è la consapevolezza dell’«infinita vanità di tutto». Dall’altro c’è la persuasione che la vita è una punizione per la colpa originaria di essere nati. Per i personaggi di Beckett, come per la «creatura» di Ungaretti, «la morte si sconta vivendo» […]. Idea di un pessimismo per molti insostenibile». 
Sulla tragicità della situazione si innesta una comicità che assume toni grotteschi. Poco importa se il pubblico ride perché, come scrisse l’autore al regista Roger Blin in vista della prima messinscena, «niente è più grottesco del tragico». O, per usare le parole di un’altra opera beckettiana, «Finale di partita», «niente è più comico dell’infelicità».


Didascalie delle immagini 
[Fig. 1] Samuel Beckett durante le prove della tragicommedia «Aspettando Godot»; [fig. 2] Eros Pagni e Ugo Pagliai in «Aspettando Godot». Foto M. Norberth; [fig. 3] Eros Pagni, Roberto Serpi, Ugo Pagliai, e Gianluca Gobbi in «Aspettando Godot». Foto M. Norberth.

martedì 5 agosto 2014

«Re Lear»: lotta per il potere e conflitto generazionale in William Shakespeare

La bramosia del potere, il conflitto fra generazioni, l’opportunismo adulatorio celato da amore, i tormenti della gelosia e della lussuria, l’incapacità di leggere l’alfabeto del cuore e di comprendere i silenzi, la precarietà della vita, l’inettitudine dell’uomo a discernere gli inganni del mondo, la discrepanza tra realtà e apparenza: sono molti, e attuali, i temi che tessono la trama di «Re Lear», tragedia in versi e prosa scritta da William Shakespeare intorno al 1605 e rappresentata per la prima volta il 26 dicembre 1606 nel palazzo di Whitehall, alla presenza di re Guglielmo I.
La storia che fornisce l’intreccio principale affonda le radici nell’antica mitologia britannica, in un racconto leggendario risalente all’VIII secolo a.C., ovvero al periodo antecedente alla fondazione di Roma, narrato nel XII secolo da Geoffrey of Monmouth nella sua «Historia anglicana» e, in seguito, trattato da Raphael Holinshed nel libro «The Second Booke of the Historie of England» (1577), da Edmund Spencer nel secondo volume del poema cavalleresco «The Faerie Queene» (1596) e nella raccolta di narrazioni «The Mirror for Magistrates» (1559), una vera e propria miniera di soggetti per i tragediografi elisabettiani.
William Shakespeare attinse a queste fonti e al coevo dramma anonimo «The True Chronicle Historie of King Lear» (1605), che si chiudeva però con il lieto fine, per organizzare la trama della sua tragedia, una vicenda ricca di situazioni e di sentimenti riconducibili alla contemporaneità tanto è vero che, negli anni Sessanta, il polacco Jan Kott ha azzardato un parallelismo con Samuel Beckett e il suo Teatro dell’assurdo.
A scatenare il dramma è la decisione del sovrano britannico di abdicare in favore delle tre figlie sulla base di un love test, ovvero di una gara d’amore verbale. Con calcolo macchiavellico e malcelata ipocrisia, le sorelle Regan e Gonerill ricorrono alla finzione retorica richiesta dal padre per ottenere il potere; Cordelia, personaggio sentimentale più che politico (come ebbe a dire Giorgio Strehler), non si sottomette a questo rito, si sente incapace di esprimere a parole il proprio profondo sentimento filiale e, temendo di immiserire e rendere volgare ciò che prova, si limita a dire: «O mio sfortuna: non riesco a sollevare il peso del mio amore fino alle labbra; amo vostra Maestà secondo il nostro vincolo, né più né meno».
Irritato, il re non riconosce l’affetto senza riserva della giovane figlia, la «migliore» e la «più cara», e la ripudia, revocando la dote già promessa e permettendole di lasciare per sempre l’Inghilterra a fianco del re di Francia, che l’ha chiesta in sposa. È l’inizio di un dramma a tinte fosche, nel quale dominano violenza, tradimento e morte. Re Lear ha, infatti, ben presto modo di scoprire l’ingratitudine e la meschinità di Regan e Gonerill, che lo privano di ogni traccia di antico potere fino a lasciarlo, alla fine del secondo atto, solo, all’addiaccio, senza miglior rifugio di una capanna contadina e in balia della tempesta. Rendendosi conto di essere stato vittima di un errore di valutazione nei confronti di Cordelia, il sovrano impazzisce per il dolore e trova solo nella «pazienza» e nella «pena» della figlia minore, ritornata in Inghilterra con l’esercito francese per riportare l’ordine nel suo Paese natale, il balsamo per curare le ferite del suo cuore e il senso di vuoto che si è impadronito della sua anima. Ma il destino avverso avrà la meglio.
