ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

giovedì 15 dicembre 2016

«Andrea Doria», la storia della «nave più bella del mondo» in mostra a Genova

«Un pezzo d’Italia se ne è andato, con la terrificante rapidità delle catastrofi marine e ora giace nella profonda sepoltura dell’oceano. Proprio un pezzo d’Italia migliore, la più seria, geniale, solida, onesta, tenace, operosa, intelligente». Così il 27 luglio del 1956 lo scrittore Dino Buzzati parlava, sul quotidiano «Il Corriere della Sera», dell’«Andrea Doria», la «nave più bella del mondo» che nella notte tra il 25 e il 26 luglio era bruscamente affondata nel suo viaggio tra Europa e America.
A sessant’anni dal naufragio, il Mu-Ma - Galata Museo del mare di Genova e la Fondazione Ansaldo ricostruiscono, attraverso una mostra che si basa sui documenti ritrovati , la storia di quell’imbarcazione leggendaria, vanto della marineria italiana, la cui costruzione segnò l’inizio di una nuova era, quella caratterizzata dall’italian style come cifra dell’eleganza sul mare e del bel vivere. L’«Andrea Doria», che qualche critico considerò un anticipo di Dolce Vita, era, infatti, «una nave dove, per la prima volta in Italia, -si legge nella nota stampa- ingegneri e architetti avevano lavorato insieme e, gli architetti, avevano avuto negli artisti incaricati delle decorazioni, in primis Salvatore Fiume, dei ‘complici’, per creare un’atmosfera, un climax, che non si sarebbe più ripetuto».
L’esposizione vuole essere, secondo uno stile ormai consolidato al Galata, una Doria Experience. Nel museo genovese sono, infatti, stati ricostruiti alcuni ambienti del transatlantico a partire dalla prora, riprodotta in scala 1:5, che incombe sul visitatore mentre le pareti della mostra lo avvolgono come se si trattasse delle fiancate stesse della grande nave, segnata dalle linee bianche e rosse dello scafo.
L’esposizione è scandita dai portali presenti sulle rampe inclinate che conducono al Mirador, uno degli spazi architettonicamente più affascinanti dell’edificio genovese, rimodellato nel 2004 dall’architetto spagnolo Vazquez Consuegra.
Il primo dei portali introduce alla genesi del Doria, costruita nel secondo Dopoguerra, in un contesto caratterizzato da una marina mercantile azzerata e da una cantieristica sopravvissuta a stento.
La seconda sezione investiga l’aspetto artistico e architettonico: con fotografie e ricostruzioni 3D di alcuni degli ambienti più prestigiosi della nave come la «Suite dello Zodiaco», dove tutti gli elementi d’arredo, dalle tende ai copriletto, dal telefono alla tavoletta del wc erano disegnati nello stesso stile.
Il terzo portale è dedicato al varo e al maiden voyage, il «viaggio della vergine», ovvero la prima traversata dell’Atlantico, dove la nuova nave debuttava e, a seconda della sua accoglienza, si capiva quale sarebbe stato il suo successo di pubblico.
Per sei giorni gli ospiti del transatlantico passavano un periodo di estraniazione dalla vita comune, fatto di attività sociali a bordo, di giochi, di cucina, di letture, di bagni di sole e molta, molta piscina (l’«Andrea Doria» aveva addirittura tre vasche, una per ogni classe, secondo un lido digradante che era la vera particolarità dei transatlantici italiani).
La sezione successiva mostra il vero gioiello dell’esposizione: un modello di sei metri del transatlantico, realizzato dalla ditta Giacomo Patrone nel 1952 per essere esposto negli atri delle principali stazioni ferroviarie italiane. Ritrovato dal curatore del Galata, Pierangelo Campodonico, nella fine degli anni Novanta e donato dalla Finmare, prima della sua liquidazione, il modellino, al quale è affiancata in mostra la ricostruzione di una parte del ponte di passeggiata della nave, è stato completamente restaurato dal modellista Cambiassi di Genova.
La quinta sezione è più tecnica: spiega, attraverso un filmato realizzato appositamente dallo Studio ToonTaun, la cinematica del viaggio, proponendo una sorta di conto a rovescio che mostra, sulla base dei verbali e della documentazione esistente, che cosa avvenne prima del naufragio, che cosa è stato visto e fatto nei due ponti di comando e, infine, grazie alla visione dei tracciati di rotta, la prova che scagiona definitivamente il comando italiano. «La collisione -si legge nella nota di presentazione della mostra- avvenne in un tempo brevissimo, in seguito a una decisione sbagliata presa a bordo della nave investitrice, non più tardi di due minuti prima. Il tempo del destino».
La settima sezione è dedicata all’equipaggio. Attraverso la ricostruzione dei dialoghi che, nella notte avvennero tra le navi soccorritrici e il «Doria», il Galata vuole rappresentare quella che è stato considerato il più grande (e il più riuscito) salvataggio in mare della storia. Se è vero che parte dei cinquecentosettantuno membri dell’equipaggio si mise in salvo non appena ne ebbe la possibilità è vero che chi rimase, gli ufficiali, i macchinisti, i marinai e molti tra i camerieri e gli addetti ai servizi generali, misero in salvo la gran parte dei passeggeri.
In quella notte, il comando di bordo e quarantasette, tra uomini e donne dell’equipaggio, «meritano un particolare riconoscimento per il lodevole comportamento tenuto»: quella notte le scialuppe del «Doria» salvarono il 70% dei naufraghi e questo perché andarono avanti e indietro, senza sosta. E il manifesto della mostra è dedicato a loro: una foto, inedita, che mostra la scialuppa n. 5, una delle ultime a fermarsi, i volti dell’equipaggio con il comandante Piero Calamai, a guardarsi e a guardare la nave che affonda.
L’ottava sezione rappresenta l’impatto che la vicenda del «Doria» ebbe sui mass-media. L’affondamento del transatlantico italiano fu, infatti, la prima «tragedia in diretta» della storia: la radio, le televisioni, immortalarono attimo per attimo l’evento. Il fotografo Harry Trask conseguì il «Pulitzer Price» per le immagini scattate negli ultimi istanti della nave a galla. I giornali ne parlarono con le loro edizioni speciali, settimanali come «Life» ed «Epoca» fecero servizi che passarono alla storia del giornalismo.
Un’ultima sezione rappresenta il «Doria dopo il Doria» ed è la ricostruzione e la riflessione su ciò che avvenne dopo: le polemiche, la causa in tribunale, il processo che non si tenne mai, ma anche la storia della marineria italiana negli anni successivi. Il «Doria» rappresentò, infatti, il breve «canto del cigno» di un’epoca e di un mondo. La «nave più bella del mondo» non avrebbe, infatti, avuto eredi.

Informazioni utili 
«T/N Andrea Doria, lanave più bella del mondo». Galata Museo del Mare, Calata De Mari, 1 (Darsena - via Gramsci) – Genova. Orari: da novembre a febbraio  - martedì–venerdì, ore 10.00 – 18.00 (ultimo ingresso, ore 17.00); sabato, domenica e festivi, ore 10.00 – 19.30  (ultimo ingresso 18.00) | da marzo a ottobre  - lunedì-domenica, ore 10.00 – 19.30  (ultimo ingresso 18.00). Ingresso (solo museo): intero  € 12,00, gruppi € 9,00, ridotto € 10,00, ragazzi dai 4 ai 12 anni  7,00, scuole € 5,50, bimbi 0-3 anni gratuito. Sito internet: www.galatamuseodelmare.it. Fino al 30 maggio 2017. 

mercoledì 14 dicembre 2016

Reggia di Caserta, tre installazioni site-specific sulla Natività

La Natività, il numero tre legato alla Trinità, ma anche un concetto laico di rinascita e rinnovamento: sono questi gli elementi che compongono il progetto espositivo «The Rebirth Triad», ideato, promosso e realizzato dall’agenzia di comunicazione Uncommon di Milano e dalla Galleria Intragallery di Napoli, con la curatela di Chiara Canali.
La mostra, che si avvale del patrocinio di Michelangelo Pistoletto e del Rebirth Day da lui ideato, allinea negli spazi della Sala delle Battaglie di Spolverini alla Reggia di Caserta tre installazioni site-specific elaborate da Vincenzo Marsiglia, Anita Calà e Lapo Simeoni.
Il progetto, visibile fino al prossimo 8 gennaio, nasce con lo scopo di creare un dialogo profondo tra una delle residenze reali più importanti non solo in Italia ma anche nel mondo, spesso lasciata in secondo piano, con l'arte contemporanea.
Traendo spunto dal presepe settecentesco custodito nell’Appartamento Reale della Reggia, per il quale è stato realizzato un nuovo impianto illuminotecnico, Chiara Canali ha invitato tre artisti a reinterpretare il concetto di Natività in senso laico, parlando di nascita e di ri-nascita anche in senso culturale.
Le sculture di Vincenzo Marsiglia (1972, Belvedere Marittimo), con la loro imponente struttura esagonale in legno, sono forme di interazione che contengono nel loro interno un mondo artificiale e tecnologico: captato il volto del fruitore, un software nascosto all’interno legge le emozioni umane e genera suoni e forme diverse, mutevoli e immateriali, rispettando esternamente il cambiamento interiore dell’uomo.
L'opera di Anita Calà (1971, Roma) è formata da un grande ovale in resina trasparente, opaca all'interno e lucida all’esterno, che contiene al suo interno una sfera più piccola rossa; al di fuori si trova un’altra sfera rossa, identica a quella contenuta all’interno, in un rispecchiamento del dentro con il fuori.
Il progetto di Lapo Simeoni (1979, Orbetello) è costituito, invece, da una struttura a forma di anello che attraverso la sua forma e il suo contenuto evoca la trasposizione concreta del virtuale tradotto in reale, rendendo tangibile e materico quel portale (Internet) che rappresenta oggi lo scollegamento tra uomo e macchina.
Al tema della Ri-Nascita si rapporta il fil rouge dei simboli del cerchio e della luce, così come quello dell’infinito, sintetizzando il gesto creativo dell’artista che nelle sue mani fa risorgere e rinascere ciò che prima non aveva significato. Queste tre opere dialogano tra loro secondo il principio, formulato da Michelangelo Pistoletto, della Trinamica, cioè della dinamica del numero tre. Il simbolo-formula del triplo offre l'energia necessaria alla trasformazione della società a partire dall'arte, in quanto essa è fondamentalmente incentrata nella creazione e può portare la creazione nella società non solo come prodotto da fruire, ma come attività a cui partecipare.

Informazioni utili 
 «The Rebirth Triad». Reggia di Caserta, viale Dohuet – 81100 Caserta. Orario di visita: ore 8.30-19.30; chiusura biglietteria, ore 18.45; ultimo ingresso, ore 19.00. Ingresso: intero € 12,00 (solo appartamento € 9.00), ridotto € 6,00 (solo appartamenti € 4,00).  Informazioni: tel. (0039)0823-448084 o (0039)0823-277580. Sito internet: http://www.reggiadicaserta.beniculturali.it. Fino all'8 gennaio 2017. 

martedì 13 dicembre 2016

Venezia, tre giorni alla scoperta de «Il cinema ritrovato»

È nato nel 1986 a Bologna, ma da qualche anno ha varcato i confini del capoluogo emiliano. Stiamo parlando del festival «Il cinema ritrovato», un appuntamento importante a livello internazionale per gli appassionati, che porta alla riscoperta di pellicole poco note, con particolare riferimento alle esperienze delle origini del cinematografo.
Da mercoledì 14 a venerdì 16 dicembre la rassegna sbarca in Laguna, negli spazi del teatrino di Palazzo Grassi. A curare il programma della tappa veneziana sono Mariann Lewinsky e Antonio Bigini.
Ad aprire il cartellone è la mini-serie «Au pays des Lumière», due film dedicati al grande cinema francese delle origini con uno speciale omaggio ai fratelli Lumière, gli inventori del cinematografo, che tra il 1895 e il 1905 realizzarono ben centoquattordici film, recentemente restaurati in versione digitale in 4K con la voce narrante di Valerio Mastrandrea.
Ad inaugurare la serata, alle ore 18, è, nello specifico, il filmato «Lumière! La scoperta del cinema», girato da Thierry Frémaux nel 2015, che racconta come il duo di Lione, grazie alla sua macchina magica, ritrasse «città, paesaggi, uomini, donne, bambini, animali, il lavoro, il gioco, il mare, la folla, la solitudine»: un insieme di vedute che lascia ancora senza fiato.

A seguire, alle ore 20, ci sarà la proiezione del film «Les enfants du paradis» (Francia, 1943-1944, 189’) di Marcel Carné, un film vibrante di un'identità intima, segreta, disperata, il cui recente restauro, con tutti i suoi grigi e qualche luccicanza, ha accentuato - racconta Jacques Lourcelles- «il lato onirico, evanescente, di un'opera pronta ad affrontare l'eternità».
Giovedì 15 dicembre si prosegue con una serata consacrata alle «Donne e Dive» del cinema. Si inizia con un omaggio a Ella Maillart, fotografa e viaggiatrice svizzera che, mentre l'Europa sprofonda nella guerra, parte alla volta dell’Afghanistan e dell’India. La sua storia viene raccontata in un film di Mariann Lewinsky e Antonio Bigini: «Double Journey» (Svizzera, 2015, 40’). Seguirà, quindi, l'omaggio a Lyda Borelli con il film «Rapsodia satanica» di Nino Oxilia (Italia, 1915-1917, 45’), la storia di un'anziana dama dell'alta società, Alba d'Oltrevita, che stipula un patto con Mefisto per riacquistare la giovinezza in cambio della quale ha però il divieto di innamorarsi.
L'ultima parte della serata sarà, invece, dedicata al mito di Greta Garbo, protagonista della commedia romantica «Ninotchka» (USA, 1939, 110’).
Infine, venerdì 16 dicembre, il pubblico del teatrino di Palazzo Grassi sarà trasportato tra Mosca, Napoli e New York nel corso della serata dedicata ai «Viaggi».
Ad aprire la serata sarà la proiezione del film «Il treno va a Mosca» (Italia, 2013, 70’) di Federico Ferrone e Michele Manzolini, «un poema lirico, visivo, musicale, politico, umano, esistenziale, storico, comico, struggente –per usare le parole di Paolo Virzì- su cosa voleva dire il comunismo italiano e su cosa era l’Italia negli anni’50».
Seguirà la visione di una raccolta di preziosi «film dal vero» dei primi del Novecento restaurati dalla Cineteca di Bologna e da altri istituti italiani, per essere raccolti sotto il titolo di «Grand Tour italiano» (Italia, 45’), un raro viaggio dalla Sicilia al Cervino, in un’Italia sospesa tra Ottocento e modernità.
Sarà, quindi, la volta di grande capolavoro di Charlie Chaplin, «The Immigrant» (Usa, 1917, 25’); mentre a concludere la serata sarà «Viaggio in Italia» (Italia, 1954, 97’) di Roberto Rossellini.
Le tre serate veneziane, tutte a ingresso libero fino a esaurimento dei posti disponibili, sono organizzate in collaborazione con la Cineteca di Bologna che, fino al 30 gennaio, dedica ai fratelli Lumière una mostra a cura di Thierry Frémaux, nello Spazio Sottopasso di piazza Re Enzo, cuore del capoluogo emiliano.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] «Les enfants du paradis» di Marcel Carné. Francia, 1943- 1944, 189’; [fig. 2] «Ninotchka» di Ernst Lubitsch. USA, 1939, 110’; [fig. 3] «The Immigrant» di Charlie Chaplin. USA, 1917, 25’

Informazioni utili 
www.palazzograssi.it.

lunedì 12 dicembre 2016

Nicolas Party, la natura morta incontra la street art

La Marchese Antinori, famiglia toscana che ha legato il proprio nome all’eccellenza in campo viticolo, apre per la prima volta al pubblico le porte del suo palazzo fiorentino per un evento di arte contemporanea. Protagonista dell’appuntamento, in cartellone fino al 14 gennaio, è l’artista svizzero Nicolas Party (Losanna, 1980), la cui opera site-specific «Giant Fruit» è entrata ufficialmente a far parte della collezione permanente nella cantina di famiglia nel Chianti Classico.
Il lavoro, realizzato nel 2015 per la collettiva «Still-life Remix», raffigura una natura morta dai colori pop e dalle forme un po’ surreali, un vero e proprio inno a tutto ciò che la terra ci offre, in dialogo con l’architettura innovativa del luogo costruito con materiali naturali quali cotto, legno, acciaio corten e affacciato sulla bellezza dei vitigni dell’azienda.
Per celebrare questa importante acquisizione, la storica sede fiorentina di Palazzo Antinori ospita il progetto speciale «Nicolas Party in the Garden Room», curato da Ilaria Bonacossa.
L’artista svizzero presenta qui una serie di lavori prodotti tra il 2013 e il 2016. Si tratta di un insieme di sei opere pittoriche, tre nuovi acquerelli e altrettanti sassi-scultura, che illustrano come il genere della natura morta sia oggi più che mai vivo e capace di trasmettere emozione.
L’artista si riappropria così, con ironia, di un’iconografia classica. I suoi lavori lasciano, infatti, ben trasparire come i valori della composizione e dell’equilibrio cromatico siano reinventati, completamente trasformati e tradotti nella contemporaneità, per conservare l’efficacia dell’indagine.
La volontà di Nicolas Party di rimescolare i limiti tra arte e decorazione rendono i suoi interventi negli spazi ancora più incisivi. Per questo motivo la scelta di presentare le opere nella boschereccia, la saletta di palazzo Antinori completamente affrescata alla fine del Settecento con vedute tratte da un paesaggio bucolico e boschivo, diventa una dichiarazione d’intenti e si inserisce in maniera puntuale nella pratica artistica di questo giovane talento.
L’idea di trasformare gli affreschi del paesaggio toscano in una sorta di carta da parati che faccia da sfondo agli acquerelli esposti, nasce dal fatto che Nicolas Party, artista che ha iniziato il proprio iter creativo dipingendo sui vagoni dei treni e negli spazi urbani degradati, spesso ha dipinto gli sfondi prima di allestire le sue opere sulle pareti mettendo così in discussione il rapporto tra opera unica e decorazione e tra prospettiva e bidimensionalità.
Ceramiche e stoviglie sono soggetti ricorrenti nella produzione dell’artista e denotano il suo interesse nei confronti dei precedenti storici della pittura, richiamando alla memoria pittori come Giorgio Morandi. Tuttavia i dipinti e i pastelli di Nicolas Party, connotati da proporzioni spesso improbabili, sono portati in vita da sfumature di colori brillanti e vitali capaci di alterare, trasformare e attivare le più svariate superfici, pietre comprese; in tutti si respira il suo inizio da street artist.
In occasione della mostra sarà presentata al pubblico anche la nuova opera site-specific dell’«Antinori Art Project» nella cantina di Bargino: «Portal del Angel» dello scultore Jorge Peris.
Il tutto si iscrive in una tradizione secolare della famiglia Antinori di passione per l’arte che –oggi come allora– si impegna a tutto campo per realizzare una forte connessione tra le migliori espressioni della tradizione e della contemporaneità.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Facciata di Palazzo Antinori a Firenze; [fig. 2] Nicolas Party, Giant Fruit, 2015 – 2016, Cantina Antinori , Bargino, Chianti Classico; [fig. 3] Nicolas Party, Two Pots, 2016, pastel on canvas. Courtesy of the artist and kaufmann repetto, Milano-New York