Alla vicenda principale (main plot) si intreccia, come era pratica corrente per molti drammaturghi dell’epoca, una trama secondaria (sub-plot), che incide fortemente sulla prima e che contribuisce a far risaltare i vari momenti della narrazione. La storia di re Lear si riflette, infatti, specularmente in quella del conte di Gloucester e dei suoi due discendenti, il diabolico Edmund e il virtuoso Edgar, che William Shakespeare trasse dal romanzo «Arcadia» di Philip Sidney (1590) e che fece propria raccontando la vicenda di un vecchio cieco tradito dal figlio illegittimo, disposto a tutto pur di impadronirsi del casato, e salvato da quello buono, vittima di una menzogna ed eroe positivo della tragedia, la cui dirittura morale si esplica nella battuta conclusiva, monito alla coscienza dell’uomo di ieri e di oggi: «Noi dobbiamo accettare il peso di questo triste tempo. Dire ciò che sentiamo e non ciò che conviene dire».
Poche sono le rappresentazioni che «Re Lear» può contare nella storia dello spettacolo, tanto è vero che Jan Kott, nel suo illuminante saggio «Shakespeare nostro contemporaneo» (1961), ha scritto che la tragedia del Bardo fa l’effetto di «un’immensa montagna che tutti ammiriamo, ma che nessuno ha voglia di scalare troppo spesso». A ciò ha senz’altro contribuito il giudizio romantico e post-romantico sull’«irrappresentabilità» dell’opera, espresso da Charles Lamb, Henry James e molti altri. In realtà, -stando a quanto afferma Agostino Lombardo nell’introduzione all’edizione Garzanti del 2002- «Re Lear» può dirsi «l’opera più teatrale di William Shakespeare, e ciò nel senso che in essa il linguaggio del drammaturgo raggiunge la sua più alta, e specifica, intensità ed espressività». La parola è, infatti, qui fortemente legata all’azione scenica, come ben comprese Giorgio Strehler nel suo allestimento del 1972, quando definì il testo del Bardo una tragedia che si «inteatra».
Il linguaggio è, dunque, in questo lavoro l’oggetto stesso della rappresentazione. Si pensi alla figura del Fool -personaggio non presente nelle fonti, ma tutt’altro che raro nel teatro del tempo- che è parola personificata, metafora incarnata della follia di re Lear, coscienza del proprio errore di giudizio e addirittura alter ego di un altro personaggio. Non a caso Giorgio Melchiori, nell’introduzione del 1976 all’edizione pubblicata nella collana «I Meridiani» di Mondadori, scrive: «il Fool è la dimostrazione della straordinaria maturità di Shakespeare come uomo di teatro: in una vicenda che comporta necessariamente l’assenza della figura femminile per tutta la parte centrale del dramma […], il Fool compensa e sostituisce l’assenza dell’eroina […]. Sulla scena del Globe Theatre (il teatro di Londra, dove recitò la compagnia del noto drammaturgo elisabettiano, ndr) lo stesso ragazzo poteva assumere i due ruoli […] e l’identificazione fra i due si manifesta nelle parole di Lear stesso quando alla fine rientra in scena portando in braccio il corpo del ragazzo-Cordelia, giovane corpo asessuato dalla morte».
Con questa tragedia il teatro è, dunque, non solo cronaca del tempo o specchio della natura, ma strumento per capire e conoscere l’individuo, microcosmo di inaudita complessità, le cui azioni si intrecciano con le forze del bene e del male presenti nella realtà. Ecco così che in  «Re Lear» trova un senso ancora più intenso e ricco un’espressione nota del Bardo: «Tutto il mondo è un palcoscenico».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Johann Heinrich Füssli , «Re Lear caccia Cordelia» («Re Lear», Atto I, Scena I), 1784-1790. Toronto, Art Gallery of Ontario; [fig. 2] William Dyce, «Re Lear e il Matto nella tempesta» («Re Lear», III, 2), c. 1851. Edimburgo, National Gallery of Scotland; [fig. 3] James Barry, «Re Lear piange la morte di Cordelia» («Re Lear», V, 3), 1786-88.  Londra, Tate; [fig. 4] James Barry, «Re Lear piange la morte di Cordelia» («Re Lear», V, 3), 1774. Dublino, The John Jefferson Smurfit Foundation.