Informazioni utili 
«Nicolas Party in the Garden Room». Palazzo Antinori, piazza degli Antinori, 3 – Firenze. Orari: lunedì-venerdì, ore 8.00-19.00. Ingresso libero. Antinori nel Chianti Classico, via Cassia per Siena, 133 - Località Bargino (Firenze), tel. 055.2359700 o visite@antinorichianticlassico.it. Sito internet: www.antinorichianticlassico.it. Fino al 14 gennaio 2017. 

mercoledì 7 dicembre 2016

La Scuola di Rivara, un momento magico dell’Ottocento pedemontano in mostra a Torino

È un percorso alla scoperta dei pittori che, a vario titolo e in tempi anche diversi, frequentarono il «cenacolo di Rivara», orbitante intorno alla figura di Carlo Pittara, quello proposto dal Museo di arti decorative Accorsi –Ometto di Torino.
La mostra, a cura di Giuseppe Luigi Marini, comprende circa settanta opere provenienti da collezioni private italiane, selezionate secondo un elevato criterio qualitativo e storico.
Dodici sono gli artisti presentati, provenienti da diverse regioni italiane e non solo, a sottolineare l’importanza di una stagione artistica che supera i confini regionali. Accanto ai piemontesi Carlo Pittara, Vittorio Avondo, Ernesto Bertea, Federico Pastoris (a cui si aggiungeranno più tardi i torinesi Giovanni Battista Carpanetto, Adolfo Dalbesio e Francesco Romero, di Moncalvo) sono presenti artisti liguri (Ernesto Rayper e Alberto Issel) o “naturalizzati” come tali (gli iberici D’Andrade e De Avendaño), nonché il fiorentino di natali, ma giunto a Torino in tenera età, Antenore Soldi.
Il momento che essi rappresentano è caratterizzato dalla ricerca di un sensibile realismo nella rappresentazione del paesaggio agreste, con accenti diversi, ma improntati dalla comune attenzione prima al paesismo ancora intriso di romanticismo dello svizzero Alexandre Calame (che quasi tutti conobbero inizialmente a Ginevra), presto attratti dal paesismo dei pittori di Barbizon in Francia e dalle novità di Corot e dal linguaggio fontanesiano attraverso contatti diretti, poi rinnovati negli anni di Rivara, con il maestro reggiano a Volpiano, tramite anche le esortazioni del ligure Tammar Luxoro.
Il confronto tra i pittori iberici e quelli liguri iniziò dapprima negli incontri a Carcare, nel Savonese, poi, sopratutto d’estate o in autunno, a Rivara, dove il lavoro gomito a gomito ebbe momenti catalizzanti, specie dopo l’inserimento nel gruppo di Rayper, su esortazione di D’Andrade. La scelta di confrontarsi con il paesaggio di Rivara avvenne non solo per l’amenità del dolce paesaggio agreste, ma perché tutti potevano godere della generosa ospitalità del banchiere Carlo Ogliani, cognato di Pittara, rivarese d’origine e proprietario di un’accogliente villa, poi anche del vasto castello acquistato all’inizio degli anni Settanta.
L’abituale consuetudine dei gioviali incontri, che connotò la rivoluzione realista di quei compagni di cavalletto, ebbe il proprio momento di maggiore vitalità e di fulgore a cavallo del 1870, sino alla precoce morte di Rayper nel 1873 e a uno stillicidio di abbandoni alla fine del decennio, tra cui quello, parziale, dello stesso Pittara, che ritroviamo a Roma nel 1877 e a Parigi dopo il 1880 (anche se di ritorno a Rivara ogni anno per qualche mese). Valorizzata in primis dal poeta Giovanni Camerana, poi dai critici Emilio Zanzi, Marziano Bernardi e in ultimo e autorevolmente da Roberto Longhi, l’importanza della cosiddetta Scuola di Rivara era già stata riconosciuta da Telemaco Signorini che, tuttavia, dimenticò Pittara per sottolineare il ruolo innovatore di Ernesto Rayper, indubbiamente la figura più dotata del gruppo. Anche se Carlo Pittara fu il più produttivo e vario, sebbene discontinuo, realista del cenacolo pedemontano, progressivamente attratto dalla finezza e dal successo del linguaggio denittisiano; e curioso delle più dolci eleganze di una pittura narrativa.
A questa epopea tardo-ottocentesca, che seppe definitivamente accantonare la ridondanza della pittura di storia e i ritardi di gusto dell’insegnamento accademico con un’espressione gioviale e sincera della realtà, la verde Rivara ha legato per sempre il proprio nome: luogo di una pacifica, osteggiata a lungo ma definitiva rivoluzione che ha segnato l’attualità della pittura piemontese, ligure e, in parte, attraverso Gignous, lombarda del maturo Ottocento.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Carlo Pittara, Rive della Senna. 1884. Olio su tela, cm 38 x 56. Collezione privata; [fig. 2] Giovanni Battista Carpanetto,Fiori raccolti. 1892. Olio su tavola, cm 32,5 x 48,5. Collezione privata; [fig. 3]Ernesto Rayper, Primavera. Olio su tavola, cm 52 x 38

Informazioni utili
Carlo pittara e la scuola di Rivara. Museo di Arti Decorative Accorsi – Ometto, via Po, 55 - Torino. Orari: da martedì a venerdì, ore 10.00–13.00 e ore 14.00–18.00; sabato e domenica, ore 10.00–13.00 e ore 14.00–19.00; lunedì chiuso. Ingresso: intero € 8,00, ridotto € 6,00 o € 4,00 (con abbonamento Torino Musei). Informazioni: tel. 011.837.688 int. 3; info@fondazioneaccorsi-ometto.it. Sito internet: www.fondazioneaccorsi-ometto.it. Fino all'8 gennaio 2016. | Mostra prorogata fino al 12 febbraio 2016. 

martedì 6 dicembre 2016

«Mindful Hands», un viaggio tra i capolavori miniati della Fondazione Cini di Venezia

È una mostra preziosa quella che la Fondazione Giorgio Cini di Venezia presenta sotto il titolo di «Mindful Hands». La preziosità di questa esposizione, il cui allestimento è stato curato dallo studio Michele De Lucchi, è data da due elementi: è la prima volta, dopo più di trentacinque anni, che viene esposta al pubblico grande parte della collezione di miniature medioevali e rinascimentali acquisite da Vittorio Cini tra il 1939 e il 1940 dalla Libreria Antiquaria Hoepli di Milano e donate alla fondazione nel 1962. L’esposizione rappresenta, poi, il momento conclusivo di un progetto scientifico di schedatura e di catalogazione, durato oltre tre anni, che ha coinvolto più di quaranta studiosi e restauratori, coordinati da Federica Toniolo, Massimo Medica e Alessandro Martoni.
Circa centoventi delle duecentotrentotto miniature della collezione di Vittorio Cini, una delle più importanti raccolte private al mondo di questo genere, sfilano così, ora, nelle Sale del Convitto in una mostra, della quale rimarrà documentazione in un catalogo generale e in una guida breve. La rassegna, visitabile fino al prossimo 8 gennaio, segue un andamento cronologico e geografico, offrendo una visione generale delle principali scuole di miniature italiane tra XII e XVI secolo.
Per l’occasione, lo Studio Michele De Lucchi ha concepito un allestimento che si ispira agli ambienti e alle atmosfere della tradizione miniaturistica medievale, ma li traduce in chiave contemporanea. In particolare il grande spazio espositivo centrale delle Sale del Convitto risulta ridimensionato grazie a oggetti espositivi architettonici creati ad hoc: grandi nicchie in tessuto chiaro che ricreano lo spazio delle cappelle delle chiese gotiche e cassettiere ottagonali in rovere massiccio, imponenti ma funzionali.
Nelle quattro grandi cassettiere e nelle nove nicchie dell’allestimento sono stati, nello specifico, raggruppati nuclei di fogli e ritagli di iniziali provenienti dagli stessi volumi o riconducibili a maestri e botteghe affini, mentre quattro vetrine su piedistallo mostrano eccezionali manoscritti miniati ancora integri. Lungo la parete a sinistra dell’ingresso un’infilata di vetrine ospita fogli interi e frammenti di particolare bellezza e importanza.
L’esposizione offre, poi, al visitatore l’opportunità di conoscere da vicino due dei volumi più importanti e rari della collezione: il Martirologio della confraternita dei Battuti Neri di Ferrara, manoscritto quattrocentesco in cui le meditazioni sulle sofferenze di Cristo sulla croce sono alternate a miniature con immagini della Passione e di martiri di santi, e il piccolo (6x3 cm) ma preziosissimo Offiziolo di Carlo VIII, commissionato alla fine del XV secolo dal duca di Milano Federico il Moro per donarlo al re di Francia, uno dei più raffinati libri d’ore (volumi per la preghiera personale quotidiana) di area lombarda. Il senso della mostra è, inoltre, esemplificato dall’esposizione di un libro di grande importanza per la storia di San Giorgio Maggiore e della Fondazione: l’Antifonario (libro che contiene le parti cantate della liturgia) comune dei Santi, denominato «Q», appartenente alla basilica benedettina di San Giorgio Maggiore e prestato in occasione di «Mindful Hands».
L’atelier Factum Arte di Adam Lowe, esperto di tecniche digitali applicate alla conservazione, alla riproduzione e alla lettura delle opere d’arte, ha, invece, accettato la sfida di confrontarsi con i grandi maestri artigiani del passato nella realizzazione di una serie di vere e proprie installazioni artistiche multimediali, protagoniste dell’ultima sezione della mostra, dedicata all’analisi e alla comprensione delle tecniche di produzione del manoscritto miniato.
Il visitatore viene accolto da una grafica che illustra la storia della tecnica miniatoria e assiste alla proiezione del video «Cuttings», che documenta con sole immagini e suoni in presa diretta la genesi del foglio di pergamena, la realizzazione dei pigmenti e dei colori, le tecniche di decorazione e rilegatura. Si entra, quindi, nell’ultima sala della mostra, caratterizzata da un allestimento scenografico che richiama l’atmosfera dei monasteri medievali.
La prima parte è dedicata all’Offiziolo: la parete sinistra è interamente occupata da un’imponente installazione che affianca ingrandimento e riproduzione in scala 1:1 di ciascuna delle pagine miniate del volume, mentre un video illustra le tecniche di scansione e di realizzazione del facsimile, che i visitatori potranno toccare con mano e sfogliare in un piccolo salotto.
La seconda parte della sala evoca, invece, l’atmosfera dei percorsi penitenziali e meditativi della medievale confraternita dei Battuti Neri di Ferrara e il senso profondo di uno dei libri a essa in uso, il Martirologio: qui il visitatore si trova attorniato dagli ingrandimenti monumentali di dieci delle miniature più emblematiche racchiuse nel codice. Oltre alla penombra in cui è immersa, la sala acquista drammaticità per l’intreccio con una potente installazione sonora: le registrazioni di un canto prepolifonico curato a metà del secolo scorso da padre Pellegrino Ernetti, monaco benedettino del monastero di San Giorgio Maggiore e noto musicologo, “purificate” grazie alle più moderne tecnologie audio, sintetizzate e unite alla musica di altri periodi e tradizioni che richiamano il tema del martirio. La scelta di un’installazione dedicata al canto si lega alla natura stessa dei volumi da cui proviene la quasi totalità dei pezzi della collezione Cini, rappresentati appunto da fogli o ritagli di libri per il coro.

Didascalie delle immagini 
[Fig. 1] Belbello da Pavia, foglio staccato da Antifonario con Annunciazione in iniziale M (1467-1470); [fig. 2] Franco dei Russi, foglio staccato da Antifonario con Lapidazione di Santo Stefano in iniziale; [figg. 3 e 4] Veduta interna della mostra «Mindful Hands»

Informazioni utili 
Mindful Hands. I capolavori miniati della Fondazione Giorgio Cini. Fondazione Cini, Isola di San Giorgio Maggiore - Venezia. Orari: ore 11.00 – 19.00; chiuso il mercoledì. Ingresso: intero 12,00, ridotto € 10,00 o € 7,00. Informazioni: tel. 041.2710229 o segr.gen@cini.it. Sito internet: www.cini.it. Fino all'8 gennaio 2017. 

lunedì 5 dicembre 2016

Carol Rama tra passioni e inquietudini

I «vantaggi di essere una donna artista» consistono nel «sapere che la tua carriera potrebbe esplodere quando hai ottant’anni». La dichiarazione del gruppo Guerrilla Girls ben si sposa con quanto è successo a Carol Rama (Torino, 1918-2015), autrice ignorata a lungo dalla storia dell’arte ufficiale per sua rappresentazione dissidente della sessualità femminile, la cui opera è stata riconosciuta a livello internazionale solo nel 2003, con il Leone d’oro della Biennale di Venezia.
Carol Rama è, però, un’artista indispensabile per comprendere i mutamenti della rappresentazione pittorica nel XX secolo e, nel contempo, il lavoro di autrici quali Cindy ShermanKara WalkerSue WilliamsKiki Smith o Elly Strik.
Di grande interesse si rivela, dunque, la mostra, a cura di Teresa Grandas e Paul B. Preciado, che la Gam – Galleria civica d’arte moderna e contemporanea di Torino dedica all’artista e che ne segna la consacrazione internazionale attraverso l’esposizione di circa duecento opere che abbracciano settant’anni di carriera (dal 1936 al 2005), delle quali rimarrà documentazione in un catalogo edito da Silvana editoriale.
Nata nel 1918 da una famiglia di piccoli industriali torinesi, priva di una formazione artistica accademica, Carol Rama lascia nella sua opera giovanile l’impronta dell’esperienza della reclusione in istituto (fu probabilmente la madre a essere internata in un ospedale psichiatrico) e della morte (il padre, con ogni probabilità, si suicidò).
Negli anni Trenta e Quaranta l’artista inizia a inventare una grammatica visiva tutta sua, attraverso acquerelli figurativi. Nelle serie «Appassionata e Dorina» appaiono membri amputati e lingue erette: sono i corpi malati e istituzionalizzati cui l’opera dell’artista darà visibilità, esaltandoli attraverso una rappresentazione vitalista e sessualizzata e restituendoli come soggetti politici e di delizia. Queste opere del primo periodo si ribellano alle norme dei codici etici imposti dall’Italia fascista. Leggenda vuole che alcuni lavori dell’epoca, esposti per la prima volta nel 1945, furono censurati per «oscenità» dal governo italiano.
Nel decennio degli anni Cinquanta l’artista si associa al Movimento di arte concreta per dare, secondo la sua stessa espressione, «un certo ordine» e «limitare l’eccesso di libertà». Poco a poco si disfa, però, delle convenzioni geometriche del Mac e inizia a sperimentare con nuovi materiali e nuove tecniche. La svolta verso l’astrazione la porta a giocare, negli anni Sessanta, con l’arte informale e lo spazialismo e a sviluppare i suoi bricolage: mappe organiche fatte di unghie, cannule, segni matematici, siringhe e componenti elettrici. Queste opere, fatte per essere «sperimentate» con tutti i sensi più che semplicemente viste, riorganizzano in maniera aleatoria materiali organici e inorganici, includendo parole e nomi quali Bomb, Mao Tse-Tung o Martin Luther King.
Alla fine degli anni Sessanta, il mondo dell’arte sia italiano sia internazionale è soprattutto attraversato dalle opere di artisti uomini e pertanto la sua ricerca rimane isolata.
All’incrocio tra arte povera, junk art e Nouveau Réalisme, l’opera dell’artista torinese è più viscerale e più sporca che povera. Carol Rama aveva, infatti, capito che non solo gli oggetti inorganici dovevano essere recuperati attraverso un nuovo incontro utopico con la materia, ma che il corpo stesso, i suoi organi e fluidi, oggetti della gestione politica e del controllo sociale, dovevano anch’essi essere sottoposti a un recupero plastico.
Negli anni Settanta, l’artista si ricollega alla sua biografia attraverso l’intensità dei materiali. È in quest’epoca che impiega quasi esclusivamente la gomma proveniente dagli pneumatici delle biciclette, materiale che conosce bene poiché il padre aveva avuto una piccola fabbrica che tra l’altro produceva biciclette a Torino. Carol Rama disseziona gli pneumatici, li trasforma in superfici bidimensionali, crea forme attraverso l’assemblaggio di diversi colori e tessiture. Gli pneumatici, invecchiati dalla luce e dal tempo, sgonfiati, flaccidi e in decomposizione sono, al pari dei nostri corpi, «organismi ancora ben definiti e vulnerabili».
Nel 1980 la storia e critica d’arte Lea Vergine, alla quale si deve la riscoperta dell’artista, include una selezione dei suoi primi acquerelli nella mostra collettiva «L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940», in cui riunisce opere di oltre un centinaio di artiste.
Negli stessi anni Carol Rama riprende alcuni temi iconografici degli inizi, tornando alla figurazione.
Nel decennio successivo non ricorre più a figure della femminilità, bensì alla figura dell’animale malato affetto da encefalopatia spongiforme bovina: la mucca pazza. Gli elementi e motivi caratteristici di Carol Rama -il caucciù, le tele dei sacchi postali, i seni, le lingue, i peni, le dentature- si riorganizzano per formare un’anatomia distorta che non può più costituire un corpo. Ciò nonostante, Rama si spingerà fino a definire questi lavori non-figurativi come autoritratti. Un percorso, dunque, interessante quello della mostra torinese che racconta come Carol Rama abbia visto l’arte come un modo per esorcizzare inquietudini esistenziali e paure. Lei stessa diceva, infatti, «la mia sicurezza esiste solo davanti a un foglio da riempire. Il lavoro è l’unico modo di togliermi le paure. La mia trasgressione è la pittura».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Carol Rama, Nonna Carolina, 1936. Acquerello su carta, 24 x 35 cm. Proprietà della Fondazione per l'Arte Moderna e Contemporanea-CRT in comodato presso la Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea, Torino e presso il Castello di Rivoli Museo d'Arte Contemporanea, Rivoli-Torino. Photo: Roberto Goffi, Torino; [fig. 2] Carol Rama, La macelleria, 1980. Tecnica mista su tela, 120 x 120 cm. Collezione privata; [fig. 3] Carol Rama, Lusinghe, 2003. Tecnica mista e incisione su carta foderata, 25 x 35 cm. Collezione Charles Asprey, Londra. Photo: Andy Keate; [fig. 4] Carol Rama, Appassionata, 1940. 41.5 x 30.5 cm, Acquerello e matita su carta. Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris - GAM – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Torino

Informazioni utili 
La passione secondo Carol Rama. GaM - Galleria civica d’arte moderna e contemporanea, via Magenta, 31 – Torino. Orari: martedì – domenica, ore 10.00-18.00; chiuso lunedì | la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso: € 10,00, ridotto € 8,00. Informazioni: tel. 011. 4429518 o gam@fondazionetorinomusei.it. Sito internet: www.fondazionetorinomusei.it. Fino al 5 febbraio 2017. 

venerdì 2 dicembre 2016

Paolo Venini e la sua fornace in mostra a Venezia

È dedicata a Paolo Venini (1895-1959) la nuova mostra del progetto «Le stanze del vetro», ideato dalla Fondazione Giorgio Cini di Venezia con Pentagram Stiftung. Fino al prossimo 8 gennaio lo spazio espositivo sull’isola di San Giorgio Maggiore ospita trecento opere uscite dalla fornace dell’imprenditore milanese di nascita e muranese d’adozione, che ha scritto nel Novecento un’importante pagina della storia del vetro italiano e internazionale, in compagnia di artisti come Tyra Lundgren, Gio Ponti, Riccardo Licata, Ken Scott, Massimo Vignelli e Tobia Scarpa.
Paolo Venini, dopo una prima esperienza con Giacomo Cappellin nella V.S.M. Cappellin Venini & C. (1921-1925), fondò nel 1925 la vetreria V.S.M. Venini & C. con Napoleone Martinuzzi e Francesco Zecchin. Divenuto in seguito presidente della società, operò instancabilmente come grande regista e direttore della ditta fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 1959. Nel corso di quarant’anni di attività si avvalse della collaborazione di grandi artisti come lo scultore Napoleone Martinuzzi, gli architetti Tomaso Buzzi e Carlo Scarpa e il designer Fulvio Bianconi. Ma Paolo Venini, imprenditore colto e interessato sia ai fermenti artistici coevi sia alle esigenze del mercato internazionale, intervenne anche come ideatore di nuove serie di vetri, avvalendosi del proprio ufficio tecnico e contribuendo all’articolato catalogo della vetreria che vide comunque l’intervento di più autori.
Grazie a un attento lavoro di ricerca, la mostra veneziana, con il relativo catalogo edito da Skira, documentano la produzione nata da specifiche scelte di Paolo Venini che hanno portato ad esempio, a serie come i vetri Diamante in cristallo, nella seconda metà degli anni Trenta. È, però, negli anni Cinquanta che l’imprenditore si dedicò con assiduità alla creazione di nuovi vetri ottenendo un grande successo alla Triennale di Milano e alla Biennale di Venezia, ma anche nelle manifestazioni internazionali a sostegno e per la diffusione del design e dell’artigianato italiano che si tenevano sia in Europa che negli Stati Uniti.
Diversi vetri pensati da Paolo Venini nacquero da una raffinata rilettura in chiave innovativa di alcune tecniche tradizionali muranesi come quella dello zanfirico di cui vennero proposte alcune varianti soprattutto tra il 1950 e il 1954. Esemplari sono gli eleganti zanfirici (1950-51) in vetro lattimo o in versione policroma, gli elaborati zanfirici a reticello (1954), monocromi e talvolta ricchi di colore, insieme ai vetri mosaico zanfirico (1954) impreziositi dall’articolata trama bianca che risalta sulla parete colorata. Di grande effetto sono, poi, i vetri mosaico tessuto multicolore (1954), caratterizzati da un’inedita tessitura a fili policromi con tonalità delicate.
Dal 1953 vi fu una ripresa della tecnica della murrina che portò progressivamente alla nascita di ricercate tipologie di tessuto vitreo, perlopiù opaco, (a dame, mezzaluna, a puntini) eseguito con suggestivi accostamenti cromatici. Risentendo dell’influsso del design nordico, la produzione si orientò poi verso delicate monocromie associate a velature o incisioni dovute a lavorazioni a freddo che portarono alla cospicua serie dei vetri incisi (1956-57). Di grande successo, in quegli stessi anni, furono inoltre la variopinta serie di bottiglie e le coloratissime vetrate presentate alla Triennale del 1957, dove si distinsero per il notevole effetto decorativo.
Pur mettendo al centro dell’esposizione la straordinaria personalità e il ruolo di Paolo Venini, la mostra vuole illustrare anche la produzione dovuta agli autori che collaborarono con lui in maniera episodica tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, chiamati dallo stesso Venini o giunti perché interessati alla qualità del lavoro della sua fornace. Alla metà degli anni Trenta risale la collaborazione con la ceramista svedese Tyra Lundgren (1897-1979) che, oltre ad alcuni vasi, propose un ricco bestiario di volatili, pesci, serpenti, e diverse foglie dalle fogge variegate; del Dopoguerra sono le fantasiose bottiglie, i servizi da tavola e le lampade dell’architetto Gio Ponti (1891-1979).
Nella seconda metà del XX secolo transitarono per la vetreria il designer Piero Fornasetti (1913-1988), a cui si deve un originale servizio da tavola, e il pittore di origini russe Eugène Berman (1899-1972) che creò il centrotavola «Le rovine» in vetro trasparente. L’americano Ken Scott (1918-1989) ideò una coloratissima serie di pesci stilizzati in vetro opaco realizzata per il grande magazzino americano Macy’s, mentre Charles Lin Tissot (1904-1994), anch’egli statunitense, propose originali interpretazioni della tecnica dello zanfirico.
Alle sperimentazioni del pittore Riccardo Licata (1929-2014) si deve una piccola ma fortunata serie di vetri, esposti alla Biennale del 1956, caratterizzati da una fascia di murrine di sua ideazione. Dalla metà degli anni Cinquanta anche gli architetti Massimo Vignelli (1931-2014) e Tobia Scarpa (1935) parteciparono alla vita della Venini: il primo, tra il 1954 e il 1958, si dedicò all’illuminazione e ai servizi da tavola, il secondo, tra il 1959 e il 1962, mise a disposizione la sua creatività ideando tra l’altro nuove serie in vetro murrino o battuto. I contatti con i paesi nordici, infine, portarono Paolo Venini a una breve collaborazione, interrotta dalla sua scomparsa, con la designer norvegese Grete Prytz (1917-2010), che realizzò alcuni gioielli in vetro e argento (1958-59).

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Paolo Venini, Vasi in vetro a murrine “a dame” (a scacchiera), 1953; [fig. 2] Paolo Venini, Vasi in vetro della serie "diamante”, 1934-36; [fig. 3] Paolo Venini, Vasi in vetro mosaico con “tessuto” multicolore, 1954; [fig. 4] Paolo Venini, Vasi della serie “incisi”, 1956-57

Informazioni utili
Paolo Venini e la sua fornace. Le stanze del vetro, Isola di San Giorgio Maggiore – Venezia. Oari: 10.00-19.00; chiuso il mercoledì. Ingresso libero. Informazioni: info@lestanzedelvetro.org, info@cini.it. Sito internet: www.lestanzedelvetro.org. Fino all’8 gennaio 2016. 

giovedì 1 dicembre 2016

Origgio: tre nuove opere per la «città delle sculture»

Non è un’etichetta semplice da portare quella di «città delle sculture» da poco assegnata a Origgio, paese del Varesotto, nel cui parco comunale hanno da poco trovato collocazione definitiva tre opere di altrettanti artisti contemporanei: Louise Bourgeois, Giovanni Rizzoli e Tristano di Robilant.
La cittadina alle porte di Milano entra così a far parte di quel ricco numero di musei en plein air nati negli ultimi decenni nel nostro Paese, principalmente grazie alla volontà di privati o di lungimiranti amministrazioni comunali, tra i quali si ricordano la Fiumara d’arte in Sicilia, il Marca in Calabria, il Parco di Pinocchio a Pescia, La Marrana a Montemarcello o Villa Verzegnis a Udine.
Il progetto di donazione delle tre opere alla Città di Origgio risale a una quindicina di anni fa: fu in quel periodo che una delegazione del comune varesino, noto agli artisti per la presenza dell’attiva fonderia artistica 3v di Walter Vaghi, si recò a New York e, grazie all’intercessione di Giovanni Rizzoli, chiese con una certa dose di audacia a Louise Bourgeois, allora novantenne, di realizzare una scultura per la città.
L’artista franco-americana assunse e mantenne quell’impegno, ideando un’opera che purtroppo non vide mai realizzata, dopo averne tuttavia modellato il prototipo: «The Couple» (2003).
L’opera, sospesa al ramo di un albero secolare, rappresenta un abbraccio dalle dimensioni imponenti –365,1 x 200 x 109,9 cm– e dal peso di circa 635 chilogrammi, che cattura lo sguardo per la sua gravità trasformata in leggerezza e per la tensione plastica sprigionata dai due corpi – novelli Paolo e Francesca di dantesca memoria – che si attraggono e respingono avvolti in una spirale che ne confonde forme e sembianze.
«Le figure si uniscono, l’una nelle braccia dell’altra -raccontava l’artista durante il disegno di «The Couple»-. Nulla potrà separarle. È uno stato precario e fragile. Malgrado tutti i nostri handicap, ci teniamo fra le braccia a vicenda. Quello che mi interessa veramente è il concetto dell’Altro. Si tratta di un punto di vista ottimistico. Incastrate assieme, vorticano per l’eternità».
Una tensione differente, più intima, è quella proposta dalla scultura «Naughty Girl» (2009-2010) di Giovanni Rizzoli: una gabbia che custodisce una giovane ragazza con ombrellino che, in ginocchio su un trespolo, come un uccellino esotico sembra cercare riparo e protezione da sguardi indiscreti, mentre leggera si accinge a compiere eleganti evoluzioni, «esprimendo un’emozione adolescenziale di coercizione e contentezza allo stesso tempo».
La leggerezza sembra essere il denominatore comune anche della terza scultura, «Elijah’s Cloud» (2012) di Tristano di Robilant.
La «nuvola di Elia» che «risolve anni di siccità», concepita in vetro soffiato e successivamente ingrandita fino a quasi tre metri e mezzo di altezza per la fusione in alluminio, sorge su un gambo di calice, quasi un bicchiere metaforicamente colmo d’acqua, pronto per essere rovesciato.
Un progetto, dunque, interessante quello realizzato da Origgio che entra così a pieno titolo tra i paesi che ospitano musei all’aperto e che può anche dire di essere l’unica città in Europa a esporre una scultura di Louise Bourgeois in uno spazio pubblico non museale.

Didascalie delle immagini 
[Fig. 1[ Louse Bourgeois, The Couple, 2003. Alluminio, scultura appesa, 365,1 x 200 x 109,9 cm. Installation view, Parco di
Origgio. © The Easton Foundation/SIAE; [fig. 2] Tristano Di Robilant, Elijah’s Cloud, 2012. Installation view, Parco di Origgio. Photo: Serena Clessi; [fig. 3] Giovanni Rizzoli, Naughty Girl, 2009-2010. Installation view, Parco di Origgio. Photo: Serena Clessi

Informazioni utili 
www.comune.origgio.va.it

mercoledì 30 novembre 2016

Loreto celebra Maria Maddalena

Da Simone Martini ad Antonio Canova: è un vaggio attraverso otto secoli di storia, dal Duecento a oggi, quello che propone la mostra «La Maddalena, tra peccato e penitenza», allestita a Loreto, negli spazi del Museo-Antico Tesoro della Santa Casa, in occasione del Giubileo 2016.
Una cinquantina di opere si propongono di illustrare la storia di questa donna che Tommaso d’Aquino aveva definito «apostola degli apostoli» e Gregorio Magno «peccatrice perfetta e assoluta, che diviene discepola di Cristo».
Prostrata ai piedi del Signore nell’atto di ungergli i piedi con essenze preziose, oppure dolente e piangente abbracciata al legno della croce, infine lieta di recare l’annuncio della Resurrezione agli apostoli, la figura della Maddalena, esempio paradigmatico di conversione, ha destato l’interesse dei maggiori artisti dal Medioevo al Neoclassicismo.
La mostra di Loreto, allestita fino all'8 gennaio, ne illustra vari momenti della vita attraverso una selezione di opere appartenenti alle collezioni marchigiane, a partire dalla tavola di Carlo Crivelli di Montefiore dell’Aso, uno dei ritratti più seduttivi della Maddalena mai disegnato. Qui l’artista veneziano ritrae la donna nelle vesti di una provocante ragazza dallo sguardo tentatore, mentre la fenice ricamata sulla manica dell’abito evoca il suo percorso di conversione alla fede.
Nell’età della Controriforma questa figura biblica conosce una grandissima fortuna nell’iconografia sacra, come testimonia la tela di Orazio Gentileschi proveniente dalla chiesa della Fabriano.
Ritratta con un atteggiamento insieme sensuale e di pentimento, da peccatrice e da santa, la Maddalena appare in opere di grande bellezza e intensità. Il ferrarese Ercole de’ Roberti la fa esplodere in lacrime e la racconta con un «verismo»che ricorda le Maddalene disperate e «urlanti», in terracotta, dei «Compianti sul Cristo morto» di Guido Mazzoni e di Nicolò dell’Arca. In lacrime e urlante appare anche nell’opera di Ercole de’Roberti. Luca Giordano e Ignazio Stern la dipingono, invece, nuda e in estasi. Benedetto Luti la restituisce agli occhi del visitatore in ginocchio, nel tentativo di raccogliere un vasetto che è caduto e preoccupata per il prezioso contenuto, nel quadro «Cena in casa di Simone Fariseo».
Giulio Cagnacci disegna la Maddalena in una posa statica, Antonio Cavallucci le dà uno sguardo dolce e languido insieme. Opere di altissima qualità sono anche quelle di Moretto da Brescia, Matteo Loves, Desiderio da Settignano, Simone Martini, Orazio Gentileschi, Mattia Preti e Luca Giordano.
Persino Antonio Canova, scultore generalmente poco attento alle tematiche religiose in linea con il laicismo prevalente nei suoi anni, ha affrontato la figura della Maddalena mostrando il momento del suo ravvedimento, a conferma che il percorso di fede della giovane peccatrice potesse rappresentare per l’affermato scultore veneto un nuovo cimento artistico.
Una mostra, dunque, di grande interesse quella di Loreto che punta i riflettori sulla figura della Maddalena, alla quale l’ultima esposizione era stata dedicata una trentina d’anni fa dalla città di Firenze.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Simone Martini, Santa Maria Maddalena (Polittico di S. Domenico), 1320-1321. Tempera, oro e foglia d'argento su tavola, cm 94,5 x 46 x 4,5. Orvieto, Opera del Duomo; Museo Diocesano; [fig. 2]Carlo Crivelli, Parte inferiore Polittico di Montefiore dell'Aso con Santa Caterina d'Alessandria, San Pietro Apostolo e Santa Maria Maddalena. Seconda metà del 1400, cm 184,2 x 54, tempera su tavola. Montefiore dell’Aso, Polo museale San Francesco, Rete museale Musei Piceni

Informazioni utili 
«La Maddalena, tra peccato e penitenza». Museo-Antico Tesoro della Santa Casa - Loreto. 
Orari: dal Lunedì al venerdì, ore 10.00-19.00, sabato e domenica, ore 10.00-20.00. Ingresso: intero € 8,00, ridotto € 6,00, ridotto scuole € 4,00. Informazioni: tel. 071.9747198 o tel. 06.68193064, museoanticotesoro@gmail.com. Sito internet: www.artifexarte.it. Fino all'8 gennaio 2017. 

martedì 29 novembre 2016

Busto Arsizio, Anna Galiena ed Enzo Decaro si danno del tu sul palco del Manzoni

Un uomo, una donna, due solitudini e una convivenza inconsueta raccontate, con sensibilità e humor, dalla voce di due tra i più amati attori del cinema italiano: Anna Galiena ed Enzo Decaro.
Dopo il successo dello spettacolo «Il bagno» con Stefania e Amanda Sandrelli, martedì 6 dicembre, alle ore 21, il cinema teatro Manzoni di Busto Arsizio apre le porte a «Diamoci del tu», commedia contemporanea, ironica e colta, uscita dalla penna del pluripremiato drammaturgo canadese Norm Foster, per la traduzione di Danilo Rana e con l’adattamento di Pino Tierno.
A firmare la regia dello spettacolo -proposto nell’ambito della stagione «Mettiamo in circolo la cultura», curata da Maria Ricucci e inserita nel cartellone cittadino «BA Teatro»- è Emanuela Giordano. I costumi sono stati ideati da Martina Piezzo; le scene da Andrea Bianchi. Il disegno luci ha visto al lavoro Francesco Saverio De Iorio.
Il testo drammaturgico, del 2012, racconta la storia di due solitudini, quella di un uomo e di una donna, di uno scrittore di successo e della sua domestica, che da anni vivono sotto lo stesso tetto, senza dividere affetti e intimità, condividendo solo le incombenze quotidiane.
Lui, David Kilbride, è un romanziere famoso che deve la propria notorietà alla versione cinematografica di un libro sullo spionaggio. È un uomo in crisi di identità e creatività, così egocentrico e concentrato su se stesso da fare addirittura fatica a ricordare il nome della donna con cui vive da ormai ventotto anni. Lei, Lucy Hopperstaad, è una persona taciturna ma attenta, che si ricorda ogni minimo particolare della vita del suo datore di lavoro. Ha un linguaggio ironico, colto e beffardo.
In una fredda sera di novembre i due si confrontano per la prima volta, parlandosi senza la formalità dei ruoli in cui si erano costretti per tanto tempo. «Dopo decenni di “buongiorno” e “buonasera”, di incombenze e comandi quotidiani, si scatena -racconta Emanuela Giordano- un serratissimo dialogo che ci provoca risate e curiosità».
La quasi-coppia parla di letteratura, di retaggi familiari e di solitudine attraverso un linguaggio mai scontato, colto e ricco di un vivace umorismo. I due si sfottono, chiedono e rispondono a domande, «ma intorno alle parole -racconta ancora la regista- si consuma altro. E quello che non si dicono diventa altrettanto interessante, perché di non detti ce ne sono tanti».
 Il tutto è ambientato nella dimora di lui, un mondo di ricchezza elegante e formale, «da casa di prestigio ma senza anima. L’anima, il calore -continua Emanuela Giordano- ce li regalano le sottili tessiture di sguardi e svelamenti, di bisogni non dichiarati» dei due protagonisti. Il gioco tra detto e non detto tesse così una trama avvincente che, attraverso la chiave della leggerezza e dei sentimenti, fa ridere ed emoziona il pubblico, raccontandogli il senso di incomunicabilità che spesso permea i rapporti e offrendogli anche uno sguardo penetrante sulle avversità della vita.

Informazioni utili 
«Diamoci del tu», commedia di Norm Foster con Anna Galliena ed Enzo De Caro,  per la regia di Emanuela Giordano. Dove: teatro Manzoni, via Calatafimi, 5 - Busto Arsizio (Varese). Quando: martedì 16 dicembre 2016, ore 21. Ingresso: € 30,00 poltronissima, € 26,00 (intero) o € 24,00 (ridotto) poltrona, € 25,00 (intero) o € 23,00 (ridotto) galleria. Prevendita on-line: www.crea.webtic.it/Default.aspx?sc=5273#menuSpettacoli. Botteghino: da martedì 29 novembre 2016 | dal lunedì al venerdì, dalle ore 17.00 alle ore 19.00. Informazioni: info@cinemateatromanzoni.it o tel. 0331.677961 (in orario serale e, da mercoledì 16 novembre,  tutti i giorni feriali, dal lunedì al venerdì, dalle ore 17.00 alle ore 19.00). Sito internet: www.cinemateatromanzoni.it

lunedì 28 novembre 2016

Veneto: Haydn, Mozart e il pianoforte di Libetta in scena

Il «New York Times» lo ha definito un «aristocratico poeta della tastiera con il profilo e il portamento di un principe rinascimentale». «Le Monde de la Musique» ne ha parlato come dell’«erede dei Moritz Rosenthal, dei Busoni e dei Godowsky». Stiamo parlando di Francesco Libetta, grande virtuoso del pianoforte, che martedì 29 e mercoledì 30 novembre si esibirà con l'Orchestra di Padova e del Veneto in un doppio concerto: la prima sera al teatro Sociale «Eugenio Balzan» di Badia Polesine (Rovigo), la seconda al teatro Sociale di Cittadella (Padova).
Al suo debutto con l'Opv, Libetta eseguirà nel corso delle due serate i Concerti n. 1 in re minore e n. 2 in si bemolle per pianoforte e orchestra di Johannes Brahms, ai quali saranno accostate le ultime sinfonie di Wolfgang Amadeus Mozart (la celeberrima «Jupiter») e Franz Joseph Haydn (la n. 104 «London»).
Prosegue così il progetto che la Fondazione Opv dedica al repertorio ottocentesco per pianoforte e orchestra e che negli ultimi due anni ha visto l’esecuzione integrale dei concerti di Chopin e di Beethoven con i pianisti Alexander Lonquich e Pietro De Maria.
Questa volta, nei due concerti di Brahms sarà, invece, impegnato Francesco Libetta, uno dei maggiori pianisti italiani del nostro tempo, affermato a livello internazionale, ma attivo anche come direttore d'orchestra e compositore di talento, tanto è vero che Isotta sul «Corriere della Sera» ne ha parlato come di un «poeta doctus».

Libetta sarà accompagnato dall’Orchestra di Padova e del Veneto sotto la guida di Marco Angius, direttore musicale e artistico della Fondazione Opv, reduce dal successo ottenuto nella direzione di «Aquagranda», l’opera di Filippo Perocco che ha inaugurato in prima assoluta la stagione 2016/17 del teatro La Fenice di Venezia.
Nel concerto di Badia Polesine, che avrà luogo martedì 29 novembre, sarà eseguito il «Concerto n. 1 in re minore op. 15» per pianoforte e orchestra di Brahms preceduto dalla «Sinfonia n. 41 in do maggiore Jupiter K 551» di Mozart. L'incasso della serata sarà devoluto all’Associazione Parkinson Rovigo & Amici Onlus. In mattinata, alle ore 11, si svolgerà la prova generale aperta alle scuole, a ingresso gratuito con prenotazione alla Fondazione Opv.
Il «Concerto n. 1 in re minore op. 15» è un lavoro giovanile che Brahms compone tra il 1854 e il 1858, ma che già si contraddistingue per la grandiosità dell'impianto e l’impegno costruttivo. Dapprima abbozzato come Sinfonia e poi come Sonata per due pianoforti, questo Concerto è una dimostrazione del fatto che proprio attraverso il pianoforte Brahms giunge alla composizione di opere strumentali di grande respiro.
La «Sinfonia n. 41 in do maggiore K 551» (1788) è, invece, una partitura che corona la produzione sinfonica di Mozart: una sorta di testamento spirituale per il quale il salisburghese sceglie il do maggiore, la tonalità della luce solare e incontaminata. Questo luminoso splendore, unito all’olimpica serenità, alla maestosità delle dimensioni e all’impiego solenne del contrappunto, ha guadagnato alla composizione il titolo ‘gioviale’ di «Jupiter». Mozart fa tesoro delle prospettive aperte da alcune Sinfonie di Haydn, che a sua volta terrà presente l'esempio di Mozart nelle sue ultime sinfonie, le dodici londinesi del 1791-1795.

L'appuntamento di mercoledì 30 novembre al teatro Sociale di Cittadella prevede, invece, il «Concerto n.2 in si bemolle maggiore» per pianoforte e orchestra di Brahms e la «Sinfonia in re maggiore n. 104 London» di Haydn. In questo caso il ricavato della serata andrà all’associazione «Il Granello di Senape». La prova generale, che avrà luogo alle ore 11, sarà aperta, anche in questo caso gratuitamente, alle scolaresche.
Il «Concerto n. 2 in si bemolle op. 83» viene composto da Brahms nel 1881, a più di vent’anni di distanza dal precedente, dal quale è profondamente diverso nell’impianto e nel carattere dei temi. È, inoltre, articolato in quattro tempi al posto dei tre tradizionali. Per l’imponente respiro sinfonico, per le qualità virtuosistiche richieste al solista e per il romantico colore dei timbri, questo secondo Concerto rappresenta un insuperabile classico della letteratura pianistica.
La «Sinfonia in re maggiore n. 104 London» è una delle opere scritte da Haydn per il pubblico britannico. Proprio la particolare attenzione al pubblico porta il compositore a concepire delle partiture in grado di ‘impressionare’ con una ricerca continuamente variata delle soluzioni strumentali e armoniche: una ricerca che si accompagna alla predilezione per un materiale tematico di carattere popolare, tipica di tutto il gruppo delle ‘londinesi’.

Informazioni utili 
Concerti con Francesco Libetta. Quando: Martedì 29 novembre, alle ore 21.00 (prova aperta per le scuole alle ore 11.00), a Polesine; mercoledì 30 novembre, alle 21.00 (prova aperta per le scuole alle ore 11.00), a Cittadella. Dove: Teatro Sociale Eugenio Balzan - Badia Polesine (Rovigo) e teatro Sociale – Cittadella (Padova). Ingresso: posto unico € 5,00 per ogni singolo concerto. Botteghino: le biglietterie dei due teatri saranno aperti il giorno dello spettacolo, con i seguenti orari: 10.00-13.00 e 18.00-21.00. Informazioni: tel. 049.656848. Sito internet: www.opvorchestra.it.

venerdì 25 novembre 2016

A Venezia i libri di Chanel, «la donna che legge»

«La vita che conduciamo non è mai granché, la vita che sogniamo è invece la grande esistenza, perché la continueremo oltre la morte»: è questo appunto vergato a mano da Gabriel Chanel ad aprire il percorso della mostra «Culture Chanel. La donna che legge», allestita fino all’ 8 gennaio a Venezia, negli spazi di Ca’ Pesaro, per la curatela di Jean-Louis Froment e di Gabriella Belli.
L’esposizione, che ripercorre il vissuto creativo della stilista francese a partire dal suo amore per i libri, fa parte di un ben più ampio progetto espositivo che, a partire dal 2007, ha toccato le città di Mosca, Shanghai, Pechino, Canton, Parigi e Seul raccontando, ogni volta da una prospettiva inedita e sorprendente, la vita di mademoiselle Chanel, una delle donne più affascinanti del XX secolo.
Questo settimo episodio evoca l’universo creativo della stilista francese nell’ottica inedita del suo rapporto con il libro e la lettura. Dai classici greci ai poeti moderni, la fornitissima biblioteca della donna svela opere che hanno segnato la vita e modellato la sua personalità. Non a caso Roland Barthes scrisse, nel 1967: «se apriste oggi una storia della nostra letteratura dovreste trovarvi il nome di un nuovo autore classico: Coco Chanel. Chanel non scrive con carta e inchiostro (salvo nel suo tempo libero) ma con tessuti, forme e colori; ciò non toglie che le si attribuiscano comunemente l’autorità e lo stile di uno scrittore del Grand siècle, elegante come Racine, giansenista come Pascal (da lei citato), filosofo come La Rochefoucauld (che lei imita inventando le proprie massime), sensibile come Madame de Sévigné... ».
Nell’appartamento della stilista al 31 di rue Cambon, di fronte agli scaffali di libri, si trovano le iscrizioni dei pannelli di lacca di Coromandel, presenza rassicurante degli scritti che la accompagnano e le rivelano ciò che può significare la costruzione della propria opera. È, infatti, nel silenzio della lettura che Coco Chanel apre gli occhi sul mondo e questo le permette, al contempo, di fuggire da esso, di sognare il suo destino, di costruire se stessa trovando nelle opere, gelosamente custodite, la forza e i mezzi per scrivere la propria leggenda
Dalla solitudine degli anni trascorsi nell’orfanotrofio di Aubazine fino alla fine dei suoi giorni, i libri e i loro autori guidano la traiettoria di Gabrielle Chanel, nutrono il suo immaginario, rispondono al suo bisogno di una ricerca mistica dell’invisibile e, soprattutto, le mostrano come iscrivere nel tempo la propria visione del mondo.
Questo dialogo attraverso le epoche, che va dall’antichità fino ai contemporanei, è costellato in particolare di riferimenti alle opere di Omero, Platone, Virgilio, Sofocle, Lucrezio, Dante, Montaigne, Cervantes, Madame de Sévigné, Stéphane Mallarmé, ed entra in risonanza con gli autori che lei ha frequentato e apprezzato, come lo stesso Pierre Reverdy, Max Jacob o Jean Cocteau.
Questa diversità le permette di trovare nella sua scrittura - quella della moda- una modernità che sfida la propria temporalità e si proietta ben oltre.
È a Venezia, uno dei principali luoghi d’ispirazione di Gabrielle Chanel, che il pubblico scoprirà per la prima volta la sua biblioteca. Attorno a questo nucleo centrale, la mostra gioca sulle analogie, le corrispondenze visive che mettono in luce da una prospettiva contemporanea la relazione di Chanel con i libri e la scrittura, in particolare quella poetica, che trova degli echi nella concezione della sua creazione. Dediche, archivi, fotografie, quadri, disegni si mescolano con un vestiario di creazioni di moda che svelano, al pari di una biblioteca, il vocabolario estetico di Gabrielle Chanel, il suo gusto per il classicismo e per il barocco, l’amore per la Russia e per gli ori di Venezia.
Oggetti d’arte provenienti dal suo appartamento parigino sono esposti, per la prima volta, insieme a gioielli e a profumi. Trecentocinquanta manufatti ricostruiscono così il ritratto intimo di una creatrice che ha saputo fare della propria vita una leggenda, o meglio una storia da romanzo.

Didascalie delle immagini 
[Fig. 1] Douglas Kirkland, Ritratto di Gabrielle Chanel sul suo divano, mentre guarda la sua biblioteca, luglio 1962. Fotografia. Collezione Douglas Kirkland, Los Angeles. © Douglas Kirkland; [fig. 2] Jean Moral, Gabrielle Chanel sul suo divano in daino beige dai cuscini imbottiti, 1937. Fotografia. Collezione privata. © Photo Jean Moral/Brigitte Moral; [fig. 3] Thierry Depagne, Biblioteca di Gabrielle Chanel, 2013. Fotografia. Collezione Patrimonio di Chanel, Parigi. © Thierry Depagne; [fig. 4] Jean Cocteau, Coco Chanel, circa 1930. Disegno a matita, 48x32,5 cm. Collezione Stéphane Dermit, deposito presso la casa Jean Cocteau, Milly-la-Forêt. © ADAGP Paris, 2016. Con la gentile autorizzazione di Pierre Berger, Presidente del Comitato Jean Cocteau

Informazioni utili
«Culture Chanel. La donna che legge». Ca’ Pesaro - Galleria internazionale d’arte moderna, Santa Croce 2076 - Venezia. Orari: martedì-domenica, ore 10.00–18.00, chiuso il lunedì. Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 7,50. Informazioni: info@fmcvenezia.it, call center 848082000 (dall’Italia), +3904142730892 (dall’estero). Sito internet: www.capesaro.visitmuve.it. Fino all' 8 gennaio 2017. 

giovedì 24 novembre 2016

Teatro, è on-line il bando di «In-Box» e ci sono 52 motivi per partecipare

È on-line da pochi giorni il bando del progetto «In-Box 2017», ideato da Straligut Teatro con la collaborazione di più di quaranta partner distributi su tutto il territorio nazionale, tra i quali si segnalano il Mibact e il Fit – Festival internazionale del teatro e della scena contemporanea di Lugano (primo soggetto estero ad entrare nella rete).
La nona edizione del concorso, le cui candidature potranno essere inviate fino al prossimo 11 gennaio, mette in palio cinquantadue repliche da distribuire tra sei spettacoli.
A fine novembre uscirà, poi, il bando di «In-Box Verde» dedicato al teatro per le nuove generazioni, con più di venti date da assegnare agli spettacoli in gara (la cifra è in via di definizione); mentre a maggio Siena ospiterà «In-Box dal vivo», fase finale e decisiva di selezione degli spettacoli finalisti. È dal 2014 che si tiene questa rassegna grazie alla quale una rosa selezionata di compagnie riesce a mettere in scena test decisivo tramite il quale la giuria deciderà come distribuire le repliche in palio.
integralmente i propri spettacoli di fronte alla stampa e agli operatori, dopo una prima valutazione dei lavori presentati su video, schede e biografie. Una grande occasione di visibilità, questa, per le compagnie ospitate, ma anche un
Attraverso otto edizioni (2009-2016), «In-Box» è diventato un appuntamento fisso nell'agenda teatrale italiana, atteso dalle compagnie perchè in grado di toccare uno dei nervi scoperti del sistema: la possibilità di circuitare, di mostrare il proprio lavoro in contesti adeguati, incontrando pubblici molto diversi fra loro e di farlo vedendone riconosciuta la dignità economica (tutte le repliche messe in palio da «In-Box» sono a cachet).
Alle otto edizioni del bando hanno partecipato circa duemila proposte, sono stati selezionati ventuno spettacoli e distribuite più di centoottanta repliche.
Ma che cosa significa emergente per «In-Box»? Non solo giovane o nuovo: lo scandaglio della rete è, infatti, volto a individuare opere dall'alto livello artistico cui non corrisponde l'adeguata visibilità presso operatori, stampa e pubblico.
Anche l'edizione 2017, dunque, pone al centro il sostegno concreto alle compagnie emergenti: repliche a cachet fisso (con tre fasce di prezzo a seconda delle esigenze della compagnia), visibilità, confronto col pubblico, trasparenza nelle condizioni contrattuali.
Come di consueto, tutte le operazioni necessarie all'iscrizione al bando «In-Box» dovranno essere svolte dalle compagnie su Sonar (www.ilsonar.it), motore di ricerca del teatro emergente italiano, ma anche community e marketplace, sul quale sono iscritte 1709 compagnie, 1731 spettacoli e 279 operatori.
Ideata e gestita da Straligut Teatro, la piattaforma offre ai propri utenti una serie di strumenti finalizzati ad agevolare l’incontro fra la domanda e l’offerta teatrale.
Recentemente Sonar ha messo a punto un sistema di compravendita che garantisce agli artisti l’anticipo dei pagamenti (i cachet saranno pagati entro sette giorni lavorativi dalla replica), mentre, a coloro che intendono acquistare gli spettacoli, il portale offre una comoda interfaccia che guida gli utenti dalla scelta delle date, fino alla creazione dei contratti.

Informazioni utili
«In-Box 2017». Iscrizioni: fino alle ore 12 dell’11 dicembre 2016. Informazioni utili: Straligut Teatro - In-Box, tel. 0577.374025, e-mail: info@inboxproject.it. Sito internet: www.inboxproject.it.

mercoledì 23 novembre 2016

«United Street Pianos», a Ca’ Pesaro di Venezia arriva «Cecilia»

La festa di Santa Cecilia, patrona della musica e di tutti i musicisti, ha portato a Venezia, negli spazi della Galleria internazionale d'arte moderna di Ca' Pesaro, il pianoforte «Cecilia», il primo street pianos in un museo italiano.
Ideato dalla cantante e pianista Sofia Taliani, «United Street Pianos» è un progetto che prevede la collocazione di pianoforti da strada in spazi pubblici e fruibili da tutti, a disposizione di chiunque voglia suonare.
L’iniziativa prende ispirazione da «Play Me, I’m Yours», opera dell’artista britannico Luke Jerrama, che ha portato dal 2008 oltre millecinquecento pianoforti in cinquanta città del mondo, da Londra a New York, e che al momento conta cinque esemplari ancora a disposizione del pubblico internazionale.
Sofia Taliani ha donato a Ca’ Pesaro un pianoforte da strada, che entra, dunque, a far parte della famiglia «United Street Pianos» diffusa nel nostro Paese: dalla stazione di Venezia, che ospita il pianoforte «Lucy», ad altri spazi pubblici italiani nelle città di Milano, Torino, Firenze, Roma e Napoli.
È la prima volta che un museo accoglie un pianoforte da strada, e Ca’ Pesaro ha voluto dedicare questo arrivo al progetto «Venezia. Città delle donne», che vede impegnata la Fondazione musei civici di Venezia nella promozione della storia e della cultura femminile a Venezia e non solo.
Lo street piano è collocato nell’androne al piano terra del museo, a disposizione dei presenti e di tutti i visitatori e fruitori della Galleria internazionale d’arte moderna di Ca’ Pesaro.
Il Servizio attività educative del Muve è già al lavoro per proporre interessanti coinvolgimenti di «Cecilia» nelle attività che si susseguono durante l’anno per le scuole, le famiglie e il pubblico.

La Fondazione musei civici e Ca’ Pesaro invitano la città tutta, i cultori e gli amanti del pianoforte e della musica in generale, inclusi i principianti e chiunque voglia cimentarsi con «Cecilia», a proporre attività o anche solo animare il museo, diffondendo in questo modo la cultura della musica e della condivisione di spazi aperti e a disposizione della collettività.

Informazioni utili
unitedstreetpianos.weebly.com